Nel 1878, Charles Sanders Peirce scribacchiava appunti in una stanza disordinata di Cambridge, Massachusetts, con il rumore di un vento gelido che sbatteva contro le finestre e una lampada che tremolava sopra pile di carte. Non era un uomo da convenevoli: robusto, con barba folta e occhi che brillavano di un’intelligenza inquieta, sembrava un marinaio perso tra i libri. Nato nel 1839 in una famiglia colta – suo padre, matematico famoso – Peirce era cresciuto tra formule e discussioni, un genio con un carattere ruvido. Quel giorno, scrivendo Come rendere chiare le nostre idee, stava piantando il seme del pragmatismo: non più verità astratte, ma significati legati all’azione. L’Ottocento americano, con Peirce, trovava una filosofia nuova: pratica, viva, un ponte tra pensiero e mondo reale.
L’America del XIX secolo era un paese in corsa. La Rivoluzione Industriale ruggiva oltre l’Atlantico: treni attraversavano praterie, fabbriche sputavano fumo, la frontiera si allargava con fucili e sogni. L’Europa dominava la filosofia – Kant, Hegel – con sistemi grandi e astratti, ma gli Stati Uniti cercavano altro: “A cosa serve?” si chiedevano, con voci che odoravano di terra e lavoro. Peirce arrivò in questo fermento con una mente affamata. Studiò chimica a Harvard, lavorò come geodesista – misurava coste con il vento in faccia – ma la logica lo chiamava: “Il pensiero è per fare,” pensava, con una penna che pesava ogni sillaba. Kant vedeva categorie, Peirce risultati: “La verità è ciò che funziona.”
Il pragmatismo era un lampo. “Considera gli effetti pratici delle tue idee,” scriveva, con mani che tremavano di eccitazione. Immagina un ponte: non è vero perché è bello, ma perché regge – per Peirce, il significato di un concetto era nei suoi esiti. Pensiamo a un agricoltore dell’Ohio: crede che piova se prepara l’aratro e il grano cresce – la verità non era un’idea, ma un’azione che si prova. Nel The Fixation of Belief (1877), scavava: “Dubitiamo, indaghiamo, crediamo,” pensava, con un sorriso stanco – la conoscenza era un processo, non un trono. Morì nel 1914, a 74 anni, povero e isolato, ma il suo seme cresceva: il pragmatismo sarebbe fiorito con James e Dewey.
Peirce non era solo un filosofo. Matematico, logico, scienziato: “La logica è il mio sangue,” diceva, con una voce che ruggiva sopra il rumore delle onde. Inventò la semiotica: “Segni, segni ovunque,” pensava, dividendo il mondo in icone, indici, simboli. Immagina un cartello: una freccia indica il nord – per Peirce, era un segno che parlava, un significato che agiva. Lavorò al pendolo gravitazionale, misurò stelle, ma l’accademia lo respinse: “Troppo selvaggio,” dicevano, con sopracciglia alzate. Viveva tra libri e debiti, un genio che inciampava: “Non mi capiscono,” borbottava, con una bottiglia di whisky vicina.
Il suo pragmatismo reagiva all’Ottocento. Kant costruiva sistemi, Hegel storie cosmiche; Peirce guardava la terra: “La filosofia deve sporcarsi le mani,” pensava, con occhi che brillavano di sfida. Darwin lo ispirava: “Le idee evolvono,” diceva, con una penna che danzava – la verità non era fissa, ma cresceva con l’esperienza. Pensiamo a un laboratorio: un chimico mescola, fallisce, riprova – per Peirce, era la conoscenza viva. Non era un ottimista cieco: “Il dubbio è il motore,” pensava, con una voce che pesava il reale – credere non era riposare, ma lottare.
Peirce viveva tra caos e genio. A Milford, Pennsylvania, si ritirò in una casa piena di carte: “Arf,” la chiamava, con un ghigno. Litigava con tutti – colleghi, editori – ma insegnava a pochi: “Pensate con le mani,” diceva, con studenti che lo guardavano storto. La sua vita era un naufragio: due matrimoni, il secondo con una donna gitana, scandali, miseria. Morì con un ultimo respiro che odorava di inchiostro: “Ho visto il segno,” pensava, con mani che stringevano un foglio. Lasciava un’eredità: James la lucidò, Dewey la costruì, ma il seme era suo.
Il pragmatismo cambiava tutto. In America, dove i pionieri aravano e costruivano, trovava casa: “Funziona?” chiedevano, con voci ruvide. Nel 2025, lo sentiamo: startup, scienza, un mondo che prova e riprova – l’Ottocento di Peirce respira nei nostri esperimenti. Ma non era perfetto: “Troppo vago?” dicevano i critici; “E l’etica?” si chiedevano altri. Per uno studente di oggi, è una torcia: la verità non è un cielo, ma un campo da arare. Immagina un’idea: non è solo parole, è un’Ottocento che ci spinge a fare.