Nel 1899, Friedrich Nietzsche giaceva in un letto a Weimar, con il silenzio della stanza rotto solo dal suo respiro affannoso e il ticchettio di un orologio che scandiva un tempo che lui non vedeva più. Non era più il filosofo di un tempo: fragile, con barba folta e occhi spenti, era un’ombra dell’uomo che aveva scosso l’Ottocento. Nato nel 1844 in una Prussia di chiese e campi, Nietzsche aveva scritto Così parlò Zarathustra con una penna che ruggiva, ma ora, colpito dalla follia, taceva. Quel giorno, mentre il secolo si chiudeva, il suo “Dio è morto” echeggiava ancora: un grido che segnava il passaggio al Novecento, un’epoca di crisi e promesse. Da Nietzsche a Freud, la filosofia lasciava l’Ottocento con un’eredità spezzata: non più certezze, ma domande, un ponte verso un mondo nuovo.
L’Europa di fine secolo era un gigante stanco. La Rivoluzione Industriale aveva costruito città di acciaio: Londra brillava di lampioni, Parigi danzava nei boulevard, Vienna ronzava di caffè e nevrosi. La scienza – Darwin, Maxwell – misurava tutto, il positivismo di Comte contava i fatti, ma sotto la superficie ribolliva il caos: operai affamati, imperi che scricchiolavano, un ottimismo che si spegneva. Kant aveva chiuso la mente in categorie, Hegel l’aveva persa nello spirito; Nietzsche arrivò come un tuono: “Il mondo è caos,” pensava, con una voce che pesava ogni sillaba. Studiò filologia, amò Wagner, ma la solitudine lo prese: “Devo urlare,” pensava, con mani che tremavano di passione. A Torino, nel 1889, crollò abbracciando un cavallo – la sua mente si spense, ma il suo eco cresceva.
Il passaggio al Novecento era una frattura. “Abbiamo ucciso Dio,” scriveva in La gaia scienza, con una penna che tagliava l’aria. Immagina un uomo a Berlino: lavora, prega, ma non crede più – per Nietzsche, era la fine dei valori, un nichilismo che mordeva. Pensiamo a un tramonto: non è solo luce che muore, ma un cielo vuoto – il Superuomo era la sua risposta, un uomo che crea. Morì nel 1900, a 55 anni, con un ultimo respiro che odorava di malattia: “Ho danzato sul nulla,” pensava, lasciando un’eredità che ruggiva. Il Novecento nasceva così: non con certezze, ma con un “E ora?” che pesava come piombo.
Poi arrivò Sigmund Freud, un altro pioniere. Nel 1899, a Vienna, scribacchiava L’interpretazione dei sogni, con il fumo di un sigaro che riempiva la stanza e il divano verde che accoglieva pazienti inquieti. Nato nel 1856 in Moravia, cresciuto tra libri e una famiglia ebrea modesta, Freud era un medico con occhi penetranti: “La mente nasconde,” pensava, con una penna che scavava. Immagina una donna che sogna un serpente: per Freud, non era caso, ma un desiderio sepolto – l’inconscio entrava in scena. Pensiamo a un ricordo: non è solo passato, ma un’ombra che guida – la psicoanalisi nasceva, un ponte tra Ottocento e Novecento. Morì nel 1939, a 83 anni, con un ultimo respiro che odorava di morfina: “Ho visto il buio,” pensava, ma il suo seme cresceva.
Il passaggio era un crocevia. Nietzsche vedeva il vuoto; Freud lo abitava: “Siamo mossi da pulsioni,” pensava, con una voce che pesava il reale. L’Ottocento aveva sognato progresso: treni, medicine, luce – ma il Novecento si svegliava con incubi: guerre, nevrosi, un uomo fragile. Immagina una fabbrica: non è solo lavoro, ma alienazione – Marx lo aveva previsto, Freud lo sentiva, Nietzsche lo gridava. La filosofia si spezzava: positivismo, idealismo, spiritualismo cadevano, lasciando spazio a esistenze crude, menti vive, un pensiero che non spiegava ma scavava.
Questi giganti vivevano tra genio e rovina. Nietzsche tossiva tra montagne, isolato: “Troppo folle?” dicevano. Freud fumava tra pazienti, osteggiato: “Troppo audace?” lo accusavano. Ma il loro passaggio era un fuoco: Nietzsche con il suo martello, Freud con il suo divano. Nel 2025, li sentiamo: crisi, terapie, un mondo che cerca senso – l’Ottocento respira nei nostri dubbi. Ma non erano perfetti: “E la speranza?” chiedevano i critici; “Troppo cupi?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, sono un’eco: la vita non è un sistema, ma un abisso da attraversare. Immagina un sogno: non è solo sonno, è un’Ottocento che ci sfida ancora.