Nel 1889, Henri Bergson sedeva in un’aula del Collège de France, con il rumore dei passi che echeggiava nei corridoi e una luce morbida che filtrava dalle finestre parigine. Non era un uomo imponente: piccolo, con capelli radi e occhi che scintillavano di un’intelligenza quieta, sembrava un poeta più che un filosofo. Nato nel 1859 a Parigi, figlio di un musicista ebreo polacco e di una madre inglese, Bergson era cresciuto tra note e libri, un bambino che ascoltava il tempo ticchettare dentro di sé. Quel giorno, scrivendo Saggio sui dati immediati della coscienza, stava dando voce a una filosofia nuova: la vita come flusso, la durata come respiro, un pensiero che sfuggiva alle reti della scienza meccanica. L’Ottocento, con Bergson, trovava un’anima viva: non più solo leggi e numeri, ma un tempo che danzava.
L’Europa di fine secolo era un mondo di orologi e binari. La Rivoluzione Industriale aveva scandito il tempo: fabbriche che battevano ritmi, treni che correvano su orari precisi, scienziati – da Maxwell a Darwin – che misuravano tutto con bilance e formule. Kant vedeva il tempo come una cornice, Hegel come una marcia dello spirito; ma Bergson si ribellava: “Il tempo non è una linea,” pensava, con una penna che tremava di passione. Studiò matematica all’École Normale, insegnò in licei di provincia – “Angoulême, che noia,” borbottava – ma la filosofia lo chiamava: “La vita è più profonda,” diceva, con una voce che pesava ogni sillaba. A Parigi, tra caffè e aule, trovò la sua strada: “Sentiamo, non solo pensiamo.”
La “durata” era il suo cuore. “Il tempo è un flusso,” scriveva, con mani che sfogliavano appunti. Immagina un uomo che guarda un tram: la scienza conta i secondi, Bergson sente il movimento – non istanti, ma un’onda che scorre. Pensiamo a una melodia: non è solo note separate, ma un canto che vive – per Bergson, la coscienza era così, un “élan vital”, uno slancio vitale. Nel Saggio, scavava: “L’intuizione vede ciò che l’intelletto spezza,” pensava, con un sorriso gentile. Kant costruiva categorie, la scienza tagliava il reale; Bergson lo ricuciva: “La vita è continuità,” diceva, con occhi che brillavano di un fuoco quieto.
Nel 1907, con L’evoluzione creatrice, osava di più. “La vita crea,” scriveva, con una penna che danzava sulla carta. Immagina un albero che cresce: non è un piano fisso, ma un impulso che si inventa – per Bergson, l’evoluzione non era solo Darwin, ma un soffio libero. Pensiamo a un uccello che vola: la scienza spiega le ali, Bergson sente il cielo – l’“élan vital” era ovunque, nelle piante, negli uomini, nel tempo stesso. Morì nel 1941, a 81 anni, con un ultimo respiro che odorava di Parigi: “Ho visto il flusso,” pensava, con un corpo fragile ma una mente viva. Lasciava un’eredità: Proust lo leggeva, i poeti lo cantavano – la filosofia tornava alla vita.
Bergson reagiva all’Ottocento. La scienza positivista – Comte, Spencer – vedeva macchine; lui vedeva anime: “L’universo non è un orologio,” pensava, con una voce che pesava il reale. Darwin lo ispirava, ma lo superava: “Non solo sopravvivenza, ma invenzione,” diceva, con un ghigno – la vita non si adattava, creava. Pensiamo a un pittore impressionista: Monet dipinge luce, Bergson la sente scorrere – l’arte e la filosofia si abbracciavano. Non era un mistico: “Studio il reale,” pensava, con mani che sfogliavano testi – ma il reale era caldo, non freddo.
Viveva tra aule e silenzi. A Parigi, le sue lezioni erano eventi: “Parla come respira,” dicevano gli studenti, con quaderni aperti. La sua vita era semplice: una moglie, Louise, una figlia sorda che adorava – “Il silenzio mi insegna,” pensava, con un sorriso. Litigava con i positivisti: “Troppo rigidi,” borbottava, con un sopracciglio alzato. Nel 1914, la guerra lo ferì: “La tecnica uccide,” pensava, ma non si arrendeva – nel 1927, il Nobel lo consacrò. Rifiutò onori sotto i nazisti: “Sono ebreo,” disse, con un ultimo atto di sfida.
Nel 2025, Bergson ci guarda ancora. In un mondo di algoritmi e secondi, il suo flusso vive: mindfulness, arte, un tempo che non corre ma respira. Ma non era perfetto: “Troppo vago?” dicevano i critici; “E la scienza?” si chiedevano altri. Per uno studente di oggi, è un soffio: la vita non è un calcolo, ma un canto. Immagina un momento: non è solo un tic, è un’Ottocento che ci abbraccia.