Nel 1876, Richard Avenarius scribacchiava appunti in una stanza silenziosa di Zurigo, con il ticchettio di una pioggia leggera sui vetri e una lampada che illuminava carte piene di pensieri ordinati. Non era un uomo da clamori: magro, con barba corta e occhiali che gli scivolavano sul naso, sembrava un contabile più che un filosofo. Nato nel 1843 a Parigi, da una famiglia tedesca di editori, Avenarius era cresciuto tra libri e una curiosità che lo spingeva oltre. Quel giorno, scrivendo Filosofia come pensiero del mondo secondo il principio del minimo sforzo, stava dando forma all’empiriocriticismo: una filosofia che puliva la conoscenza da polvere metafisica, radicata nell’esperienza. Con Ernst Mach, l’Ottocento trovava una voce nuova: scienza e senso, un pensiero che non volava tra le nuvole ma camminava sul terreno della vita.
L’Europa di fine secolo era un laboratorio ribollente. La Rivoluzione Industriale ruggiva: macchine, elettricità, città che si gonfiavano di fumo e operai. La scienza – da Maxwell a Helmholtz – misurava tutto: onde, calore, il battito del mondo. Kant lasciava un’eredità pesante: “La mente costruisce,” diceva; Hegel vedeva spiriti, Comte numeri. Ma Avenarius si ribellava: “Basta castelli,” pensava, con una penna che pesava ogni sillaba. Studiò a Lipsia, tra filosofia e fisiologia – “Il corpo pensa,” borbottava – ma Zurigo lo accolse: “Qui respiro,” pensava, con il lago che rifletteva il cielo. La sua missione era chiara: “Torniamo all’esperienza,” diceva, con una voce che tagliava l’aria.
L’empiriocriticismo era un bisturi. “Il mondo è ciò che percepiamo,” scriveva, con mani che sfogliavano appunti. Immagina un uomo che guarda un albero: non c’è un “in sé” kantiano, ma foglie, verde, vento – per Avenarius, la realtà era lì, nel dato. Pensiamo a un tavolo: non è un’idea, ma legno che tocchi – la filosofia doveva essere economica, senza sprechi metafisici. Nel Critica dell’esperienza pura (1888-1890), scavava: “La conoscenza è coordinazione,” pensava, con un sorriso stanco – soggetto e oggetto si incontravano, non si dividevano. Morì nel 1896, a 52 anni, con un ultimo respiro che odorava di libri: “Ho semplificato,” pensava, con un corpo fragile ma una mente lucida.
Poi arrivò Ernst Mach, un altro ribelle. Nel 1886, a Praga, misurava onde sonore, con il ronzio di un laboratorio che gli riempiva le orecchie e mani sporche di strumenti. Nato nel 1838 in Moravia, figlio di un contadino, Mach era un fisico con un’anima filosofica: “La scienza è esperienza,” pensava, con occhi che brillavano dietro le lenti. Nella Analisi delle sensazioni (1886), scriveva: “Il mondo è sensazioni,” con una penna che pesava ogni parola. Immagina un tram che passa: rumore, vibrazioni, colori – per Mach, non c’era un “io” fisso o una “cosa” nascosta, ma un flusso di percezioni. Pensiamo a una stella: la vediamo, la misuriamo – la metafisica era un’ombra da scacciare.
Mach reagiva al secolo. “Le leggi sono descrizioni,” pensava, con una voce che pesava il reale. Newton vedeva forze assolute; Mach le riduceva: “La gravità è ciò che osserviamo,” diceva, con un ghigno – il suo “principio” ispirò Einstein anni dopo. Immagina un esperimento: una palla cade, la cronometri – per Mach, la scienza non inventava, registrava. Morì nel 1916, a 78 anni, con un ultimo respiro che odorava di laboratorio: “Ho visto il dato,” pensava, lasciando un’eredità: fisica e filosofia si abbracciavano, l’empiriocriticismo cresceva.
Questi due vivevano tra numeri e silenzi. Avenarius tossiva tra carte, isolato dai metafisici: “Troppo arido,” dicevano. Mach si scontrava con accademici: “Troppo semplice?” lo accusavano. Ma il loro pensiero era un tuono: Avenarius con la sua economia mentale, Mach con le sue sensazioni. Nel 2025, li sentiamo: la scienza moderna, i dati, un mondo che misura – l’Ottocento respira nei nostri strumenti. Ma non erano perfetti: “E l’anima?” chiedevano i critici; “Troppo freddo?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, sono una lente: la verità non è un cielo, ma un fatto che tocchi. Immagina un sensore: non è solo metallo, è un’Ottocento che ci guarda ancora.