Quando la guerra finì, i vincitori si riunirono per decidere come rimettere insieme i pezzi di un’Europa devastata. Il Trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919 nella reggia omonima vicino a Parigi, doveva essere la risposta, un accordo che chiudesse i conti e garantisse una pace duratura. A quel tavolo c’erano i grandi: Georges Clemenceau per la Francia, David Lloyd George per il Regno Unito, Woodrow Wilson per gli Stati Uniti. L’Italia era rappresentata da Vittorio Emanuele Orlando, ma il suo peso era minore rispetto agli altri. L’obiettivo era chiaro: punire la Germania, il Paese che tutti indicavano come il principale responsabile del conflitto, e ridisegnare il continente. Ma quello che uscì da Versailles non fu solo una pace: fu un castigo che lasciò strascichi profondi, un seme di rancore che avrebbe germogliato anni dopo.
La Germania fu messa con le spalle al muro. Non le diedero nemmeno la possibilità di negoziare: i vincitori scrissero le regole e dissero “firma”. Le condizioni erano pesanti. Per prima cosa, persero territori importanti. L’Alsazia e la Lorena, prese nel 1870, tornarono alla Francia, un desiderio che i francesi coltivavano da decenni. La Polonia si prese un pezzo della Prussia, il cosiddetto “corridoio polacco”, che separava la Prussia Orientale dal resto della Germania, una ferita geografica che i tedeschi vissero come un’umiliazione. Danzica, un porto strategico, fu dichiarata città libera sotto la tutela della neonata Società delle Nazioni. Le colonie tedesche in Africa e nel Pacifico furono spartite tra Regno Unito e Francia, un bottino che segnava la fine delle ambizioni imperiali di Berlino. L’esercito fu ridotto a un’ombra: solo 100.000 uomini, niente carri armati, niente aerei, niente sottomarini. La Renania, una striscia vicino al confine francese, diventò una zona smilitarizzata: nessun soldato tedesco poteva metterci piede, una precauzione per tranquillizzare Parigi. E poi arrivò il colpo più duro: le riparazioni. La Germania doveva pagare per i danni della guerra, una cifra astronomica fissata nel 1921 a 132 miliardi di marchi-oro, un debito che sembrava impossibile da saldare.
Clemenceau, per la Francia, voleva vendetta. Aveva visto il suo Paese devastato, con milioni di morti e regioni intere ridotte a campi di crateri. Per lui, la Germania andava spezzata, resa così debole da non rialzarsi mai più. Wilson, dall’America, aveva un’idea diversa. Nei suoi “Quattordici Punti” parlava di una pace equa, di un mondo dove le nazioni si rispettassero, unite dalla Società delle Nazioni, un’organizzazione che doveva evitare futuri conflitti. Ma a Versailles prevalse la linea dura. Il trattato puntò il dito contro la Germania, dichiarandola unica colpevole della guerra. Era una semplificazione che non reggeva del tutto: il conflitto era scoppiato per un intreccio di responsabilità, non per un solo responsabile. Eppure, serviva un capro espiatorio, e la Germania fu scelta. Quel verdetto pesò come un macigno: i tedeschi si sentirono traditi, umiliati, convinti che la punizione fosse ingiusta.
Versailles non si limitò a colpire la Germania: ridisegnò l’Europa. L’Impero austro-ungarico, già crollato nel 1918, sparì dalla mappa. Al suo posto nacquero nuovi Stati: la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, mosaici di popoli che non sempre andavano d’accordo. La Polonia riemerse dopo più di un secolo, indipendente ma con confini che creavano tensioni. L’Impero Ottomano perse gran parte dei suoi territori in Medio Oriente, finiti sotto il controllo di Francia e Regno Unito, con promesse di autonomia che restarono parole al vento. Era un ordine nuovo, ma fragile: quei Paesi appena nati portavano dentro di sé divisioni profonde, pronte a esplodere. La Società delle Nazioni, il sogno di Wilson, iniziò a lavorare, ma con un difetto enorme: gli Stati Uniti non ne fecero parte. Il Senato americano rifiutò il trattato, lasciando l’Europa senza la guida di una potenza che avrebbe potuto fare la differenza.
In Germania, Versailles fu un disastro. L’economia, già in crisi dopo la guerra, crollò sotto il peso delle riparazioni. Nel 1923, l’inflazione schizzò alle stelle: i soldi non valevano più nulla, servivano carriole di marchi per un pezzo di pane. La gente perse tutto – risparmi, lavoro, dignità – e guardò al trattato come alla causa di ogni male. Quel malcontento diventò una bomba a orologeria. Molti tedeschi pensavano: “Ci hanno fregato, ma non finisce qui”. E infatti, anni dopo, Adolf Hitler usò quella rabbia per costruire il suo potere, promettendo di cancellare l’umiliazione di Versailles. Il trattato doveva garantire la pace, ma finì per creare nuove tensioni. Anche tra i vincitori non tutti erano soddisfatti. La Francia si sentiva più sicura, ma viveva con la paura che la Germania potesse rialzarsi. Il Regno Unito aveva preso colonie, ma si chiedeva se ne fosse valsa la pena. L’Italia uscì delusa, ma questa è un’altra storia. Versailles fu un tentativo di rimettere ordine, ma lo fece con un pugno troppo duro, aprendo crepe che il tempo avrebbe solo allargato.