La Prima Guerra Mondiale finì nel 1918, ma non portò con sé la pace che tutti speravano. L’Europa uscì da quel conflitto come un corpo ferito, piena di cicatrici che non si chiudevano. Le democrazie vincitrici – Francia, Regno Unito, Italia – avevano trionfato sul campo, ma si ritrovarono a fare i conti con un mondo che non funzionava più come prima. Milioni di uomini erano morti nelle trincee, le città portavano i segni dei bombardamenti, e l’economia era un disastro. Le fabbriche, che per anni avevano prodotto fucili e cannoni, ora chiudevano i battenti o arrancavano per tornare a una vita normale. I soldati, quelli che ce l’avevano fatta, tornavano a casa con le uniformi lacere e trovavano poco ad aspettarli: niente lavoro, niente certezze. I prezzi salivano come un’onda che non si ferma, e i soldi in tasca valevano sempre meno. Era un tempo di confusione, dove la vittoria sembrava un peso più che un premio.
In Germania, la situazione era ancora più cupa. Il Trattato di Versailles, firmato nel 1919, aveva colpito duro. I tedeschi dovevano pagare somme enormi agli Alleati, un debito che pesava come un macigno sulle spalle di un Paese già in ginocchio. Avevano perso terre, colonie, e l’orgoglio di essere una potenza. La Repubblica di Weimar, nata dalle ceneri dell’impero, era una democrazia giovane, ma fragile come un castello di carte. Molti la odiavano: la vedevano come un’imposizione dei vincitori, un governo che non li rappresentava. Le strade si riempivano di scontri. Da una parte, i comunisti sognavano una rivoluzione come quella di Lenin in Russia, pronti a buttare giù tutto. Dall’altra, gruppi di destra come i Freikorps, bande di ex soldati armati fino ai denti, usavano la violenza per fermarli. Nel 1923, l’economia toccò il fondo. L’inflazione esplose: una pagnotta costava miliardi di marchi, e la gente bruciava banconote per scaldarsi perché valevano meno della legna. Quel caos fece crescere la rabbia contro Weimar, un malcontento che scavava nelle viscere del Paese.
In Italia, il quadro non era molto diverso. La guerra aveva lasciato un’amarezza che si toccava con mano. La “vittoria mutilata” di Versailles – il fatto che non avessimo preso tutto quello che ci era stato promesso – pesava come un tradimento. “Abbiamo dato il sangue per niente”, dicevano in tanti, e non era solo un lamento da bar. Tra il 1919 e il 1920, scoppiò il “biennio rosso”. I lavoratori occupavano le fabbriche, i contadini si prendevano le terre dei padroni, spinti dai socialisti che parlavano di una rivoluzione vicina, sull’onda di quella russa. Ma il governo non sapeva che pesci prendere. Era debole, guidato da figure come Giovanni Giolitti, che un giorno diceva una cosa e il giorno dopo un’altra. La classe media – negozianti, impiegati, piccoli proprietari – guardava quel caos con terrore. “I comunisti ci porteranno via tutto”, pensavano, e quella paura diventava un’ombra che cresceva ogni giorno. Fu un terreno fertile per uomini come Benito Mussolini, che seppero trasformare il malcontento in potere.
Anche Francia e Regno Unito, pur vincitori, non se la passavano bene. In Francia, c’era lavoro, sì, ma la guerra aveva lasciato ferite profonde. La gente era divisa: alcuni volevano solo pace, stanchi di contare i morti, mentre altri sognavano ancora vendetta contro la Germania, un nemico che non si dimenticava. Le elezioni erano un continuo tira e molla, con governi che duravano poco e non decidevano niente di serio. Nel Regno Unito, le fabbriche chiudevano una dopo l’altra, lasciando migliaia di operai senza salario. Gli scioperi si moltiplicavano, e nel 1926 arrivò lo sciopero generale: i lavoratori chiedevano stipendi decenti, ma il governo rispose con un muro di no. Le casse dello Stato erano vuote, prosciugate dalla guerra, e gli Stati Uniti, che avevano prestato montagne di dollari agli Alleati, ora battevano cassa. Quei debiti pesavano come un cappio, strangolando economie che non riuscivano a ripartire.
Nell’Europa orientale, la crisi aveva un sapore diverso, ma non meno amaro. Dopo la caduta degli imperi austro-ungarico e ottomano, erano nati nuovi Paesi: Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia. Sembrava una promessa di libertà, ma dentro quei confini c’era un groviglio di popoli – polacchi, cechi, slovacchi, serbi – che non sempre andavano d’accordo. I governi erano appena nati, inesperti, e spesso non sapevano come tenere insieme tutto. La democrazia, in posti come questi, era un esperimento che arrancava, schiacciata da tensioni interne e dalla povertà. Intanto, a est, la Russia bolscevica di Lenin guardava l’Europa con occhi diversi. Dopo la rivoluzione del 1917, i comunisti dicevano che la democrazia era una farsa, buona solo per i ricchi. Serviva una dittatura del popolo, sostenevano, e quella visione trovava orecchie attente tra chi era stanco di promesse non mantenute. Ma spaventava anche, perché portava con sé l’odore del sangue e del caos.
Negli anni ’20, le democrazie europee persero terreno. La gente non si fidava più. Dopo la guerra, si aspettavano ordine, lavoro, una vita migliore, ma trovavano solo discussioni infinite e governi che non risolvevano nulla. In Germania, la Repubblica di Weimar era un simbolo di debolezza, odiata da destra e da sinistra. In Italia, il biennio rosso e l’incapacità dei politici aprirono la strada a chi prometteva mano dura. Anche in Francia e Regno Unito, i problemi economici e sociali scavavano un solco tra i cittadini e i loro leader. Non era solo una crisi di soldi: era una crisi di idee. La libertà, che aveva guidato le democrazie nella guerra, sembrava non bastare più. Molti cominciavano a pensare che servisse qualcosa di diverso, un capo forte che mettesse fine al disordine. Fu così che uomini come Mussolini, e più tardi Hitler, trovarono spazio per crescere. Gli anni ’20 non furono solo un dopoguerra: furono il momento in cui l’Europa si chiese se la democrazia potesse sopravvivere, e spesso la risposta fu un no silenzioso, carico di conseguenze.