Era una giornata uggiosa del 1843, e Søren Kierkegaard passeggiava per le strade acciottolate di Copenaghen, con un cappotto nero che sventolava al vento e un taccuino infilato in tasca. La città era tranquilla, con il fumo che saliva dai comignoli e il suono lontano delle campane, ma dentro di lui infuriava una tempesta. Nato nel 1813 in una Danimarca soffocata da un cristianesimo rigido e formale, Kierkegaard non era il tipo che si lasciava ingabbiare. Figlio di un mercante ricco ma tormentato, cresciuto tra libri e un padre ossessionato dal peccato, aveva studiato Hegel a Berlino, ascoltando le sue idee con un misto di fascino e disagio. Ma quel sistema grandioso, con la sua Ragione che abbracciava il mondo, gli sembrava una prigione: “Dov’è l’uomo?” si chiedeva, con una penna che tremava di rabbia e poesia. Quando pubblicò Timore e tremore, non fu solo un libro: fu un grido, una critica al sistema hegeliano che metteva l’individuo – con le sue paure, la sua fede, il suo sangue – sopra ogni astrazione.
L’Europa di Kierkegaard era un continente diviso. Hegel era morto da poco, nel 1831, e i suoi seguaci – vecchi e giovani hegeliani – si azzuffavano sulle sue ceneri. La Rivoluzione Industriale ruggiva, le monarchie vacillavano, e la filosofia tedesca cercava di dare senso a un mondo che correva troppo veloce. Kierkegaard arrivò in questo caos con un passo silenzioso ma deciso. Da ragazzo, a Copenaghen, era stato uno studente brillante: leggeva Platone, scriveva poesie, si perdeva nei vicoli con un’aria malinconica. Nel 1837, conobbe Regine Olsen, una ragazza con occhi chiari e un sorriso che gli spezzò il cuore. La amava, ma nel 1841 ruppe il fidanzamento, convinto che la sua vita fosse un’altra: “Non posso darle felicità,” scrisse, con lacrime che macchiavano il diario. Quel dolore lo segnò, spingendolo a cercare risposte non nei sistemi, ma nell’anima. A Berlino, nel 1841, ascoltò le lezioni degli hegeliani, annuendo a volte, ma con un tarlo che lo rodeva: “Troppo grande, troppo freddo.”
La critica al sistema di Hegel era il suo fuoco. Per Hegel, la storia era lo Spirito che si dispiegava, una dialettica di tesi, antitesi e sintesi che portava alla Ragione assoluta. Lo Stato, la religione, tutto trovava posto in quel mosaico. Kierkegaard lo guardava e scuoteva la testa: “E io dove sono?” Nel suo Conclusione non scientifica alle briciole filosofiche (1846), lo dice chiaro: “Hegel ha spiegato tutto, ma si è dimenticato di esistere.” Per lui, la verità non era un sistema da incorniciare: era soggettiva, viva nel cuore di chi la cercava. Immagina un pescatore danese, con le mani screpolate dal sale, che prega in una chiesetta di legno: per Hegel, era un tassello dello Spirito; per Kierkegaard, era un uomo solo davanti a Dio, con un’angoscia che nessuna dialettica poteva risolvere. “La verità è ciò per cui sei disposto a morire,” scriveva, con una penna che sembrava scavare nella carta.
Il suo Timore e tremore (1843) è un pugno al sistema. Racconta di Abramo, chiamato da Dio a sacrificare Isacco. Per Hegel, era un momento storico, un simbolo della Ragione che si evolve. Kierkegaard no: Abramo è l’individuo, sospeso tra l’etica – non uccidere – e la fede – obbedire a Dio. Non c’è sintesi qui: c’è un “salto,” un atto assurdo che sfugge alla logica. “Il cavaliere della fede,” lo chiama, con una voce che trema di ammirazione. È una rivolta: mentre Hegel vedeva il mondo come un tutto razionale, Kierkegaard vedeva il singolo, con le sue ginocchia che cedono e il suo cuore che batte. Nella Malattia mortale (1849), va oltre: l’uomo è disperazione, un essere teso tra il finito – il corpo, il pane – e l’infinito – Dio, l’eterno. Nessun sistema può salvarlo: solo la fede, un passo nel buio.
Kierkegaard non era un filosofo da cattedra. Scriveva sotto pseudonimi – Johannes de Silentio, Anti-Climacus – come se ogni libro fosse un personaggio, una voce diversa del suo tormento. Viveva a Copenaghen, in una casa semplice, con una domestica che gli portava caffè mentre lui camminava avanti e indietro, dettando pensieri. Non era un eremita: amava il teatro, chiacchierava nei caffè, ma portava un’ombra: la morte di cinque fratelli, il peso di un padre che vedeva il peccato ovunque. Nel 1855, attaccò la Chiesa danese con pamphlets feroci: “Non è cristianesimo, è ipocrisia,” gridava, contro un clero che predicava comodità. Morì quello stesso anno, a 42 anni, stroncato da una malattia che lo piegò ma non lo spezzò, sepolto sotto un cielo che sembrava riflettere la sua lotta.
Kierkegaard influenzò il futuro: Sartre e Heidegger presero il suo grido esistenziale, Nietzsche lo lesse con un sorriso, i teologi lo studiarono con rispetto. Nel 2025, ci parla ancora: in un mondo di social e certezze preconfezionate, lui ti spinge a guardarti dentro. Pensiamo a un ragazzo che si chiede chi è, perso tra like e schermi: Kierkegaard gli sussurra: “Non sei il sistema, sei tu.” Ma non era senza difetti. Alcuni lo trovarono troppo cupo: “Solo disperazione?” Altri lo accusarono di ignorare la società: “E gli altri dove sono?” Per uno studente di oggi, è un compagno scomodo: ti toglie il terreno sotto i piedi, ma ti dà ali. Immagina una notte di dubbi: non è un sistema a salvarti, è il tuo passo verso l’ignoto. È Hegel rovesciato, ma con un cuore che batte forte.