Quando la Prima Guerra Mondiale iniziò, nell’estate del 1914, l’Italia non si unì subito al conflitto. Fu una decisione che sorprese molti, perché dal 1882 il nostro Paese faceva parte della Triplice Alleanza insieme a Germania e Austria-Ungheria. Eppure, quando l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, l’Italia scelse di restare fuori, di non prendere le armi. C’era una ragione precisa dietro questa scelta. Il patto della Triplice Alleanza era di natura difensiva: obbligava l’Italia a intervenire solo se uno dei suoi alleati fosse stato attaccato. Ma in quel caso era l’Austria a fare la prima mossa, a scendere in campo contro la Serbia, quindi Roma non si sentiva vincolata. E poi, a dirla tutta, il rapporto con l’Austria non era mai stato dei migliori. Vienna controllava territori come Trento e Trieste, che per gli italiani erano parte integrante della nazione, un’eredità del Risorgimento ancora da reclamare. Combattere al fianco di un vecchio avversario, per molti, sarebbe stato come tradire sé stessi.
Questa posizione, però, non mise d’accordo tutti. L’Italia si trovò divisa, quasi spaccata in due da opinioni opposte. Da una parte c’erano i neutralisti, quelli che non volevano saperne di guerra. I socialisti, guidati da Filippo Turati, erano i più fermi su questa linea. Dicevano che un conflitto avrebbe mandato al macello migliaia di lavoratori, che avrebbe distrutto un’economia già fragile, portando solo miseria e dolore. Accanto a loro stavano i cattolici, vicini a Papa Benedetto XV, che guardava con angoscia a quello che stava succedendo. Il Papa definiva la guerra “un’inutile strage” e chiedeva a gran voce la pace, un appello che trovava eco tra molti fedeli. Dall’altra parte, però, c’erano gli interventisti, quelli che scalpitavano per entrare nel conflitto. I nazionalisti, con Gabriele D’Annunzio in prima fila, vedevano nella guerra l’occasione per completare l’unità nazionale, per strappare Trento e Trieste all’Austria e rendere l’Italia una potenza rispettata. Anche i futuristi, un gruppo di artisti guidato da Filippo Tommaso Marinetti, spingevano in questa direzione: per loro, la guerra era un modo per scuotere il Paese, per portarlo verso un futuro più dinamico e moderno.
Il governo, sotto la guida del primo ministro Antonio Salandra, si trovava in una posizione difficile. L’Italia non era pronta per un conflitto su larga scala, questo era evidente. L’esercito era in condizioni precarie: mancavano armi moderne, le truppe non erano ben equipaggiate, e la preparazione lasciava a desiderare. L’economia, poi, non reggeva il confronto con quella di nazioni come la Germania o il Regno Unito: le industrie erano poche, e la povertà era una realtà per molti. Per mesi, Salandra decise di mantenere la neutralità, una scelta prudente che permetteva di osservare l’evolversi della situazione. Ma dietro le quinte, le cose si muovevano. L’Italia iniziò a sondare il terreno, a parlare con entrambi i blocchi in guerra. La Germania e l’Austria provarono a convincerla, offrendo qualche concessione territoriale in caso di vittoria, ma era poco, troppo poco per smuovere gli animi. La Triplice Intesa, invece, fece un’offerta più allettante: Francia, Regno Unito e Russia promisero Trento, Trieste, l’Istria e persino la Dalmazia se l’Italia si fosse schierata con loro. Era una proposta che toccava corde profonde, che rispondeva al desiderio di espansione e riscatto nazionale.
Questa promessa prese forma concreta il 26 aprile 1915, con la firma del Patto di Londra. Fu un accordo segreto, lontano dagli occhi del pubblico, ma segnò una svolta decisiva. Salandra e il ministro degli esteri Sidney Sonnino si convinsero che fosse il momento di agire, di cogliere l’opportunità. Non tutti, però, erano d’accordo. In Parlamento, Giovanni Giolitti, una figura di peso nella politica italiana, continuava a sostenere la neutralità. Pensava che il Paese potesse ottenere qualcosa con la diplomazia, senza spargere sangue, e aveva molti sostenitori tra i deputati. Ma fuori, nelle strade, la pressione cresceva. A maggio, le città si riempirono di manifestazioni: la voce degli interventisti si faceva sempre più forte. D’Annunzio, con i suoi discorsi appassionati, parlava alla folla a Roma, esaltando l’idea di una guerra che avrebbe fatto grande l’Italia. Il re Vittorio Emanuele III, che aveva l’ultima parola, si schierò con Salandra, dando il via libera definitivo.
Il 23 maggio 1915, l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Non alla Germania, almeno non subito: il Patto di Londra si concentrava solo sull’Austria. Fu una decisione che pesò come un macigno. Molti italiani non capivano bene perché dovessero combattere. I contadini, che sarebbero stati la maggior parte dei soldati, spesso non sapevano nemmeno dove fosse Trieste o cosa significasse quella guerra per le loro vite. Ma i leader vedevano un futuro diverso: un’Italia più forte, più grande, capace di sedersi al tavolo delle potenze mondiali. Non immaginavano, però, quanto sarebbe stato alto il prezzo. L’esercito, guidato dal generale Luigi Cadorna, si preparò a combattere sulle Alpi e lungo l’Isonzo, un fronte duro, fatto di montagne e terreni difficili, dove ogni passo avanti sarebbe costato caro. La neutralità del 1914 era stata breve, un momento di incertezza in cui l’Italia si era chiesta cosa fare. Alla fine, la voglia di terre e di gloria prevalse sulla cautela, spingendo il Paese in un conflitto immenso, che avrebbe lasciato dietro di sé più lutti che trionfi veri.
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