La Guerra di Trincea nel 1915-1916

Quando il 1915 arrivò, la Prima Guerra Mondiale aveva già perso ogni illusione di rapidità. All’inizio, molti avevano creduto che sarebbe stata una questione di mesi, una prova di forza tra nazioni che si sarebbe risolta con qualche battaglia decisiva. Ma non era andata così. Sul fronte occidentale, tra Francia e Germania, il conflitto si era fermato, incagliato in un’impasse che nessuno aveva previsto. Dopo gli scontri del 1914, come la battaglia della Marna che aveva bloccato l’avanzata tedesca, i due eserciti si erano ritrovati faccia a faccia, incapaci di sfondare. Invece di continuare a inseguirsi su campi aperti, avevano scelto di scavare. Nacquero così le trincee: lunghe linee di fossati che si snodavano per centinaia di chilometri, dal Mare del Nord fino alle montagne svizzere, protette da filo spinato e sacchi di sabbia. Non erano solo rifugi: erano un nuovo modo di fare la guerra, lento, brutale, che trasformava i soldati in prigionieri della terra stessa.

Vivere in quelle trincee era un’esperienza che spezzava il corpo e l’anima. La pioggia cadeva quasi senza sosta, trasformando il fondo in una melma fredda e appiccicosa. I soldati ci stavano dentro per ore, a volte giorni, con l’acqua che arrivava alle caviglie o alle ginocchia. Dopo un po’, i piedi cominciavano a marcire: lo chiamavano “piede da trincea”, una malattia che mangiava la pelle e lasciava cicatrici profonde. Non c’era modo di asciugarsi, perché accendere un fuoco era un lusso raro, e il freddo penetrava nelle ossa come un coltello. Poi c’erano i topi, grossi e affamati, che si aggiravano tra i rifiuti e i cadaveri che nessuno riusciva a portare via. Mangiavano tutto, dalle razioni di cibo alle scarpe, e di notte li sentivi correre sulle coperte, un rumore che ti faceva rabbrividire. Ma il peggio arrivava quando i generali decidevano di attaccare. Da lontano, al sicuro nei loro quartier generali, ordinavano ai soldati di uscire dalle trincee e correre verso le linee nemiche. Ad aspettarli c’erano le mitragliatrici, armi che sparavano raffiche micidiali, capaci di falciare decine di uomini in pochi secondi. Chi si lanciava avanti spesso non arrivava nemmeno a metà strada: cadeva nella terra di nessuno, un tratto desolato tra le trincee, pieno di crateri e corpi abbandonati.

Nel 1916, questa guerra di trincea raggiunse il culmine della sua ferocia. In Francia, la battaglia di Verdun diventò il simbolo di quel massacro infinito. I tedeschi, guidati da Erich von Falkenhayn, iniziarono l’attacco a febbraio. Il loro piano era semplice ma spietato: “dissanguare” i francesi, far morire così tanti soldati da costringerli alla resa. Per giorni, i cannoni spararono senza sosta, trasformando colline e villaggi in un paesaggio lunare fatto di crateri e rovine. I francesi, sotto il comando di Philippe Pétain, non si tirarono indietro. Resistettero, metro dopo metro, anche quando sembrava impossibile. La battaglia durò fino a dicembre, quasi un anno di scontri continui, e alla fine si contarono più di 700.000 tra morti e feriti. Verdun era ridotta a un cumulo di macerie, un nome che evocava orrore più che vittoria. Nessuno aveva davvero guadagnato terreno: era stato solo un sacrificio immenso, una prova di resistenza che non cambiava il destino del conflitto.

Poco dopo, un’altra pagina tragica si aprì sul fronte della Somme. Gli inglesi, guidati dal generale Douglas Haig, decisero di lanciare un’offensiva il 1° luglio 1916, in parte per alleviare la pressione su Verdun. Per giorni, l’artiglieria britannica bombardò le trincee tedesche, un fuoco continuo che avrebbe dovuto distruggere ogni difesa. Quando i soldati uscirono allo scoperto, pensavano di trovare solo rovine. Ma si sbagliavano. Le mitragliatrici tedesche erano ancora lì, nascoste e pronte. Quel primo giorno fu un disastro: quasi 20.000 inglesi morirono, molti prima ancora di fare qualche passo. La battaglia continuò fino a novembre, sotto una pioggia incessante che trasformava il campo in un pantano di fango e sangue. Alla fine, le vittime superarono il milione, tra morti, feriti e dispersi. Gli inglesi portarono in campo i carri armati, una novità che sembrava promettente: macchine di metallo con i cingoli che avanzavano lente. Ma si rompevano troppo spesso, si impantanavano, e non fecero la differenza che ci si aspettava. La Somme fu un altro vicolo cieco, un massacro che non portò nessuno più vicino alla fine.

In Italia, la guerra di trincea aveva un volto diverso, ma non meno duro. Combattevamo sull’Isonzo, un fiume che segnava il confine con l’Austria-Ungheria. Il generale Luigi Cadorna, un uomo rigido con idee ferme, mandava i nostri soldati contro montagne che sembravano fatte per respingere ogni attacco. Gli austriaci stavano lassù, tra le rocce, con postazioni ben difese e cannoni puntati verso il basso. Tra il 1915 e il 1916, ci furono sei battaglie dell’Isonzo, una dopo l’altra, come un martello che colpisce sempre lo stesso punto senza romperlo. Ogni volta, migliaia di italiani cadevano per conquistare qualche metro di terreno, spesso senza senso. Le trincee italiane erano scavate nella pietra, fredde e scomode, con poco cibo e ancora meno riparo. Gli uomini dormivano sulla roccia, con il vento che tagliava la faccia, mentre dall’alto piovevano proiettili e granate. Cadorna non cambiava strategia: continuava a ordinare assalti frontali, convinto che prima o poi gli austriaci avrebbero ceduto. Ma non succedeva. Era una guerra di logoramento, un lento stillicidio che consumava vite e speranze.

Sul fronte orientale, la situazione era meno statica. Qui, la Russia affrontava Germania e Austria-Ungheria in una guerra che si muoveva di più rispetto alle trincee dell’ovest. Nel 1916, il generale Aleksej Brusilov guidò un’offensiva impressionante in Galizia, tra Polonia e Ucraina. Fu una mossa che colse di sorpresa gli austriaci: i russi avanzarono, fecero migliaia di prigionieri e per un momento sembrò che potessero cambiare le sorti del conflitto. Ma poi i tedeschi arrivarono in aiuto, e l’avanzata si fermò. Anche lì, i numeri erano spaventosi: l’esercito russo contava milioni di uomini, ma era mal equipaggiato. Molti soldati non avevano nemmeno un fucile, e combattevano con quello che trovavano. L’offensiva di Brusilov mostrò che i russi potevano colpire duro, ma non abbastanza da ribaltare tutto.

La guerra di trincea, tra il 1915 e il 1916, era un mostro che divorava tutto senza fretta. Nessuno vinceva davvero, ma tutti perdevano qualcosa: uomini, tempo, illusioni. I generali, chiusi nei loro uffici, continuavano a pensare che bastasse mandare più soldati contro il fuoco per sfondare, ma le mitragliatrici e i cannoni avevano sempre l’ultima parola. Nelle città lontane dai fronti, la vita cambiava. Il cibo iniziava a scarseggiare: i campi restavano vuoti, il grano non arrivava più, e le code davanti ai negozi si allungavano. I soldati scrivevano a casa lettere che parlavano di fango, paura e morte, parole che pesavano come pietre. Era chiaro che così non si poteva andare avanti per sempre: serviva una svolta, qualcosa che rompesse quel muro di sangue e disperazione. Ma per ora, la guerra restava un incubo senza fine, un capitolo di sofferenza che sembrava non avere conclusione.

 

La Prima Guerra Mondiale e la Fine di un’Epoca

  1. Cause della Prima Guerra Mondiale
  2. L’Italia e la Neutralità del 1914
  3. La Guerra di Trincea nel 1915-1916
  4. La Svolta del 1917: Russia e USA
  5. La Fine della Guerra nel 1918
  6. Il Trattato di Versailles 1919
  7. L’Italia e la Vittoria Mutilata
Storia e Filosofia
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