Il 1918 fu l’anno in cui la Prima Guerra Mondiale, dopo quattro anni di sangue e rovine, trovò finalmente una conclusione. Non fu un finale improvviso, un colpo di scena che chiudeva tutto in un istante. Piuttosto, fu un lento spegnersi, come un fuoco che brucia le ultime braci prima di lasciare solo cenere. All’inizio dell’anno, la Germania sembrava ancora avere qualche possibilità. Con la Russia fuori dal conflitto grazie al Trattato di Brest-Litovsk, firmato a marzo, i tedeschi avevano liberato truppe dal fronte orientale e le avevano mandate a ovest, pronte a giocarsi tutto. A marzo, lanciarono l’Operazione Michael, un’offensiva massiccia che doveva spezzare le linee di inglesi e francesi prima che gli americani arrivassero in forze. Per un momento, funzionò: avanzarono in Francia, arrivarono a poche decine di chilometri da Parigi, tanto che il rumore dei cannoni si sentiva quasi nelle strade della capitale. Ma poi, come un corridore che ha spinto troppo, si fermarono. Le truppe erano esauste, le provviste scarseggiavano, e il morale, già fragile, cominciò a crollare.
Dall’altra parte, gli Alleati stavano ritrovando fiato. Gli Stati Uniti, entrati in guerra l’anno prima, portavano una ventata di energia nuova. Sotto il comando del generale John Pershing, i soldati americani arrivavano a migliaia ogni mese, con armi moderne, carri armati e aerei che gli altri potevano solo sognare dopo anni di logorio. Inglesi e francesi, che ormai contavano i morti a milioni e avevano le divise ridotte a stracci, videro in loro una speranza concreta. A luglio, la situazione cambiò. Gli Alleati contrattaccarono, e l’8 agosto, nella battaglia di Amiens, inflissero ai tedeschi una sconfitta che fece male. I carri armati britannici, supportati da truppe americane e francesi, sfondarono le linee nemiche, costringendo i tedeschi a una ritirata disordinata. Quel giorno fu chiamato “il giorno nero dell’esercito tedesco”: persero terreno, uomini e, soprattutto, la convinzione di poter vincere. Da lì, fu un declino costante, un’erosione che non si fermava più.
Non era solo la Germania a cedere. Anche gli altri membri dell’Asse stavano cadendo a pezzi. L’Austria-Ungheria, un impero che da tempo mostrava crepe profonde, si stava disintegrando. Dentro i suoi confini, ungheresi, cechi, slovacchi e slavi si ribellavano, ognuno con il sogno di un futuro indipendente. A ottobre, Vienna alzò bandiera bianca e chiese la pace. La Bulgaria e l’Impero Ottomano, già indeboliti, si erano arresi poco prima, lasciando la Germania sola contro un nemico che cresceva in forza e determinazione. In Italia, il 1918 fu l’anno della riscossa. Dopo il disastro di Caporetto, il generale Armando Diaz aveva preso il comando, sostituendo Luigi Cadorna. Il 24 ottobre, lanciò l’offensiva di Vittorio Veneto. Gli italiani attraversarono l’Isonzo e il Piave, colpendo un esercito austro-ungarico ormai allo stremo. Fu una vittoria netta: gli austriaci si ritirarono in disordine, lasciando dietro migliaia di prigionieri. Il 3 novembre, a Villa Giusti, vicino a Padova, firmarono l’armistizio con l’Italia. Fu un momento di orgoglio, anche se pagato con un costo altissimo: migliaia di vite perse in quelle ultime battaglie.
Sul fronte occidentale, i tedeschi capivano che la fine era vicina. Dentro il Paese, la situazione era fuori controllo. A ottobre, i marinai di Kiel si ammutinarono, stanchi di combattere per una causa persa. Nelle città, i lavoratori scioperavano, le piazze si riempivano di proteste. Il 9 novembre, il Kaiser Guglielmo II, rendendosi conto che non c’era più nulla da fare, prese un treno e fuggì in Olanda, abbandonando il trono. La Germania diventò una repubblica, fragile e incerta, ma ormai decisa a porre fine al conflitto. Due giorni dopo, l’11 novembre 1918, la guerra si fermò. Alle 11 del mattino, in un vagone ferroviario nella foresta di Compiègne, i rappresentanti tedeschi firmarono l’armistizio. Le condizioni erano dure: dovevano lasciare la Francia, il Belgio, l’Alsazia e la Lorena, consegnare gran parte della flotta e delle armi, e ritirarsi oltre i loro confini. Quando i cannoni tacquero, i soldati uscirono dalle trincee, increduli. In tutto il mondo, dalle città alle campagne, la gente scese in strada: campane che suonavano, bandiere al vento, lacrime di gioia e di dolore insieme.
Ma quella fine non cancellava il peso di ciò che era stato. La guerra aveva lasciato dietro di sé più di 10 milioni di morti, città ridotte a scheletri di pietra, famiglie spezzate che non si sarebbero mai più ricomposte. Gli imperi che avevano dominato per secoli – quello austro-ungarico, quello ottomano – si erano dissolti, lasciando spazio a un’Europa nuova, piena di confini incerti. La Germania usciva sconfitta, con un orgoglio ferito e un’economia in ginocchio, ma non distrutta del tutto. Gli Alleati celebravano la vittoria, ma era una gioia amara: il costo era stato troppo alto, un prezzo che pesava sulle spalle di tutti. In Italia, Vittorio Veneto era un trofeo da mostrare, un simbolo di riscatto dopo anni di sacrifici. Eppure, molti si chiedevano se tutto quel sangue versato fosse davvero servito a qualcosa di grande, o solo a spostare qualche linea su una mappa. Il 1918 chiuse un capitolo lungo e doloroso, ma non portò una pace vera. Il mondo che emergeva da quelle rovine era diverso, fragile, con ferite che non si sarebbero rimarginate facilmente. Era la fine di un’epoca, sì, ma anche l’inizio di un tempo incerto, un secolo che sarebbe nato sotto il segno della sofferenza e della trasformazione.