Nel 1883, Wilhelm Dilthey passeggiava tra i viali alberati di Berlino, con il fruscio delle foglie autunnali sotto i piedi e un vento fresco che gli scompigliava i capelli grigi. Non era un uomo da clamori: magro, con barba rada e occhiali che gli scivolavano sul naso, sembrava un professore perso nei suoi pensieri. Nato nel 1833 a Biebrich, in una Germania di villaggi e chiese, Dilthey era cresciuto tra sermoni – figlio di un pastore – e libri che lo chiamavano verso un mondo più grande. Quel giorno, scrivendo Introduzione alle scienze dello spirito, stava dando forma allo storicismo: non solo eventi e date, ma la vita umana come un flusso da vivere e capire. L’Ottocento tedesco, con Dilthey, trasformò la storia in una scienza dell’uomo, tra filosofia, poesia e un’anima che cercava senso nel passato.
L’Europa del XIX secolo era un mosaico di rivoluzioni. La Rivoluzione Industriale ruggiva, con treni e fabbriche che cambiavano il paesaggio; la Rivoluzione Francese aveva lasciato un’eco di libertà, ma anche di caos. In Germania, dopo Napoleone, gli stati si univano sotto Bismarck, e la cultura fioriva: Goethe, Hegel, un fermento di idee. La scienza – fisica, biologia – spiegava la natura con leggi fredde, ma Dilthey si ribellava: “L’uomo non è un ingranaggio,” pensava, con una penna che tremava di passione. Studiò teologia a Heidelberg, ma Kant e Schleiermacher lo folgorarono: “La vita è più di numeri,” diceva, con una voce che pesava ogni sillaba. A Berlino, tra aule e biblioteche, trovò la sua strada: “Comprendiamo, non solo spieghiamo.”
Lo storicismo di Dilthey era un respiro profondo. “La storia è la vita stessa,” scriveva, con mani che sfogliavano manoscritti. Immagina un contadino bavarese del 1700: ara un campo, canta una canzone – per Dilthey, non era solo un fatto, ma un mondo da rivivere. Proponeva una distinzione: le scienze naturali “spiegano” (erklären), quelle dello spirito “comprendono” (verstehen). Pensiamo a una lettera di Goethe: non è solo carta, ma un’anima che parla – Dilthey voleva entrare in quel sentire. La storia non era una linea retta: era un tessuto di esperienze, emozioni, culture. Morì nel 1911, a 77 anni, lasciando un’idea: l’uomo è tempo, non solo materia.
Altri tedeschi lo precedevano. Leopold von Ranke, nato nel 1795, aveva aperto la via: “La storia è come è stata,” pensava, con occhi che brillavano dietro le lenti. A Berlino, nei suoi seminari, insegnava: “Fonti, non teorie.” Immagina un archivio prussiano: Ranke sfoglia pergamene, conta giorni – voleva fatti, non sogni. Morì nel 1886, a 90 anni, ma Dilthey andava oltre: “Non basta sapere, bisogna sentire.” Johann Gustav Droysen, nato nel 1808, aggiungeva: “La storia è azione umana,” scriveva nel Grundriss der Historik (1868), con una penna che pesava. Pensiamo a una battaglia: non è solo sangue, ma scelte, paure – Droysen vedeva l’uomo dentro il tumulto.
Dilthey viveva tra libri e silenzi. A Breslavia, Basilea, poi Berlino, insegnava con una voce calma: “Riviviamo il passato,” diceva, con studenti che annotavano ogni parola. Non era un teorico freddo: amava Beethoven, leggeva Shakespeare, vedeva la storia come arte. La sua “ermeneutica” era un ponte: comprendere un testo, un’epoca, entrando nei suoi panni. Immagina un diario del 1848: un operaio scrive della rivoluzione – Dilthey lo leggeva con il cuore, non solo con gli occhi. La scienza dello spirito era questo: non misurare, ma abitare l’umano.
Questi storicisti cambiavano tutto. Ranke ispirava archivi, Droysen strategie, Dilthey anime: la storia non era più un racconto di re, ma di popoli, vite, pensieri. Nel 2025, li sentiamo: musei, biografie, film storici – l’Ottocento respira nei nostri racconti. Ma non erano perfetti: Ranke sembrava arido, Droysen astratto, Dilthey vago – “Troppo sentimento?” dicevano i critici. Per uno studente di oggi, è una bussola: il passato non è polvere, ma specchio. Immagina un libro vecchio: non è solo pagine, è un’Ottocento che ci vive ancora dentro.