Nel 1910, Hermann Cohen passeggiava lungo i viali di Marburgo, con il fruscio delle foglie autunnali sotto i piedi e una brezza fresca che gli scompigliava la barba bianca. Non era un uomo da piazze: alto, con occhiali tondi e una voce pacata, sembrava un rabbino più che un filosofo. Nato nel 1842 a Coswig, in una famiglia ebrea devota, Cohen era cresciuto tra preghiere e un amore per la logica che lo bruciava dentro. Quel giorno, scrivendo La teoria della conoscenza di Kant, stava dando nuova vita al neokantismo: non più solo il Kant del passato, ma un pensiero che abbracciava la scienza e i valori. Il Novecento, con Cohen, Croce e altri, rivisitava l’idealismo: una filosofia dello spirito, tra rigore e creatività, un ponte tra Ottocento e modernità.
L’Europa di inizio secolo era un mondo in bilico. La scienza galoppava: Einstein piegava il tempo, Freud scavava l’inconscio, ma la Grande Guerra aveva spezzato l’ottimismo. Il positivismo contava fatti, Heidegger interrogava l’Essere; la filosofia cercava radici: “Dove torniamo?” si chiedevano, con voci che odoravano di libri e fumo. Cohen arrivò in questo fermento con una mente chiara. Studiò filosofia a Breslavia, insegnò a Marburgo – “Qui si pensa,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma Kant lo folgorò: “La ragione costruisce,” pensava, con una voce che pesava ogni sillaba. A Marburgo, con Natorp, fondò una scuola: “Riviviamo Kant,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco quieto.
Il neokantismo era un ritorno. “La conoscenza è a priori,” scriveva Cohen, con mani che sfogliavano appunti. Immagina un fisico che misura: non vede solo dati, ma leggi – per Cohen, la mente dava forma al reale. Pensiamo a un triangolo: non è solo linee, ma un concetto puro – Kant tornava, ma con la scienza moderna. Nella Logica della conoscenza pura, scavava: “La verità è sistema,” pensava, con un sorriso stanco – non fenomeni, ma strutture. Il positivismo vedeva osservazioni, Cohen principi: “La scienza pensa,” pensava, con una voce che pesava il reale. Morì nel 1918, a 75 anni, con un ultimo respiro che odorava di studio: “Ho ordinato,” pensava, lasciando un’eredità.
Poi arrivò Benedetto Croce, un altro gigante. Nel 1902, a Napoli, scribacchiava tra libri e il rumore del mare, con occhiali spessi e una barba che gli copriva il mento. Nato nel 1866 a Pescasseroli, in una famiglia ricca ma colpita dal terremoto, Croce era un erudito con un’anima ribelle: “Lo spirito crea,” pensava, con una penna che pesava ogni parola. Nella Estetica, scriveva: “L’arte è intuizione,” con mani che tremavano di passione. Immagina un quadro: non è solo colore, ma un sentire – per Croce, lo spirito era tutto: arte, storia, filosofia. Pensiamo a un racconto: non è solo fatti, ma un mondo che vive – il neoidealismo danzava con Hegel.
Croce reagiva al Novecento. Il positivismo vedeva numeri; lui vedeva vita: “La storia è spirito,” pensava, con un ghigno. Cohen ordinava, Croce narrava: “Non c’è natura senza uomo,” pensava, con una voce che pesava il reale – l’idealismo non era astratto, ma concreto. Immagina una guerra: non è solo battaglie, ma scelte – Croce cercava il senso sotto il caos. Non era un nostalgico: “Studio il presente,” pensava, con mani che sfogliavano testi – ma il presente era storia, non dati. Pensiamo a Gentile: il suo idealismo attivo lo seguiva – filosofia e azione si abbracciavano. Morì nel 1952, a 86 anni, con un ultimo respiro che odorava di Napoli: “Ho visto lo spirito,” pensava, con un corpo stanco.
Questi pensatori vivevano tra aule e battaglie. Cohen tossiva tra carte, osteggiato dai positivisti: “Troppo rigido?” dicevano. Croce si scontrava con i fascisti: “Troppo libero?” lo accusavano. Ma il loro pensiero era un faro: Cohen con la sua logica, Croce con la sua storia. Nel 2025, li sentiamo: valori, narrazioni, un mondo che pensa – il Novecento respira nei nostri libri. Ma non erano perfetti: “Troppo astratti?” dicevano i critici; “E la scienza?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, sono un’eco: la mente non è solo calcolo, ma creazione. Immagina un’idea: non è solo parole, è un Novecento che ci abita ancora.