Nel 1919, Max Weber si fermava in una sala affollata di Monaco, con il brusio degli studenti che gli ronzava nelle orecchie e una luce grigia che filtrava dalle alte finestre. Non era un uomo da silenzi: alto, con barba folta e una voce che pesava come pietra, sembrava un profeta più che un sociologo. Nato nel 1864 a Erfurt, in una Germania di industrie e chiese, Weber era cresciuto tra libri e un’Europa che si modernizzava a fatica. Quel giorno, tenendo la conferenza La politica come vocazione, stava dando forma alla sociologia del Novecento: la società non era solo numeri, ma valori, poteri, credenze. Il Novecento, con Weber, Tillich e altri, trovava un crocevia: sociologia e teologia si guardavano, un intreccio di razionalità e mistero.
Il XX secolo era un caos ordinato. La Grande Guerra aveva lasciato rovine, il capitalismo ruggiva, la scienza – Freud, Einstein – scavava mente e materia. Pareyson pensava l’arte, Eco i segni; ma Weber vedeva l’uomo sociale: “Cosa ci muove?” si chiedeva, con una voce che odorava di caffè e carta. Studiò a Heidelberg, analizzò religioni – “La fede plasma,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma la malattia lo colpì: “Penso finché respiro,” pensava, con una penna che tremava di passione. Tra aule e crisi, trovò la sua strada: “La società è spirito e lotta.”
La sociologia del Novecento era una mappa. “Il disincanto domina,” scriveva Weber, con mani che sfogliavano appunti. Immagina una fabbrica: non è solo macchine, ma una razionalità che spazza il sacro – per lui, la modernità era calcolo, non magia. Pensiamo a una burocrazia: non è solo carte, ma un potere che si irrigidisce – in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, scavava: “La fede ha fatto il mercato,” pensava, con un sorriso stanco. Marx vedeva classi, Weber ideali: “L’uomo crede e agisce,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco quieto – la società non era solo economia, ma cultura. Morì nel 1920, a 56 anni, con un ultimo respiro che odorava di malattia: “Ho capito,” pensava, con un corpo fragile.
Poi arrivò Paul Tillich, un altro esploratore. Nel 1951, a New York, scribacchiava Il coraggio di essere, con il rumore della città che pulsava oltre le mura e una luce fioca che cadeva su libri aperti. Nato nel 1886 a Starzeddel, in una Prussia di pastori e foreste, Tillich era cresciuto tra sermoni e un’Europa in guerra. “Dio è l’essere stesso,” pensava, con una penna che pesava ogni parola. Immagina una cattedrale vuota: non è solo pietra, ma un grido – per lui, la teologia incontrava la sociologia nel bisogno di senso. Pensiamo a un uomo solo: non è solo paura, ma una domanda – “La fede è rischio,” pensava, con un ghigno saggio. Morì nel 1965, a 79 anni, con un ultimo respiro che odorava di esilio: “Ho cercato,” pensava, lasciando un’eredità.
Sociologia e teologia reagivano al Novecento. Il positivismo vedeva leggi; loro vedevano anime: “La società è valori,” pensava Weber, con mani che sfogliavano testi. Durkheim li ispirava, ma lo superavano: “Non solo fatti, ma significati,” pensava Tillich, con una voce che pesava il reale – il sociale non era meccanico, ma umano. Immagina una folla: non è solo corpi, ma speranze – cercavano il senso sotto la superficie. Non erano nostalgici: “Pensiamo oggi,” pensava Tillich – ma il “oggi” era sacro e profano. Pensiamo a Kierkegaard: l’angoscia li guidava – filosofia e vita si abbracciavano.
Vivevano tra analisi e fede. Weber parlava con forza: “Guardate il potere,” diceva, con studenti che pendevano dalle sue labbra. Tillich predicava con calma: “Cercate il fondo,” pensava, con aule che respiravano le sue parole. Weber, sposato, senza figli – “Il lavoro mi tiene,” pensava, con un sospiro. Tillich, esule dai nazisti, padre di due – “La fede mi salva,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigavano con i positivisti: “Troppo aridi,” borbottavano, con un sopracciglio alzato. Lasciavano una sfida: “Capite l’uomo,” dicevano, con una voce che pesava il futuro.
Nel 2025, li sentiamo ancora. In un mondo di crisi e connessioni, sociologia e teologia vivono: potere, senso, un ritorno al profondo – il Novecento respira nei nostri legami. Ma non erano perfetti: “Troppo teorici?” dicevano i critici; “E il pratico?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, sono un’eco: la vita non è solo dati, ma spirito. Immagina una piazza: non è solo gente, è un Novecento che ci interroga ancora.