Era una giornata di primavera del 1797, e Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, appena ventidue anni, camminava tra i sentieri verdi di Jena, con il sole che filtrava tra i rami e il rumore di un ruscello a fare da sottofondo. Non era il tipo di filosofo che si chiudeva in una stanza polverosa: amava il mondo, lo respirava, lo toccava con mani curiose. Nato nel 1775 a Leonberg, in una Germania dove la filosofia ribolliva come un calderone, Schelling era un prodigio, un ragazzo con capelli scuri spettinati e occhi che sembravano vedere oltre l’orizzonte. Quando arrivò a Jena, Fichte dominava la scena con il suo Idealismo soggettivo, dicendo che tutto nasce dall’Io. Ma Schelling non ci stava: per lui, la natura non era solo un’ombra proiettata dal pensiero umano. Era viva, pulsante, un organismo che danzava con lo spirito in un abbraccio eterno. Con la sua Filosofia della Natura, Schelling accese una luce diversa nell’Idealismo tedesco, un fuoco che bruciava di poesia e scienza, un canto che univa l’uomo al mondo sotto i suoi piedi.
L’Europa di fine Settecento era un luogo di meraviglia e tumulto. La Rivoluzione Francese aveva scosso i troni, la scienza scopriva elettricità e pianeti lontani, e il Romanticismo cominciava a sussurrare che c’era più bellezza nel mistero che nelle fredde certezze dell’Illuminismo. Schelling crebbe in questo vento di cambiamento. Suo padre, un pastore con una biblioteca piena di libri, lo spinse a studiare teologia a Tubinga, dove conobbe Hegel e Hölderlin, due amici che sarebbero diventati giganti. Ma Schelling non era fatto per le prediche: a sedici anni leggeva Kant, a diciotto scriveva saggi che lasciavano i professori a bocca aperta. Quando arrivò a Jena nel 1798, chiamato da Fichte, portava con sé un’idea audace: la natura non era un Non-Io passivo, come diceva Fichte, ma un’espressione dello stesso spirito che vive in noi. “La natura è l’infinito visibile,” scriveva, con una penna che sembrava danzare tra filosofia e versi.
La sua Filosofia della Natura (Naturphilosophie), sviluppata tra il 1797 e il 1800, non era un trattato arido. Era un viaggio, un racconto che partiva dalle stelle e finiva nelle vene di una foglia. Per Schelling, il mondo non era un meccanismo morto, come lo vedeva Newton: era un organismo vivo, un tutto che si evolveva e respirava. Immagina un temporale: il lampo che squarcia il cielo, il tuono che rimbomba, la pioggia che bagna la terra. Per la scienza del tempo, erano fenomeni separati, da misurare con numeri e leggi. Per Schelling, erano momenti di un unico processo, lo spirito che si manifesta nella natura. Usava termini strani – “polarità”, “dinamismo” – per descrivere come tutto, dai magneti alle piante, fosse mosso da forze opposte che si cercavano e si respingevano. Era un’idea che prendeva dalla scienza – Galvani con le sue rane elettriche, Goethe con i suoi studi sui colori – ma la trasformava in poesia filosofica: la natura era lo specchio dell’anima, e l’anima lo specchio della natura.
Schelling non si fermava alla superficie. Nel suo Sistema dell’Idealismo Trascendentale (1800), univa l’Io di Fichte alla natura in un grande cerchio. C’è un Assoluto, diceva, un punto dove spirito e materia si fondono. Pensiamo a un artista: dipinge un quadro, e quel quadro è fuori di lui, ma nasce dalla sua mente. Per Schelling, il mondo è così: l’Assoluto si esprime nella natura e poi si riconosce nell’uomo che la contempla. È un’idea che ti fa quasi tremare: il vento tra gli alberi non è solo aria che si muove, è lo spirito che parla. A Jena, le sue lezioni erano un evento: studenti con taccuini aperti, poeti con sguardi sognanti, scienziati che annuivano cauti. Parlava con una voce morbida ma decisa, mescolando formule e visioni, e la sala si riempiva di un’energia che sembrava elettrica.
Ma Schelling non era solo un sognatore. Viveva in un’epoca di scoperte, e le sue idee risuonavano con il tempo. La scienza trovava fossili che raccontavano storie di mondi scomparsi, chimici mescolavano elementi in provette fumanti, e lui vedeva in tutto questo una conferma: la natura non è statica, è un divenire. Nel suo Sulle Idee per una Filosofia della Natura (1797), descriveva il pianeta come un organismo che cresce, dalle rocce primordiali agli esseri viventi. Era vicino al Romanticismo, con la sua passione per l’infinito, ma non si perdeva nei sogni: voleva una filosofia che tenesse i piedi per terra e gli occhi al cielo. Questo lo mise in contrasto con Fichte: dove Fichte vedeva l’Io come creatore assoluto, Schelling vedeva un dialogo, una danza tra l’uomo e il mondo.
La sua vita fu un turbine. Dopo Jena, si spostò a Würzburg, poi a Monaco, insegnando e scrivendo senza sosta. Nel 1801, con Hegel, pubblicò il Giornale critico della filosofia, un grido di battaglia per l’Idealismo. Ma il rapporto con Hegel si incrinò: mentre Schelling cercava l’unità di natura e spirito, Hegel costruiva un sistema più storico. Nel 1803, sposò Caroline, una donna brillante e ribelle, e insieme vissero anni di passione e viaggi. Ma la tragedia lo colpì: Caroline morì nel 1809, e Schelling si chiuse in un silenzio cupo, tornando alla filosofia solo anni dopo con riflessioni più mistiche. Morì nel 1854, a 79 anni, lasciando un’eredità che non si spense mai.
Schelling influenzò tutti: Hegel prese il suo Assoluto e lo fece storico, i romantici lo adorarono per il suo amore per la natura, persino scienziati come Ørsted trovarono nelle sue idee un’ispirazione. Nel 2025, ci parla ancora: in un mondo di crisi climatica, dove la natura grida aiuto, Schelling ci ricorda che non siamo separati da lei. È un’idea che vibra: il mare che si alza, il vento che piega gli alberi, sono parte di noi. Ma non era perfetto: alcuni lo trovarono vago, con concetti che scivolavano via come acqua. Altri, come Hegel, lo accusarono di essere troppo poetico. Eppure, per uno studente di oggi, Schelling è un respiro: ti spinge a guardare fuori, a sentire il mondo, a pensare che forse non siamo solo spettatori, ma parte di una grande storia che respira con noi.