Il 6 giugno 1944, conosciuto come D-Day, fu il giorno in cui gli Alleati cambiarono il volto della Seconda Guerra Mondiale, un momento che segnò l’inizio della fine per il dominio tedesco in Europa. Dopo anni di preparazione, Dwight Eisenhower, il generale americano con il volto tranquillo e la mente d’acciaio, lanciò l’Operazione Overlord, lo sbarco in Normandia. Era un piano titanico: 156.000 uomini – americani, inglesi, canadesi, con contingenti di francesi liberi e altri alleati – supportati da migliaia di navi, aerei e carri armati, pronti ad attraversare il Canale della Manica e colpire il cuore dell’Europa occupata. L’obiettivo era chiaro: aprire un secondo fronte a ovest, alleggerire la pressione sui sovietici a est e spezzare il “Vallo Atlantico”, la linea di bunker e cannoni che i tedeschi avevano costruito lungo la costa francese. Hitler e i suoi generali, come Erwin Rommel, credevano che quel muro fosse impenetrabile, ma si sbagliavano.
La notte prima dello sbarco fu un caos controllato. Sotto un cielo nero e un mare agitato, migliaia di paracadutisti si lanciarono dietro le linee nemiche. Atterrarono nei campi della Normandia, tra siepi e paludi, con il compito di tagliare fili telefonici, sabotare strade e prendere ponti strategici. Molti si persero nel buio, alcuni annegarono nei terreni allagati dai tedeschi, ma il loro lavoro aprì la strada. All’alba, le navi alleate – un’armada che sembrava infinita – si avvicinarono alle spiagge: Utah, Omaha, Gold, Juno, Sword. I cannoni spararono un diluvio di fuoco, un ruggito che squarciò l’aria mentre i primi soldati uscivano dalle barche da sbarco. A Omaha, gli americani affrontarono l’inferno: le mitragliatrici tedesche, nascoste nei bunker sulle scogliere, falciavano chiunque mettesse piede sulla sabbia. In poche ore, migliaia caddero, il mare si tinse di rosso, ma non si fermarono. Con granate, fucili e puro coraggio, scalarono le rocce e presero le postazioni nemiche, un metro alla volta.
Le altre spiagge non furono molto più facili. A Juno, i canadesi avanzarono sotto una pioggia di proiettili, con le onde che ribaltavano le barche e il freddo che mordeva le ossa. A Gold e Sword, gli inglesi combatterono tra filo spinato e mine, mentre a Utah la resistenza fu più leggera, ma il terreno paludoso rallentava ogni passo. I tedeschi, sorpresi dall’audacia dell’attacco, non reagirono subito con tutta la loro forza. Hitler, nel suo rifugio in Baviera, pensava che fosse un diversivo: teneva le sue migliori divisioni Panzer a Calais, convinto che il vero colpo sarebbe arrivato lì. Rommel, che comandava le difese in Normandia, era lontano quel giorno, a casa per il compleanno della moglie. Quando tornò, era troppo tardi: gli Alleati avevano una testa di ponte, un pezzo di Francia che non avrebbero mollato.
Entro la fine di giugno, un milione di uomini erano sbarcati in Normandia. Presero Cherbourg, un porto vitale per i rifornimenti, dopo giorni di scontri tra le sue strade strette e i moli distrutti. A luglio, sfondarono a Saint-Lô, una cittadina ridotta a macerie: i carri armati di George Patton, un generale che guidava come un cowboy, corsero nelle campagne francesi, tagliando le linee tedesche. Il 25 agosto 1944, Parigi fu liberata. I soldati alleati entrarono nella capitale sotto una pioggia di fiori: la gente usciva dai nascondigli, cantava la Marsigliese, abbracciava i liberatori con lacrime agli occhi. Charles de Gaulle, il leader dei francesi liberi, marciò sugli Champs-Élysées, promettendo una Francia nuova, libera dal giogo di Vichy e dei nazisti. Fu un giorno di festa, ma anche un simbolo: l’Europa occidentale tornava a respirare.
A est, i sovietici non stavano fermi. Nel giugno 1944, lanciarono l’Operazione Bagration, un’offensiva colossale che colpì i tedeschi in Bielorussia. Milioni di soldati dell’Armata Rossa, con carri T-34 e artiglieria pesante, distrussero il Gruppo d’Armate Centro tedesco, una delle forze più forti di Hitler. Presero Minsk in pochi giorni, avanzando verso la Polonia con una ferocia che non dava tregua. I tedeschi persero 300.000 uomini, un buco che non potevano colmare. Bagration e il D-Day si completavano: mentre gli Alleati spingevano da ovest, i sovietici premevano da est, stringendo la Germania in una morsa che si chiudeva sempre di più.
In Italia, il 1944 portò altri progressi. Dopo lo sbarco del 1943, gli Alleati avevano arrancato contro la Linea Gustav, una barriera di montagne e trincee a sud di Roma. Cassino era il nodo più duro: per mesi, bombardamenti alleati avevano ridotto il monastero medievale in cima al monte a un cumulo di pietre, ma i tedeschi resistevano tra le rovine. A maggio, finalmente, sfondarono: polacchi, inglesi e americani presero la città dopo scontri casa per casa, aprendo la strada alla capitale. Il 4 giugno, entrarono a Roma. La città eterna, affamata e segnata dalla guerra, accolse i carri armati con un misto di sollievo e stanchezza. Mussolini e i tedeschi si ritirarono al nord, sulla Linea Gotica, un’altra barriera tra Appennini e fiumi, ma il loro dominio si stava sgretolando.
Gli Alleati non si fermarono. Dopo Parigi, liberarono Belgio e Olanda, avanzando verso il Reno con una velocità che spaventava i tedeschi. Ma a dicembre, Hitler tentò un ultimo colpo disperato: la Battaglia delle Ardenne. Nelle foreste gelate al confine tra Belgio e Germania, mandò carri armati e truppe scelte per spezzare le linee alleate. All’inizio funzionò: gli americani, sorpresi, persero terreno sotto la neve e il fuoco. Ma si ripresero. Patton girò i suoi carri a nord, i cieli si aprirono per gli aerei alleati, e a gennaio 1945 l’offensiva tedesca crollò. Fu l’ultimo rantolo di Hitler in Occidente. Il 1944 finì con l’Europa che tornava libera, passo dopo passo: la Normandia, Parigi, Roma, Minsk erano simboli di una marea che non si sarebbe fermata. La Germania perdeva terreno, i suoi soldati combattevano con uniformi lacere e poca speranza. La guerra si avvicinava alla fine, un epilogo scritto nella sabbia di Omaha e nelle steppe russe.