Nel 1897, Charles Sanders Peirce sedeva su una veranda scricchiolante a Milford, in Pennsylvania, con il fruscio delle foglie mosse dal vento che gli accarezzava le orecchie e una luce dorata che cadeva su un tavolo pieno di carte scarabocchiate. Non era un uomo da salotti: barbuto, con occhi penetranti e una voce che ruggiva piano, sembrava un esploratore più che un filosofo. Nato nel 1839 a Cambridge, Massachusetts, in una famiglia di studiosi, Peirce era cresciuto tra numeri e un’America che si apriva al mondo. Quel giorno, scrivendo appunti sulla semiotica, stava gettando le basi di una disciplina: i segni non erano solo parole, ma chiavi per capire tutto. Il Novecento, con Peirce, Eco e altri, trovava una mappa: la comunicazione non era caos, ma un sistema di significati da decifrare.
Il XX secolo era un’esplosione di segnali. La radio crepitava, il cinema illuminava, la scienza – Turing, Shannon – codificava il reale. Gadamer rileggeva il passato, Gramsci l’egemonia; ma Peirce vedeva segni ovunque: “Cosa significa?” si chiedeva, con una voce che odorava di tabacco e carta. Studiò matematica e logica a Harvard – “La scienza mi ha aperto,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma la vita lo piegò: licenziato, isolato. “I segni mi salvano,” pensava, con una penna che pesava ogni sillaba. Tra solitudine e genio, trovò la sua strada: “Tutto è semiotica.”
La semiotica era una lente. “Il segno è triadico,” scriveva, con mani che tremavano di passione. Immagina un albero: non è solo legno, ma un simbolo che rimanda – per Peirce, c’era l’oggetto, il segno, l’interpretante. Pensiamo a una bandiera: non è solo stoffa, ma un’idea che vive – scavava: “Il senso cresce,” pensava, con un sorriso stanco. Saussure vedeva dualità, Peirce movimento: “I segni si parlano,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco quieto – la comunicazione non era statica, ma un processo infinito. Morì nel 1914, a 74 anni, con un ultimo respiro che odorava di povertà: “Ho visto,” pensava, con un corpo fragile.
Poi arrivò Umberto Eco, un altro decifratore. Nel 1975, a Bologna, scribacchiava Trattato di semiotica generale, con il rumore delle piazze che filtrava dalle finestre e una lampada che illuminava fogli sparsi. Nato nel 1932 ad Alessandria, in un’Italia di torri e fascismo, Eco era cresciuto tra libri e un dopoguerra curioso. “Il mondo è testo,” pensava, con una penna che pesava ogni parola. Immagina un romanzo: non è solo trama, ma un codice – per lui, la semiotica leggeva cultura, pubblicità, vita. Pensiamo a un cartellone: non è solo colori, ma un messaggio – “Decifriamo,” pensava, con un ghigno. Morì nel 2016, a 84 anni, con un ultimo respiro che odorava di biblioteca: “Ho letto,” pensava, lasciando un’eredità.
La semiotica reagiva al Novecento. Il positivismo contava dati; loro vedevano significati: “I segni ci parlano,” pensava Peirce, con mani che sfogliavano testi. Saussure li ispirava, ma lo superavano: “Non solo lingua, ma tutto,” pensava Eco, con una voce che pesava il reale – la comunicazione non era solo parole, ma immagini, gesti. Immagina un film: non è solo scene, ma un racconto che ci prende – cercavano il senso sotto la superficie. Non erano astratti: “Analizziamo qui,” pensava Eco – ma il “qui” era ovunque. Pensiamo a Jakobson: la linguistica li guidava – filosofia e cultura si abbracciavano.
Vivevano tra segni e vita. Peirce scriveva isolato: “Capisco,” diceva, con carte che pesavano oro. Eco insegnava con ironia: “Leggete tra le righe,” pensava, con studenti che pendevano dalle sue labbra. Peirce, sposato due volte, solo alla fine – “I segni mi tengono,” pensava, con un sospiro. Eco, padre di due figli, si divertiva: “La vita è un gioco,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigavano con i positivisti: “Troppo ciechi,” borbottavano, con un sopracciglio alzato. Lasciavano una sfida: “Interpretate,” dicevano, con una voce che pesava il futuro.
Nel 2025, li sentiamo ancora. In un mondo di schermi e simboli, la semiotica vive: media, arte, un ritorno al segno – il Novecento respira nei nostri messaggi. Ma non erano perfetti: “Troppo complessi?” dicevano i critici; “E la semplicità?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, sono una chiave: la vita non è solo cose, ma significati. Immagina un emoji: non è solo un disegno, è un Novecento che ci comunica ancora.