Era una giornata di ottobre del 1882, e Friedrich Nietzsche camminava lungo le rive del lago Silvaplana, nelle Alpi svizzere, con il vento che gli scompigliava i baffi folti e un sole pallido che danzava sull’acqua. Non era un uomo qualunque: con i suoi occhi febbrili e un passo che sembrava inseguire pensieri troppo grandi, portava dentro di sé un terremoto. Nato nel 1844 a Röcken, in una Prussia di chiese e campi di grano, Nietzsche era cresciuto tra salmi e libri, figlio di un pastore che morì quando lui aveva solo cinque anni. Ma quel giorno, tra le montagne, un’idea lo colpì come un fulmine: “Dio è morto,” scribacchiò su un taccuino, con una penna che tremava di eccitazione e paura. Quando pubblicò Così parlò Zarathustra, non fu solo un libro: fu una bomba, un annuncio che squarciava il cielo dell’Ottocento. La morte di Dio non era una notizia da poco: era la fine di un mondo, il crollo delle certezze, un invito a guardare l’abisso e danzarci sopra.
L’Europa di Nietzsche era un continente al crepuscolo. Hegel aveva promesso una storia razionale, Schopenhauer aveva risposto con il pessimismo della Volontà, e la scienza – con Darwin e le sue scimmie – cominciava a scalzare le vecchie verità. Le fabbriche ruggivano, i treni fischiavano, e la Chiesa perdeva terreno sotto i colpi della modernità. Nietzsche arrivò in questo caos con un passo leggero ma devastante. Da ragazzo, a Bonn e Lipsia, era stato un genio: leggeva i classici greci, suonava il pianoforte con mani delicate, scriveva saggi che lasciavano i professori a bocca aperta. A 24 anni, nel 1869, divenne professore a Basilea, un giovane con occhiali spessi e una voce morbida che incantava gli studenti. Ma non era fatto per le aule: amava Wagner, con le sue opere che ruggivano come tempeste, e Schopenhauer, con il suo mondo oscuro. Poi, tutto cambiò: la salute lo tradì – emicranie, insonnia – e il mondo gli sembrò un sipario strappato.
La gaia scienza (1882) fu il primo squillo: “Dio è morto. Dio resta morto. E noi lo abbiamo ucciso.” Non era un ateismo banale, un’alzata di spalle da miscredente. Immagina una piazza di Torino, dove Nietzsche visse i suoi ultimi anni: campane che tacciono, preti che predicano a banchi vuoti, uomini che corrono dietro a soldi e macchine. Per lui, Dio non era solo una fede: era il pilastro della morale, del senso, dell’ordine. “Come lo abbiamo ucciso?” si chiede, con una voce che sembra un lamento e una risata insieme. “Con i nostri coltelli, con la nostra scienza, con la nostra fretta.” La morte di Dio era un evento: il cristianesimo, con i suoi duemila anni, si era spento, e con esso il cielo che ci aveva sorretto. Ma Nietzsche non piangeva: “Non sentite l’odore del nulla?” chiedeva, con un sorriso storto. Era una crisi, sì, ma anche una liberazione.
Zarathustra, il suo profeta immaginario, lo urla dalle montagne: “Dio è morto, ora tocca a voi.” In Così parlò Zarathustra (1883-1885), Nietzsche canta un mondo senza centro: non c’è più un alto da pregare, un basso da temere. È il nichilismo, un’ombra che si allunga sull’Europa. Pensiamo a un commerciante di Lipsia, che va in chiesa per abitudine ma non crede più: per Hegel, era parte dello Spirito; per Schopenhauer, un burattino della Volontà. Per Nietzsche, è un uomo nudo, senza rete. “Abbiamo ucciso Dio,” dice, “e ora il mare è aperto.” Ma quel mare è pericoloso: senza Dio, i vecchi valori – bene, male, verità – crollano come castelli di sabbia. Nel Genealogia della morale (1887), lo spiega: la morale cristiana, con la sua umiltà e il suo perdono, era una “morale da schiavi,” nata dalla debolezza, non dalla forza. I forti, i Greci di Omero, vivevano senza colpa; i deboli inventarono un Dio per consolarsi.
Nietzsche non era un distruttore cieco. Viveva in un’epoca di tramonti: a Sils Maria, tra le Alpi, o a Torino, tra i portici, cercava aria pura per i suoi polmoni malati e luce per i suoi pensieri. Non insegnava più: dopo Basilea, vagava, con una valigia leggera e un cappotto logoro, scrivendo su tavoli di legno macchiato. “Io sono dinamite,” diceva, con una voce che tremava di febbre. E lo era: la morte di Dio non era la fine, ma un inizio. Chiedeva agli uomini di creare nuovi valori, di essere “superuomini” – non mostri, ma poeti della propria vita. Pensiamo a un artista di oggi, che dipinge senza regole: è il figlio di Nietzsche, libero ma solo. Nel Crepuscolo degli idoli (1888), colpiva duro: “Non ci sono fatti, solo interpretazioni.” Era un pugno alla scienza, alla religione, a tutto ciò che pretendeva di essere eterno.
La sua vita fu un lampo breve e intenso. A Torino, nel 1889, crollò: vide un cavallo frustato, lo abbracciò piangendo, e la sua mente si spense. Morì nel 1900, a 55 anni, dopo un decennio di silenzio, curato da una sorella che tradì le sue idee. Ma le sue parole no: esplosero nel Novecento. I nazisti le piegarono, ma lui li avrebbe odiati; gli esistenzialisti le abbracciarono, i poeti le cantarono. Nel 2025, Nietzsche ci guarda: in un mondo di algoritmi e crisi, dove Dio è un’eco lontana, lui ci sfida: “E ora? Cosa farete?” Pensiamo a una notte senza stelle: non c’è più una guida, ma puoi accendere un fuoco. È un pensiero che spaventa e libera.
Ma non era perfetto. Alcuni lo trovarono folle: “Solo caos?” Altri lo accusarono di superbia: “Chi è questo superuomo?” Per uno studente di oggi, Nietzsche è un urlo: ti toglie il terreno, ma ti dà un cielo da costruire. Immagina un vuoto: non è la fine, è il tuo inizio. È Schopenhauer superato, con un ghigno che brilla nel buio.