Nel 1954, Martin Heidegger si fermava su un sentiero polveroso della Foresta Nera, con il fruscio delle fronde che gli sfiorava le orecchie e una luce screziata che cadeva su un taccuino sgualcito. Non era un uomo da luci al neon: alto, con baffi folti e una voce che pesava come pietra, sembrava un eremita più che un filosofo. Nato nel 1889 a Messkirch, in una Germania rurale e devota, Heidegger era cresciuto tra campane e un’Europa che si meccanizzava. Quel giorno, scrivendo La questione della tecnica, stava affrontando un’etica nuova: la tecnologia non era solo strumento, ma destino. Il Novecento, con Heidegger, Haraway e altri, trovava un bivio: le macchine erano potere, una sfida al nostro essere.
Il XX secolo era un ruggito di motori e circuiti. L’IA di Turing pensava, il DNA di Monod si svelava, le città si riempivano di schermi. Latour vedeva la Terra, Jonas il futuro; ma Heidegger guardava la tecnica: “Cosa ci fa?” si chiedeva, con una voce che odorava di resina e carta. Studiò con Husserl, insegnò a Friburgo – “L’Essere mi guida,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma la modernità lo scosse: “Siamo presi,” pensava, con una penna che tremava di passione. Tra boschi e aule, trovò la sua strada: “La tecnologia ci plasma.”
La sua filosofia era un’ombra. “La tecnica svela,” scriveva, con mani che vibravano di energia. Immagina una diga: non è solo cemento, ma un mondo che si piega – per Heidegger, la tecnologia non serviva, dominava. Pensiamo a un telefono: non è solo voce, ma un controllare – in Questione, scavava: “L’Essere si nasconde,” pensava, con un sorriso stanco. Marx vedeva lavoro, Heidegger rischio: “Ci ingabbia,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco cupo – l’etica non era usarla, ma capirla. Morì nel 1976, a 86 anni, con un ultimo respiro che odorava di legna: “Ho chiesto,” pensava, con un corpo fragile.
Poi arrivò Donna Haraway, un’altra voce. Nel 1985, a Santa Cruz, scribacchiava Manifesto cyborg, con il rumore dell’oceano che ruggiva lontano e una luce calda che cadeva su fogli sparsi. Nata nel 1944 a Denver, in un’America di praterie e guerra, Haraway era cresciuta tra biologia e un mondo che si ibridava. “Siamo cyborg,” pensava, con una penna che pesava ogni parola. Immagina un robot: non è solo metallo, ma un noi – per lei, la tecnologia era fusione, non minaccia. Pensiamo a un pacemaker: non è solo macchina, ma vita – “Abbracciamola,” pensava, con un ghigno saggio. Vive ancora nel 2025, a 80 anni, con una voce che sfida: “Ho mescolato,” pensa, lasciando un’eredità.
La filosofia tecnologica reagiva al Novecento. Il progresso vedeva trionfi; loro vedevano domande: “La tecnica ci cambia,” pensava Heidegger, con mani che sfogliavano testi. Jonas li ispirava, ma lo superavano: “Non solo paura, ma possibilità,” pensava Haraway, con una voce che pesava il reale – le macchine non erano solo fuori, ma dentro. Immagina un’IA: non è solo codice, ma un’identità – cercavano il senso sotto i cavi. Non erano tecnofobi: “Pensiamo con lei,” pensava Haraway – ma pensare era critico. Pensiamo a Searle: la mente li guidava – filosofia e tecnica si abbracciavano.
Vivevano tra pensiero e futuro. Heidegger passeggiava solo: “Riflettete,” diceva, con studenti che pendevano dalle sue pause. Haraway insegnava con fuoco: “Ibridatevi,” pensava, con aule che respiravano le sue idee. Heidegger, sposato, due figli – “La terra mi tiene,” pensava, con un sospiro. Haraway, senza figli, curiosa – “Il mondo mi guida,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigavano con i positivisti: “Troppo ciechi,” borbottavano, con un sopracciglio alzato. Lasciavano una sfida: “Dominate o danzate,” dicevano, con una voce che pesava il futuro.
Nel 2025, li sentiamo ancora. In un mondo di AI e crisi, la loro filosofia vive: controllo, ibridi, un ritorno al pensare – il Novecento respira nei nostri schermi. Ma non erano perfetti: “Troppo oscuri?” dicevano i critici di Heidegger; “Troppo audaci?” di Haraway. Per uno studente di oggi, sono un bivio: la tecnologia non è solo strumento, ma noi. Immagina un drone: non è solo volo, è un Novecento che ci interroga ancora.