La Spagna degli anni ’30 si trasformò in un campo di battaglia, un Paese che si spezzò sotto il peso delle sue divisioni. La Guerra Civile, scoppiata nel 1936, non arrivò come un fulmine a ciel sereno: fu il risultato di anni di tensioni che ribollivano sotto la superficie. Tutto iniziò nel 1931, quando la monarchia di Alfonso XIII crollò dopo decenni di crisi. Al suo posto nacque una repubblica, un esperimento di democrazia che prometteva di cambiare le cose in una nazione segnata da disuguaglianze profonde. Ma la Spagna era un mosaico fragile: da una parte c’erano i repubblicani, un’alleanza di socialisti, comunisti e anarchici che volevano strappare il potere ai ricchi e alla Chiesa; dall’altra i nazionalisti, sostenuti da militari, cattolici e proprietari terrieri che vedevano nella repubblica una minaccia al loro mondo. Quelle due visioni non potevano convivere, e il 17 luglio 1936 il conflitto esplose. Un gruppo di generali, guidato da Francisco Franco, si ribellò contro il governo di sinistra, dando il via a una guerra che avrebbe insanguinato la Spagna per tre anni.
I repubblicani avevano dalla loro le città più grandi: Madrid, la capitale, con le sue strade piene di operai e intellettuali; Barcellona, un cuore pulsante di idee radicali dove gli anarchici sognavano una società senza padroni. I nazionalisti, invece, partirono dal sud e dal Marocco spagnolo, una colonia dove Franco aveva passato anni a comandare truppe con pugno di ferro. Non era un uomo carismatico come Mussolini o Hitler: era basso, con una voce sottile, ma aveva una determinazione che lo rendeva temibile. Presto prese il comando dei ribelli, unendo generali, soldati e chiunque volesse fermare la marea rossa che minacciava di travolgere il Paese. La guerra non fu solo una lotta tra spagnoli: diventò un palcoscenico internazionale, un’anteprima del caos che avrebbe travolto l’Europa. I nazionalisti avevano alleati potenti. Mussolini mandò 50.000 soldati italiani, uomini che marciavano con fucili e camicie nere, pronti a combattere per il loro Duce e a testare le armi del fascismo. Hitler inviò la Legione Condor, una squadriglia di aerei che portava morte dal cielo. Il 26 aprile 1937, bombardarono Guernica, una cittadina basca senza difese militari. Le bombe caddero per ore, riducendo case e strade in macerie, uccidendo centinaia di civili. Quel massacro, dipinto da Picasso nel suo celebre quadro, fece vedere al mondo di cosa erano capaci i totalitarismi.
I repubblicani non erano soli, ma i loro aiuti erano più fragili. L’Unione Sovietica di Stalin mandò armi, carri armati e consiglieri militari, ma non con la generosità che ci si poteva aspettare: Stalin giocava una partita cauta, più interessato a controllare i comunisti spagnoli che a vincere la guerra. Poi c’erano le Brigate Internazionali, un esercito di volontari arrivati da ogni parte del mondo: inglesi, americani, francesi, italiani scappati dal fascismo. Portavano con sé poco più di un fucile e un ideale, la voglia di fermare l’avanzata di Franco e dei suoi alleati. Tra loro c’erano scrittori come George Orwell, che poi raccontò l’orrore e la speranza di quei giorni. Ma la passione non bastava contro la macchina da guerra nazionalista. Le battaglie erano feroci, un susseguirsi di assedi e scontri che lasciavano il terreno coperto di cadaveri. Nel 1937, i nazionalisti conquistarono il nord, una regione ricca di miniere e industrie che dava ossigeno alla loro causa. Nel 1938, la battaglia dell’Ebro segnò una svolta: fu uno scontro lungo mesi, vicino a un fiume che tagliava la Spagna in due. I repubblicani ci misero tutto quello che avevano – uomini, armi, disperazione – ma persero. Fu un colpo da cui non si ripresero più.
Francia e Regno Unito, che potevano cambiare le sorti del conflitto, scelsero di non intervenire. Seguivano la politica dell’appeasement, spaventati da Hitler e Mussolini, e non volevano rischiare una guerra più grande. Lasciarono i repubblicani al loro destino, una decisione che pesò come un macigno. Nel 1939, la fine arrivò con un’agonia lenta. Madrid resistette a un assedio durissimo: la fame mordeva più delle bombe, e la gente mangiava quello che trovava, anche le bucce delle patate. Ma il 28 marzo la città cadde. Il 1° aprile, Franco annunciò la vittoria con una voce calma, quasi burocratica: “La guerra è finita”. Aveva vinto, e con lui nacque una dittatura che non conosceva pietà. I repubblicani furono massacrati: migliaia fucilati, altri rinchiusi in prigioni dove la vita era un lusso. Tanti scapparono, attraversando i Pirenei con i piedi sanguinanti, trovando rifugio in Francia ma lasciando dietro un Paese che non riconoscevano più.
Franco governò fino al 1975, una figura che dominò la Spagna con mano ferma ma senza clamore. Non entrò nella Seconda Guerra Mondiale, anche se il suo cuore batteva per Hitler e Mussolini: preferì restare neutrale, lasciando che la Spagna si riprendesse da anni di distruzione. La Guerra Civile non fu solo una tragedia spagnola: fu un laboratorio per i totalitarismi. Mussolini e Hitler provarono le loro armi, affinarono le strategie; Stalin testò il comunismo in un contesto lontano, ma senza impegnarsi fino in fondo. Per la Spagna, però, contò 500.000 morti, città ridotte a scheletri di pietra, famiglie spezzate da un odio che non si spegneva. Quel conflitto mostrò all’Europa che le ideologie – fascismo, comunismo, democrazia – erano pronte a scontrarsi di nuovo, con una ferocia che non dava tregua. Fu un avvertimento, un’eco di ciò che stava per arrivare.