Era una sera d’autunno del 1794, e Johann Gottlieb Fichte camminava lungo le strade fangose di Jena, una piccola città tedesca che ribolliva di idee nuove. Il vento portava con sé l’odore di legna bruciata, ma nella mente di Fichte ardeva un fuoco più grande: una visione che avrebbe scosso le fondamenta della filosofia. Nato nel 1762 a Rammenau, in una famiglia di tessitori così poveri che il pane era un lusso, Fichte non sembrava destinato a cambiare il mondo. Ma il caso, o forse il destino, lo portò a studiare, a leggere Kant, a innamorarsi di un’idea: la mente umana non è un semplice specchio della realtà, ma la crea. Quando pubblicò la sua Dottrina della Scienza (Wissenschaftslehre), non fu solo un libro: fu una rivoluzione, un grido che diceva al mondo che tutto – gli alberi fuori dalla finestra, le stelle sopra la testa, persino il tempo che scorre – nasce dall’Io. L’Idealismo soggettivo di Fichte non era un gioco di parole: era un invito a ripensare chi siamo, un’onda che travolse l’Ottocento e aprì la strada a Hegel, Schelling e oltre.
L’Europa di fine Settecento era un calderone ribollente. La Rivoluzione Francese aveva decapitato un re e acceso speranze, Napoleone marciava con stivali lucidi e sogni di conquista, e la filosofia cercava di tenere il passo con un mondo che correva troppo veloce. Fichte arrivò in questo caos con un’energia feroce. Non era alto, non era bello: aveva un naso aquilino, occhi che scavavano dentro chi lo guardava, e una voce che tuonava nelle aule di Jena, dove insegnava dal 1794. Kant lo aveva svegliato, come disse lui stesso: la Critica della Ragion Pura gli aveva mostrato che la realtà non è un dono del cielo, ma qualcosa che la mente costruisce. Però Kant si era fermato: per lui, c’era un “noumeno”, una cosa-in-sé oltre il nostro sapere. Fichte no. Con un gesto audace, buttò giù quel muro: “Non c’è niente là fuori che non sia Io,” disse. Non era arroganza, era una scommessa: il mondo esiste perché lo pensiamo.
L’Io di Fichte non è il tuo piccolo ego, quello che si preoccupa dell’esame di domani o del pranzo di oggi. È l’Io assoluto, una forza infinita, un’attività pura che pone tutto. Nella Wissenschaftslehre, descrive un processo: l’Io si afferma, si dà esistenza, poi si limita, incontrando il Non-Io, il mondo che ci sembra fuori di noi. È come un pittore che dipinge una tela e poi si meraviglia del quadro, dimenticando che l’ha fatto lui. Pensiamo a un bosco: per Fichte, gli alberi, il vento tra i rami, il canto degli uccelli non sono “là fuori” per grazia di Dio o della natura. Sono l’Io che si oggettiva, che si dà forma. È un’idea che ti fa girare la testa: il sole sorge perché lo penso? Sì, dice Fichte, ma non nel senso banale. È l’attività del pensiero che struttura la realtà, un atto creativo che non si ferma mai.
Questa filosofia non era solo teoria. Fichte viveva in un tempo di rivoluzioni, e le sue idee erano benzina sul fuoco. Nel 1793, mentre la ghigliottina cadeva a Parigi, lui scriveva Contributi per rettificare il giudizio del pubblico sulla Rivoluzione Francese. Non era un sognatore da salotto: credeva che la libertà nascesse dall’azione, che l’uomo dovesse plasmare il mondo come plasmava il pensiero. Quando arrivò a Jena, le sue lezioni erano un evento: studenti affollavano l’aula, scribi copiavano ogni parola, e le autorità prussiane lo guardavano con sospetto. Era un ribelle, ma non con le armi: la sua arma era l’Io, un concetto che dava all’uomo il potere di essere dio di se stesso. Non c’è da stupirsi che lo accusassero di ateismo: se tutto nasce dall’Io, dove finisce Dio? Fichte rispondeva che Dio era nell’Io infinito, ma non tutti capivano, e nel 1799 fu costretto a lasciare Jena, cacciato da un’accusa che lo ferì ma non lo spezzò.
La sua vita non fu facile. Dopo Jena, vagò tra Berlino e altre città, scrivendo, insegnando, lottando contro la povertà. Nel 1808, i Discorsi alla nazione tedesca lo resero un eroe: con Napoleone che occupava la Prussia, Fichte chiamò il popolo a rialzarsi, non con spade, ma con l’educazione e la coscienza. Morì nel 1814, stroncato da un’epidemia, ma le sue idee non si spensero. Schelling prese il suo Io e lo fece danzare con la natura, Hegel lo trasformò in uno Spirito assoluto che abbracciava la storia. Anche Marx, anni dopo, sentì l’eco di quel fuoco: l’uomo che crea il mondo col pensiero diventa l’uomo che lo cambia col lavoro. Nel 2025, Fichte ci parla ancora: in un mondo di algoritmi e schermi, dove tutto sembra deciso da altri, lui ci ricorda che siamo noi a dare senso alla realtà.
Ma non tutti lo amarono. Kant lo criticò, dicendo che aveva spinto troppo oltre la sua filosofia. Gli studenti lo adoravano o lo temevano: le sue lezioni erano tempeste, non passeggiate. Alcuni lo trovarono oscuro: la Wissenschaftslehre è un labirinto, con frasi che si avvolgono su se stesse come serpenti. Eppure, quel labirinto ha una luce: ti costringe a pensare, a chiederti chi sei davvero. Per uno studente di oggi, Fichte è un pugno nello stomaco: in un’epoca di risposte facili, lui ti spinge a creare le tue. Immagina di guardare un tramonto: non è solo bello, è tuo, perché lo stai pensando. È un’idea folle, ma viva, un seme che l’Ottocento ha piantato e che cresce ancora.