Nel 1831, Michael Faraday armeggiava in un laboratorio di Londra, con fili di rame che gli scivolavano tra le dita e una batteria che ronzava piano sul tavolo. Non era un uomo da salotti: basso, con capelli grigi e mani screpolate, sembrava più un artigiano che un genio. Ma quel giorno, facendo girare una bobina vicino a un magnete, vide un ago muoversi: l’elettricità nasceva dal movimento. Nato nel 1791 in una famiglia povera, Faraday era solo uno dei tanti che, nell’Ottocento, trasformarono la fisica da speculazione a scienza viva. Da lui a Maxwell, con le sue equazioni che danzavano sulla carta, il secolo fu un’esplosione di idee: magnetismo, luce, calore, energia – concetti che non solo spiegavano il mondo, ma lo cambiarono. La fisica dell’Ottocento non era un gioco di numeri: era una rivoluzione, un filo che collegava lampadine ai sogni di un’umanità nuova.
L’Europa del XIX secolo pulsava di energia. La Rivoluzione Industriale faceva ruggire macchine a vapore, treni attraversavano campagne un tempo silenziose, e le città si illuminavano di gas e speranze. Newton aveva dato le basi – gravità, moto – ma ora la scienza correva oltre: chimici mescolavano elementi, biologi scrutavano cellule, e i fisici si tuffavano in un mondo invisibile. Faraday arrivò in questo fermento con occhi curiosi. Figlio di un fabbro, aveva lasciato la scuola a tredici anni, lavorando come rilegatore tra pile di libri. Uno lo colpì: un testo di chimica, che lesse con mani tremanti. A Londra, bussò alla porta di Humphry Davy, un chimico famoso, con un quaderno pieno di appunti: “Fammi lavorare,” implorò. Davy lo prese, e Faraday trovò casa alla Royal Institution, un nido di provette e idee.
La sua scoperta dell’induzione elettromagnetica fu un lampo. “Il movimento crea corrente,” scriveva, con una penna che inciampava per l’eccitazione. Immagina una dinamo: un magnete gira, un filo si carica, una lampadina si accende. Era il 1831, e il mondo non lo sapeva ancora, ma l’elettricità – che presto avrebbe illuminato strade e case – nasceva lì. Faraday non si fermava: studiava i gas, i liquidi, il modo in cui la luce si piegava. “Tutto è connesso,” pensava, con un sorriso timido. Non usava matematica complicata – “Non sono un uomo di formule,” diceva – ma i suoi esperimenti parlavano: campi magnetici, elettrolisi, idee che altri avrebbero trasformato in numeri. Morì nel 1867, a 75 anni, in una casa semplice, lasciando un’eredità che ronzava nei cavi.
Poi arrivò James Clerk Maxwell, un altro titano. Nel 1864, a Londra, Maxwell sedeva tra libri e fogli sparsi, con una barba rossa e occhi che scintillavano di genio. Nato nel 1831 a Edimburgo, in una Scozia di colline e castelli, era cresciuto tra giocattoli meccanici e un padre che lo spingeva a chiedersi “come”. A Cambridge, divorava equazioni, ma non era un teorico freddo: amava la poesia, rideva forte, vedeva il mondo come un puzzle. Le sue Equazioni di Maxwell – quattro formule eleganti – univano elettricità e magnetismo in una danza: “La luce è un’onda elettromagnetica,” scriveva, con una penna che sembrava volare. Pensiamo al sole: non solo scalda, ma vibra, portando energia attraverso lo spazio. Maxwell morì giovane, nel 1879, a 48 anni, di cancro, ma le sue onde vivono ancora – radio, TV, Wi-Fi, tutto nasce lì.
L’Ottocento fu un coro di voci. Hans Christian Ørsted, in Danimarca, scoprì nel 1820 che una corrente muoveva un ago magnetico: “Elettricità e magnetismo sono parenti,” disse, con occhi spalancati. William Thomson, poi Lord Kelvin, a Glasgow, misurava il calore: “L’energia non si crea né si distrugge,” scriveva nel 1850, dando vita alla termodinamica. Immagina una locomotiva: il carbone brucia, il vapore spinge, l’energia si trasforma. Rudolf Clausius, in Germania, aggiunse: “Ma si disperde,” con il concetto di entropia – il mondo tende al disordine, un’idea che pesava come un’ombra. Ogni scoperta era un mattone: la fisica non era più filosofia, ma un edificio che cresceva, con fondamenta di esperimenti e tetti di equazioni.
Questo secolo non era solo laboratori. Guardava un mondo che cambiava: l’elettricità di Faraday accendeva le città, il calore di Kelvin muoveva le industrie, le onde di Maxwell avrebbero portato voci attraverso i continenti. Ma scuoteva anche le anime: se l’energia era eterna, dov’era Dio? La Chiesa inglese tremava, i preti predicavano contro una scienza che non aveva bisogno di miracoli. Darwin, con le sue specie che mutavano, era un cugino: la natura si spiegava da sola, senza un Creatore a soffiare vita. Eppure, molti fisici – Faraday, Maxwell – credevano ancora: “Vedo l’ordine divino,” dicevano, con voci che cercavano pace.
Nel 2025, la fisica dell’Ottocento ci guarda: in un mondo di pannelli solari e smartphone, Faraday e Maxwell sono nei nostri fili e nelle nostre onde. Pensiamo a una turbina eolica: è l’induzione che ronza, un’eco di quel laboratorio polveroso. Ma non era senza limiti. Alcuni li trovarono freddi: “Solo numeri?” Altri si persero: l’entropia spaventava, un universo che si spegneva lento. Per uno studente di oggi, è una storia viva: ti mostra come un filo e un magnete hanno acceso il futuro. Immagina una lampadina: non è solo luce, è un secolo che brilla ancora.