Nel 1945, Robin George Collingwood si fermava su una collina ventosa vicino a Oxford, con il fruscio dell’erba che gli sfiorava le orecchie e una luce fredda che gli illuminava il viso pallido. Non era un uomo da aule polverose: magro, con mani nervose e una voce che tagliava l’aria, sembrava un archeologo più che un filosofo. Nato nel 1889 a Cartmel, in un’Inghilterra di laghi e rovine, Collingwood era cresciuto tra scavi e un amore per il passato che gli bruciava dentro. Quel giorno, scrivendo L’idea di storia, stava ridefinendo la storia della filosofia come disciplina: non una lista di idee morte, ma un dialogo vivo con chi ci aveva preceduto. Il Novecento, con Collingwood, Gadamer e altri, trovava un metodo: il passato non era un museo, ma una voce che parlava al presente.
Il mondo del dopoguerra era un puzzle di macerie e speranze. La Seconda Guerra Mondiale aveva spezzato certezze, la scienza – Turing, Einstein – correva, il marxismo di Gramsci si evolveva. Althusser scavava l’ideologia, Dewey educava; ma Collingwood guardava indietro per andare avanti: “Cosa ci insegna il tempo?” si chiedeva, con una voce che odorava di terra e carta. Studiò a Oxford, scavò siti romani – “Il passato mi parla,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma la malattia lo colpì presto: “Penso finché posso,” pensava, con una penna che pesava ogni sillaba. Tra rovine e libri, trovò la sua strada: “La storia è pensiero.”
La storia della filosofia era un’arte. “Ricomprendo il passato,” scriveva, con mani che tremavano di passione. Immagina Platone che discute: non è solo parole, ma domande che riviviamo – per Collingwood, lo storico non copiava, ripensava. Pensiamo a Kant: non è un testo morto, ma un problema che ci sfida – in L’idea, scavava: “La storia è azione,” pensava, con un sorriso stanco. Croce vedeva spirito, Collingwood vita: “Capire è fare,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco quieto – la filosofia non era un archivio, ma un atto creativo. Morì nel 1943, a 53 anni, con un ultimo respiro che odorava di campagna: “Ho scavato,” pensava, con un corpo fragile.
Poi arrivò Hans-Georg Gadamer, un altro maestro. Nel 1960, a Heidelberg, scribacchiava Verità e metodo, con il profumo dei libri antichi che gli riempiva i polmoni e una luce morbida che cadeva su fogli ordinati. Nato nel 1900 a Marburgo, in una Germania di torri e guerre, Gadamer era cresciuto tra poesie e un Novecento tormentato. “Il passato ci forma,” pensava, con una penna che pesava ogni parola. Immagina Aristotele: non è solo un autore, ma un orizzonte che si fonde col nostro – per lui, la storia della filosofia era dialogo, non reliquia. Pensiamo a un testo: non lo domini, ti incontra – “Siamo tradizione,” pensava, con un ghigno saggio. Morì nel 2002, a 102 anni, con un ultimo respiro che odorava di biblioteca: “Ho ascoltato,” pensava, lasciando un’eredità.
La storia della filosofia reagiva al Novecento. Il positivismo vedeva fatti; loro vedevano senso: “Il passato vive,” pensava Collingwood, con mani che sfogliavano testi. Hegel li ispirava, ma lo superavano: “Non solo sistema, ma domande,” pensava Gadamer, con una voce che pesava il reale – la disciplina non era cronaca, ma comprensione. Immagina un filosofo antico: non è solo un nome, ma un’eco – cercavano il senso nel tempo. Non erano nostalgici: “Pensiamo ora,” pensava Gadamer – ma l’“ora” era radicato. Pensiamo a Heidegger: l’Essere li guidava – filosofia e storia si abbracciavano.
Vivevano tra libri e rovine. Collingwood scavava con le mani: “Tocco il tempo,” diceva, con colleghi che pendevano dalle sue parole. Gadamer insegnava con calma: “Parlate col passato,” pensava, con studenti che bevevano i suoi silenzi. Collingwood, malato, restava solo – “La storia mi tiene,” pensava, con un sospiro. Gadamer, padre di famiglia, si apriva: “La vita mi guida,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigavano con i positivisti: “Troppo aridi,” borbottavano, con un sopracciglio alzato. Lasciavano una sfida: “Rileggete,” dicevano, con una voce che pesava il futuro.
Nel 2025, li sentiamo ancora. In un mondo di dati e frammenti, la loro disciplina vive: testi, dialoghi, un ritorno al pensare – il Novecento respira nei nostri libri. Ma non erano perfetti: “Troppo lenti?” dicevano i critici; “E il nuovo?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, sono un ponte: il passato non è lontano, ma qui. Immagina un’idea: non è solo vecchia, è un Novecento che ci parla ancora.