La Seconda Guerra Mondiale scoppiò il 1° settembre 1939, quando i carri armati tedeschi varcarono il confine polacco, ma le sue radici affondavano molto più indietro, in un terreno fertile di rancori, crisi e ambizioni sfrenate. La Prima Guerra Mondiale si era chiusa nel 1918, ma non aveva portato pace, solo una tregua carica di tensione. Il Trattato di Versailles, firmato nel 1919, era stato il primo colpo. Per la Germania, significò una punizione che bruciava come sale su una ferita aperta. Perse l’Alsazia e la Lorena, cedute alla Francia dopo quasi mezzo secolo di dominio tedesco; vide la Prussia Orientale separata dal resto del Paese da un corridoio polacco; dovette rinunciare alle sue colonie in Africa e nel Pacifico, un duro colpo al suo orgoglio imperiale. E poi c’era il debito: una montagna di riparazioni da pagare agli Alleati, cifre che sembravano impossibili da saldare. I tedeschi si sentirono umiliati, traditi, convinti che la colpa della guerra non fosse solo loro. Nei caffè di Berlino e nei villaggi della Baviera, la rabbia cresceva, un fuoco che aspettava solo qualcuno per attizzarlo.
Quel qualcuno arrivò con Adolf Hitler. La crisi economica del 1929, partita da Wall Street e arrivata in Europa come un’onda nera, colpì la Germania più duro di molti altri. Le fabbriche chiudevano, le code per il pane si allungavano, e nel 1932 c’erano sei milioni di disoccupati, un esercito di disperati che non sapevano come tirare avanti. Hitler, che prese il potere nel 1933, seppe parlare a quella disperazione. Prometteva lavoro, forza, una Germania che si sarebbe rialzata. Nei suoi discorsi, gridava che il Trattato di Versailles era un’ingiustizia da cancellare, che i tedeschi avevano diritto a più spazio – il Lebensraum, lo chiamava – da strappare a est, contro Polonia e Russia. Non era solo propaganda: era un piano, un sogno di conquista che trovava eco in un popolo stanco di sentirsi debole. Sotto di lui, la Germania iniziò a riarmarsi, a costruire carri armati e aerei, a marciare di nuovo con la testa alta.
Ma non era solo la Germania a covare scontento. In Italia, la situazione non era molto diversa. La “vittoria mutilata” della Prima Guerra pesava ancora. Il Patto di Londra del 1915 aveva promesso Trento, Trieste, l’Istria, la Dalmazia, ma a Versailles l’Italia si era vista negare gran parte di quel bottino. Benito Mussolini, al potere dal 1922, sfruttò quel malcontento per alimentare il suo sogno di grandezza. L’Italia, diceva, meritava un impero, un posto tra le potenze che contavano. Nel 1935, invase l’Etiopia, un Paese povero ma simbolico: usò gas e bombe per piegare un esercito che combatteva con lance, proclamando Vittorio Emanuele III “imperatore”. Le sanzioni della Società delle Nazioni lo infastidirono, ma non lo fermarono: era solo l’inizio di una fame che lo spingeva a guardare oltre, verso i Balcani e il Mediterraneo.
Anche in Asia, il Giappone seguiva un cammino simile. La crisi del ’29 aveva colpito duro un Paese che dipendeva dal commercio. Le sue città, piene di operai e contadini, si ritrovarono senza lavoro, senza risorse. La risposta fu l’espansione. Nel 1931, il Giappone invase la Manciuria, una regione cinese ricca di carbone e ferro, annettendola con una velocità che sorprese il mondo. La Società delle Nazioni protestò, ma non fece nulla di concreto. Nel 1937, l’ambizione giapponese esplose in una guerra aperta contro la Cina. Le truppe marciarono senza pietà, lasciando dietro una scia di morte: a Nanchino, in poche settimane, massacrarono 300.000 persone, un’ondata di violenza che mostrava quanto fossero disposti a spingersi. Il Giappone voleva essere una potenza alla pari di quelle europee, un impero che dominasse l’Asia, e non si sarebbe fermato davanti a niente.
Le democrazie occidentali – Francia e Regno Unito in testa – assistevano a tutto questo con una paura che le paralizzava. Dopo la Prima Guerra, nessuno voleva un altro conflitto: i ricordi delle trincee erano ancora vivi, i cimiteri pieni di croci bianche. Scelsero l’appeasement, una politica di concessioni per evitare il peggio. Nel 1936, quando Hitler mandò truppe nella Renania – una zona che Versailles aveva dichiarato smilitarizzata – non ci fu reazione: i carri armati avanzarono, e Londra e Parigi tacquero. Nel 1938, con l’Anschluss, Hitler si prese l’Austria: le strade di Vienna si riempirono di svastiche, e ancora nessuna mossa. Poi arrivarono i Sudeti, una parte della Cecoslovacchia abitata da tedeschi. Agli Accordi di Monaco, il primo ministro inglese Neville Chamberlain tornò sventolando un foglio, dicendo: “Ho portato la pace per il nostro tempo”. Ma si sbagliava. Nel marzo 1939, Hitler occupò l’intera Cecoslovacchia, mostrando che ogni promessa era solo un gioco per guadagnare tempo.
Mussolini non restava indietro. Nel 1939, invase l’Albania, un Paese piccolo ma strategico, un altro passo verso il suo impero. Germania, Italia e Giappone si avvicinarono sempre di più: nel 1936 avevano firmato il Patto Anticomintern contro l’URSS, un’alleanza che odorava di guerra; nel 1939, Germania e Italia strinsero il Patto d’Acciaio, legandosi con un filo d’acciaio che prometteva sostegno reciproco. Intanto, in Unione Sovietica, Stalin guardava con sospetto. Sapeva che Hitler lo vedeva come un nemico, ma il 23 agosto 1939 fece una mossa che spiazzò tutti: il Patto Molotov-Ribbentrop. Con quel documento, Germania e URSS si accordarono per non attaccarsi e si divisero la Polonia come un bottino da spartire. Era un segreto che trapelò presto, un calcolo freddo che dava a Hitler la libertà di colpire senza guardarsi le spalle.
Il 1° settembre 1939, la Germania invase la Polonia. Usò la Blitzkrieg, la “guerra lampo”: carri armati che sfondavano le linee, aerei che bombardavano senza sosta, un’onda d’acciaio che travolse tutto in poche settimane. Due giorni dopo, il 3 settembre, Francia e Regno Unito dichiararono guerra: la Seconda Guerra Mondiale era iniziata. Le cause erano un groviglio di fili spezzati: Versailles, che aveva seminato odio invece di pace; la crisi economica, che aveva dato voce alla disperazione; le ambizioni di Hitler, Mussolini e del Giappone, che vedevano nella guerra un modo per prendersi ciò che volevano. Le democrazie, lente e spaventate, non le fermarono in tempo. La Società delle Nazioni, nata per evitare conflitti, si rivelò un’illusione: senza esercito, senza forza, era solo un’eco vuota. Il mondo tornò nel caos, un caos più grande di quello che lo aveva preceduto, con ferite vecchie e nuove che si aprivano tutte insieme.