Era una giornata piovosa del 1780, e Jeremy Bentham sedeva nel suo studio a Londra, con il ticchettio della pioggia sui vetri e una candela che gettava ombre tremolanti sui libri. Non era un uomo appariscente: basso, con capelli bianchi che gli cadevano sugli occhi e un’aria da studioso distratto, sembrava più un contabile che un rivoluzionario. Ma dentro di lui bruciava un’idea semplice e potente: il bene è ciò che rende felici più persone possibile. Nato nel 1748 in una famiglia di avvocati benestanti, Bentham era cresciuto tra pergamene e tribunali, un bambino prodigio che leggeva latino a tre anni e si annoiava nelle aule di Oxford. Quando pubblicò Introduzione ai principi della morale e della legislazione, non fu solo un libro: fu una bussola, un’etica che misurava la vita con il metro della felicità. L’utilitarismo di Bentham non era un sogno astratto: era un calcolo, un invito a costruire un mondo più giusto con numeri e buon senso.
L’Inghilterra di Bentham era un paese di contrasti. La Rivoluzione Industriale faceva ruggire le macchine, trasformando villaggi in città di fumo e mattoni, mentre i ricchi vivevano in palazzi e i poveri morivano nei vicoli. La Rivoluzione Francese, dall’altra parte della Manica, accendeva speranze e paure, e la filosofia cercava risposte: Kant parlava di doveri, Hegel di Spirito. Bentham arrivò in questo caos con un passo pratico. Da ragazzo, a Westminster School e poi a Oxford, aveva studiato leggi e morale, ma le trovava vuote: “Parole, solo parole,” borbottava, scribacchiando appunti su fogli sparsi. Odiava i tribunali, con i loro giudici in parrucca e le leggi che proteggevano i potenti. “Non è giusto,” pensava, e si mise al lavoro: non voleva speculare sul cielo, ma migliorare la terra.
L’utilitarismo era la sua luce. “La natura ha posto l’uomo sotto il governo di due sovrani: piacere e dolore,” scriveva, con una penna che sembrava incidere il legno. Per Bentham, era semplice: un’azione è buona se aumenta la felicità, cattiva se porta sofferenza. Immagina un mugnaio di Manchester: lavora dieci ore, guadagna poco, ma una legge taglia le ore e alza il salario. Più felicità per lui, meno dolore: questo è il bene. Bentham lo chiamava “il principio della massima felicità”: non per uno, ma per tutti. Pensiamo a un mercato di Londra: un commerciante vende pane, un altro ruba; il primo dà gioia ai clienti, il secondo paura ai passanti. La morale non viene da Dio o da libri polverosi: si misura con un “calcolo felicifico,” una bilancia che somma piaceri e sottrae dolori – intensità, durata, certezza, vicinanza. Era un’etica da ingegnere, non da poeta.
Bentham non si fermava alle idee. Guardava l’Inghilterra – prigioni fetide, bambini mendicanti, leggi che punivano i poveri e premiavano i ricchi – e vedeva un disastro. Proponeva riforme: scuole per tutti, non solo per i nobili; carceri che educassero, non che spezzassero. Il suo “Panopticon” era un sogno strano: una prigione circolare, con una torre al centro da cui un guardiano vedeva tutto. “Se ti senti osservato, ti comporti bene,” diceva, con un sorriso furbo. Non era solo per i detenuti: voleva un governo trasparente, dove i potenti rispondessero al popolo. A Londra, scriveva lettere ai politici, con mani tremanti di eccitazione: “Leggete, cambiate!” Ma molti lo ignoravano: “Troppo radicale,” borbottavano, sorseggiando tè nei loro club.
La sua vita era un misto di genio e stranezza. Viveva a Westminster, in una casa piena di libri e carte, con un gatto chiamato “Reverendo John” che gironzolava tra le sue gambe. Non si sposò, non ebbe figli: “La felicità degli altri è la mia,” diceva, con una voce che si incrinava per l’età. Amava passeggiare nei parchi, con un bastone e un cappello floscio, parlando da solo mentre i passanti lo guardavano storto. Era un eccentrico: suonava il violino, inventava parole – “codificazione,” “internazionale” – e lasciava il suo corpo all’università per essere dissezionato, una mummia che ancora oggi siede in una teca a Londra. Ma era serio: passava ore a scrivere, con occhiali che gli scivolavano, sognando un mondo dove la legge servisse il popolo, non i re.
L’utilitarismo conquistò molti. John Stuart Mill, suo discepolo, lo portò avanti; i riformatori inglesi lo usarono per abolire leggi crudeli, come la pena di morte per piccoli furti. In America, influenzò i pragmatisti; in economia, si vede nei calcoli di costi e benefici. Nel 2025, Bentham ci parla: in un mondo di politiche e dati, il suo “calcolo” vive nelle scelte pubbliche – vaccini, welfare, clima. Pensiamo a una città che costruisce un parco: più gioia per i bambini, meno stress per i genitori. È il suo sogno, con i numeri al posto delle preghiere.
Bentham morì nel 1832, a 84 anni, con un ultimo respiro che sembrava dire: “Continuate.” Ma non era perfetto. Alcuni lo trovarono freddo: “La felicità si calcola davvero?” Altri, come i romantici, lo odiavano: “Dov’è la poesia?” Il Panopticon spaventava: “Una prigione eterna?” Per uno studente di oggi, Bentham è un amico pratico: ti dà una regola semplice, ma ti chiede di contare ogni sorriso. Immagina un ospedale: non è solo mattoni, è quanta vita salva. È un’etica terra terra, ma con un cuore che batte.