Nel 2000, Zygmunt Bauman si fermava davanti a una finestra piovosa di Leeds, con il ticchettio delle gocce che gli batteva nelle orecchie e una luce grigia che cadeva su un tavolo pieno di fogli spiegazzati. Non era un uomo da certezze: curvo, con occhi profondi e una voce che scivolava lenta, sembrava un poeta più che un sociologo. Nato nel 1925 a Poznań, in una Polonia di frontiere e dolori, Bauman era cresciuto tra esili e un’Europa spezzata. Quel giorno, scrivendo La società liquida, stava dando voce al cittadino moderno: non più radici fisse, ma un fluire inquieto. Il Novecento, con Bauman, Appiah e altri, trovava uno specchio: essere cittadini oggi era un navigare, un equilibrio tra libertà e fragilità.
Il XXI secolo si apriva in un mondo senza confini chiari. La globalizzazione intrecciava vite, internet dissolveva distanze, le crisi – guerre, migrazioni – scuotevano tutto. Nussbaum pensava la dignità, Habermas il dialogo; ma Bauman vedeva l’instabilità: “Chi siamo ora?” si chiedeva, con una voce che odorava di tè e carta. Studiò a Varsavia, fuggì dal comunismo – “La storia mi ha spinto,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma la modernità lo colpì: “Tutto scorre,” pensava, con una penna che pesava ogni sillaba. Tra esilio e riflessioni, trovò la sua strada: “Il cittadino è liquido.”
La sua filosofia era un’onda. “Viviamo nell’incerto,” scriveva, con mani che tremavano di passione. Immagina una città: non è solo strade, ma un cambiare continuo – per Bauman, la cittadinanza era adattarsi, non ancorarsi. Pensiamo a un lavoro: non è più per sempre, ma un passaggio – in Liquidità, scavava: “La libertà ci sfugge,” pensava, con un sorriso stanco. Arendt vedeva azione, Bauman flussi: “Siamo soli insieme,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco cupo – essere cittadini non era più mura, ma ponti. Morì nel 2017, a 91 anni, con un ultimo respiro che odorava di pioggia: “Ho descritto,” pensava, con un corpo fragile.
Poi arrivò Kwame Anthony Appiah, un altro guida. Nel 2006, a Princeton, scribacchiava Cosmopolitismo, con il rumore delle foglie autunnali che frusciava fuori e una luce calda che cadeva su fogli ordinati. Nato nel 1954 a Londra, tra Ghana e Inghilterra, Appiah era cresciuto tra culture e un mondo che si mescolava. “Siamo tutti connessi,” pensava, con una penna che pesava ogni parola. Immagina un mercato: non è solo merci, ma storie che si incrociano – per lui, la cittadinanza era globale, un abbraccio tra diversi. Pensiamo a un vicino: non è solo altro, ma un noi – “La differenza ci unisce,” pensava, con un ghigno saggio. Vive ancora nel 2025, a 70 anni, con una voce che invita: “Ho legato,” pensa, lasciando un’eredità.
Essere cittadini reagiva al Novecento. Il nazionalismo vedeva frontiere; loro vedevano reti: “La vita è fluida,” pensava Bauman, con mani che sfogliavano testi. Kant li ispirava, ma lo superavano: “Non solo doveri, ma incontri,” pensava Appiah, con una voce che pesava il reale – la cittadinanza non era solo Stato, ma mondo. Immagina un migrante: non è solo un numero, ma un volto – cercavano il senso sotto le crisi. Non erano ingenui: “Viviamo qui,” pensava Appiah – ma il “qui” era ovunque. Pensiamo a Sen: la capacità li guidava – filosofia e vita si abbracciavano.
Vivevano tra analisi e speranze. Bauman scriveva con malinconia: “Guardate,” diceva, con lettori che pendevano dalle sue righe. Appiah insegnava con calore: “Condividete,” pensava, con studenti che respiravano le sue parole. Bauman, sposato, tre figlie – “Loro mi tengono,” pensava, con un sospiro. Appiah, con un compagno, senza figli – “Il mondo mi guida,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigavano con i cinici: “Troppo duri,” borbottavano, con un sopracciglio alzato. Lasciavano una sfida: “Siate aperti,” dicevano, con una voce che pesava il futuro.
Nel 2025, li sentiamo ancora. In un mondo di flussi e crisi, la loro filosofia vive: reti, identità, un ritorno al legame – il Novecento respira nei nostri passi. Ma non erano perfetti: “Troppo tristi?” dicevano i critici di Bauman; “Troppo morbidi?” di Appiah. Per uno studente di oggi, sono un faro: la vita non è solo casa, ma viaggio. Immagina un pianeta: non è solo terra, è un Novecento che ci forma ancora.