Benito Mussolini non arrivò al potere in Italia per caso, come un fulmine che cade dal cielo. La sua ascesa fu lenta, costruita passo dopo passo su un Paese in crisi, un’Italia che dopo la Prima Guerra Mondiale sembrava non trovare pace. Era nato nel 1883 a Predappio, un paesino dell’Emilia, figlio di un fabbro e di una maestra. Da giovane aveva il fuoco dentro: era socialista, scriveva articoli infiammati per i giornali di partito, gridava contro i ricchi e i potenti. Ma nel 1914 qualcosa in lui cambiò. Quando scoppiò la guerra, disse che l’Italia doveva entrarci, che il conflitto avrebbe fatto bene alla nazione. Per i socialisti, che volevano la neutralità, fu un tradimento: lo cacciarono senza guardarsi indietro. Dopo la guerra, Mussolini tornò con un’idea nuova, un mix di rabbia e ambizione. Nel 1919, a Milano, fondò i Fasci di Combattimento, un gruppo piccolo, fatto di reduci amareggiati, nazionalisti e gente che non sapeva più a chi credere.
L’Italia di quegli anni era un caos. La “vittoria mutilata” di Versailles aveva lasciato un sapore amaro in bocca a tutti. Avevamo combattuto, perso migliaia di vite, e per cosa? Trento e l’Alto Adige, sì, ma non la Dalmazia, non Fiume, non quello che ci era stato promesso. I soldati tornavano dalle trincee e trovavano fabbriche chiuse, campi incolti, niente lavoro. I prezzi schizzavano in alto, il pane diventava un lusso, e la fame bussava a troppe porte. Tra il 1919 e il 1920, il “biennio rosso” mise il Paese sottosopra. Operai occupavano stabilimenti, contadini si prendevano le terre dei padroni, i socialisti e i comunisti parlavano di rivoluzione, con gli occhi puntati su quello che Lenin aveva fatto in Russia. Ma quella ribellione spaventava chi aveva qualcosa da perdere. I padroni delle fabbriche, i commercianti, l’a1ta borghesia temeva che i bolscevichi potessero fare lo stesso in Italia. Mussolini capì che poteva cavalcare quella paura. Le sue “camicie nere”, squadre di uomini violenti con bastoni, pistole e olio di ricino, cominciarono a pestare socialisti e comunisti per le strade. I grandi industriali, come quelli della FIAT, iniziarono a dargli soldi sottobanco. Anche la polizia, spesso, chiudeva un occhio: vedevano nei fascisti un argine al disordine.
Nel 1921, Mussolini fece un passo avanti. Trasformò i Fasci in un partito vero, il Partito Nazionale Fascista. Alle elezioni di quell’anno prese 35 seggi: non un trionfo, ma abbastanza per farsi sentire. Aveva una parlantina che incantava. Nei suoi discorsi, gridava che l’Italia era stata tradita a Versailles, che serviva un capo forte per rimetterla in piedi. Parlava ai reduci, ai giovani, ai contadini delusi, a chiunque avesse un motivo per essere arrabbiato. Il governo, guidato da politici incerti come Luigi Facta o Giovanni Giolitti, non riusciva a fermare le violenze. Le camicie nere scorrazzavano indisturbate, e questo dava a Mussolini un’aria di forza che piaceva. Nel 1922, decise che era il momento di giocarsi tutto. Organizzò la Marcia su Roma: il 28 ottobre, circa 25.000 fascisti, con le loro camicie nere, si mossero verso la capitale. Non erano un esercito invincibile – molti avevano solo vecchi fucili o bastoni – ma sembravano una minaccia seria, una marea che poteva travolgere tutto.
Luigi Facta, il primo ministro, voleva reagire. Chiese al re Vittorio Emanuele III di dichiarare lo stato d’emergenza e usare l’esercito per fermarli. Ma il re non se la sentì. Temeva una guerra civile, o forse non si fidava dei suoi generali. Il 29 ottobre, fece una scelta che cambiò la storia: chiamò Mussolini a Roma e gli disse di formare un governo. Mussolini arrivò in treno – non a piedi come raccontò la propaganda – e a 39 anni diventò il primo ministro più giovane d’Italia. All’inizio, non era solo al comando: condivideva il potere con liberali e cattolici, una coalizione che sembrava tenere. Ma lui voleva di più. Nel 1924, arrivò la crisi che mise tutto alla prova. Giacomo Matteotti, un deputato socialista, si alzò in Parlamento e denunciò i fascisti per brogli elettorali. Era un uomo coraggioso, ma pagò caro: il 10 giugno fu rapito e ucciso da una squadra fascista.
L’omicidio di Matteotti fece esplodere la rabbia. La gente scese in piazza, convinta che dietro ci fosse Mussolini. Per un momento, il suo potere tremò: i giornali lo attaccavano, i suoi alleati si allontanavano. Ma lui non si piegò. Il 3 gennaio 1925, davanti al Parlamento, fece un discorso che chiuse ogni dubbio. “Io assumo la responsabilità di tutto”, disse, con un tono che non ammetteva repliche. Da lì, iniziò a stringere la presa. Chiuse i partiti di opposizione, mise il bavaglio ai giornali, fece arrestare chiunque osasse criticarlo. I suoi uomini presero il controllo di ministeri, regioni, città. La Marcia su Roma non era stata una conquista militare – l’esercito avrebbe potuto fermarla – ma fu un colpo politico perfetto. Mussolini prese il potere perché l’Italia era divisa, spaventata, stanca di governi deboli. Prometteva ordine in un Paese che ne aveva disperatamente bisogno, e in tanti, troppi, gli credettero, aprendo la porta a una dittatura che avrebbe segnato un’epoca.