Wittgenstein e il Linguaggio

Nel 1921, Ludwig Wittgenstein camminava lungo un sentiero fangoso in Norvegia, con il vento gelido che gli sferzava il viso e il rumore delle onde che si infrangevano contro le rocce lontane. Non era un uomo da città: magro, con occhi penetranti e mani ruvide, sembrava un eremita più che un filosofo. Nato nel 1889 a Vienna, in una famiglia ricca e tormentata – il padre un magnate dell’acciaio, tre fratelli suicidi – Wittgenstein era cresciuto tra musica e un’inquietudine che lo divorava. Quel giorno, completando il Tractatus Logico-Philosophicus, stava cambiando la filosofia: il linguaggio non era uno specchio confuso, ma una struttura logica, un limite al pensabile. Con Wittgenstein, il Novecento trovava una voce: dalle certezze del Tractatus al flusso delle Ricerche, il linguaggio diventava vita.

L’Europa dei primi decenni del secolo era un caos ordinato. La Grande Guerra aveva lasciato cicatrici, la scienza – Einstein, Bohr – riscriveva il mondo, il Circolo di Vienna misurava il sapere. Freud scavava l’inconscio, Heidegger l’Essere; la filosofia cercava chiarezza: “Cosa possiamo dire?” si chiedevano, con voci che odoravano di caffè e carta. Wittgenstein arrivò in questo fermento con una mente affilata. Studiò ingegneria a Manchester, poi logica con Russell a Cambridge – “La precisione mi chiama,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma la guerra lo prese: soldato austro-ungarico, prigioniero in Italia. “Devo pensare,” pensava, con una voce che pesava ogni sillaba. In una capanna norvegese, trovò la sua strada: “Il linguaggio è tutto.”

Il Tractatus era un cristallo. “Il mondo è l’insieme dei fatti,” scriveva, con mani che tremavano di passione. Immagina un uomo che dice: “Piove” – per Wittgenstein, era un’immagine logica, una proposizione che rispecchia. Pensiamo a una frase: “Dio esiste” – se non si vede, non si dice: “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere,” pensava, con un sorriso stanco. Russell lo ammirava, il Circolo lo adottava: “La logica pulisce,” pensava, con una voce che pesava il reale – il linguaggio aveva confini, e oltre c’era silenzio. Nel 1921, lo finì: “Ho detto tutto,” pensava, abbandonando la filosofia per fare il maestro in un villaggio.

Ma tornò. Nel 1951, a Cambridge, scribacchiava le Ricerche filosofiche, con una stanza piena di sedie vuote e il rumore di un tè che bolliva. “Il linguaggio è un gioco,” pensava, con una penna che pesava ogni parola. Immagina un bambino che dice “mamma”: non è solo un suono, ma un uso – per Wittgenstein, il significato non era fisso, ma vivo. Pensiamo a una partita: ogni parola ha regole, ma si gioca – il Tractatus vedeva strutture, le Ricerche pratiche. Morì nel 1951, a 61 anni, con un ultimo respiro che odorava di malattia: “Ho visto la vita,” pensava, con un corpo fragile ma una mente lucida. Lasciava un’eredità: filosofia analitica, un pensiero che danzava.

Wittgenstein reagiva al Novecento. Il positivismo vedeva fatti; lui vedeva parole: “La filosofia è linguaggio,” pensava, con un ghigno. Frege lo ispirava, ma lo superava: “Non solo logica, ma uso,” pensava, con mani che sfogliavano testi – il pensiero non era astratto, ma quotidiano. Immagina una cucina: “Passami il sale” – Wittgenstein cercava il senso nel fare. Non era un relativista: “Le regole ci sono,” pensava, con una voce che pesava il mondo – ma le regole erano vive, non rigide. Pensiamo a Russell: la logica lo guidava, ma lui la piegava – filosofia e vita si abbracciavano.

Viveva tra solitudine e genio. A Cambridge, insegnava con un fuoco strano: “Guardate,” diceva, con studenti che pendevano dalle sue labbra. La sua vita era tumulto: ricco, ma donò tutto – “Il denaro soffoca,” pensava, con un sorriso. Non si sposò: “La mia mente è la mia casa,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigava con tutti: “Troppo oscuro?” dicevano i critici; “E la verità?” si lamentavano altri. Lasciava una sfida: “Parlate,” diceva, con una voce che pesava il futuro.

Nel 2025, Wittgenstein ci guarda ancora. In un mondo di chat e algoritmi, il suo linguaggio vive: comunicazione, analisi, un ritorno al dire – il Novecento respira nelle nostre parole. Ma non era perfetto: “Troppo vago?” dicevano i critici; “E la metafisica?” si chiedevano altri. Per uno studente di oggi, è un vento: la vita non è un sistema, ma un gioco. Immagina una frase: non è solo lettere, è un Novecento che ci abita ancora.

 

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