La Seconda Guerra Mondiale aveva lasciato l’Europa come un campo di rovine, un continente ferito da due conflitti devastanti in meno di trent’anni. Le città – Berlino, Varsavia, Rotterdam – erano cumuli di macerie, i campi un tempo verdi segnati da trincee e crateri. Milioni di vite erano state spezzate, famiglie divise, un’intera generazione inghiottita dal fuoco. Quando la pace arrivò nel 1945, un grido silenzioso si alzò tra le ceneri: “Mai più.” Non era solo un desiderio, ma una necessità. L’Europa, che per secoli si era dilaniata in guerre fratricide, doveva trovare un modo per guarire, per costruire ponti dove prima c’erano stati cannoni. Fu in questo clima di stanchezza e speranza che nacque l’idea di un’unione, un sogno fragile ma audace che avrebbe cambiato il destino del continente.
Il primo passo arrivò nel 1950, quando Robert Schuman, un politico francese con occhi gentili e una visione profonda, propose un piano semplice ma rivoluzionario. “Mettiamo insieme carbone e acciaio,” disse, in un discorso che echeggiò nelle stanze dei governi europei. Non era una scelta casuale: carbone e acciaio erano il cuore dell’industria bellica, le materie prime che alimentavano fucili e carri armati. Se Francia e Germania, nemiche storiche, le avessero condivise, non avrebbero più potuto combattersi. Il 18 aprile 1951, sei Paesi firmarono il Trattato di Parigi: Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Nacque la CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, un’alleanza economica con un’anima politica. L’Italia ci entrò con entusiasmo: dopo il fascismo di Mussolini, voleva scrollarsi di dosso il passato, dimostrare al mondo di essere una nazione moderna, pronta a collaborare. La CECA funzionò: le acciaierie di Essen rifornivano le fabbriche di Torino, i treni carichi di carbone attraversavano il Reno senza fermarsi ai confini. Era un primo passo, un esperimento che accendeva una luce.
Ma serviva di più. Il commercio cresceva, la pace teneva, eppure l’Europa restava un mosaico di nazioni separate, ognuna con le sue barriere. Il 25 marzo 1957, nella sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio a Roma, i sei Paesi firmarono il Trattato di Roma. Nacque la CEE, la Comunità Economica Europea, un progetto più grande: un mercato comune dove merci, persone e idee potessero fluire senza ostacoli. Niente dazi, niente frontiere per il commercio: il vino italiano arrivava nei bistrot di Parigi, i formaggi francesi riempivano i mercati di Bruxelles, le macchine tedesche ruggivano sulle strade olandesi. Konrad Adenauer, il cancelliere tedesco con il volto segnato e la voce ferma, definì quel giorno “storico,” un momento in cui l’Europa si rialzava dalle sue ceneri. L’Italia, con le sue città d’arte e le sue campagne ferite dalla guerra, vide nella CEE una chance di rinascita: non più solo un Paese di contadini, ma un protagonista del futuro.
La CEE non restò ferma. Nel 1973, si allargò: Regno Unito, Irlanda e Danimarca entrarono, dopo anni di esitazioni. Gli inglesi, orgogliosi della loro isola, temevano di perdere sovranità, ma il richiamo del mercato comune vinse. Negli anni ’80, toccò a Grecia, Spagna e Portogallo: tre nazioni uscite da dittature – il colonnello Papadopoulos, Franco, Salazar – che cercavano nell’Europa una mano per rialzarsi. Il Trattato di Maastricht, firmato nel 1992 ed entrato in vigore nel 1993, cambiò tutto: la CEE divenne l’Unione Europea, un nome che portava ambizioni più grandi. Arrivò l’euro, una moneta unica che l’Italia adottò nel 1999: addio lire, benvenuti spiccioli con il Colosseo e banconote uguali da Lisbona a Helsinki. Maastricht creò anche la cittadinanza europea: chi nasceva nell’UE poteva vivere, lavorare, studiare ovunque, un diritto che trasformava i confini in linee sulla carta. L’Accordo di Schengen, iniziato nel 1985 e cresciuto negli anni, tolse i controlli alle frontiere: da Milano a Monaco senza passaporto, un sogno impensabile per chi ricordava i checkpoint della Guerra Fredda.
L’UE si espanse ancora. Nel 2004, dieci Paesi dell’Est – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, tra gli altri – si unirono, un abbraccio che chiudeva la ferita della cortina di ferro. Era la fine visibile della Guerra Fredda, un’Europa che si ricomponeva dopo decenni di divisioni. Oggi, nel 2025, l’UE conta 27 membri: il Regno Unito se n’è andato nel 2020 con la Brexit, un divorzio deciso da un referendum nel 2016. Gli inglesi, stanchi delle regole di Bruxelles, hanno scelto la solitudine, un’uscita che ha scosso ma non spezzato l’Unione. L’UE ha portato pace: Francia e Germania, che si erano massacrate per secoli, ora siedono allo stesso tavolo. Ha portato prosperità: il PIL dell’Europa è cresciuto, le autostrade collegano Varsavia a Madrid, i treni veloci sfrecciano tra Roma e Parigi. Ma i problemi non mancano.
La crisi economica del 2008 ha colpito duro: la Grecia è quasi fallita, salvata da prestiti che hanno lasciato cicatrici. L’Italia ha ricevuto miliardi per il sud – strade, scuole, fabbriche – ma spesso li ha sprecati in progetti inutili, tra burocrazia e corruzione. I migranti, arrivati a milioni dal 2015 da Siria, Afghanistan, Eritrea, hanno diviso l’Unione: Germania e Svezia hanno aperto le porte, Ungheria e Polonia le hanno sbarrate. Nel 2020, il Green Deal ha promesso zero emissioni per il 2050: l’Italia ci prova con pannelli solari lungo l’Autostrada del Sole e treni elettrici, ma la strada è lunga. Le critiche abbondano: c’è chi vede l’UE come un colosso distante, una macchina di regole che soffoca le nazioni. A Bruxelles, il Parlamento e la Commissione si scontrano, un balletto di potere che frustra i cittadini. Eppure, dopo 70 anni, l’UE tiene insieme un continente che un tempo si distruggeva. Non è perfetta, ma è un’idea che respira: pace, forza, un futuro condiviso tra le sue luci e le sue ombre.