Nel 1961, Emmanuel Lévinas sedeva in un piccolo studio a Parigi, con il rumore lontano dei clacson che si insinuava tra le mura e una luce tenue che cadeva su un tavolo coperto di carte ingiallite. Non era un uomo da clamori: basso, con occhi profondi e una voce che tremava di dolcezza, sembrava un rabbino più che un filosofo. Nato nel 1906 a Kaunas, in Lituania, in una famiglia ebrea colta, Lévinas era cresciuto tra preghiere e un’Europa travolta dalle guerre. Quel giorno, pubblicando Totalità e infinito, stava rivoluzionando la filosofia: non più l’io al centro, ma l’Altro, un’etica che nasceva dal volto. Il Novecento, con Lévinas, trovava un richiamo: la responsabilità non era un peso, ma un’apertura, un faccia a faccia che cambiava tutto.
L’Europa del dopoguerra era un campo di ferite. La Shoah aveva lasciato silenzio e cenere, la Guerra Fredda divideva, la tecnologia – TV, bombe – correva veloce. Deleuze danzava nel divenire, Foucault smascherava il potere; ma Lévinas guardava altrove: “Chi mi chiama?” si chiedeva, con una voce che odorava di libri e incenso. Studiò a Strasburgo, incontrò Husserl e Heidegger – “La fenomenologia mi ha formato,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma la guerra lo segnò: prigioniero dei nazisti, perse la famiglia. “L’Altro mi ha salvato,” pensava, con una penna che pesava ogni sillaba. A Parigi, tra studi ebraici e filosofia, trovò la sua strada: “L’etica è prima.”
La sua filosofia era un sussurro potente. “Il volto mi parla,” scriveva, con mani che tremavano di passione. Immagina un uomo che ti guarda: non è solo occhi, ma un appello – per Lévinas, l’Altro rompeva l’ego, lo obbligava a rispondere. Pensiamo a un mendicante: non è solo bisogno, ma un comando – in Totalità, scavava: “L’infinito è nell’Altro,” pensava, con un sorriso stanco. Heidegger vedeva l’Essere, Lévinas l’umano: “Non sono solo,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco quieto – la metafisica non era astratta, ma incontro. L’etica non era regole, ma un “eccomi” senza fine.
Nel 1974, con Altrimenti che essere, osava di più. “La responsabilità mi precede,” scriveva, con una penna che pesava ogni parola. Immagina un grido nella notte: non lo scegli, ti prende – per lui, l’io nasceva dall’Altro, non da sé. Pensiamo a un bambino: non lo crei, ti chiama – “Sono ostaggio,” pensava, con un ghigno dolce. Morì nel 1995, a 89 anni, con un ultimo respiro che odorava di Parigi: “Ho risposto,” pensava, con un corpo fragile ma una mente viva. Lasciava un’eredità: un pensiero che si piegava al volto, un’etica che non finiva.
Lévinas reagiva al Novecento. L’esistenzialismo vedeva l’io; lui vedeva l’Altro: “Non sono libero senza te,” pensava, con mani che sfogliavano testi. Husserl lo ispirava, ma lo superava: “Non solo coscienza, ma relazione,” pensava, con una voce che pesava il reale – l’etica non era teoria, ma carne. Immagina un campo di prigionia: non è solo fango, ma sguardi – cercava il senso nel contatto. Non era un moralista: “Non giudico, accolgo,” pensava – ma accogliere era infinito. Pensiamo a Buber: l’io-tu lo guidava – filosofia e umanità si abbracciavano.
Viveva tra silenzi e parole. Insegnava con calma a Nanterre: “Ascoltate,” diceva, con studenti che pendevano dalle sue labbra. La sua vita era segnata: moglie, Raïssa, una figlia – “Loro sono il mio Altro,” pensava, con un sospiro. La Shoah lo perseguitava: “Ho visto il volto negato,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigava con gli ontologi: “Troppo chiusi,” borbottava, con un sopracciglio alzato. Lasciava una sfida: “Guardate l’Altro,” diceva, con una voce che pesava il futuro.
Nel 2025, Lévinas ci guarda ancora. In un mondo di egoismi e crisi, la sua etica vive: empatia, cura, un ritorno al volto – il Novecento respira nei nostri incontri. Ma non era perfetto: “Troppo astratto?” dicevano i critici; “E il pratico?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, è un faro: la vita non è solo me, ma te. Immagina uno sguardo: non è solo occhi, è un Novecento che ci chiama ancora.