La Decolonizzazione dell’Africa del 1960

Negli anni ’60, l’Africa si scrollò di dosso le catene del colonialismo, un risveglio che trasformò il continente in un mosaico di nazioni nuove e fragili. La Seconda Guerra Mondiale aveva lasciato le potenze europee – Regno Unito, Francia, Belgio – in ginocchio, incapaci di mantenere il controllo su terre lontane. I soldati africani avevano combattuto per i loro padroni coloniali, marciando sotto il sole del deserto o tra le foreste d’Europa, ma tornarono con una domanda: “Perché non possiamo essere liberi?” Quel seme, piantato nella sofferenza della guerra, germogliò con forza. Il Ghana, una colonia britannica chiamata Costa d’Oro per le sue ricchezze in oro e cacao, fu il primo a spezzare le catene. Kwame Nkrumah, un uomo con occhiali spessi e un carisma che riempiva le piazze, guidò la lotta. Tornato dall’America nel 1947, dopo aver studiato filosofia e sogni di libertà, fondò il Convention People’s Party. Con discorsi che incendiavano gli animi, diceva: “Vogliamo decidere noi.” Nel 1951, vinse le elezioni locali; gli inglesi lo misero in prigione, ma la pressione popolare lo liberò. Il 6 marzo 1957, il Ghana divenne indipendente, il primo Paese subsahariano a farlo. Nkrumah, con un sorriso largo, dichiarò: “L’Africa deve essere libera.”

Il 1960 fu un anno magico, ribattezzato “l’anno dell’Africa.” Diciassette nazioni si liberarono in dodici mesi, un’onda che travolse il continente. La Nigeria, un gigante con petrolio e palme, lasciò il Regno Unito in ottobre, alzando una bandiera verde e bianca sotto un sole che prometteva prosperità. La Somalia, divisa tra inglesi e italiani, si unì in un unico Stato, unendo coste e deserti. Il Congo Belga, una terra di diamanti e rame, si liberò il 30 giugno 1960. Patrice Lumumba, il primo premier, un uomo con occhi ardenti e parole taglienti, voleva cacciare gli europei dalle miniere. Ma il Belgio e gli Stati Uniti, affamati di risorse, lo videro come una minaccia. Nel 1961, fu rapito e assassinato, il corpo dissolto nell’acido. Il Congo sprofondò in una guerra civile: milizie si scontravano tra villaggi di fango, mentre Mobutu Sese Seko, un militare con occhiali scuri e ambizioni smisurate, prese il potere nel 1965. Governò per decenni, arricchendosi mentre il popolo moriva di fame in un Paese che avrebbe dovuto essere ricco.

La Francia perse il suo impero africano quasi d’un colpo. Nel 1960, quattordici colonie – Senegal, Mali, Costa d’Avorio, Niger, tra gli altri – divennero indipendenti. Charles de Gaulle, il generale con il naso aquilino e la voce profonda, capì che la resistenza era inutile. “Lasciamoli andare,” disse, firmando atti di libertà uno dopo l’altro. Ma in Algeria fu diverso. Non era una semplice colonia: era considerata parte della Francia, con un milione di coloni bianchi che vivevano tra palme e città bianche. Nel 1954, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) accese la scintilla: bombe esplodevano nei caffè di Algeri, fucili sparavano dalle montagne dell’Aurès. I francesi risposero con ferocia: paracadutisti rastrellavano quartieri, torturavano sospetti nelle cantine. La Battaglia di Algeri, nel 1957, fu un inferno urbano: il generale Massu ordinava retate, ma il FLN si rigenerava come un’idra. Dopo otto anni e un milione di morti, l’Algeria vinse. Nel 1962, Ahmed Ben Bella, un rivoluzionario con il volto scavato, divenne il primo presidente, accolto da folle in festa.

Il Kenya seguì un cammino più lento ma altrettanto duro. I Mau Mau, ribelli della tribù Kikuyu, iniziarono una guerriglia negli anni ’50, attaccando fattorie di coloni bianchi tra le colline verdi. Gli inglesi li chiamarono “selvaggi,” li rinchiusero in campi di concentramento dove fame e percosse erano la norma. Jomo Kenyatta, un leader con il cappello tradizionale e la voce calma, fu arrestato nel 1952, accusato di guidare i ribelli. Passò anni in carcere, ma la pressione internazionale e le proteste interne piegarono Londra. Nel 1963, il Kenya divenne indipendente, e Kenyatta uscì di prigione per guidarlo. In Rhodesia, oggi Zimbabwe, la libertà arrivò solo nel 1980, dopo una guerra lunga contro i coloni bianchi che si erano dichiarati indipendenti dagli inglesi. In Sudafrica, la lotta prese un’altra forma: l’apartheid, un sistema che dava tutto ai bianchi e niente ai neri, resistette fino al 1994. Nelson Mandela, leader dell’ANC, fu arrestato nel 1962 e passò 27 anni in una cella minuscola, ma la sua voce non si spense mai.

L’Africa libera nacque con sogni grandi, ma anche con fardelli pesanti. I confini, tracciati a tavolino dagli europei, erano assurdi: tribù nemiche si ritrovavano nello stesso Paese, come Yoruba e Igbo in Nigeria o Hutu e Tutsi in Ruanda. Mancavano scuole, medici, strade; le élite coloniali avevano preso tutto senza lasciare nulla. I nuovi leader, spesso, si trasformarono in tiranni. In Ghana, Nkrumah, l’eroe dell’indipendenza, divenne un dittatore, costruendo statue di sé stesso mentre l’economia crollava; fu deposto nel 1966. In Algeria, Ben Bella fu rovesciato nel 1965, e il Paese scivolò in crisi. Le potenze straniere continuavano a depredare: oro dal Ghana, petrolio dalla Nigeria, diamanti dal Congo. Eppure, negli anni ’60, l’Africa trovò una voce. Nkrumah disse: “Uniti siamo forti,” un appello che echeggiava a Addis Abeba, dove nacque l’Organizzazione dell’Unità Africana nel 1963. Era un inizio, un continente che si rialzava tra speranze e ferite profonde.

 

Il Mondo Contemporaneo

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