La Decolonizzazione in Asia: Post-1945

Quando la Seconda Guerra Mondiale si chiuse nel 1945, l’Asia si trovò a un bivio. Per secoli, le potenze europee – Regno Unito, Francia, Olanda – avevano dominato il continente, spremendo risorse e imponendo leggi con il peso delle armi. Ma la guerra aveva cambiato tutto: gli imperi coloniali erano esausti, le casse vuote, gli eserciti decimati. Non avevano più la forza di tenere in catene milioni di persone dall’altra parte del mondo. La decolonizzazione, un’onda che avrebbe ridisegnato la mappa asiatica, iniziò quasi immediatamente, spinta da promesse non mantenute e da popoli stanchi di inchinarsi. Nessun caso fu più emblematico dell’India, il “gioiello della corona” britannica, una terra di cotone, tè e spezie che per oltre due secoli aveva arricchito Londra.

Gli inglesi avevano governato l’India con mano ferma, ma durante la guerra chiesero aiuto ai sudditi coloniali. “Combattete per noi,” dissero, “e vi daremo la libertà.” Milioni di indiani risposero: indossarono uniformi, marciarono su fronti lontani, da Burma al Nord Africa, offrendo sangue e sudore per una causa non loro. Ma quando la pace arrivò, Londra esitò. Le promesse si dissolsero come fumo, lasciando dietro rabbia e delusione. A guidare la lotta emerse Mahatma Gandhi, un uomo magro con occhiali tondi e un bastone di legno, che trasformò la non violenza in un’arma potente. Nel 1930, con la Marcia del Sale, camminò per 400 chilometri fino al mare, sfidando le tasse britanniche sul sale. Migliaia lo seguirono, un corteo silenzioso che spezzava le catene con ogni passo. Gli inglesi lo arrestarono più volte, ma Gandhi non si piegava. “La libertà si conquista con la pace,” ripeteva, un mantra che scaldava i cuori. Il Congresso Nazionale Indiano, guidato da lui e da Jawaharlal Nehru, organizzava scioperi, boicottaggi, proteste. Nel 1942, la campagna “Quit India” fu un grido: “Andatevene.” Gli inglesi risposero con il pugno duro, incarcerando 60.000 persone, ma il movimento era ormai un fiume in piena.

Nel 1947, Londra cedette. Il 15 agosto, l’India divenne indipendente. Nehru, il primo premier, parlò alla nazione mentre le campane suonavano a mezzanotte: “Mentre il mondo dorme, l’India si sveglia alla vita.” Fu un momento di trionfo, ma anche di tragedia. La libertà arrivò con una ferita profonda: la partizione. Indù e musulmani, divisi da tensioni antiche e alimentate dal dominio britannico, non potevano convivere sotto un’unica bandiera. Gli inglesi tracciarono una linea: India per gli indù, Pakistan per i musulmani. Quel confine, deciso in fretta su una mappa, scatenò un esodo mai visto. Milioni lasciarono le loro case: indù verso est, musulmani verso ovest. Treni carichi di profughi diventavano bersagli, villaggi bruciavano sotto il cielo notturno, lame e urla tagliavano il silenzio. Circa un milione di persone morirono in pochi mesi, un prezzo di sangue per la libertà. Gandhi, con il suo dhoti bianco e la voce calma, camminava tra i villaggi più violenti, pregando per la pace. Ma il 30 gennaio 1948, un fanatico indù, furioso per la sua tolleranza verso i musulmani, gli sparò al petto. Morì a 78 anni, un martire di un’India che ancora sanguinava.

L’India non fu sola. In Indonesia, gli olandesi tornarono nel 1945, dopo che il Giappone li aveva cacciati durante la guerra. Ma Sukarno, un leader carismatico con il fez nero, aveva altre idee. Il 18 agosto 1945, dichiarò l’indipendenza, alzando una bandiera rossa e bianca davanti a una folla esultante. Gli olandesi combatterono per quattro anni, decisi a riprendersi la loro colonia di spezie e petrolio. A Surabaya, nel novembre 1945, la resistenza indonesiana affrontò una battaglia feroce: migliaia morirono sotto le bombe, ma non cedettero. Nel 1949, la pressione degli Stati Uniti, che vedevano nell’Olanda un alleato indebolito, costrinse gli europei a mollare. L’Indonesia era libera. In Indocina, i francesi cercarono di tenere Vietnam, Laos e Cambogia. Ho Chi Minh, un comunista con occhi penetranti e modi gentili, dichiarò l’indipendenza vietnamita a Hanoi nel 1945, citando persino la Dichiarazione d’Indipendenza americana. I francesi tornarono, scatenando una guerra. Nel 1954, a Dien Bien Phu, i vietnamiti li umiliarono: nascosti nella giungla, con cannoni trascinati a mano su colline ripide, distrussero l’esercito coloniale. La Francia se ne andò, sconfitta.

Le Filippine seguirono un cammino più morbido. Occupate dal Giappone durante la guerra, furono liberate dagli americani nel 1944. Il generale Douglas MacArthur, con la sua pipa e la frase “Sono tornato,” guidò il ritorno. Il 4 luglio 1946, gli USA concessero l’indipendenza senza spargimenti di sangue, un raro caso di decolonizzazione pacifica. In Malesia, gli inglesi lasciarono nel 1957, ma solo dopo aver combattuto una guerriglia comunista nelle foreste. La decolonizzazione asiatica fu un terremoto che fece nascere nazioni nuove, spesso guidate da leader carismatici. Nel 1955, a Bandung, Indonesia, si riunirono: Nehru, Sukarno, Nasser e altri dissero al mondo: “Non stiamo con USA né con URSS.” Era il sogno del non allineamento. Ma i problemi erano enormi: guerre fratricide, povertà, confini mal tracciati. India e Pakistan si contendono il Kashmir ancora oggi, un’eredità amara della partizione. Il Vietnam scivolò in un altro conflitto, questa volta con gli americani. L’Asia si liberò, ma il prezzo fu un mosaico di cicatrici che il tempo non ha ancora guarito.

 

Il Mondo Contemporaneo

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