La Corea, una penisola dimenticata ai margini dell’Asia, divenne nel 1950 il primo campo di battaglia della Guerra Fredda, un luogo dove le superpotenze misurarono la loro forza senza mai incrociare direttamente le armi. Prima della Seconda Guerra Mondiale, era stata una colonia giapponese, schiacciata sotto il tallone di Tokyo per decenni. Quando il Giappone si arrese nel 1945, gli Alleati si spartirono il bottino: l’Unione Sovietica prese il Nord, gli Stati Uniti il Sud, tracciando una linea immaginaria al 38° parallelo. Doveva essere una divisione temporanea, un compromesso in attesa di un governo unificato. Ma la Guerra Fredda trasformò quella linea in un confine di ferro. Al Nord, Kim Il-sung, un guerrigliero temprato dalla lotta contro i giapponesi, costruì un regime comunista con il sostegno di Stalin. Al Sud, Syngman Rhee, un nazionalista autoritario appoggiato da Washington, guidava un governo fragile, minato da corruzione e proteste. Due Coree, due mondi, pronte a scontrarsi.
Il 25 giugno 1950, il silenzio si spezzò. I carri armati nordcoreani, T-34 forniti dai sovietici, ruppero il confine con un rombo che fece tremare la terra. Non fu un attacco improvviso: le tensioni ribollivano da anni, con schermaglie e incursioni lungo il parallelo. Kim Il-sung sognava di unire la penisola sotto la bandiera rossa, e aveva convinto Stalin e Mao Zedong, il fresco leader della Cina comunista, a sostenerlo. L’esercito del Nord avanzò come un’onda: in tre giorni, Seul, la capitale del Sud, cadde. Le truppe sudcoreane, mal equipaggiate e impreparate, si ritirarono in disordine, schiacciate dalla potenza dei carri e dall’artiglieria. Entro poche settimane, il Sud era ridotto a una sacca attorno a Pusan, un porto all’estremità meridionale della penisola, con il mare alle spalle e il nemico davanti. Sembrava la fine.
Gli Stati Uniti non restarono a guardare. Harry Truman, il presidente con gli occhiali tondi e la voce decisa, vide nell’invasione un test della Dottrina Truman: se il comunismo avesse vinto in Corea, avrebbe potuto dilagare in Asia. Portò la questione alle Nazioni Unite, che approvarono un intervento militare – un voto rapido, favorito dall’assenza dell’URSS, che boicottava il Consiglio di Sicurezza per protestare contro l’esclusione della Cina comunista. Nacque una coalizione di 16 nazioni, guidata dagli americani, con il generale Douglas MacArthur al comando. MacArthur, un veterano con il cappello a visiera e un ego grande quanto il Pacifico, orchestrò una mossa audace: il 15 settembre 1950, le truppe ONU sbarcarono a Inchon, una città portuale dietro le linee nordcoreane. Fu un trionfo: le maree pericolose non fermarono le navi, e i marines ripresero Seul in due settimane. L’esercito di Kim fu spinto indietro, oltre il 38° parallelo, e per un momento sembrò che la Corea potesse essere riunita sotto il Sud.
Ma la vittoria durò poco. Mao Zedong, che guardava con ansia dal confine cinese, non poteva tollerare un esercito americano sul fiume Yalu, la frontiera naturale tra Corea e Cina. In ottobre, centinaia di migliaia di “volontari” cinesi – in realtà truppe regolari – attraversarono il confine, un’onda umana che travolse le forze ONU. L’inverno del 1950 fu un incubo: temperature sotto i meno 30 gelavano i fucili, i soldati marciavano con i piedi sanguinanti, e i cinesi attaccavano di notte, con urla che echeggiavano tra le montagne. MacArthur, che aveva sottovalutato il nemico, si ritrovò in ritirata. Seul cadde di nuovo nel gennaio 1951, un’umiliazione che costò caro. Truman lo richiamò in primavera, sostituendolo con Matthew Ridgway, un generale più cauto. Ridgway stabilizzò il fronte attorno al 38° parallelo, trasformando la guerra in una lotta di trincee, un tira e molla di colline e villaggi che logorava entrambi gli schieramenti.
Il mondo tratteneva il fiato. Era il primo scontro aperto della Guerra Fredda, un conflitto per procura dove URSS e USA si affrontavano attraverso altri. I sovietici mandavano Mig-15 e consiglieri al Nord, gli americani guidavano la coalizione ONU con carri armati e bombardieri. Ma sul campo, il sangue era reale. I villaggi coreani bruciavano sotto le bombe, i civili fuggivano con fagotti sulle spalle, bambini scalzi vagavano tra le rovine. La propaganda infuriava: a Washington, si parlava di fermare il “dominio rosso”; a Mosca, di difendere la rivoluzione dall’imperialismo yankee. La guerra si trascinò per tre anni, un massacro senza vincitori. Nel 1953, i negoziati a Panmunjom portarono a un armistizio, firmato il 27 luglio. La Corea restò divisa, con una zona smilitarizzata – la DMZ – a separare Nord e Sud, un confine che esiste ancora oggi.
Il costo fu devastante: milioni di morti, tra soldati e civili, e una penisola ridotta a un cimitero di macerie. Per gli Stati Uniti, fu una lezione amara: il comunismo non si sarebbe fermato senza un prezzo, ma la vittoria totale era un miraggio. Per l’URSS e la Cina, una prova di forza che mostrava la loro capacità di resistere. I soldati americani tornavano a casa con gli occhi vuoti, raccontando di colline senza nome prese e perse mille volte. I coreani, da entrambi i lati, piangevano famiglie spezzate, terre bruciate, un futuro rubato. La Guerra di Corea fu il primo squillo di tromba della Guerra Fredda, un conflitto che dimostrò quanto fosse fragile la pace post-1945. Non cambiò i confini, ma cambiò il mondo: Est e Ovest si guardarono con occhi ancora più duri, sapendo che ogni crisi poteva essere l’ultima.