Il Vietnam era un luogo lontano, una terra di giungle intricate, fiumi fangosi e villaggi di paglia che sembravano sospesi in un altro tempo. Ma negli anni ’60 e ’70, questo angolo remoto del Sud-est asiatico divenne il cuore pulsante della Guerra Fredda, un campo dove gli Stati Uniti versarono sangue e dollari per fermare il comunismo. La storia iniziò negli anni ’50, quando la Francia, potenza coloniale, perse il controllo dell’Indocina dopo una guerra lunga e brutale contro i guerriglieri di Ho Chi Minh. Gli Accordi di Ginevra del 1954 divisero il Vietnam in due: il Nord, comunista, sotto Ho, un leader carismatico con il volto scavato e la barba rada; il Sud, un fragile stato filo-occidentale guidato da Ngo Dinh Diem, poi da una serie di governi instabili appoggiati dagli USA. Era una linea tracciata sulla carta, ma destinata a diventare un campo di battaglia.
All’inizio, gli americani si limitarono a un ruolo di supporto: consiglieri militari, armi, dollari per tenere in piedi il Sud. Ma nel 1964, l’incidente del Golfo del Tonchino cambiò tutto. Due navi USA furono attaccate – o così si disse, tra versioni confuse e dubbi mai chiariti – e il presidente Lyndon Johnson colse l’occasione. Il Congresso approvò la Risoluzione del Tonchino, dando carta bianca per un intervento armato. Nel 1965, le truppe americane arrivarono a migliaia, accompagnate dall’Operazione Rolling Thunder: un bombardamento massiccio del Nord, con B-52 che sganciavano tonnellate di bombe su strade, ponti, villaggi. Il cielo ruggiva giorno e notte, un tuono continuo che trasformava la terra in un deserto di crateri. Ma i nordvietnamiti, sostenuti da URSS e Cina con armi e rifornimenti, non si piegarono. Combattevano con fucili, tunnel sotterranei e una volontà ferrea, usando la giungla come uno scudo.
Per i soldati americani, il Vietnam era un incubo senza fine. Ragazzi di vent’anni, strappati alle fattorie del Midwest o ai sobborghi di New York, si ritrovavano a marciare nel fango, sotto un sole che bruciava o piogge che inzuppavano tutto. I vietcong, i guerriglieri del Sud alleati al Nord, colpivano e sparivano: un’ombra tra gli alberi, una mina nascosta sotto le foglie, una trappola di bambù che trafiggeva senza preavviso. “Non sapevi mai chi era il nemico,” ricordava un veterano anni dopo. “Un contadino con un cappello di paglia poteva spararti di notte.” Le battaglie erano caotiche, nomi come Khe Sanh o Huế entravano nei notiziari, ma la guerra non aveva fronti chiari. Negli Stati Uniti, la televisione portava il conflitto nelle case: immagini di villaggi in fiamme, corpi insanguinati, bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Nel 1968, l’Offensiva del Tet – un attacco a sorpresa del Nord durante il capodanno vietnamita – colpì decine di città, mostrando che il nemico era più forte di quanto il Pentagono ammettesse.
Poi ci fu My Lai. Il 16 marzo 1968, una compagnia americana massacrò centinaia di civili – donne, bambini, anziani – in un villaggio sospettato di ospitare vietcong. Non fu un errore isolato, ma un’esplosione di rabbia e paura. Quando la notizia uscì, un anno dopo, fu uno scandalo che spezzò l’immagine dell’America come paladina della giustizia. Le proteste esplosero: studenti marciavano a Washington, gridando “pace ora”; a Kent State, nel 1970, la Guardia Nazionale sparò su manifestanti disarmati, uccidendone quattro. I giovani bruciavano le cartoline di leva, le madri piangevano figli mandati a morire. Johnson, logorato, rinunciò a ricandidarsi. Richard Nixon prese il potere nel 1969, promettendo di uscire dal pantano con la “vietnamizzazione”: lasciare il combattimento ai sudvietnamiti. Ma la guerra continuò. Nel 1970, l’invasione della Cambogia per colpire le basi vietcong scatenò nuove proteste, un’onda di rabbia che attraversava l’America.
Solo nel 1973, dopo negoziati estenuanti a Parigi, gli accordi portarono al ritiro americano. Due anni dopo, il 30 aprile 1975, Saigon cadde: carri armati nordvietnamiti sfondarono i cancelli del palazzo presidenziale, elicotteri evacuavano gli ultimi americani dal tetto dell’ambasciata. Il Vietnam si unificò sotto il comunismo, una sconfitta che bruciava: 58.000 morti americani, milioni di vietnamiti uccisi, un Paese devastato. Ma dalle ceneri nacque la distensione. Nixon, un politico pragmatico, capì che la Guerra Fredda non poteva essere solo conflitto. Nel 1972 volò a Mosca, un viaggio storico: incontrò Leonid Brezhnev, il leader sovietico con la faccia da contadino e modi ruvidi, e firmarono il SALT I, un trattato per limitare le armi nucleari. Fu un passo verso la pace, un dialogo tra nemici. Nixon visitò anche Pechino, aprendo alla Cina dopo decenni di silenzio.
Per gli americani, la distensione fu un sollievo: i figli non partivano più per guerre lontane. Per i vietnamiti, la fine di un incubo, anche se sotto un regime duro. La Guerra del Vietnam mostrò i limiti della potenza USA e spinse le superpotenze a parlarsi. La Guerra Fredda non finì, ma cambiò: meno fucili, più diplomazia. Fu un respiro in un mondo che aveva trattenuto il fiato troppo a lungo.