Dewey e il Pragmatismo Moderno

Nel 1925, John Dewey si fermava su una collina verde del Vermont, con il vento fresco che gli scompigliava i capelli grigi e il canto di un ruscello che gli accarezzava le orecchie. Non era un uomo da scrivanie polverose: tarchiato, con mani callose e una voce che scaldava l’aria, sembrava un contadino più che un pensatore. Nato nel 1859 a Burlington, in un’America rurale e operosa, Dewey era cresciuto tra fattorie e un desiderio bruciante di fare, non solo di sognare. Quel giorno, scrivendo Esperienza e educazione, stava plasmando il pragmatismo moderno: non una filosofia di parole vuote, ma un pensiero che si radicava nella terra della vita. Il Novecento, con Dewey, trovava un battito: la verità non era un trono, ma un sentiero, un agire che costruiva il domani.

L’America del XX secolo era un crocevia di speranze e tumulti. Le fabbriche sputavano fumo, le città si gonfiavano di immigrati, la scienza – Tesla, Wright – accendeva il futuro. La Grande Guerra aveva ferito, Banfi rifletteva in Italia, Foucault avrebbe poi scrutato il potere; ma Dewey guardava al presente: “Cosa possiamo fare?” si chiedeva, con una voce che odorava di fieno e carta. Studiò filosofia a Johns Hopkins, con Peirce e James come maestri – “Il pragmatismo mi ha afferrato,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma fu Chicago a chiamarlo: “Qui si vive,” pensava, con una penna che pesava ogni sillaba. Tra banchi di scuola e piazze, trovò la sua missione: “Pensare è agire.”
Il pragmatismo moderno era un’officina. “La verità si prova,” scriveva, con mani che vibravano di energia. Immagina un falegname che lima un’asse: non è buona per sé, ma se regge – per Dewey, il sapere funzionava così. Pensiamo a una classe: non un luogo di nozioni, ma di mani che toccano, occhi che scoprono – in Democrazia ed educazione (1916), scavava profondo: “Imparare è crescere,” pensava, con un sorriso saggio. James cercava fede, Dewey azione: “La filosofia serve,” pensava, con occhi che scintillavano di un fuoco gentile – non era un gioco astratto, ma un’arte del vivere. La scienza era un alleato, non un idolo: “Aiuta, non domina,” pensava, con una voce che pesava il reale.

Nel 1938, con Esperienza e natura, alzava la posta. “Viviamo nel flusso,” scriveva, con una penna che scorreva fluida. Immagina un albero che si piega al vento: non è solo tronco, ma un danzare con l’aria – per lui, uomo e mondo erano un unico respiro. Pensiamo a un pescatore: non domina il fiume, lo abita – “L’esperienza è tutto,” pensava, con un ghigno quieto. Morì nel 1952, a 92 anni, con un ultimo respiro che odorava di città: “Ho camminato,” pensava, con un corpo esausto ma una mente chiara. Lasciava un’eredità: un pragmatismo che si piegava alla vita, un’America che pensava con le mani.

Dewey reagiva al Novecento. Il positivismo contava numeri; lui vedeva persone: “La scienza è per noi,” pensava, con mani che sfogliavano libri. Peirce gli dava logica, James intuizione, ma Dewey li portava oltre: “Non solo idee, ma fatti,” pensava, con una voce che ruggiva piano – il pragmatismo non era teoria, ma pratica quotidiana. Immagina un mercato: non è solo merci, ma vite che si scambiano – cercava il senso nel concreto. Non era un sognatore: “Partiamo da ora,” pensava, con un pragmatismo che odorava di terra – ma il “ora” era un seme da piantare. Pensiamo a Marx: l’azione lo ispirava, ma Dewey la rendeva aperta, non rigida – filosofia e comunità si abbracciavano.

Viveva tra aule e campi. A Columbia, parlava con passione: “Fate,” diceva, con studenti che bevevano le sue parole. La sua vita era ricca: due mogli, sei figli – uno perso troppo presto – “Mi insegnano ogni giorno,” pensava, con un sospiro profondo. Viaggiò in Cina, Russia, Turchia: “Il mondo mi parla,” pensava, con un’ombra di fatica negli occhi. Litigava con i metafisici: “Troppo in alto,” borbottava, con un sopracciglio alzato. Lasciava una sfida: “Provate,” diceva, con una voce che pesava il futuro – il pragmatismo era un invito a sporcarsi le mani.

La sua visione cresceva. L’educazione era il suo fuoco: “Non prepariamo alla vita, la viviamo,” pensava, con schizzi di scuole dove i bambini costruivano, discutevano, sbagliavano. Immagina un laboratorio: non libri polverosi, ma martelli e domande – per Dewey, imparare era un esperimento, non un dogma. Pensiamo a un’elezione: non è solo voti, ma un popolo che si forma – la democrazia era un’abitudine, un fare insieme. Nel 1927, con Il pubblico e i suoi problemi, insisteva: “La società si costruisce,” pensava, con una penna che graffiava fogli – il pubblico non era un dato, ma un lavoro collettivo.

Dewey non si accontentava. L’arte era esperienza viva: “Un quadro ti scuote,” pensava, con un sorriso. La natura era casa: “Non siamo fuori,” pensava, con un respiro che si allargava. Non amava le catene: “Il marxismo soffoca,” borbottava, preferendo un socialismo pratico, morbido. Litigava con i positivisti: “Misurate, ma non capite,” pensava, con un’ironia che gli increspava il volto. Era un uomo del suo tempo, ma oltre: “Guardo al domani,” pensava, con una voce che pesava il reale – il pragmatismo era un ponte, non un muro.

Nel 2025, Dewey ci guarda ancora. In un mondo di crisi e connessioni, il suo pragmatismo vive: scuole vive, democrazie fragili, un ritorno al fare – il Novecento respira nei nostri passi. Ma non era perfetto: “Troppo terra terra?” dicevano i critici; “E il cielo?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, è una guida: la vita non è un sogno, ma un costruire. Immagina un progetto: non è solo piani, è un Novecento che ci muove ancora.

 

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