Nel 1968, Gilles Deleuze camminava tra le strade ribollenti di Parigi, con il fumo delle barricate che pizzicava l’aria e il rumore delle proteste studentesche che echeggiava tra i boulevard. Non era un uomo da quiete: magro, con unghie lunghe e una voce che sussurrava rauca, sembrava un poeta folle più che un filosofo. Nato nel 1925 nel XVII arrondissement, in una Francia borghese e inquieta, Deleuze era cresciuto tra libri e un dopoguerra che chiedeva nuove visioni. Quel giorno, scrivendo Differenza e ripetizione, stava ridefinendo lo strutturalismo: non più gabbie fisse, ma un pensiero del divenire, un caos che generava vita. Il Novecento, con Deleuze, trovava un’esplosione: la realtà non era ordine, ma differenza, un flusso creativo che danzava libero.
La Francia degli anni ’60 era un vulcano. Il ’68 scuoteva le fondamenta, la Guerra Fredda pesava, la tecnologia – TV, missili – cambiava il quotidiano. Foucault analizzava il potere, Lévi-Strauss cercava strutture; ma Deleuze si ribellava: “Tutto si muove?” si chiedeva, con una voce che odorava di Gauloises e carta. Studiò filosofia alla Sorbona, ammirò Nietzsche – “La volontà mi ha preso,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma Spinoza lo folgorò: “L’essere è univoco,” pensava, con una penna che pesava ogni sillaba. A Parigi, tra aule e rivolte, trovò la sua strada: “Creo concetti.”
Lo strutturalismo, per Deleuze, era un punto di partenza da spezzare. “La differenza è prima,” scriveva, con mani che tremavano di passione. Immagina un albero: non è solo rami, ma un crescere che sfugge – per lui, la realtà non era struttura, ma molteplicità. Pensiamo a un suono: non è solo note, ma vibrazioni che si ripetono diverse – in Differenza, scavava: “L’essere è divenire,” pensava, con un sorriso stanco. Lévi-Strauss vedeva sistemi, Deleuze flussi: “Non c’è centro,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco selvaggio – la filosofia era un rizoma, non una radice fissa.
Nel 1972, con Guattari, osava di più. In L’Anti-Edipo, scribacchiava furioso, con il rumore di una macchina da scrivere e una luce che cadeva su fogli sparsi. “Il desiderio produce,” pensava, con una penna che pesava ogni parola. Immagina una fabbrica: non solo merci, ma vite che si intrecciano – per loro, la psicoanalisi di Freud era una prigione, il capitalismo un blocco. Pensiamo a un sogno: non è represso, ma un motore – “Siamo macchine desideranti,” pensava, con un ghigno. Morì nel 1995, a 70 anni, gettandosi da una finestra, con un ultimo respiro che odorava di Parigi: “Ho danzato,” pensava, con un corpo fragile ma una mente viva.
Deleuze reagiva al Novecento. Lo strutturalismo vedeva codici; lui vedeva caos: “La vita sfugge,” pensava, con mani che sfogliavano testi. Bergson lo ispirava, ma lo superava: “Non solo durata, ma molteplicità,” pensava, con una voce che pesava il reale – il pensiero non era ordine, ma creazione. Immagina un film: non è solo immagini, ma un montaggio vivo – cercava il senso nel movimento. Non era un anarchico: “Strutturo il flusso,” pensava – ma il flusso era libero, non rigido. Pensiamo a Guattari: la collaborazione lo guidava – filosofia e vita si abbracciavano.
Viveva tra libri e malattia. Insegnava a Vincennes con energia: “Pensate altro,” diceva, con studenti che pendevano dalle sue labbra. La sua vita era lotta: moglie, Fanny, due figli – “Loro mi tengono,” pensava, con un sospiro. La malattia ai polmoni lo piegava: “Respiro a fatica,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigava con gli strutturalisti: “Troppo fissi,” borbottava, con un sopracciglio alzato. Lasciava una sfida: “Divenite,” diceva, con una voce che pesava il futuro.
Nel 2025, Deleuze ci guarda ancora. In un mondo di reti e crisi, il suo strutturalismo vive: arte, ecologia, un ritorno al molteplice – il Novecento respira nei nostri flussi. Ma non era perfetto: “Troppo oscuro?” dicevano i critici; “E la chiarezza?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, è un vento: la vita non è un blocco, ma un rizoma. Immagina un pensiero: non è solo idea, è un Novecento che ci scorre ancora.