Ottobre 1962 fu un mese che il mondo non dimenticherà mai. Per tredici giorni, l’umanità si trovò sull’orlo dell’abisso, con il fiato sospeso e il cuore che batteva forte. Al centro di tutto c’era Cuba, un’isola caraibica a 150 chilometri dalla Florida, un puntino sulla mappa che divenne il fulcro della Guerra Fredda. Tutto iniziò il 14 ottobre, quando un aereo spia U-2 americano sorvolò l’isola e scattò fotografie che gelarono il sangue a Washington: basi missilistiche sovietiche, con razzi balistici capaci di trasportare testate nucleari. Non erano armi qualsiasi: potevano colpire New York, Chicago o la capitale americana in pochi minuti, una minaccia che trasformava il cortile di casa degli Stati Uniti in un campo di tiro. Per John F. Kennedy, il giovane presidente con i capelli spettinati e la voce ferma, era un affronto intollerabile. Per Nikita Khrushchev, il leader sovietico con il volto rubizzo e il pugno sul tavolo, era una risposta necessaria alla presenza americana in Turchia e in Europa.
Cuba non era nuova alle tensioni. Nel 1959, Fidel Castro, un rivoluzionario con la barba nera e il sigaro in bocca, aveva rovesciato il dittatore Fulgencio Batista, un alleato degli USA. Gli americani avevano provato a riprendersi l’isola nel 1961, con lo sbarco alla Baia dei Porci: un’operazione mal pianificata, un fiasco che lasciò Castro più forte e più vicino all’URSS. Khrushchev vide in Cuba un’opportunità d’oro: un avamposto comunista a un soffio dagli Stati Uniti, un modo per bilanciare i missili Jupiter che gli americani avevano piazzato in Turchia, a tiro di Mosca. Quando decise di inviare i missili, pensava di farlo in segreto, un’installazione silenziosa sotto il sole dei Caraibi. Ma le foto dell’U-2 cambiarono tutto. Il 16 ottobre, Kennedy riunì l’ExComm, un gruppo di consiglieri, in una stanza piena di fumo e tensione. Le opzioni erano poche: bombardare le basi, invadere Cuba o negoziare. Alcuni generali spingevano per la guerra, ma Kennedy scelse una via più cauta: un blocco navale, che chiamò “quarantena” per non suonare troppo aggressivo.
Il 22 ottobre, Kennedy parlò alla nazione in televisione. Con il volto serio e le mani sul leggio, disse che qualsiasi missile lanciato da Cuba sarebbe stato considerato un attacco sovietico, promettendo una “risposta totale”. Le famiglie americane si fermarono davanti agli schermi, il silenzio rotto solo dal crepitio dei vecchi apparecchi. A Mosca, Khrushchev bollò il blocco come “pirateria”, accusando gli USA di spingere il mondo verso la catastrofe. Le sue navi, cariche di rifornimenti, continuarono a navigare verso Cuba, un gioco di nervi che teneva il pianeta con il fiato sospeso. Il 24 ottobre, al confine della quarantena, le navi sovietiche si fermarono. Fu un momento di sollievo, un passo indietro dall’orlo del baratro. Ma i missili erano ancora sull’isola, puntati e pronti, e la crisi non era finita.
Il 27 ottobre, il giorno più buio, il mondo tremò. Un U-2 fu abbattuto sopra Cuba da un missile antiaereo sovietico, il pilota ucciso. A Washington, i falchi gridarono per una rappresaglia immediata; a Mosca, Khrushchev temeva che ogni mossa potesse accendere la scintilla finale. Ma dietro le quinte, la diplomazia correva veloce. Robert Kennedy, il fratello del presidente, incontrò in segreto l’ambasciatore sovietico Anatoly Dobrynin. Promise che gli USA avrebbero rimosso i missili dalla Turchia – un segreto non dichiarato pubblicamente – se l’URSS avesse ritirato i suoi da Cuba. Il 28 ottobre, Khrushchev parlò alla radio sovietica: i missili sarebbero tornati a casa. La crisi si sciolse, un nodo che si allentava dopo giorni di terrore. Kennedy emerse come un eroe, Khrushchev salvò la faccia, ma il mondo capì quanto fosse stato vicino alla fine.
Per le famiglie americane, furono giorni di ansia e rifugi antiatomici, con madri che accumulavano scatolette e padri che controllavano le radio. A Cuba, la gente viveva tra orgoglio e paura, fiera di sfidare l’America ma consapevole del rischio. I bambini giocavano nelle strade di L’Avana, ignari che il loro futuro pendeva su un filo. La Crisi di Cuba non fu solo un confronto tra due uomini: fu il momento in cui la Guerra Fredda mostrò il suo volto più spaventoso, un equilibrio nucleare così fragile che un errore poteva cancellare tutto. Dopo quei tredici giorni, USA e URSS installarono una linea diretta – il “telefono rosso” – per parlarsi senza intermediari. Non risolse la rivalità, ma rese il silenzio meno letale. Il mondo tirò un respiro profondo, ma non dimenticò mai quanto fosse stato vicino al buio.