La Caduta del Muro di Berlino: 1989

Il 9 novembre 1989, Berlino si svegliò sotto un cielo freddo e grigio, ma entro sera le strade ribollivano di vita, di urla, di un’energia che spezzava decenni di silenzio. Il Muro, quel gigante di cemento armato alto tre metri e mezzo, sormontato da filo spinato e torrette di guardia, crollò. Non fu un’esplosione orchestrata, né un’operazione militare: furono le mani dei berlinesi, armate di martelli, scalpelli e una speranza feroce, a farlo cadere. Per 28 anni, dal 13 agosto 1961, il Muro aveva tagliato la città in due, separando famiglie, amici, vite intere. Costruito dalla Germania Est per fermare la fuga verso l’Ovest capitalista, era più di una barriera fisica: era il volto della Guerra Fredda, un simbolo di un mondo diviso tra Est e Ovest, tra comunismo e libertà. Ma quel giorno, sotto gli occhi increduli del pianeta, divenne polvere, e con lui un’epoca si chiuse per sempre.

La caduta del Muro non fu un evento improvviso: le sue crepe si erano formate lentamente, scavate da anni di resistenza e cambiamenti. Tutto iniziò con Mikhail Gorbachev, salito al potere in Unione Sovietica nel 1985. Gorbachev trovò un Paese in crisi: l’economia sovietica arrancava, strangolata da una pianificazione rigida e da una corruzione che divorava ogni risorsa. La guerra in Afghanistan, iniziata nel 1979, era un pozzo senza fondo di soldi e vite; la corsa agli armamenti con gli USA succhiava ciò che restava. Con la glasnost – apertura – e la perestroika – ristrutturazione – Gorbachev volle dare ossigeno al sistema, lasciare che la luce entrasse in un Paese soffocato dal controllo. Ma quelle riforme, invece di salvare l’URSS, la scossero come un terremoto. Nell’Europa orientale, i popoli sotto il giogo comunista alzarono la testa. In Polonia, Solidarność, il sindacato guidato da Lech Wałęsa, un elettricista con il volto da lavoratore e il cuore da ribelle, cresceva in forza e coraggio. In Ungheria, nel maggio 1989, il governo aprì il confine con l’Austria, un taglio nella cortina di ferro che lasciò filtrare la libertà.

A Berlino Est, la pressione montava come vapore in una pentola sigillata. La Germania Est, uno stato satellite dell’URSS, era un luogo cupo, dove la Stasi – la polizia segreta – controllava ogni respiro. Telefoni intercettati, lettere aperte, vicini che spiavano vicini: la paura era una compagna costante. Ma negli anni ’80, qualcosa cambiò. I cittadini iniziarono a riunirsi nelle chiese, luoghi dove la Stasi non osava entrare. Pregavano per la pace, poi cominciarono a marciare, con candele in mano e cartelli che dicevano: “Wir sind das Volk” – “Noi siamo il popolo”. Le proteste si gonfiarono come un’onda: a Lipsia, decine di migliaia scesero in piazza, sfidando i fucili. Gorbachev, in visita a Berlino nell’ottobre 1989 per il 40° anniversario della DDR, avvertì i leader locali: “Chi arriva tardi, sarà punito dalla vita”. Non lo ascoltarono. Ma la gente sì. Migliaia fuggivano verso l’Ovest attraverso l’Ungheria o cercando rifugio nelle ambasciate a Praga. Il regime tremava, incapace di fermare l’emorragia.

Poi arrivò il 9 novembre, un giorno che nessuno aveva previsto. Günter Schabowski, un funzionario della DDR con occhiali spessi e modi nervosi, tenne una conferenza stampa trasmessa in diretta. Sotto pressione, annunciò che i cittadini potevano attraversare il confine “immediatamente, senza ritardi”. Non era vero: il piano era di aprire i varchi gradualmente, ma Schabowski si confuse. Quelle parole furono come un fiammifero su una miccia. La notizia corse veloce, rimbalzando nelle case, nei bar, nelle strade. La folla si riversò verso il Muro: uomini in giacca di pelle, donne con i figli in braccio, giovani con jeans strappati. Al checkpoint di Bornholmer Straße, le guardie, sopraffatte e senza ordini chiari, guardavano attonite. Nessuno sparò. I berlinesi dell’Est si incontrarono con quelli dell’Ovest: si abbracciavano, piangevano, ridevano. Martelli e scalpelli spuntarono dalle tasche, pezzi di cemento volavano via, souvenir di un incubo che finiva. Le televisioni trasmettevano in diretta: un’onda di euforia travolse il mondo.

La caduta del Muro non fu solo un evento berlinese. Fu una valanga che spazzò via il blocco sovietico. In poche settimane, la Cecoslovacchia fece la sua “Rivoluzione di Velluto”: Václav Havel, drammaturgo e dissidente, passò dal carcere alla presidenza. In Romania, il regime di Nicolae Ceaușescu cadde in un bagno di sangue a dicembre, l’unico capitolo violento di quell’autunno di rivoluzioni. L’URSS non intervenne: Gorbachev, diversamente dai suoi predecessori che avevano mandato carri armati a Budapest nel 1956 o a Praga nel 1968, scelse la pace. Per i berlinesi, fu una rinascita. “Ho abbracciato mio fratello dopo 25 anni,” raccontò un uomo, con gli occhi lucidi. Famiglie divise da decenni si ritrovarono, ballavano sui resti del Muro, bevevano birra sotto le luci dei riflettori. Ma c’era anche incertezza: cosa sarebbe successo ora? L’economia dell’Est era in rovina, il futuro un punto interrogativo.

Il Muro non cadde da solo. Fu il frutto di anni di resistenza silenziosa, di un impero sovietico che si sgretolava, di un leader che preferì la storia alla forza. Per l’Europa, fu l’inizio di una riunificazione: la Germania si unì ufficialmente il 3 ottobre 1990, un Paese solo dopo decenni di divisione. Per la Guerra Fredda, fu un colpo mortale. La cortina di ferro, quel confine che Churchill aveva descritto nel 1946, si dissolse come nebbia al mattino. Il mondo guardava avanti, ma con un nodo in gola: la libertà era arrivata, ma portava con sé il peso di un passato che non si poteva cancellare e un futuro tutto da costruire. Berlino, con le sue cicatrici e le sue luci, divenne il simbolo di una nuova era, un luogo dove il cemento si trasformava in speranza.

 

La Guerra Fredda

  1. L’Inizio della Guerra Fredda
  2. Il Piano Marshall e la NATO
  3. La Guerra di Corea: 1950-1953
  4. La Crisi di Cuba: 1962
  5. Il Vietnam e la Distensione
  6. La Caduta del Muro di Berlino: 1989
  7. La Fine dell’URSS: 1991
Storia e Filosofia
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