Nel 1943, Antonio Banfi sedeva nel suo studio all’Università di Milano, con il rumore sordo delle bombe lontane che scuoteva l’aria e una lampada tremolante che illuminava un tavolo pieno di libri aperti. Non era un uomo da rifugi: alto, con capelli scuri e una voce che pesava ogni sillaba, sembrava un poeta più che un accademico. Nato nel 1886 a Vimercate, in una Lombardia di campagne e industrie, Banfi era cresciuto tra letture e un’Italia che cercava sé stessa. Quel giorno, scrivendo La problematicità dell’estetica, stava dando forma al razionalismo critico: non più una ragione astratta, ma un pensiero vivo, aperto al mondo. Il Novecento, con Banfi, trovava una voce italiana: la filosofia non era dogma, ma dialogo, un ponte tra mente e realtà.
L’Italia del XX secolo era un mosaico inquieto. Il fascismo opprimeva, la Seconda Guerra Mondiale devastava, la cultura – Croce, Gentile – si chiudeva in torri idealiste. Dewey costruiva scuole, Lévinas guardava l’Altro; ma Banfi cercava un equilibrio: “Come pensare oggi?” si chiedeva, con una voce che odorava di tabacco e carta. Studiò a Milano e Berlino, ammirò Kant e Husserl – “La fenomenologia mi ha scosso,” pensava, con un taccuino che si riempiva – ma la guerra lo segnò: “La ragione deve rispondere,” pensava, con una penna che tremava di passione. A Milano, tra studenti e resistenza, trovò la sua strada: “Critico per vivere.”
Il razionalismo critico era un respiro. “La ragione è problematica,” scriveva, con mani che sfogliavano appunti. Immagina un uomo che osserva un quadro: non è solo bellezza, ma un intreccio di senso – per Banfi, il pensiero non chiudeva, apriva. Pensiamo a una fabbrica: non è solo lavoro, ma vita che chiede ordine – in Principi di una teoria della ragione, scavava: “La verità è tensione,” pensava, con un sorriso stanco. Croce vedeva spirito, Banfi esperienza: “La realtà ci sfida,” pensava, con occhi che brillavano di un fuoco quieto – la filosofia non era sistema, ma un cercare continuo.
Nel 1951, con L’uomo copernicano, osava di più. “L’uomo crea il mondo,” scriveva, con una penna che pesava ogni parola. Immagina un contadino che ara: non subisce, trasforma – per lui, la ragione era attiva, non passiva. Pensiamo a un bambino: non è solo istinto, ma un costruire – “Siamo storici,” pensava, con un ghigno dolce. Morì nel 1957, a 70 anni, con un ultimo respiro che odorava di Milano: “Ho pensato,” pensava, con un corpo fragile ma una mente viva. Lasciava un’eredità: Preti, Dal Pra, un razionalismo che si piegava al futuro, un’Italia filosofica che respirava.
Banfi reagiva al Novecento. L’idealismo vedeva l’assoluto; lui vedeva il concreto: “La ragione è nel mondo,” pensava, con mani che sfogliavano testi. Husserl lo ispirava, ma lo superava: “Non solo essenze, ma vita,” pensava, con una voce che pesava il reale – il razionalismo non era freddo, ma caldo. Immagina una piazza: non è solo pietre, ma voci – cercava il senso nel quotidiano. Non era un relativista: “Critico per capire,” pensava – ma capire era agire. Pensiamo a Kant: la ragione lo guidava – filosofia e storia si abbracciavano.
Viveva tra libri e lotta. Insegnava a Milano con passione: “Domandate,” diceva, con studenti che pendevano dalle sue labbra. La sua vita era intensa: moglie, Daria, antifascista come lui – “Lei è la mia forza,” pensava, con un sospiro. Il fascismo lo ostacolò: “Resisto scrivendo,” pensava, con un’ombra negli occhi. Litigava con gli idealisti: “Troppo chiusi,” borbottava, con un sopracciglio alzato. Lasciava una sfida: “Pensate il reale,” diceva, con una voce che pesava il futuro.
Nel 2025, Banfi ci guarda ancora. In un mondo di crisi e domande, il suo razionalismo vive: dialogo, apertura, un ritorno al pensare – il Novecento respira nei nostri dubbi. Ma non era perfetto: “Troppo vago?” dicevano i critici; “E la scienza?” si lamentavano altri. Per uno studente di oggi, è un’eco: la vita non è un dato, ma un problema. Immagina un pensiero: non è solo idea, è un Novecento che ci abita ancora.