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  • Celti: i rapporti con Roma

    I rapporti con Roma

    Nel 322 a.C. i Senoni ed i Boi avevano colonizzato la Gallia Cisalpina ed erano scesi sino alle Marche, annientando gli Etruschi, che avevano fondato la Lega delle Dodici Città, e le popolazioni italiche.
    Il primo contatto di Roma con i Celti fu nel 387 a.C., quando Brenno, capo dei Senoni, presso il fiume Allia ottenne una grande vittoria e marciò su Roma, saccheggiandola ed incendiandola.
    I Romani si rifugiarono sulla rocca del Campidoglio dove furono presi d’assedio, senza capitolare. Qui si assistette all’episodio di Brenno che, per andare via, pretese dell’oro (probabilmente quello del sacco di Veio), pronunciando la famosa frase: “guai ai vinti”. In realtà sembra più probabile che tra i Senoni ed i Romani fu siglato un accordo di pace e che la propaganda romana abbia enfatizzato questo episodio al fine di esaltare la gloria capitolina. Successivamente la città fu ricostruita sotto la guida di Furio Camillo, che riuscì a convincere la popolazione a non trasferirsi a Veio, città etrusca appena conquistata, ancora intatta. Dopo questo avvenimento i Romani svilupparono un certo terrore verso i Celti.
    L’episodio appena descritto nacque a seguito di un’invasione celtica presso l’Etruria (avevano già conquistato il nord Italia che precedentemente era stato sotto l’influenza etrusca), avvenuta esattamente a Chiusi, centro di produzione vinicola di cui i Celti erano particolarmente ghiotti.
    L’aneddoto legato a questo episodio narra di un certo Aruns di Chiusi, la cui moglie era stata tradita da un lucumone locale, che chiamò i Celti in suo aiuto. Quando videro l’orda gallica alle porte i chiusini chiamarono i Romani, che bramosi di conquista nei confronti etruschi, ma diffidenti verso gli invasori, si limitarono ad inviare tre ambasciatori a trattare la pace. Tuttavia questi offesero i Celti e combatterono al fianco degli Etruschi contro di loro, perdendo. In seguito a questo episodio, Brenno, dopo aver distrutto la tirrenica Melpun, marciò verso Roma come rappresaglia. Naturalmente c’è una ragione più pratica dietro questa guerra: i Celti avevano bisogno di terre e di ricchezze ed effettuavano continuamente delle migrazioni.
    I Celti ricompaiano contro i Romani nella battaglia di Sentinum del 295 a.C., nel corso della terza guerra sannitica, accanto ai Sanniti, Umbri, Etruschi , Lucani e Sabini dove subiscono una sconfitta.
    I Romani erano risoluti nell’allontanare il pericolo celtico dall’Italia e nel 285 a.C. perpetuarono un genocidio (uno dei primi nella storia) nei confronti dei Senoni, erigendo sul luogo Sina Gallica (Senigallia) e più a nord Rimini. Inizia, così, la conquista dell’ager gallicus, cioè le alte Marche. Di conseguenza i Galli della regione minacciata (Boi, Senoni, Taurisci, Insubri) si alleano con gli Etruschi e marciano su Roma. Nel 283 a.C., presso il lago Vadimone, i Romani li massacrano, tingendo di rosso le acque del Tevere. Si racconta in proposito che i cittadini dell’Urbe appresero dalla notizia vittoriosa vedendo il colore delle acque, ancora prima che facessero ritorno i soldati.
    Successivamente i mercenari celtici si alleano ad Asdrubale in Spagna. Questi però firma il trattato dell’Ebro (226 a.C.), con il quale Cartaginesi e Romani si spartiscono la Spagna e riconoscono i Celti come comuni nemici. Questo trattato fu la fine per i punici che non capirono che solo alleandosi con le tribù locali potevano battere Roma.
    Nel 225 a.C. i Celti (50.000 fanti e 25.000 cavalieri, come racconta Polibio), aiutati dagli Etruschi, sono sconfitti a Talamone dai Romani. Nella circostanza vengono sottomessi anche i Liguri, popolazione italica, abile nella pesca e nella navigazione marittima, che aveva frequenti commerci con i Celti ed i greci di Marsiglia. Dopo questo episodio, Roma si rende conto che le tribù celtiche si possono sconfiggere con un esercito addestrato e organizzato.
    Nel 222 a.C., dopo la vittoria di Clastidium, la Valle Padana viene conquistata agli Insubri (Milano, loro capitale, distrutta) e alcune roccaforti celtiche, già città etrusche, vengono prese: Piacenza, città dei Boi; Cremona, città degli Insubri; Aquileia. Tra il 189 a.C. ed il 183 a.C. sarà la volta delle città dei Boi di Parma, Modena e Bologna.
    I Celti appoggiano Annibale che cala in Italia, uscendone di nuovo sconfitti. In particolare il loro impeto bellico si rivelava dannoso per le battaglie del generale cartaginese, come successe nella battaglia sul fiume Trebbia. In Gallia Cisalpina continua la guerriglia celtica fino al 175 a.C., data in cui l’Italia settentrionale è romana.
    Tra il 123 a.C. ed il 121 a.C. i consoli Caio Sestio Calvino, Domizio Adenobardo e Quinto Fabio Massimo conquistano la Gallia Narbonese.
    Nel 113 a.C. i Celti si ripresentano ai Romani al di là delle Alpi (parola di origine celtica) a Noreia, l’odierna Klagenfurt, dove Norici e Taurisci, in una fase di migrazione verso il nordeuropa sconfiggono le truppe di Papinio Cambone.
    Nel 109 a.C., presso Arausio (odierna Orange), sempre in una fase di migrazione, i Cimbri e i Cimmerri, popolo celtoscita, apportano una nuova sconfitta ai soldati romani. Dunque, i Celti diventano di nuovo uno spettro per la città capitolina. Si può osservare che in questo periodo si assiste a diverse fasi di migrazioni celtiche, con influenze sia germaniche che orientali, nessuna però valica le Alpi. Nel 107 a.C. gli Elvezi ed alcune tribù germaniche sconfiggono presso Agen truppe romane al comando di Longino.
    Per allontanare definitivamente la paura celtica i Romani devono attendere l’avvento di Mario, terzo eroe di Roma dopo Furio Camillo e Romolo. Questi identifica subito il punto debole dei Celti nel furore del primo assalto ed addestra con una rigida disciplina le truppe romane, facendole diventare una perfetta macchina da guerra. Così nel 102 e 101 a.C. prima ad Aquae Sextiae (odierna Aix en Provence) e poi a Vercelli furono massacrati migliaia di Cimbri e Teutoni. In entrambe le circostanze, durante le battaglie, Mario fece attendere le sue truppe in zone fortificate, in modo che i soldati si abituassero alle urla ed all’aspetto terrorizzante dei Celti. Una volta diminuito il furore bellico, i soldati romani assalirono i nemici, ormai esausti e indeboliti. Il pericolo celtico era cessato e Roma poteva dedicarsi ad una espansione in Europa.
    La politica di conquista estera dei Romani si basava sul concetto di eliminare eventuali pericoli che li potessero minacciare. Per questo motivo presero la Gallia Cisalpina che era abitata da popolazioni celtiche che potavano minacciarli, poi la penisola iberica, che aveva delle fortificazioni cartaginesi e, successivamente, la Gallia Narbonese come territorio di collegamento tra i due conquistati.

  • Celti: lo sviluppo

    Sviluppo

    I Celti erano composti da diverse tribù, ognuna delle quali si diffuse in uno specifico territorio. Si difesero dai Romani, dai Germani e dalle invasioni asiatiche. Nel corso delle loro migrazioni popolarono un vasto territorio. Videro lo sviluppo di diverse società (kurgan, halstattiana, lateniana) che corrispose anche ad uno sviluppo economico e sociale.
    In base alla premessa fatta in precedenza, possiamo visualizzare la seguente situazione, legata sia al popolo celtico che alla regione di influenza relativa, frutto di continue migrazioni:
    Serbia: Scordisci (325 a.C.);
    Bulgaria: Bastarni (fondatori del regno di Tylis);
    Ungheria, Romania, Boemia: Carnuti, Teutoni, Cimbri(forse di origine germana), Menapi, Treviri, Ubii;
    Svizzera: Rezi, Rauraci, Carnuti, Elvezi;
    Austria: Taurisci, Norici;
    Italia Settentrionale: Boi, Senoni,Veneti, Gesati, Insubri, Taurisci;
    Spagna e Portogallo: Celtiberi che si mescolarono con la popolazione locale degli Iberi e che ebbero un sviluppo diverso rispetto ai Galli, i Gallaecie gli Asturi (Galizia), i Cantabri (zona di Bilbao), i Tarragonesi, i Baeti (zona di Siviglia), i Vasconi (Pirenei, da cui è originato il termine guascone), gli Arevaci, i Vaccei, i Lusitani ed i Vettoni (nel Portogallo);
    Anatolia: Galati (276 a.C.) abitanti della Galazia, arrivati dalle regioni del Danubio;
    Macedonia: Tettosagi, Trocmeri, Tolistoagi, che entrano in contatto anche con Alessandro Magno;
    Francia: Sequani, Edui, Alverni, Ambroni, Arverni, Parisii (che diedero i natali a Parigi), Aquitani, Vocati, Volci, Bellovaci, Venelli, Eburovaci, Suessioni, Tricassi, Mandubii, Carnuti, Veneti, Namneti, Pitti, Biturgi, Allobrogi, Gesati, Ceutroni, Eburoni;
    Paesi Bassi e Belgio: Nervii, Menapi, Suessoni, Remi, Belgi (forse di origine germana);
    Germania: Ambroni, Teutoni, Boi, Nemeti, Vangioni, Treviri, Advatici, Usipeti, Tenteri, Eburoni, Ubii, Sicambri (si tratta in prevalenza di popolazioni germaniche, di influenza celtica);
    Irlanda: Ulsteriani (con capitale Emain Magach), abitanti del Mide (centro-est), del Connacht (ovest) e del Munster (sud-est), Scotti (che migrarono in Caledonia che prese il nome di Scozia);
    Scozia: Pitti e Caledoni;
    Galles: Ordovici, Siluri e Cornovii (che poi migreranno in Cornovaglia)
    Inghilterra: Atrebati, Belgi, Catuvellani, Trinovanti, Dumnoni (in Cornovaglia), Coritani, Briganti, Suessoni, Carataci, Novanti, Segovii, Trinovanti, Iceni;
    Danimarca: Arudi, Cimbri, Ambroni (si tratta in prevalenza di popolazioni germaniche, di influenza celtica).
    Dunque i Celti, durante una loro migrazione, giunsero fino in Turchia. Nel 278 a.C. Brenno, omonimo del condottiero che un secolo prima sconfisse i Romani, invase la Pannonia e da lì, attraverso l’Illiria, giunse in Grecia, distruggendo Delfi, dove venne ferito. Tra il 278 a.C. ed il 270 a.C., trovando resistenza in Grecia, in particolare in Macedonia, una parte della popolazione celtica attraversò lo stretto dei Dardanelli e si stanziò a ridosso della Bitinia, approfittando anche dell’invito del re locale Nicomede, che, in cambio di territori, li assoldò come mercenari per conquistare l’Anatolia ed avere uno stato cuscinetto con i Frigi. La loro espansione ed i loro saccheggi furono interrotti dall’imperatore di Siria Antioco I, che li sottomise e li confinò in Galazia, regione nei pressi di Ankara. Successivamente, nel 230 a.C., il re di Pergamo Attalo I, sconfigge i Galati che si erano ribellati e fa erigere, come segno di trionfo, dei gruppi marmorei. Di questi oggi ci rimane una copia romana del “Galata Morente”. L’altra parte della popolazione, che costituiva il flusso migratorio, caratterizzata in particolare dalla presenza dei Bastarni, sconfitta in Macedonia dal re Filippo, padre di Alessandro Magno, si stanziò in Bulgaria, fondando il regno di Tylis.
    E’ opportuno fare una considerazione sull’Irlanda. Fu l’unico paese celtico che non subì invasioni, per cui sviluppò la propria cultura completamente senza subire influenze esterne. Era divisa in cinque regioni: a nord l’Ulster, con capitale Emain Magach, a sud il Munster, con capitale Caisel, ad ovest il Connaught, con capitale Cruachain, ae est il Leinster, con capitale Dinn Rig ed al centro-est il Mide, con capitale Tara, luogo sacro vicino a Dublino. La prima e l’ultima regione furono le più progredite, con la prevalenza finale dell’ultima. Nel 450 d.C. l’Irlanda era divisa in due regni. Il regno del nord abitato dagli Uì Neìll e quello del sud, popolato dagli Eòganachta.
    Dediti alla pastorizia, gli abitanti dell’Isola Verde, non erano molto progrediti scientificamente. Amavano la musica, le arti esoteriche, la natura e svilupparono l’alfabeto ogamico fatto di segni, con il quale composero fiabe, divinizzando eroi nazionali, tra cui Cù Chulainn. Il mito, presso i Celti era importante e questo gli Irlandesi lo applicarono abbastanza. Favole quali la conquista di Etain, Tàin Bò Cùailnge (la cattura del toro di Cooley), the Book of Leinster, the book of Dun Cow, the yellow book of Lecan (le tre massime fonti mitologiche gaeliche), novità sul maiale di Mac Da Thò sono saghe che raccontano di eroi popolari, di dei, come Maeve, divinità della guerra che visse tre volte, ricalcando le religioni scite e le strutture celesti degli inferi, riprese da tutte le altre religioni. Si ripete il tema della reincarnazione e della resurrezione.
    Gli Scotti migrarono in Galles, dove i loro discendenti furono chiamati “selvaggi” (gaelici) dalle tribù locali ed in Caledonia, a cui diedero il nome di Scozia, tra questi, sull’isola sacra di Iona approdò San Colombano (563 d.C.) che evangelizzò la regione assieme a dodici discepoli.
    Dunque la cultura celtica si interseca con il cristianesimo.
    Sia l’Irlanda che la Gallia furono sede di molti conventi, che in realtà erano comuni. La seconda, poi, fu patria di San Martino, vescovo di Tours, nonché della setta eretica pelagiana, che contrapponeva alla grazia divina, professata da S. Agostino, solo la capacità umana.
    L’Irlanda era la patria della chiesa celtica, che già esisteva prima dell’evangelizzazione della chiesa romana operata da San Patrizio e da Palladio. Questa fu importata dall’Aquitania che aveva frequenti commerci con l’isola verde, ricca di stagno. Nella chiesa celtica non c’era una struttura ed un’organizzazione, esistevano solo abati, la pastorale era semplice, i frati vivevano in luoghi appartati (isole, eremi.), lontano dai conventi, il simbolo più usato era la croce celtica, segno di rigenerazione, contenente al centro la ruota solare, imitando i druidi gli abati al posto della chierica usavano una rasatura da orecchio a orecchio, lasciando i capelli sulla nuca lunghi. La chiesa celtica adattò il modello cristiano all’amore per la natura, per la fantasia, per i luoghi fiabeschi. E’ evidente che, nonostante le dominazioni e le influenze, la filosofia dei Celti rimase incontaminata. In Irlanda, come in Scozia, non si annoverano martiri, segno che il modello cristiano fu accolto pacificamente. Tuttavia ci sono molti santi, nominati anche con la segnalazione degli anacoreti, uomini, che si distinguevano per la semplicità, il vigore, la mitezza.
    Ci furono notevoli dissidi tra chiesa celtica e chiesa romana: alle volte si rasentava la scomunica, come quando Fergal, vescovo di Salisburgo, credeva che sottoterra esistesse un mondo parallelo, in base al modello celtico.
    Lo scontro decisivo tra le due chiese fu nel 663 d.C. nel concilio di Whiotby. In questa sede il dissidio principale, preso a pretesto dalla chiesa romana, consisteva nella festa della Pasqua, che gli abati celtici festeggiavano tre giorni dopo le Palme, secondo la tradizione di Giovanni Evangelista. La chiesa di Pietro e Paolo uscì vincitrice.
    Tuttavia gli abati celtici continuano la loro evangelizzazione in Europa: Sangallo (Svizzera), Bobbio (Pavia), Francia, Salisburgo, Scozia, Inghilterra, Germania.
    Nel 410 d.C. i Sassoni, gli Angli e gli Juti, popoli germanici, occupano l’Inghilterra. I Britanni si ritirano in Cornovaglia, Galles (dove c’è il vallo di Olla), Bretagna e Scozia. Nel 440 Ambrogio Aureliano prende il potere e sconfigge i germani. Nel 491 compare il mito di Artù che, attraverso dodici battaglie, scaccia gli invasori. Dopo il 500 l’Inghilterra è di nuovo in mano ai germanici, che abbracciano la chiesa romana. L’Irlanda vivrà le invasioni vichinghe (793 d.C.) e comincia un periodo di migrazioni degli irlandesi verso l’Europa. Successivamente sarà la volta delle invasioni normanne, che importeranno l’amore per l’agricoltura e la pastorizia.
    Nel 1066 il duca Guglielmo di Normandia riprende l’Inghilterra e restaura la chiesa celtica, rinasce il mito del Graal e di Artù, che viene abbracciato anche dalla Francia, per puri scopi politici, in opposizione al domino della chiesa romana. Nel 1180 Chretien de Troyes scrive il Perceval, nel 1210 Wolfram von Eschenbach compone il Parsival.
    Il re Artù non sappiamo se sia esistito veramente. Sappiamo che richiama il dio celtico Artaios. Questo re si avvaleva del druida Merlino, il cui padre, secondo la tradizione, era Ambrogio Aureliano, a sua volta fratello di Uther. Da quest’ultimo nasce Artù che estrae la spada dalla roccia (caliburnus) e diventa signore di Camelot. Sposa Ginevra e fonda una tavola rotonda di 150 cavalieri. Con essi battè i Sassoni, i Pitti e gli Scotti. Suoi compagni sono:

    * Tristano, che innamorato di Isotta, andò in Francia dove morì;
    * Lancillotto, che circuì Ginevra;
    * Galvano, che si avventura sulle Orcadi, combattendo contro il cavaliere verde;
    * Galahad, figlio di Lancillotto, e Percivale che vanno alla ricerca del Graal.

    Artù, alla fine, accompagnato da alcune donne, si ritira su un’isola, da cui farà ritorno successivamente.
    Dunque, ci sono tutti gli elementi delle saghe celtiche: il re e il druida, che lo consiglia e guida; le riunioni assieme, rievocate dalla tavola rotonda; le sofferenze per l’amore, vissute da Tristano e Lancillotto; la lotta contro il nemico di Galvano, come Cù Chulainn, contro il drago; la rigenerazione, come quella di Artù, che fa ritorno da un’isola misteriosa, cioè muore e si rigenera.
    Siamo di fronte ad un eroe mitizzato, come è nella cultura celtica. Il Graal, poi, rappresenta le nature di Cristo: umana nel sangue e divina nell’acqua. Entrambe sono unite assieme dallo spirito. Questi sono i tre elementi raccontati da Giovanni, che era il più seguito dalla chiesa celtica. Chi possedeva il Graal, possedeva questi tre elementi. Di nuovo la fantasia serve ai Celti per superare le avversità della vita, che in questo caso erano rappresentate dai Germani.
    Tuttavia, come già detto, questa figura mitica fu strumentalizzata dai popoli invasori che volevano contrapporsi alla chiesa di Roma.

  • Celti: la società celtica

    Società

    Il tessuto sociale celtico si articolava su tre livelli: il druida, sommo sacerdote che presso i Galli aveva il nome di virgobrete (in realtà questo era più un magistrato), uomo di legge, di scienze esoteriche, indovino, conoscitore degli astri e della natura, medico, interprete dei sogni; il cavaliere, uomo di potere economico, politico e militare, la cui fonte di ricchezza era il bestiame (periodo hallstattiano) e l’industria ed il commercio (periodo lateniano); il popolo, composto da servitori. In realtà le decisioni più importanti spettavano al druida. Dunque chi aveva più cavalli (o in generale bestiame) oppure attività commerciali gestiva il potere economico ed era il re della tribù, cioè il capo dei cavalieri.
    Questa suddivisione dimostra come l’evoluzione dei popoli celtici andò assieme all’evoluzione del cavallo, animale di grande importanza e di ausilio per loro. Tutto ciò ci mostra come in effetti i Celti derivarono dagli Sciti e dunque dalla cultura dei Kurgan, che avevano la stessa considerazione per il cavallo, mezzo di sopravvivenza sia in pace che in guerra. Tra l’altro, gli Sciti avevano sostanzialmente la stessa struttura sociale.
    In particolare dopo il periodo lateniano, ogni comunità celtica si identificava in un gruppo economico: tutti vivevano per quella o quelle attività che gestiva un signore locale. Per questo motivo quando il cavaliere decideva di combattere, tutto il popolo si mobilitava, perché era in gioco la loro sopravvivenza; quando si decideva di migrare, tutti partivano. Nel corso degli anni i diversi gruppi economici si sono unificati, per esigenze commerciali e gestionali, dando vita così a tribù più estese e complesse. I clan scozzesi sono un’espressione di questi antichi raggruppamenti sociali. Anche le costruzioni dei villaggi venivano realizzate attorno a quella del cavaliere.
    La contrapposizione maggiore tra la cultura greco-romana e quella celtica consisteva nel fatto che mentre la prima si proponeva di conquistare la natura e di dominarla, conoscendo le sue leggi, la seconda preferiva conviverci, sentirsi parte integrante, conoscere il proprio destino per abbandonarsi ad esso. Nell’arte, dunque, non si ricerca la perfezione e la bellezza, ma l’emozione e la libertà.
    Nella società celtica il maschio era espressione di vigore e forza e viveva assieme ad altri maschi, fino a che non era tempo di avere figli, per cui si avvicinava alle donne, con cui avrebbe vissuto assieme, continuando comunque a frequentare comunità maschili. Le donne, a loro volta, vivevano in gruppi, separati dagli uomini dove allevavano i figli. Esse esprimevano il coraggio e la tenacia. Gli uomini avevano grande rispetto per loro e ad esse erano molto legate. La prova di ciò ci è data dalle regine della Britannia che hanno combattuto i Romani, come vedremo dopo. Addirittura si dice che in battaglia esse trasmettevano il coraggio ai guerrieri. Tale affermazione rientra in un discorso esoterico che riprenderemo nel prossimo paragrafo. Tuttavia, alcune di esse, di rango basso, potevano essere barattate con dei cavalli.
    Al largo della Bretagna esisteva un’isola abitata solo da donne che vi vivevano in comunità ed assunse un ruolo di sacralità.
    Gli uomini celtici amavano le feste, dove si raccoglievano assieme e raccontavano saghe e favole, i riti comunitari, dove, alle volte, compivano dei duelli mortali, prediligevano bere (vino, birra, whisky) e mangiare in particolare il maiale arrosto (il cavallo ed il toro erano impiegati per riti sacri). Secondo la tradizione, un buon celtico, oltre che un valente guerriero, doveva essere eloquente.
    Il guerriero celtico in battaglia si dipingeva il volto di vari colori, urlava sia perchè voleva spaventare il nemico, sia per esprimere il proprio vigore fisico, di cui era fiero. Amava radersi (i Britanni portavano anche i baffi) e viveva a contatto con la natura. Dunque, la struttura sociale dei Celti era molto semplice ed in essa nel corso degli anni e dello sviluppo economico si potè inserire anche la borghesia (età lateniana). La società celtica non ebbe modo di articolarsi, viste le contaminazioni romano – germaniche. Solo in Irlanda, dove potè svilupparsi in pieno, andò articolandosi su più livelli: re, druidi (filid), nobili inferiori, contadini (perché possessori di terra), bardi (ceto borghese, a cui era affidato il tramandare la tradizione), lavoratori ed artisti di intrattenimento. Questi ultimi due rappresentano classi sociali non libere. Più tardi, con l’avvento del cristianesimo, il druida diventa anacoreta ed assume un ruolo di consigliere nella chiesa celtica, che avrà dei contrasti con quella romana, sfociati in alcuni casi in eresia.

  • Cartagine e i cartaginesi

    Cartagine e i cartaginesi

    Intorno all’800 a.C. alcuni abitanti di Tiro migrarono in Africa e fondarono Cartagine. Questo episodio è stato tramandato ai posteri attraverso il mito della regina Didone, che conobbe anche Enea, secondo quanto scrisse Virgilio. Questa regina era conosciuta con il nome di Elissa, figlia di Pigmalione, che per diventare re, fece uccidere suo marito. Con Elissa si schierarono diversi patrizi tirii ed essa decide di lasciare la propria patria, portando un tesoro con se e riuscì a fuggire con un tranello. Arrivata a Cipro, trovò delle donne che si unirono all’equipaggio. Poi si diresse verso la costa africana dove fece edificare la città.
    Come in tutte le leggende, anche questa cela una verità. Alcuni cittadini di Tiro, probabilmente rappresentanti di una classe sociale emergente, erano in contrasto con la reggenza ed anche la borghesia locali. Ci fu un tentativo di presa di potere, che venne vanificato, per cui rimase l’esilio. Nel viaggio fu portato oro e preziosi. Gli esuli tirii scelsero la baia di Cartagine, tipico paesaggio fenicio, come luogo di approdo e di fondazione della nuova città: cartagine significa appunto città nuova. Tiro cercò di impedire questo processo, incaricando la città di Utica di distruggere la nuova colonia, ma l’operazione fallì. Da cui iniziò lo sviluppo di questa cultura molto simile a quella di Tiro. Si adoravano le stesse divinità; tuttavia mentre i fenici avevano ridimensionato la loro crudeltà nei sacrifici agli dei, i cartaginesi erano famosi per la loro efferatezza nelle celebrazioni sacre.
    La città era famosa per la sua Byrsa, collinetta con una rocca ove si conservava l’oro della città e che si usava in casi di estremi di difesa. C’era il tofet , il porto (anzi erano due), il mercato affollatissimo. Era una città che commerciava con l’Africa, la Spagna, la Sicilia e la Sardegna. Le sue mura difensive erano possenti ed ogni patrizio aveva un possedimento terriero, che veniva usato anche come luogo di produzione di scorte di emergenza. La città era protetta anche da 200 km di deserto che si stendevano verso l’Egitto.
    Il potere era in mano al Senato ed ai suffeti. Tuttavia ci furono diversi tentativi di golpe da parte di famiglie militari: prima ci provarono i Magonidi e poi i Barca. All’inizio la città si avvalse di un esercito mercenario, anche perchè la popolazione punica era poca, con il quale intraprese solo azioni di difesa contro i greci. Per le operazioni di conquista ci volle un esercito proprio. Verso il 450 a.C. si alleò con gli Etruschi per combattere i greci. Insieme riportarono una vittoria ad Alalia in Corsica, ma ottennero pochi successi in Sicilia, contro Siracusa.
    Nel 405 a.C. il generale Annibale, prese alcune città siceliote: Selinunte (distrutta), Imera, Gela, tranne Siracusa, Messana, Katania e Akragas, dove perse la vita, fermato da una pestilenza. Il successore Amilcare prese le altre tranne Siracusa, con cui concluse un trattato di pace.
    Nel 398 a.C., Dionigi, il signore di Siracusa distrusse Mozia, usando la stessa tecnica che Alessandro Magno adotterà per Tiro. Per questo il generale punico Himlico, assediò Siracusa senza riuscirvi, fermato da una nuova pestilenza. A tale proposito sembra che i punici non fossero molto curati nell’igiene. La lotta con Siracusa rimase incerta e si stabilì che il fiume Alico, vicino Imera, dovesse essere la linea di confine.
    Nel 310 a.C. Agatocle, signore di Siracusa, fu sconfitto da Amilcare ad Imera e si ritirò nella propria città. Nell’assedio, si diresse con alcune navi su Tunisi ed attaccò Cartagine per via terra, sconfiggendo Bomilcare. Il signore siracusano, si alleò con Ofella, diadoca d’Egitto, ma venne sconfitto. Ottenne comunque un trattato di pace, che segnava di nuovo il confine sul fiume Alico.
    Dal 510 a.C. al 306 a.C., Cartagine strinse con Roma tre patti di collaborazione, mantenendo intatti i traffici, dando ausilio ai romani nei porti, aiutandosi a vicenda in caso di aggressione da altri popoli, non costruendo città in Sardegna. La cosa funzionò soprattutto con Pirro, che sbarcato a Taranto nel 280 a.C., fu sconfitto dai romani e devastò la Sicilia, fino a Lilibeo, fu poi sconfitto dai punici e dai romani venuti in loro aiuto.
    Nel 265 a.C. scoppia la prima guerra punica.
    Gerone, signore di Siracusa attacca Messana, che chiama in aiuto sia Cartagine che Roma, quest’ultima occupa la città con delle truppe.
    La protesta punica, circa la violazione degli accordi, portò alla guerra che si tramutò in stallo, esclusa una schermaglia avvenuta ad Agrigento, fino al 260 a.C., quando a Milazzo i romani sconfissero i cartaginesi, avvalendosi del ponte mobile. I punici si rifecero a Termini. Nel 257 a.C. i romani, comandati da Attilio Regolo, vinsero a Gela e puntarono su Cartagine, dove attaccarono via terra, finendo sconfitti dalla cavalleria numidica. Amilcare Barca, padre di Annibale, soprannominato lampo, fu mandato in Sicilia, dove organizzò una resistenza tra Trapani ed Erice, ma rimase tagliato fuori dalla patria. I romani intanto vinsero alle isole Egadi ed ottennero una pace vantaggiosa che assicurò la Sicilia a Roma ed indebitò economicamente Cartagine.
    Tra il 241 a.C. ed il 237 a.C. ci furono delle rivolte tra i punici, capeggiati da Matho. Sotto la guida di Amilcare, Cartagine si riprese e costruì, assieme al successore il genero Asdrubale, un considerevole regno in Spagna. Fu fondata Cartagena, che sembrava richiamare la leggenda della città punica. I Barca attuavano una politica più personale che filo cartaginese tra gli iberici.
    Nel 226 a.C. fu firmato un trattato con i romani in cui ci si impegnava a non superare il fiume Ebro. Questo trattato costò l’indipendenza dei Celtiberi, che furono combattuti da entrambi. Intanto Cartagine si rafforzava ed aveva un’economia sempre più florida.
    Nel 219 a.C. scoppia la seconda guerra punica.
    Sagunto, città spagnola al di sotto dell’Ebro, insorge e chiama in aiuto i romani. Annibale, succeduto allo zio, prese Sagunto e Roma gli dichiarò guerra. A questo punto Annibale compì la famosa impresa.
    Oltrepassate le Alpi, tra il 218 ed il 217 a.C. vinse i romani (Trebbia, Ticino, Trasimeno e Canne), attuando la sua famosa tattica dell’accerchiamento sulle ali. Non riuscì ad allearsi alle popolazioni italiche locali, se non ad alcune sannite. Trascorse un lungo periodo a Capua, ma non si sentiva sicuro a prendere Roma. Di lui si diceva che sapeva vincere le battaglie, ma non le guerre.
    Si alleò con Siracusa e con Filippo V di Macedonia, ma entrambi furono sconfitti dai romani. Siracusa in particolare pianse Archimede. I romani ottennero anche vittorie in Spagna ed uccisero sul Metauro, Asdrubale, il fratello di Annibale che aveva cercato di riunire le forze.
    Scipione l’Africano sbarcò a Tunisi e, con l’aiuto del numidico Massinissa, costrinse Annibale, dopo 13 anni, a lasciare l’Italia, sconfiggendolo a Zama. Fu siglata un’altra pace con Roma, dove stavolta Cartagine oltre a pagare altri debiti, non poteva compiere guerre se non con il consenso romano.
    Annibale rimase a governare, portando Cartagine ad un certo benessere. Roma voleva Annibale e questi scappò prima in Siria, formando un esercito ce venne sconfitto, e poi in Bitinia dove fu tradito e preferì il suicidio nel 183 a.C..
    Intanto Massinissa provocava Cartagine con saccheggi, fino al punto che ci fu la risposta dei punici, contravvenendo gli accordi di pace con Roma. I romani attendevano questo momento e nel 149 a.C. scoppiò la terza guerra punica.
    Nonostante Cartagine sia ritornata sui suoi passi, consegnato ostaggi e pagato altri debiti, Roma era decisa a distruggere la città ed affidò l’incarico al generale Scipione Emiliano. Il senatore Catone era un sostenitore di questa politica.
    Come per Tiro, fu costruita una diga sul mare. La città fu difesa casa per casa e dopo sei giorni capitolò, nonostante il generale Asdrubale la difese valorosamente. Rasa al suolo la città, fu sparso del sale sul terreno per renderlo sterile.
    Sopravvissero comunque il capitalismo e l’abilità nel commerciò che già i fenici avevano tramandato al mondo.

    Religione
    I Fenici ed in particolare i Cartaginesi sono stati tramandati come crudeli e sanguinari soprattutto dai Greci. Ciò probabilmente era dovuto ad uno scopo propagandistico ed alla loro religione, avente tipiche caratteristiche orientaleggianti.
    I sacerdoti fenici compivano molti sacrifici sui tofet, spesso anche di umani, come accadde a Cartagine sotto l’assedio del siceliota (greco-siracusano) Agatocle, dove furono sacrificate circa 300-500 giovani vite.
    Esisteva una trinità fenicia: El, Baalat e Baal. Il primo è un dio inafferabile, lontano dall’uomo. Baalat è la moglie di El e la grande madre, colei che dava calore, fertilità e sicurezza all’uomo. Era anche conosciuta come Ashera.
    Questa figura era nota ai Sumeri come Innin, ai Babilonesi ed Assiri come Ishtar, agli Egiziani come Iside.
    Molto più vicina all’uomo è il loro figlio Baal, oppure Adon o Eshmun, venerato come Melkart presso Cartagine e Tiro. Egli ogni anno moriva e poi risorgeva, richiamando le stagioni. Egli si sacrifica per l’uomo: muore e risorge per lui. Questa figura farà nascere il mito di Ercole (Eracle) e di Adone, importato in Grecia.
    C’erano altre divinità, forse realizzate dai sacerdoti per esigenze locali: Kusor, dio del mare e guardiano delle stagioni; Hijon, protettore degli artigiani e degli industriali; Dagon, dio del grano; Shadrapa, patrono dei medici, Reshef, amministratore di tuoni e di fulmini; Misor e Sydyk, dei della giustizia.
    Si credeva che il mondo fosse un uovo, creato da El, e che una sua rotazione violenta avesse separato terra e acque. Poi furono creati gli dei e fu fatto l’uomo, da cui ebbero origine le vite animali e vegetali. Baal e Baalat erano venerati un po’ dappertutto.
    Presso la cultura fenicia si celebrava il rito della prostituzione sacra. Ogni donna, solo una volta l’anno, in occasione di particolari feste, concedeva il proprio corpo. Questo per consentire all’uomo di corrispondere direttamente con la divinità, tra l’altro si trattava di un simbolo di fertilità.
    L’elemento ravvivante per queste divinità era il sacrificio, simbolo dunque di rigenerazione e di resurrezione. Baal voleva che una madre sacrificasse il figlio con il sorriso sulle labbra: per questo erano vietati pianti e lamenti in queste circostanze.
    Questa religione ebbe molti contrasti con il vicino monoteismo di Israele. A tale proposito è indicativa la lotta ingaggiata dal profeta Isaia contro la regina fenicia Jezabel, fino al punto di farla uccidere. Questo infatti simboleggiava la vittoria del monoteismo e della tradizione ebraica sul politeismo fenicio.
    La filosofia di vita fenicia, imperniata sul vivere basandosi sul razionale, sul non confidare nel futuro e negli dei, sul non attendersi nulla per non essere delusi, sul vivere in uno stato di apparente serenità fu all’origine dello stoicismo.
    Dalla religione fenicia nacquero dei miti, sviluppati poi dai greci: Afrodite, Europa, Adone e Dioniso.

  • Fenici: lo sviluppo

    Sviluppo
    Nata verso il 1150 a.C., la civiltà fenicia si avviò ad un lento declino verso l’850 a.C., con la dominazione assiro-babilonese, fino al 350 a.C., periodo della dominazione macedone di Alessandro Magno.
    Tramite una fitta rete di commerci e attraverso l’uso delle navi triremi di loro invenzione, si sparsero in tutto il Mediterraneo, fondando città ovunque. E’ possibile riassumere la seguente situazione.
    Libano: Tiro, Sidone, Tripoli, Haifa, Arvad, Beruta (Beirut);
    Africa Settentrionale: Leptis Magna, Utica, Cartagine, Tunisi, Lisso (dopo le colonne d’Ercole);
    Sicilia occidentale: Drapana (Trapani), Lilibeo (Marsala), Panormo (Palermo), Mothya (Mozia);
    Spagna: Gadir (Cadice), Ibiza e Cartagena;
    Sardegna: Nora, Cagliari, Bythia, Carloforte, Tharros e Sant’Antioco;
    Creta, Rodi, Melo, Malta, Gozo, Cipro.
    Si presume che anche la città di Tebe in Grecia abbia origini fenicie. Su alcuni documenti si racconta della presenza fenicia anche in alcuni porti dell’Asia Minore
    I Fenici subirono diverse dominazioni, ma le affrontarono intelligentemente, rispettandole. In cambio poterono mantenere una certa autonomia economica.
    La Fenicia convisse con Israele in modo pacifico, sviluppando un’intensa attività commerciale. A Tale proposito, ricordiamo che intorno al 1600 a.C. l’Egitto si trovava sotto il controllo degli Hyksos. Questo era un popolo di origine hurrita, cioè caucasico, proveniente dalle regioni dell’Urartu, molto favorevole agli ebrei, che aveva conquistato la mesopotamia, stabilendosi tra Siria ed Assiria, ed era in lotta con gli ittiti. I semiti, seguendo Giuseppe, migrarono dalle dure terre palestinesi verso il delta del Nilo, dove vissero in pace e serenità.
    Successivamente nel 1570 a.C., il faraone Ahmose dell’Alto Egitto cacciò gli Hyksos e fondò il Regno Nuovo, destinato a durare quattro secoli. Sotto Tutmosi III, gli ebrei migrarono dall’Egitto, guidati da Mosè (forse un seguace del monoteista Akhenaton, che si avvalse di Aronne per comunicare con i semiti) e si ristabilirono nella Palestina, occupata nel frattempo da altri popoli, fondando le dodici tribù. Siamo intorno al 1200-1100 a.C., a questo punto, come già detto, entra in scena Davide che riunisce le tribù e fonda il regno di Israele, approfittando del fatto che l’Egitto, in lotta con gli Ittiti, lascia un po’ di autonomia alla Palestina.
    In seguito alla dominazione dei popoli del mare nasce il regno dei Fenici. Le città di Tiro, fondata da Hiram prima del 1100 a.C., e Sidone prendono il posto, come importanza, di Biblo. La convivenza con Israele, basata sul commercio, si interruppe per questioni religiose.
    La convivenza con l’Egitto fu ottima e sempre imperniata al commercio. Verso l’850 a.C. gli assiri di Assurnarsipal II, non più minacciati dal pericolo dei Medi, conquistarono i fenici, i quali, consapevoli della loro inferiorità, andarono incontro agli aggressori con pace e proponendo commerci. Ciò ebbe i suoi frutti fino al 700 a.C., quando tutte le città parteciparono ad una rivolta armena antiassira, subito sedata da Sennacherib, che impose una tassazione elevata. Sidone subì devastazioni, Tiro si difese e la sua isola non fu presa, nonostante alcune città fenicie collaborarono con gli assiri, come faranno secoli dopo con Alessandro Magno.
    Sotto il successore assiro Asarhaddon, Sidone si ribellò e stavolta fu Tiro a collaborare con i mesopotamici. Sidone fu distrutta. Fu poi la volta di Assurbanipal che continuò a controllare la zona.
    In generale, però la Fenicia, anche se divisa in due provincie (settentrionale e meridionale), continuò a prosperare con i commerci.
    Intorno all’800 a.C. alcuni abitanti di Tiro migrarono in Africa e fondarono Cartagine.
    La cultura che ne deriverà acquisterà sempre più potere, fino allo scontro con quella romana, che segnerà la sua fine.
    Nel 600 a.C. la civiltà di Assur e di Ninive lasciò il posto a quella di Babilonia, sotto il dominio di Nabucodonosor II, che scese fino in Egitto. I Fenici si allearono con Israele per contrastarlo, ma furono sconfitti. Gli ebrei conobbero la cattività babilonese, ma Tiro resistette di nuovo, dal 585 a.C. al 572 a.C., proponendo alla fine un patto di pace, in cui formalmente veniva annessa a Babilonia, mantenendo comunque una certa autonomia economica. Questo grazie anche alla politica del lungimirante re babilonese che sognava un grande impero in armonia. Gli ingegneri fenici lavorarono a Babilonia e la resero una delle città più belle del mondo.
    Nel 539 a.C. il re persiano Ciro II conquistò la Mesopotamia e quindi la Fenicia. I fenici costituirono la marina persiana e aiutarono gli ebrei a ricostruire Gerusalemme, abbandonata per il periodo di cattività. La convivenza con la Persia fu eccellente, anche se Tiro perse Cipro, presa dall’Egitto.
    Nel 525 a.C. il re persiano Cambise conquistò anche l’Egitto ed i Fenici collaborarono nell’impresa, avendo in cambio la quasi totale indipendenza.
    Nel 500 a.C., Dario era il re dell’impero persiano. Dinanzi a Salamina di Cipro i fenici furono sconfitti dai greci, inferiori come numero ed esperienza, successivamente presso Samo, con l’aiuto di Dario i fenici vinsero.
    Nel 480 a.C., Serse I, nuovo re di Persia, con 1207 navi, comandate da fenici, affrontò le 313 navi greche di Temistocle, presso la baia di Salamina in Grecia, venendo sconfitto. Fu poi la volta della sconfitta di Micale, presso Mileto. Contemporaneamente, presso Imera, in Sicilia, i siracusani (alleati dei greci) sconfissero truppe cartaginesi ed etrusche. Dunque, la Grecia fece la sua comparsa sui mari che prima erano fenici. Nel 465 a.C. gli elleni presero Cipro ed ormai, assieme a Cartagine, presero il posto dei libanesi, sempre più sotto le satrapie persiane.
    Verso il 350 a.C. Tripoli fu nominata capitale della federazione fenicia. I fenici avevano capito che dovevano unirsi, ma ormai era troppo tardi. Le città fenicie rimasero sotto il giogo persiano, nonostante qualche rivolta di Sidone e di Tiro.
    Nel 332 a.C. Alessandro Magno, diretto in Egitto, comincia ad assediare Tiro, dopo aver annesso le altre città fenicie. Secondo la sua strategia questa città doveva essere distrutta, perché rappresentava sempre la marina dei persiani. Fu aiutato da altre città fenicie e realizzò una diga che tolse ai tirii l’elemento naturale di difesa: il mare. Tiro, che aveva ricevuto la promessa di aiuto da parte di Cartagine, si difese strenuamente, poi, non ricevendo alcuna collaborazione esterna, capitolò. Fu la fine del regno fenicio. Tiro fu distrutta e rifiorì un po’ sotto i romani.
    Verso il 300 a.C. Alessandro Magno non c’era più ed il suo impero fu diviso in tre diadochie: la Macedonia sotto gli agonidi, l’Egitto sotto i tolemaici e l’Asia Minore sotto i seleucidi. Per quanto riguarda la Fenicia, anche se il suo regno non c’era più, ci furono ancora delle attività commerciali di svariato tipo. L’elemento dominante era però l’ellenizzazione dei costumi e della società: basti pensare che ogni 5 anni a Tiro si svolgevano i giochi.
    In questo periodo lo spirito fenicio sopravvisse in Cartagine che ebbe un grande splendore e presto si scontrò dapprima con i greci e poi con i romani.

  • Gli anni novanta in Europa

    Molti osservatori occidentali, e la stessa opinione pubblica, erano convinti che, caduto il muro di Berlino, dissolto l’Urss, indette libere elezioni in tutti i paesi ex comunisti, il passaggio alla democrazia liberale e all’economia di mercato sarebbe stato rapido e sostanzialmente indolore. La realtà si è mostra più complessa e drammatica. Dal punto di vista economico, il passaggio all’economia di mercato (privatizzazione delle imprese, liberalizzazioni dei prezzi, apertura verso l’estero) ha avuto gravi conseguenze immediate: caduta delle esportazioni e balzo delle importazioni, con conseguente passivo delle bilance dei pagamenti; inflazione e svalutazione della moneta; crescita del debito estero; rallentamento del prodotto interno lordo e della produzione industriale; chiusura di stabilimenti, linceziamenti e forti dazi di dissocupazione.
    Il vuoto politico creato dal crollo dell’Unione Sovietica ha poi aperto uno scenario di instabilità , caratterizzata dall’emergere di nuove aspirazioni nazionali e di sanguinosi conflitti interetnici. Ciò è accaduto sia negli stati multietnici nati dopo la prima guerra mondiale dalla dissoluzione degli imperi asburgico e ottomano, sia nell’ex-Urss, che aveva ereditato le compagine multinazionale dall’impero zarista. Caduto il governo centrale sovietico, conflitti a lungo sopiti sono riesposi. La stessa Russia una repubblica federativa multietnica, il governo guidato da Eltsin ha tentato di reprimere ogni tendenza separatista all’interno: l’episodio più grave è stata la sanguinosa guerra per riconquistare la Cecenia, che aveva dichiarato la propria indipendenza da Mosca (guerra conclusasi dopo un faticoso compromesso alla metà del 1996).
    Dopo il 1945 Tito, capo della Resistenza, aveva rinsaldato i legami tra i popoli dell’ex Jugoslavia, malgrado le violenze commesse durante la guerra, in particolare dagli ustascia croati e dai cetnici serbi. Dimostrando l’assurdità della tesi dell’odio ancestrale, Tito ha scommesso sulla coesione.
    Diceva: “La Jugoslavia ha sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo partito”.
    Dopo la sua morte, nel 1980, venne meno anche l’autorità del partito comunista, che aveva saputo tener testa all’Unione sovietica e costruire la “patria dell’autogestione operaia”. Il principio di una presidenza a rotazione, della durata di un anno, attribuita a turno a ciascuna delle sei repubbliche, indebolì la Federazione. A tutto questo è venuta ad aggiungersi la crisi del debito estero, che ha provocato migliaia di scioperi e forti tensioni tra le regioni ricche (Slovenia e Croazia) e le altre. Così, all’inizio degli anni Novanta all’interna della confederazione iugoslava si fece sempre più rilevante il nazionalismo: nel 1991 la Slovenia e la Croazia si dichiararono indipendenti, l’anno successivo Macedonia e Bosnia-Erzegovina.
    Serbia e Montenegro invece decisero di proseguire federate, dandosi una nuova costituzione e accarezzando apertamente mire espansionistiche verso i territori delle ex-consociate. Quando, nel 1989, in occasione del sesto centenario della sconfitta serba da parte dei turchi, Slobodan Milosevic pronunciò nel Kosovo un discorso carico d’odio davanti a un milione di persone, suscitò una fiammata di fanatismo nazionalista. Altri demagoghi Franjo Tudjman in Croazia e Alja Izetbegovic in Bosnia risposero con toni altrettanto razzisti. Gli scontri, di inaudita ferocia, sono iniziati tra Croati e Serbi, i quali dichiararono di sostenere la minoranza serba in Croazia, e successivamente sono scoppiati nella Bosnia-Erzegovina tra Serbi, Croati e Bosniaci. Nella primavera del 1992 nella Bosnia-Erzegovina, la guerra civile vide contrapporsi le milizie serbe e croate (i cui rispettivi governi progettavano di spartirsi la regione) e quelle musulmane, in un crescendo di violenze, di crudeltà e di massacri (particolarmente efferate sono state le operazioni di pulizia etnica condotte dai serbi di Bosnia), che hanno investito e sconvolto la popolazione civile. L’Unione europea si rivelò immatura e incapace di cogliere l’occasione per affermarsi, sul suo stesso continente, come una potenza capace di imporre la pace, se necessario con la forza. Per cercare di imporre una tregua alle fazioni in lotta, e soprattutto per bloccare i massacri nelle città nelle città bosniache, l’ONU ha inviato un contigente militare, che ha insediato il proprio quartiere generale a Sarajevo. Ma nonostante la presenza dei caschi blu, le truppe dell’Onu, la guerra è continuata. L’ONU deliberò un embargo commerciale, prolifero e aereo, alla Serbia, sospese nel 1995. Solo a seguito di un più deciso intervento della comunità internazionale si è giunti nel 1995 a un accordo di pace, che fa della Bosnia-Erzegovina uno stato unitario, ma composti di due parti di estensioni quasi equivalenti, la Federazione croato-musulmana e la Repubblica serbo-bosniaca. Il governo di Belgrado normalizzò le relazioni con le ex-consociate. Nel luglio 1997 il parlamento federale elesse presidente della repubblica Milosevic. Il principale ostacolo al raggiungimento della pace è costituito dalla difficoltà di tracciare i confini nella Bosnia-Erzegovina, dove le tre comunità da tempo vivono mescolate.
    Il Kosovo, la cui popolazione è costituita per il 90% da albanesi (musulmani e di discendenza non slava) è una regione povera e sovrappopolata. La costituzione del 1984 le aveva concesso lo statuto di provincia in seno alla Serbia, con un grado di autonomia che la assimilava a una repubblica, dotata di diritto di veto. Questo statuto fu abolito da Slobodan Milosevic nel 1989. I kosovari, privati dei loro diritti, hanno inoltre subito gli attacchi di gruppi fascistoidi provenienti da Belgrado, sostenuti dalla polizia e dall’esercito, che cercavano di provocare un esodo di massa. A fronte di questi eventi, la strategia della Lega democratica del Kosovo di Ibrahim Rugova eletto presidente della repubblica in occasione di elezioni dichiarate illegali da Belgrado consisteva nel costruire pacificamente una società parallela, con l’obiettivo di sostituirsi allo stato. Ma una formazione assai più radicale, l’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), emersa in piena luce da circa un anno, moltiplica gli attentati e reclama l’indipendenza.
    Un intervento militare da parte della NATO nel marzo 1998. La guerra durò 77 giorni. L’8 giugno il vertice dei ministri del G8, riunita a Colonia, definì i punti dell’accordo di pace, che prevedeva l’impegno dei paesi membri dell’ONU nella salvaguardia dell’integrazione iugoslava. Sotto la minaccia degli attacchi aerei della Nato, Milosevic ha firmato, nell’ottobre 1998, un accordo con il quale si impegna a ritirare il proprio esercito e autorizza l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea (Osce) a insediare nella regione la Missione di verifica del Kosovo (Mvk) con circa 1600 osservatori non armati. Ma questo accordo non ha impedito che nel gennaio scorso si verificasse una nuova esplosione di violenza. L’Unione europea ha giustamente rifiutato l’indipendenza del Kosovo. Sarebbe irresponsabile incoraggiare il frazionamento dell’Europa in micro-stati, e soffiare sul fuoco nella regione (un altro focolaio è quello della Macedonia, la cui popolazione comprende una minoranza albanese del 30%).
    Ma l’Ue ha anche ragione di esigere che Belgrado revochi l’abolizione dello statuto del Kosovo. Il 26 settembre 2000 si svolgevano elezioni presidenziali, che vedevano le vittorie di Kostuma, avversario di Milosevic. Nel 2002 Serbia e Montenegro stipulavano un accordo di federazione, che dava vita a una nuova entità statuale con un unico presidente, un parlamento e un Consiglio dei ministri federale. L’accordo include anche il mantenimento del seggio unico alle Nazioni Unite e la futura adesione all’UE. Il nome del nuovo Stato è Serbia e Montenegro, con l’eliminazione del nome Iugoslavia. Nel febbraio 2003 il parlamento iugoslavo approvava la costituzione della nuova unione all’interno della quale le due repubbliche avranno in comune difesa e politica estera, ma non la valuta.
    Drammatico e sanguinoso fu anche il corso degli avvenimenti in Romania, dove il segretario comunista Ceausescu aveva costruito una dittatura personale. Qui la protesta, duramente repressa, sfociò in una guerra civile, con migliaia di morti in tutto il paese. La vigilia di Natale del 1989 Ceausescu e la moglie Elena vennero catturati e giustiziati al termine di un processo sommario trasmesso in diretta televisiva.
    In Ungheria e in Bulgaria la crisi del regime e la transizione a un nuovo assetto politico avvennero senza scosse violente.
    La Cecoslovacchia dovette subire il problema della coesistenza fra le regioni boeme e quelle slovacche. A differenza di quanto accadde in altre regioni d’Europa, il dissidio venne risolto senza conflitti: l’1 gennaio 1993 il paese si divise formalmente in due stati sovrani, la repubblica ceca e la repubblica Slovacca.

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  • Il Sacro Romano Impero Germanico

    Nel 962 l’incoronazione di Ottone I sanciva la nascita del Sacro Romano Impero Germanico. L’accordo che venne stabilito tra Ottone I e papa Giovanni XII andava a tutto vantaggio della dinastia sassone che si arrogava il diritto di intervenire nella scelta dei pontefici e di determinare le scelte politiche. Ottenuto questo risultato, Ottone si volse verso quello che restava il suo obiettivo: l’assoggetamento della grande feudalità . A questo scopo fece leva sulla rivalità che opponeva i feudatari laici e quelli ecclesiastici. L’imperatore scelse di appoggiare questi ultimi nella consapevolezza che i vescovi-conti, per i quali non vigeva il principio dell’ereditarietà dei feudi (che alla morte tornavano all’imperatore). Ottone si volse a rendere stabili i confini dell’impero. In Italia furono sottomessi i principi longobardi. Nel 973 morì Ottone I e gli succedette il figlio Ottone II. Il nuovo imperatore dovette immediatamente affrontare una ribellione dei duchi di Baviera. La rivolta venne domata nel 978. Non meno complessa era la situazione in Italia, dove una rivolta di nobili romani avevano deposto il papa Benedetto VI. L’imperatore scese in Italia e riuscì a riportare l’ordine riportando il pontefice sul trono. Muore nel 983. Ottone III succedette al padre sotto la reggenza della madre Teofania e della nonna Adelaide. Le due reggenti dovettero combattere contro Enrico di Baviera. La ribellione venne domata nel 986. Muore nel 1002. A Ottone succedette il cugino Enrico di Baviera, figlio di quell’Enrico che si era ribellato più volte al padre e a lui. Il marchese di Ivrea Arduino si faceva incoronare re d’Italia. Questa incoronazione non rappresentava tanto il risveglio di un improbabile sentimento nazionale, quanto una reazione laica contro lo strapotere della feudalità ecclesiastica. Nel 1004 l’imperatore scese in Italia e si fece incoronare re per tornarsene immediatamente in Germania a causa della turbolenza feudatarie. Morì nel 1024. La morte di Enrico estinse la dinastia sassone e i feudatari germanici, nel desiderio di darsi un sovrano più legato alla realà della Germania, elessero Corrado di Franconia. Il re Rodolfo III di Provenza legò il proprio regno ai domini della dinastia imperiale tedesca di Franconia (Corrado II il Salico [1033]) e i diritti sul regno di Arles si trasmisero ai successori fino al 1378. I sovrani tedeschi furono però di fatto assenti dalla Provenza, dove le varie signorie feudali e cittadine si svilupparono godendo di notevole autonomia. Nel 1032 la Svizzera viene integrata nel Sacro Romano Impero Germanico. Corrado emanò nel 1037 la Constutio de feudis con la quale riconosceva l’ereditarietà dei feudi minori. Il suo gesto non gli dava tuttavia nessun vantaggio. Tentò allora, scendendo a Roma, di stringere un alleanza con il Papato. Questo progetto venne vanificato dall’aristocrazia romana e Corrado, rientrato in Germania, vi morirà nel 1039. L’epoca in cui salì al trono il successore di Corrado II era dominato dallo sviluppo del movimento cluniacense. Questa tendenza religiosa si proponeva di rinnovare la Chiesa, eliminandone alcuni degli aspetti deteriori, quali la vendita dei beni spirituali e il concubinaggio dei preti. Enrico III, consapevole dell’importanza che, per la stabilità dell’impero, aveva una Chiesa rinnovata, appoggiò il movimento. Nel contempo, dopo aver liberato la Santa Sede dal controllo dell’aristocrazia romana, la asservì completamente ai suoi fini, facendo eleggere una serie di papi germanici, che gli sarebbero stati estremamente fedeli.
    La conseguenza di maggiore portata storica della ripresa economica e demografica fu il ritorno della città a un ruolo economicamente e politicamente dominante. Di conseguenza, nell’Italia settentrionale si era assistito ad una continua perdità del potere da parte dei feudatari. Il Comune era, all’origine, un’associazione privata tra i rappresentati delle famiglie più influenti della città , che aveva come obiettivo la conquista di autonomia rispetto al feudatario (per esempio, non sottostare a un determinato contributo). Ben presto però i Comuni iniziarono a esercitare il potere politico all’interno delle città , creando organi di governo. Fu la forma del Comune consolare che in seguito, nel corso del XIII verrà sotituito dal Comune podestarile, retto cioè da un podestà chiamato da fuori per tenere a freno le lotte che si scatenarono fra i diversi gruppi sociali della città . Si crearono, nel complesso universo comunale italiano, due fazioni: i guelfi, alleati del papa, e i ghibellini dell’imperatore. Nel 1056 muore Enrico III e gli succede il figlio Enrico IV. Enrico IV prese poi una decisione: quella di nominare i vescovi a seconda delle proprie esigenze. Nel 1075, Gregorio VII ribadì il divieto per ogni laico di nominare vescovi sotto pena di scomunicazione. Nel 1076, in un sinodo raduno a Worma, fece deporre Gregorio VII che, un mese dopo, scomunicava l’imperatore. Enrico IV si recò con una debole scorta presso il castello ed attese per tre giorni all’aperto sotto la neve di essere ricevuto dal Papa. Questi, resosi conto dell’abilità della mossa del suo avversario, tentò di non riceverlo. Alla fine dovette accoglierlo, assolverlo e ritirare la scomunica. Rientrato in Germania, Enrico fronteggiò vittoriosamente Rodolfo di Svevia, che in sua assenza, era stato eletto nuovo re. Nel 1081 Enrico scese in Italia dove si assicurò l’alleanza dei comuni dell’Italia settentrionale. Il papa Urbano II riuscì a mettere contro l’imperatore anche il figlio di questi, Corrado, che fece fidanzare con la figlia del re normanno di Sicilia, Ruggero d’Altavilla. Corrado venne tuttavia deposto dal padre che nominò suo erede il secondogenito Enrico. La situazione mutò a causa di una insurrezione dell’alta nobiltà ed Enrico IV venne imprigionato dal figlio, che aveva trovato appoggio nel nuovo Papa Pasquale II. Riuscito a fuggire, l’imperatore morì. L’alleanza fra Pasquale II e il nuovo imperatore non durò a lungo. Enrico V scese nel 1110 in Italia ed il Papa, consapevole di non potergli resistere con le armi, gli propose di rendergli tutti i feudi ecclesiastici purchè solo al Papato venisse riconosciuta la facoltà di investire i vescovi. Alla morte di Enrico V, la Germania fu travagliata da guerre per la successione. Enrico V aveva designato come suo successore Federico di Hohenstaufen, duca di Svevia, ma una parte dei grandi di Germania aveva eletto come re Lotario II di Suplimburgo, duca di Sassonia. Da principio ebbe la meglio Lotario II, poi prese soppravento Corrado III (1138-1152), che inizio la Casa sveva. Lotario II non mancò di intervenire nelle questioni italiane, ma senza preoccuparsi delle novità comunali. Invece Corrado III non mise mia piede nella penisola. Naturalmente, della negligenza del primo e dell’assenza del secondo i Comuni non persero tempo per ingrandirsi a spese dei grandi feudatari. Morto l’imperatore Corrado III, gli successe al trono il nipote Federico I (1152-1190). Egli potè dedicare i primi due anni di regno alla sistemazione interna della Germania. Desiderando un ritorno alla legalità , si trovò a più riprese a lottare contro i comuni. Con lo scopo di rendere noto il programma della sua nuova politica, Federico, nel dicembre, convocò una Dieta a Roncaglia, luogo tra Lodi e Piacenza. In quell’occasione l’imperatore annunciò ai convenuti, feudatari e rappresentanti dei Comuni, che tutte le usurpazioni di quei diritti che competevano all’imperatore dovevano considerarsi come non avvenute e ritornare al legittimo detentore. I Comuni non accettarono. Federico, che era venuto in Italia con forze relativamente esigue, insufficienti per affrontare Milano, sdegnato per l’ormai aperta disobbedienza dei Comuni, si sfogò distruggendo alcuni dei Comuni minori. Federico poi andò a Pavia, citò che assieme a poche altre, per odio verso le altre città concorrenti, si era schierato con lo Svevo e, quivi, cinta nell’aprile del 1155 la corona ferrea, si mosse verso Roma per ricevere dal Papa Adriano IV la corona imperiale. La seconda discesa, in cui l’imperatore venne agguerrito di un forte esercito, segnò la più decisiva offensiva imperiale e il momento della massima umiliazione per i Comuni. Nel 1158 Federico venne in Italia con il fermo proposito di rendere esecutivi i decreti della Dieta di Roncaglia. Milano e parecchie altre città cacciarono i rappresentanti dell’imperatore sfidando la sua rappresaglia. La reazione del Barbarossa fu terribile. Per prima cosa egli attaccò Crema, che, dopo aver sopportato sei mesi di barbaro assedio, si arrese e fu distrutta dalle fondamenta (1160). In quell’occasione si arrivò al punto che ostaggi e prigionieri cremaschi vennero legati alle torri d’assedio per fare in modo che gli assediati non colpissero, ma i difensori di Crema, nel furore della battaglia, superarono ogni sentimento di pietà . Poi fu la volta di Milano. Contro Milano Federico ebbe l’aiuto di Como, Novarra, Pavia e Cremona, tutte città che avevano dovuto subire l’egemonia della capitale lombarda. La resistenza dei milanesi durò quasi due anni e poi fu costretta ad arrendersi pe la fam (1162). Federico decise di distruggere la città , nonostante tutti gli abitanti, con il capo cosparso di cenere, a piedi scalzi e reggendo in mano un crocifisso, fossero venuti al campo imperiale a chiedere misericordia. Ma quel che è peggio è che il Barbarossa destinò a questo compito i Comuni minori suoi alleati, aizzando in tal modo le discordie italiane. Per il momento le deliberazioni della Dieta di Roncaglia divennero esecutive in tutta l’Italia settentrionale. Nel frattempo, con la morte di Adriano IV, avvenuta nel 1159, il dissidio con il Papato si era inasprito trasformandosi in uno scisma. Federico I, fedele ai suoi alleati, aveva addirittura tentato di influire sull’elezioni del nuovo pontefice, ma avevano eletto il più deciso esponente della corrente anti-imperiale, Alessandro III (1159-1181), che scomunicò l’imperatore. I comuni dell’Italia settentrionale, diedero vita ad un vasto movimento di alleanze. Federico da principio si preoccupò più del Papa che dei Comuni. Ma finalmente le altre città si accorsero che il programma imperiale non era anti-milanese bensì anti-comunale. Da quel momento anche i Comuni ostili alla capitale lombarda si vennero coalizzando. Altre due successive discese del Barbarossa non fecero che accelerare l’amalgamarsi delle forze a lui contrarie. Lo scontro frontale e conclusivo si ebbe durante la quinta discesa del Barbarossa nel 1174. I due eserciti si trovavano di fronte per la prima volta a Montebello, presso Voghera, ma il risultato non fu definitivo. Lo scontro finale avvenne a Legnano, tra il Ticino e l’Olona, il 29 maggio 1176, L’esercito della Lega Lombarda stava ormai ripiegando quando infransero l’urto della cavalleria nemica decidendo le sorti della battaglia. La vittoria dei comuni era completata. Federico fu costretto a venire a patti con la Chisa per la situazione che si era venuta creare in Germania, dove i feudatari ecclesiastici si rifiutavano di sostenerlo ulteriormente se non avesse fatto pace con il Papa. Nel 1190 morì Federico I. Avvenne così che Enrico VI si trovò ad essere quasi contemporaneamente re di Sicilia e Sacro Romano Imperatore. Enrico VI s’insedio sul trono dell’Italia meridionale, nonostante che le popolazioni locali tentassero d’impedirglielo e gli contrapponessero un discendente degli Altavilla. Enrico tentò di proseguire la lotta contro i Comuni tramite il governo di vicari tedeschi. Le ambizioni di Enrico VI finirono per allarmare i Comuni e specialmente il Papa, il cui territorio si sarebbe serrato entro l’impero svevo. Nel 1197, però, morì improvvisamente il giovane imperatore tedesco e l’anno successivo lo seguiva la moglie Costanza; il figlio Federico, in ancor tenerissima età , si trovò orfano di entrambe i genitori; la sua tutela era stata affidata dalla madre morente al nuovo pontefice Innocenzo III. I Comuni cacciarono i vicari tedeschi; in Germania si riaccesero le lotte fra i grandi feudatari; nel regno di Sicilia, i contrasti tra le fazioni e l’intervento del Papa e delle città marinare nell’intento di trarre profitto della confusa situazione, provocarono il caos. La Dieta di Francoforte fin dal 1196 aveva riconosciuto come re di Germania il figlio di Enrico VI, Federico, che aveva allora appena due anni e che Enrico aveva affidato al fratello Filippo di Svevia per l’incoronazione. Ma la morte di Enrico VI aveva reso imprudente il viaggio del bambino. Incominciò allora la contesa fra Filippo di Svevia, incoronato re di Germania a Mangoza, e Ottone di Brunswick, incoronato con la stessa corona a Colonia. Il contrasto tra Ottone e Filippo offrì alla diplomazia papale l’occasione d’intervenire nelle cose di Germania. Con lo scopo di eliminare una volta per tutte il pericolo di un’unione tra la corona imperiale e quella siciliana, Innocenzo III appoggiò Ottone che, nel 1209, ottenne il titolo d’imperatore. L’appoggio del Papa fu pagato da Ottone di Brunswick con la cosiddetta Capitolazione di Neuss, con la quale s’impegnava a concedere al Papato tutte quelle terre sulle quali, nel secolo VIII, era nato lo stato Pontificio. Ottone si impegnava inoltre a rinunziare a quel minimo di ingerenza nelle elezioni vescovili; a riconoscere il vassallaggio che subordinava il regno di Sicilia alla Chiesa in conseguenza dell’antica investitura concessa dal Papa ai Vichinghi. Ma, dopo l’incoronazione, il neo-imperatore Ottone VI si comportò ben diversamente. Innocenzo III lo scomunicò si accostò ai nemici di Ottone IV, contrapponendo a costui il giovane di cui era stato tutore e che aveva appena compiuto i diciotto anni: Federico II. In cambio dell’appoggio papale il giovanissimo Svevo aveva dovuto promettere di non riunire la corona imperiale a quella siciliana, di cedere allo Stato pontificio alcuni territori della penisola. Lasciata la reggenza del regno di Sicilia alla moglie Costanza d’Aragona, Federico andò in Germania a Magonza il 9 dicembre 1212. Poi egli combattè l’avversario e alleati. La battaglia decisiva, che vide vittorioso Federico e lo insignì del supremo potere imperiale, fu combattuta a Bouvines il 27 luglio 1214. Si è già spiegato come ogni sforzo del Papato avesse lo scopo di dividere le due corone. Federico, non rinunziando al regno di Sicilia, riacesse la lotte tra l’impero e i comuni: l’imperatore, nemico al Papato e ai Comuni, e il Pontefice alleato con questi. I Comuni, allarmati, avevano già stretto a San Zenone, presso Mantova, un nuovo patto tra loro, che fu la seconda Lega Lombarda. La situazione si aggravò quando Federico affrontò decisamente quei Comuni che gli erano ostili. Un aiuto davvero inaspettato venne a Federico da un feudatario dell’Italia settentrionale Ezzelino III da Romano. Approfittando della confusione e delle lotte interne tra le fazioni, costui sottomise parecchie città nel territorio di Treviso e Verona, gettando così le basi di una vasta Signoria. Il 27 novembre 1237 l’imperatore riportò a Cortenuova una decisiva vittoria sulla Lega. In Germania, affrontò e sedò una ribellione mossagli dal figlio Enrico; questi fu battuta e condotto prigiero in un casrtello della Puglia dove morì nel 1242. Federico dette in moglie ad Ezzelino la figlia Selvaggia ed elevò il figlio Enzo a Re di Sardegna. Nel 1239 il papa Gregorio IX lanciò una seconda scomunica contro Federico. Il Pontefice si mise anche alla testa di una coalizione antimperiale formata dai Comuni e dalle repubbliche marinare. Federico agì allora con incredibile audacia: nel 1241 fece assalire dai pisani, fedelissimi ghibellini, e dalla sua flotta siciliana quella genovese, che poetava i vescovi francesi al Concilio romano. A Gregorio IX succedette Innocenzo IV. Il Concilio, non essendosi potuto riunire a Roma, fu tenuto nel 1245 a Lione, in cui l’imperatore fu scomunicato per la terza volta. Successivamente, nel giro di pochi anni, sul capo dell’imperatore cadde ogni genere di disgrazie. Le truppe imperiali questa volta furono battute dai Comuni (1247). Il 13 dicembre 1250, colto da violenti febbri, Federico II morì nel suo castello di Fiorentino in Puglia. Da questo momento le storie d’Italia e di Germania si dividono e si complicano. Sembrò che Manfredi, figlio del defunto imperatore, potesse risollevare le sorti del Casato: egli, sulle orme dell’eredità paterna, condusse un’abile politica antipapale e anticomunale. Nell’Italia settentrionale, Manfredi trovò un alleato per la sua guerra nel già nominato Ezzelino da Romano. La sua condotta crudelissima alla fine provò la reazione delle forze guelfe, che nella battaglia di Cassano d’Adda nel 1259 lo vinsero e lo catturarono; Erzellino morì in prigione: essendosi strappato le bande e riaperto le ferite, si lasciò morire dissanguato. La rivincita ghibellina si ebbe in Toscana, presso Siena, nella battaglia di Montaperti.
    Dopo la morte di Federico II di Svevia (febbraio 1250) il pontefice Innocenzo IV, in forza del dominio che il Papato aveva sul Mezzogiorno per effetto del vassallaggio vichingo, decise di offrire la corona di Napoli al fratello di Luigi IX di Francia, Carlo d’Angiò, purchè rinunciasse al diritto di nomina e di giurisdizione sugli ecclesiastici e alla possibilità di unire la corona di Napoli con quella imperiale, come invece era avvenuto con Federico II. Seguì la battaglia di Benevento nel 1266, in cui, nonostante una valorosa resistenza, Manfredi venne battuto e ucciso. Una settimana dopo la vittoria a Benevento su Manfredi, il 7 marzo 1266, l’angioino entrò trionfante in Napoli. Fu quella la prima volta in cui la città ospitò una corte e assunse la dignità di capitale: i nuovi sovrani si preoccuparono soprattutto del miglioramento della rete stradale e dell’abbellimento della città (fontane e bagni pubblici). Carlo I pensava solo ai suoi interessi politici. Incrementò anche il legame con il re d’Ungheria Bela IV, unendo in matrimonio i figli Carlo e Isabella con quelli del sovrano ungherese, Maria e Ladislao.
    Morto Manfredi, rimaneva in Germania un ultimo rampollo della casa sveva, il figlio di Corrado IV, Corradino, che aveva circa quindici anni. Incitato dai ghibellini a riconquistare il regno di Sicilia, egli lasciò la sua terra. Carlo d’Anngiò lo affrontò e lo sconfisse nella battaglia di Tagliacozzo, in Abruzzo. Egli si rifugiò nel castello di Astura, sotto la protezione di un membro della famiglia feudataria di Frangipane. Ma quel nobile lo tradì e lo consegnò per denaro nelle mani dell’Angioino.
    Ma anche Carlo d’Angio’ venne presto in contrasto con il pontefice per la sua ambizione e irritò con il suo malgoverno il popolo siciliano che si ribello’ nei Vespri Siciliani.

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  • Il primo dopoguerra

    La prima e forse più importante eredità del conflitto fu la fine della secolare egemonia europea: l’Europa del dopoguerra non era più il centro economico e politico del mondo. Questo ruolo venne occupato dagli Stati Uniti. Quando le armi tacquero, tutte le potenze del continente si trovarono pesantemente inebitate nei confronti degli Stati Uniti, che divennero non solo i maggopri produttori, ma anche i maggiori creditori mondiali. La lunghezza del conflitto, unita all’itilizzo di armi pesanti sempre più sofisticate richiese grandi investimenti economici e tecnologici e la mobilitazione delle strutture industriali. Nel breve periodo, questo creò grandi problemi: i paesi europei si trovarono alle prese con una grave inflazione, causata dall’emissione di moneta per finanziare le spese belliche, con un pesante deficit pubblico e con la rincoversione produttiva (necessità di convertire l’apparato industriale della produzione bellica a quella civile). Ma più importante è la crescita dell’intervento dello stato nell’economia, dovuta alla necessità di determinare la produzione, sia militare sia civile, in base all’esigenze belliche. Finito il conflitto, si dovette dunque fare i conti con una partecipazione alla vita politica di dimensioni prima sconosciute: milioni di donne, mobilitate in modo massiccio nella produzione in sostituzione degli uomini al fronte, fecero il loro ingresso nel mondo del lavoro, acquisendo autonomia e indipendenza economica.
    Nel gennaio 1919 si riunì a Parigi la conferenza di pace. Ad essa parteciparono i rappresentanti delle nazioni vincitrici. I paesi vinti non furono chiamati alla conferenza. Francia e Inghilterra erano intenzionate a trarre dalla pace grandi vantaggi. Soprattutto la Francia voleva infliggere un’umiliazione vera e propria alla Germania. E in questo anche l’aspetto formale assunse la sua importanza: il trattato di pace veniva infatti firmato a Versailles, là dove, mezzo secolo prima, era stato proclamato l’impero tedesco di Guglielmo I e di Bismark. Con il trattato di Versailles firmato il 28 giugno 1919 la Germania cedette al Belgio i piccoli distretti di Eupen e Malmedy, restituì alla Francia l’Alsazia-Lorena e consentì che si tenesse nello Schleswuing un pebliscito per la determinazione del confine della Danimarca. Inoltre cedette per quindici anni alla Francia la regione carbonifera della Saar, il cui destino sarebbe poi stato determinato da un referendum, mentre l’esercito tedesco veniva ridotto a centomila uomini e si proibiva alla Germania di costruire aerei militari, artiglieria pesante e carri armati. La Germania rinunciava a tutti i suoi diritti sull’impero coloniale del Reinch. In seguito alla nascita di due nuovi stati, Polonia e Cecoslovacchia, alla prima cedette il corridoio polacco, mentre il porto di Danzica veniva amministrata dalle Società delle Nazioni. Alla Cecoslovacchia cedette la piccola zona di Troppau, mentre veniva stabilito nelle aree plurinazionali della Prussia orientale e della Slesia settentrionale si tenessero plebisciti.
    Dallo smembramento dell’impero-austro-ungarico nacquero svariate nazioni: la repubblica austriaca, la repubblica ungherese, la repubblica cecoslovacca, unendo Boemia, Moravia e Slovacchia.
    L’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Guglia, Trieste e l’Istria. Restò invece apetta la questione di Fiume e della Dalmazia: a Fiume la maggioranza della popolazione era italiana, mentre in Dalmazia era slava. L’accordi di Londra del 1915 accenava alla Dalmazia, ma non a Fiume, e il nuovo regno jugoslavo non voleva cedere la regione dalmata.
    Il nostro paese non ottene invece nessuno nuova colonia africana nè mandati internazionali in Medio Oriente. Molti pensarono, allora che l’Italia non era stata ricompensata abbastanza per i sacrifici che aveva sostenuto. Si diffuse l’idea della vittoria mutilata.
    Nei Balcani fu formato il regno di Jugoslavia, unendo insieme nazioni diverse: Croazia, Slovenia, Bosnia Erzegovina (che appartenevano all’impero austro-ungarico); Serbia e Montenegro (che erano regni autonomi). La Jugoslavia fu una creazione artificiale dei diplomatici della conferenza di Parigi, realizzata nella speranza che un unico Stato, di una certa autonomia, rendesse più stabile e calma la zona balcanica, tradizionalmente turbata da conflitti e di discordie.
    Negli Stati Uniti, il presidente Wilson propose l’istituzione di una Società Generale delle Nazioni che doveva “fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi stati”. A tal fine gli stati membri s’impegnavano a rispettare l’integrità territoriale e l’indipendenza di tutti gli altri (art. 10): dichiaravano materia d’interesse e pertanto d’intervento della Società qualsiasi guerra o minaccia, anche se diretta contro uno stato non membro (art.11); s’impegnavano a sottoporre le loro controversie o a un giudizio arbitrale o all’esame del Consiglio della Società (art.12). Molte speranze collegate con la Società andarono deluse negli anni successivi alla sua fondazione. Eppure nonostante questi aspetti negativi, l’esperimento societario non fu inutile al progresso di tutte le nazioni. Le esperienze piuttosto negative insegnarono molto, se non altro a non commettere alcuni errori sostanziali. Nella rielaborazione dei valori morali e politici del primo dopoguerra cominciò a farsi strada più insistentemente l’opinione che, per opporsi efficacemente al nazionalismo, lo stato nazionale doveva essere sostituito da quello continentale e che l’Europa doveva organizzarsi in federazione. Nel 1924 gli stati avevano ancora mostrato di nutrire fiducia nello spirito societario, votando il Protocollo di Ginevra, con il quale s’impegnavano ad accettare l’arbitrato obbligatorio in un certo numero di casi gravi. Ma il Protocollo rimase lettera morta quando in Inghilterra, dopo alcune settimane, il governo laburista fu sostituito da quello conservatore che denunciò l’approvazione precedentemente data. Con gli accordi di Locarno siglati il 16 ottobre 1925: 1) La Germania si impegnava a non compiere alcuna aggressione conto la Francia e il Belgio, paesi che assumevano una obbligazione analoga nei suoi confronti; 2) La Gran Bretagna e l’Italia garantivano l’inviolabilità dei confini tra la Germania e Francia, e tra Germania e Belgio. Si dava così un riconoscimento all’esistenza della Società delle Nazioni, ma in una forma che denunciava sfiducia nel suo funzionamento. Altri accordi di natura bilaterale furono stipulati a Locarno dalla Germania con il Belgio, la Cecoslovacchia, la Francia e la Polonia. L’orientamento ufficiale degli stati fu di raggiungere delle garanzie di sicurezza attraverso ulteriori accordi regionali. La Società delle Nazioni era terminata con un fallimento anzitutto per l’assenza degli Stati Uniti, responsabili dell’esistenza della nuova organizzazione e, data la loro potenza, della sicurezza del mondo. Il conflitto italo-etiopico fu veramente la tomba della Società delle Nazioni. Esso non dimostrò soltanto debolezza dell’organismo, ma anche la scarsa sincerità di chi in suo nome, aveva assunto un deciso atteggiamento morale. Ne derivò il crollo dell’edificio societario nella stima dei governi e dei popoli, e l’inizio di tutte le iniziative intese a scuotere la pace e la legge internazionale.
    Nel novembre del 1916 il vecchio imperatore Francesco Giuseppe era morto e gli era succeduto il diciannovenne Carlo I (o Carlo VIII), animato da propositi di pace, ma politicamente impreparato e privo di una valida guida. Il 12 novembre 1918, con la proclamazione della repubblica austriaca, veniva ufficialmente consacrata la dissoluzione del grande edificio plurinazionale costituito dagli Asburgo nel corso dei sette secoli di storia. Con trattato di saint-Germain essa cedeva all’Italia il Tirolo dal passo del Brennero, il Trentino, Trieste e l’Istria; alla Cecoslovacchia la Boemia, la Moravia, la Slesia austriaca e parte della Bassa Austria; alla Romania la Bucovania e al nuovo stato di Jugoslavia la Bosnia, l’Erzegovina e la Dalmazia. Non migliore fu il trattamento riservato all’Ungheria che dovette cedere immensi territori ai paesi vicini, soprattutto alla Romania, e accettare che tre milioni di magiari diventassero sudditi di altri Stati. In Austria, quale forza politica emerse il Partito socialdemocratico. Drammatico fu il dopoguerra in Ungheria, divenuta stato sovrano nella forma della repubblica parlamentare. Mentre i socialdemocratici austriaci erano di orientamento moderato, molto forte era nel socialismo ungherese la tendenza rivoluzionaria e comunista, che trovava i suoi punti di forza nei consigli operai sorti in molte fabbriche. Socialdemocratici e comunisti si allearono per dare vita a un regime di tipo socialista, una repubblica sovietica (fondata cioè sui soviet), proclamata il 21 marzo 1919 sotto la guida del comunista Bèla Kun.
    In Germania, dopo la caduta dell’imperatore (9 novembre 1918) venne proclamata la repubblica: anche qui la maggiore forza politica uscita dal collasso del paese risultò esse il Partito socialdemocratico, cui venne affidato il governo provvisorio. Nell’agosto 1919 fu approvata la costituzione di Weimer, così chiamata dal nome della città in cui si tennero i lavori dell’assemblea costituente. La Germania si presentava come una repubblica parlamentare federale. La Gran Bretagna uscì dalla guerra come grande potenza in declino, quasi incarnado in sè la fine dell’egemonia europea. In Francia e Inghilterra la crisi post-bellica non mise in pericolo le istituzioni democratiche; diversamente accadde in Itali, dove i primi anni venti videro il crollo dello stato liberale e l’avvento della dittatura fascista. La prima guerra mondiale aveva distolto l’attenzione dei governi europei dai propri possedimenti africani aprendo spazi ai movimenti indipendentisti e nazionalisti che si diffondono in modo particolare nell’area settentrionale e in quella nord-orientale. Sono queste le aree popolate dagli arabi, in maggioranza islamici, dotati di un forte patrimonio culturale e tradizionalmente avversi alle forme di civiltà europea. Ma i tempi dell’indipendenza matureranno soltanto dopo la seconda guerra mondiale. Diverso è il discorso per l’Egitto che in questo periodo riesce a conquistare, almeno formalmente, la propria indipendenza. Nel marzo del 1919 scoppia un’insurrezione nazionalista contro il dominio inglese: il governo britannico affida al generale Allenby, nominato commissario, il compito di gestire la fine del protettorato. L’Egitto viene dichiarato indipendente nel febbraio del 1922 e nell’aprile del 1923 il Khedivè Fu’ad viene eletto re. L’Inghilterra mantiene comunque una forte influenza politico-economica sul paese africano e mantiene anche un proprio contingente militare. Le proteste dei nazionalisti, molto numerosi nel parlamento egiziano, contro la presenza militare inglese spingono il re Fu’ad a sciogliere il parlamento e a sospendere la costituzione. Nel 1929 un nuovo accordo anglo-egiziano che limita la presenza dei militari inglesi alla sola zona del canale di Suez riporta la normalità nel paese subito rotta, però, nel 1930 da una nuova stretta autoritaria da parte della monarchia. Il movimento nazionalista (Wafd) avvia allora una lunga battaglia contro la dittatura che porta, nel 1935, alla restaurazione della costituzione liberale. Nell’aprile del 1936 muore il re Fu’ad e gli succede il figlio Faruq. Questi nel 1938 entra in contrasto con il primo ministro, scioglie il parlamento e indice nuove elezioni da cui esce vincente.
    Il sorgere e la diffusione dei movimenti di indipendenza nazionale rappresentano il segnale di una generale presa di coscienza da parte delle popolazioni africane. Nonostante le differenze etniche e religiose, la comune condizione di genti colonizzate alimenta una solidarietà diffusa che trova espressione nel movimento panafricanista, mirante all’unità politica del continente. Nel 1963 troverà infine un’espressione concreta nella costituzione dell’Organizzazione dell’unità africana (OUA).
    La storia del Sudafrica si distingue da quella delle altre nazioni del continente africano per la presenza di un forte conflitto razziale. Colonizzate dagli olandesi (boeri) sin dal XVII secolo, le regioni del Sudafrica subiscono nel corso dell’ottocento la sistematica occupazione da parte degli inglesi che con la guerra anglo-boera del 1899-1902 emarginano gli antichi colonizzatori e trasformano il paese in dominion (1910). Ciononostante continua il conflitto tra le due componenti europee che trova espressione nella battaglia politica tra il Partito del popolo, guidato dai generali Louis Botha e Jan Christian Smuts, e il partito nazionalista capeggiato dal generale James Barry Munnick Hertzog. La prima formazione si batte per un più grande Sudafrica nel quadro del Commonwealth, la seconda vuole invece eliminare l’influenza politica inglese. Nel primo dopoguerra (il Sudafrica partecipa al conflitto al fianco della Gran Bretagna e ottiene l’amministrazione della ex colonia tedesca della Namibia) prevale il Partito unionista di Botha e Smuths che getta le basi giuridiche della segregazione, vietando ai neri il possesso delle terre, e al tempo stesso tenta un’operazione di integrazione con l’apertura alle formazioni politiche espressione della maggioranza nera, come l’African national congress (ANC) fondato nel 1912. Nel 1924 giunge però al potere il partito nazionalista di Hertzog, espressione della destra afrikaner che nel 1926 estende i principi della segregazione precludendo ai neri le attività indutriali e negando loro i diritti politici, sotto la pressioni del movimento apertamente razzista e fiolotedesco di D.F. Malan. Nel 1934 si costituisce il governo di coalizione Hertzog-Smuths che unisce i due vecchi partiti antagonisti nel Partito nazionale unico sudafricano. Il 1934 è anche l’anno in cui il Sudafrica raggiunge la completa autonomia dalla Gran Bretagna nel campo della politica interna. Il dominio della popolazione bianca si definisce nel 1936 con le leggi sulla rappresentanza dell’elemento indigeno che istituisce un Consiglio degli autoctoni con funzioni esclusivamente consultive. Solo nel secondo dopoguerra si parlerà di Apartheid (con i divieti dei matrimoni misti, l’imposizione di aree residenziali differenziate, il divieto di ogni organizzazione politica di rasppresentanza dei neri) ma le basi di quella politica vengono gettate, sia giuridicamente che politicamente, negli anni venti e trenta.
    Nell’immediato dopoguerra le regioni mediorientali, già appartenenti all’impero turco, vengono affidate dalla Società delle nazioni al controllo della Francia e della Gran Bretagna con la formula del mandato. Alla Francia vanno la Siria e il Libano, all’Inghilterra la Palestina, la Transgiordania e parte della Mesopotamia. In teoria non si tratta di colonie – il mandato prevede infatti che i territori siano soltanto indirizzati allo sviluppo e all’autogoverno – ma l’intenzione delle potenze europee è quella di sfruttare i grandi giacimenti petroliferi dei quali ottengono le concessioni. Nell’area di influenza inglese nascono presto due Stati indipendenti: nel 1921 il Regno dell’Iraq e nel 1923 quello della Transgiordania. Nell’area francese il processo di emancipazione nazionale è invece più lento: la Siria ottiene l’indipendenza nel 1936 e il Libano soltanto nel 1941. Fino alla seconda guerra mondiale tutta la regione mediorientale rimane comunque sotto l’influenza politica ed economica delle due potenze europee.
    La situazione politica della Palestina, che rimarrà sotto il mandato britannico fino al 1948, è molto più complessa per la presenza del contrasto religioso tra arabi ed ebrei. Questi ultimi avevano iniziato a trasferirvisi sin dalla fine dell’ottocento richiamati dall’appello del movimento sionista che rivendicava al popolo ebreo l’antica Terra promessa. Negli anni venti e trenta la comunità ebraica, organizzata in colonie di tipo collettivistico (i kibbutz), è ormai numerosa e provoca le prime reazioni della popolazione araba. La questione palestinese scoppierà in tutta la sua drammaticità dopo il 1948, quando si costituirà lo Stato d’Israele.
    I movimenti di indipendenza ottengono risultati anche nelle altre regioni del Medio Oriente. Nella penisola arabica, nel 1930 l’Inghilterra è costretta a limitare il proprio controllo a una ristretta area costiera lasciando che nel resto della penisola sorga lo Stato indipendente dell’Arabia Saudita con capitale Riyad (1932). Nell’antichissimo impero persiano (Iran), diviso in zone d’influenza inglese e sovietica, il movimento di riscossa nazionale è guidato da un generale che, detronizzato lo Shah, si fa proclamare nel 1926 imperatore con il nome di Reza Pahlawi. Egli avvia una politica di riforme e di investimenti pubblici che incontra il favore dell’Unione sovietica con la quale firma nel 1927 un trattato di non aggressione.
    In ultimo, bisogna ricordare la Repubblica turca che si forma nel 1923 sotto la guida del leader nazionalista Mustafà Kemal. Essa è ciò che rimane, dopo due secoli di progressiva dissoluzione, dell’antico impero ottomano disgregatosi definitivamente dopo il primo conflitto mondiale. Sotto la guida di Kemal la Turchia avvia un processo di sviluppo e di modernizzazione.

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  • Crisi dell’Impero Austriaco Ottomano

    Impero austiaco: La rivoluzione del 1848 era costata il trono al debole e poco dotato imperatore Ferdinando d’Asburgo che, avendo suo fratello rinunciato alla corona, aveva abdicato in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe (1848-1916). Il giovane imperatore, desideroso di rafforzare il prestigio e la potenza militare della monarchia asburgico, si era impegnato ad annientare il movimento magiaro e nel 1851 aveva abolito la Costituzione liberale concesa nel 1849, sostituendola con una serie di provvedimenti che avevano rafforzato l’autorità centrale.
    Andarono a precisandosi in esso due partiti contrapposti: uno, rappresentante gli interessi ungheresi, boemi e slavi, era favorevole a un programma federalista che concedesse ai territori non tedeschi maggiori libertà ; l’altro, rappresentante gli interessi tedeschi, intendeva conservare una forte organizzazione centralizzata, pur accettando di trasferire alcuni poteri alle autorità locali. Particolarmente vivace si presentava l’opposizione dei liberali e nazionalisti ungheresi. Dall’altra, parte la dieta ungherese era riuscita a ottenere l’appoggio dei croati, ma non quella dei serbi, slovacche e rumene quei diritti nazionali che esigevano per sè da parte del governo austriaco. Comunque, il conflitto tra austro-tedeschi e magiari venne risolto nel 1867 con l’istituzione della monarchia dualistica, sulla base di un accordo in virtù del quale Francesco Giuseppe veniva dichiarato imperatore d’Austria e re d’Ungheria, ossia di due stati egualmente indipendenti e maltrattando decisi a respingere le avanzate degli slavi. Nel 1868, la Croazia e la Slovenia, facenti parte dell’Ungheria, ottiene una relativa autonomia, assumendo il nome di Regno di Croazia e Slovenia.
    Impero ottomano: Le due grandi crisi che funestarono il regno di Mahmud II furono l’insurrezione greca (1821-1830) e la rivolta egiziana (1830-1840), aggravate dallo sbarco francese ad Algeri (1830). Gli ultimi cinque anni di regno di Abdà¼lmegid videro il progressivo distacco dei principati danubiani (che nel 1859 si riunirono in unico principato di Romania)e il Libano (1860) diventò autonomo, con un suo governatore cristiano scelto dal sultano. Nel marzo del 1877 si radunò il primo parlamento. Nel marzo 1878 Romania e Serbia conseguivano l’indipendenza; la Bulgaria era eretta in un vasto principato autonomo ma triburio; in Anatolia Kars e Ardahan passavano alla Russia. Dell’indebolimento dell’Impero approfittò l’Austria per annettersi la Bosnia-Erzegovina (5 ottobre 1908). Durante il regno di Maometto V (1909-1918), si ebbe la guerra con l’Italia per il possesso della Libia (1911-1912). Morto Maometto V nel 1918, gli era succeduto Maometto VI, ma l’Assemblea nazionale il 1° novembre 1922 soppresse il sultanato e Maometto VI partì per l’esilio (17 novembre). Il 29 ottobre 1923 in Turchia fu proclamata la repubblica.

    Libro, European book Milano-Atlantica Junior n.9 / CD, tecniche nuove-Eureka 2000

  • L’impero Romano

    Ottavio affermando di voler restaurare la repubblica, che infine rimase formalmente in vita, governò in realtà come un monarca, col consenso dell’aristocrazia senatoriale, cioè penso bene di non ostentare troppo il potere acquisito: ogni volta che voleva far votare una legge, la presentava ossequiosamente al Senato che, pago dell’omaggio formale alla perduta sovranità , aprovvava senza discutere. Suddivise l’impero in due tipi di province: quelle senatoriali, strategicamente meno importanti, e quelle imperiali, governante direttamente da suoi rappresentanti e caratterizzate dalla presenza dell’esercito. L’Egitto non fu inquadrato nel sistema delle province, ma considerato possesso dell’imperatore e da lui direttamente governato: le grandi ricchezze provenienti da quelle terre, da cui Ottavio attingeva per finanziare le feste, i giochi, le donazioni alla plebe e ai soldati, che costituivano un ingrediente fondamentale del suo potere. Augusto attuò una politica di espansione decisamente più contenuta rispetto al passato. A Oriente l’azione principale fu l’intervento contro l’impero dei parti per il controllo dell’Armenia, mentre la campagna intraprese a Occidente fissarono il confine dell’impero lungo il Reno e il Danubio. Ma Augusto non aveva eredi, perchè sia che in famiglia fossero di salute cagionevole, sia che Livia (seconda moglie) facesse uso abbondante di veleno, i discendenti di sangue gli erano tutti morti.
    Così al trono di Roma, quel trono di cui nessuno ancora voleva ammettere l’esistenza, nel 14 salì Tiberio, figlio di primo letto di Livia. I romani in Svizzera c’erano fugacemente già stati in precedenza con le campagne nel 16 d.C. guidate allora dai generali Tiberio e Druso. I Romani vi avevano lasciate pochissime tracce di insediamenti, rarissime colonie, per il poco interesse che quelle terre avevano suscitato. Una zona allora totalmente forestificata, quasi tutta disabitata o arcaicamente abitata, che oggi chiamiamo Grigioni e sud Tirolo. Le popolazioni di quelle valli furono chiamate per la prima volta Reti e ancora oggi esiste un piccolissimo paese chiamato Retia (in italiano Resia). Claudio con la sua legione ripercorre questo sentiero e fonda una piccola colonia, Glorenza.
    Ma neppure lui morì di morte naturale: il folle Caligola, suo pronipote ed erede, nel 37 lo fece strangolare. Dopo quattro anni di crudeltà , i pretoriani dissero basta e scannarono Caligola all’uscita del circo.
    La famiglia stava estinguendosi. Non rimaneva che il maturo zio di Caligola, Claudio (41). Timido, zoppo e balbuziente, era in realtà un uomo clemente ed erudito. Diede impulso a grandi opere pubbliche. Quando l’incauta sposa (Valeria Messalina) cercò di rubagli il trono per regalarlo all’amante, dovette suo malgrado sopprimerla. Nel 42 si ha l’annessione della Mauritania, nel 44 della Giudea, nel 46 della Tracia. I romani erano venuti in contatto già nel 50 con i Briganti, una delle più famose tribù dell’isola di Gran Bretagna; che non era solo una piccola tribù ma una confederazione di tribù. A comandare questa nuova spedizione troviamo prima Ceriale e poi Frontino. Una campagna la prima che fu contraddistinta da numerosi e violenti scontri campali, mentre la seconda rivolgendo l’attenzione anche a occidente dell’isola riuscirono a soggiogare i Siluri, completando così la conquista del Galles. In questa zona i romani dovettero affrontare una popolazione che non era dedita all’agricoltura, il che impediva l’eventuale saccheggio alimentare che occorreva ai ribelli per vivere, ma erano tribù che vivevano esclusivamente di caccia o quanto trovavano nella selvatica vegetazione spontanea. Comparivano e scomparivano in luoghi diversi. Fu quindi necessario adottare una strategia, costruire una strada militare fiancheggiata lungo il suo corso da postazioni fortificate e da torri di guardia, poteva essere impiegata per isolare territori difficili e contribuiva al suo effettivo controllo, spostando velocemente da una posizione all’altra i soldati necessari. Agrippina ansiosa di spianare la strada al suo unico rampollo, il diciassettenne Nerone, la matrona si liberò in tutta fretta dell’anziano marito con una porzione di porcini avvelenati e prese il potere, nel 54.
    Non concesso alle donne di ricoprire in prima persona le cariche politiche, ma esercitarle attraverso mariti, figli e amanti, Nerone, accantonate le velleità teatrali, divenne imperatore. Il potere degli imperatori, in particolare con Caligola e Nerone, assunse caratteri molto autoritari.
    Inoltre furono introdotti nel cerimoniale di corte elementi tipici di venerazione per il monarca, secondo l’uso orientale: per esempio gli inchini e il bacio dei piedi. Per questo motivo Caligola fu ucciso in una congiura e Nerone fu rovesciato da una ribellione appoggiata dal Senato (68).
    Segui un anno di guerre civili, provocate dagli eserciti stanziati nelle diverse province, che tentarono di imporre come imperatore il proprio comandante. Alla fine del 69, con l’appoggio delle legioni d’Oriente, ebbe la meglio Vespasiano (69-79), che diede inizio alla dinastia dei Flavi. Vespasiano dovette inizialmente affrontare il problema della rifondazione del principato. Vespasiano, allora, rinnovò profondamente il Senato inserendovi molti esponenti delle classi ricche delle province e con il loro appoggio ottenne l’approvazione per una legge che definiva il potere del principe (legge di Vespasiano sul governo). In questo modo il principato non si basava più sul compromesso tra l’imperatore e il Senato di Roma, ma diventava un’istituzione dello Stato romano, riconosciuta dalla legge. Nel 70 distrusse Gerusalemme. Gli ebrei furono massacrati e i sopravissuti vennero deportati come schiavi dai Romani. Da allora gli Ebrei si sono dispersi nel mondo dando luogo alla cosiddetta diaspora (dispersione). Giulio Agricola nel 77 sbarca in Britannia. Con un attacco improvviso si impadronì perfino dell’isola di Mona, il covo dei Druidi.
    Nel 96 il Senato mise fine alla dinastia flavia con una congiura contro Domiziano e impose quale imperatore un proprio rappresentante: Nerva (96-98), dal quale ha inizi la dinastia degli Antonini. Con lui si affermò come principio di successione l’adozione del migliore: l’imperatore sceglieva come suo successore una persona di elevate qualità morali e politiche.
    Nerva sclse un abile generale spagnolo, Traiano (98-117), che fu il primo imperatore di origine provinciale. Egli fece giungere l’impero romano alla sua massima estensione nel quale 106 viene annesso il regno dei Natabei (attuale Siria e Giordania) che diviene la provincia dell’Arabia petra.
    Siamo ormai al tempo del massimo splendore della civiltà latina: sotto Traiano e Adriano (117-138), tutti gli abitanti liberi dell’impero godono della cittadinanza. Nell’urbe la gente mangia bene, prende il bagno tutti i giorni, e i più, donne comprese, sanno leggere e scrivere. Gli orfani sono mantenuti dallo Stato, i lavoratori hanno le ferie. Di laggiù, il cinese Figlio del Cielo saluta col nome di An-tun Marco Aurelio Antonino (116-180). Ma già l’economia ristagna, i barbari sono alle porte. Mentre Roma è all’apogeo, il tarlo della decadenza lavora implacabile sotto i marmi del Palatinato.
    Le 3 campagne di Marco Aurelio in Germania sono molto importanti, perchè sono le prime campagne fatte da un imperatore per ricacciare nella propria terra dei barbari che invadono il territorio romano. La prima delle 3 campagne militari condotte da Marco Aurelio incominciò nel 167, tutto a causa di 3 popoli: Catti, Longobardi e Obii, che mossero contro le quasi sguarnite frontiere dell’impero, non riuscendo ad oltrepassarle, ma comunque mettendo in seria difficoltà legionari e ausiliari stanziati sul limes a partire dall’Alto Reno fino al Medio Danubio. Dopo questi eventi tentarono la fortuna contro i Romani anche numerosi altri popoli, tra cui i Marcomanni, i Quadi, numerose altre popolazioni minori e in piccola parte anche i Vandali. Il gran numero di tutti questi popoli, insieme, aggiunto alla scarsezza delle difese romane, permise ai germani di attraversare il confine e di razziare tutto quello che trovavano sul loro cammino. Le notizie, come era ovvio, arrivarono a Roma con un po’ di ritardo, dovuto ai mezzi dell’epoca, e quindi Marco Aurelio partì da Roma solo il 15 maggio. Il 1 gennaio del 169 con un impero finalmente libero dai barbari morì Lucio Vero, mentre l’esercito vincitore tornava a Roma. Dopo aver celebrato i funerali di Lucio Vero e aver cercato di migliorare la situazione della popolazione, Marco Aurelio dovette ripartire verso nord per via delle terrificanti notizie che giungevano a Roma. Marco Aurelio decise che questa volta non era solo una legione ad attaccare, ma l’intero esercito dell’imperatore. Per questo motivo pose il suo quartiere generale in Pannonia, a Carnuntum, e da qui attaccò il territorio dei Quadi dove si stavano radunando diversi popoli. La sua strategia era quella di penetrare in profondità e di attaccare tutti i popoli uno alla volta, non permettendo ai barbari di allearsi e di formare un unico grande esercito; così affrontò, nell’ordine: Quadi, Svebi, Marcomanni, diverse tribù germaniche e Sarmati. Verso la metà dell’estate del 174 credeva di aver finito con la sua opera e pensava che i Germani avrebbero finalmente cessato di attaccare i Romani. La terza e ultima campagna militare in Germania comincia quando i Marcomanni riprendono a dare problemi ai romani sul confine, senza però riuscire a sfondare in gran numero; in ogni caso si richiede la presenza dell’imperatore. Marco Aurelio parte per la Germania nei primi mesi del 178. Marco Aurelio parti con 20.000 uomini e il figlio, alla volta di Carnuntum (nei pressi di Vienna), dove ad attenderlo c’è il grosso dell’esercito. Una volta arrivato scopre che non sono solo i Marcomanni ad attaccare, ma anche altri popoli, così deve affrontare nell’ordine: Sarmati, Buri, Ermunduri, Marcomanni e Quadi. Marco Aurelio si sbarazza velocemente di tutti i barbari che si oppongono alla sua avanzata e affonda nel territorio della Germania come un coltello caldo nel burro. Le condizioni poste per la nuova pace furono ancora più gravi delle precedenti e obbligarono i germani a ritirarsi nelle selve isolati in piccoli gruppi, e soprattutto a pagare tribuni immensi di oro, bestiame e schiavi.
    Marco Aurelio morì il 17 marzo del 180 d.C. di malattia, il quale invece lasciò come erede il figlio Comodo. Quest’ultimo si rivelò incapace di affrontare la crisi che cominciava a indebolire l’impero e governò in modo autoritario e dispotico. Pertanto suscitò un grave malcontento in particolare nelle classi elevati, che lo eliminarono infine con un complotto (192). Segui un periodo di lotte civili, dalle quali uscì vincitore Settimo Severo (193-211), proclamato imperatore dalle proprie legioni. Con lui ebbe inizio la nuova dinastia dei Severi (193-323), che basò la sua autorità prevalentemente sull’appoggio dell’esercito. A differenza degli imperatori precedenti, che avevano in genere cercato il consenso del Senato, i Severi lo relegarono ai margini della vita politica, instaurando una monarchia militare che, se non riuscì a bloccare la crisi dell’impero, ne difese però con successo il territorio.
    Nel 235, i soldati della Germania proclamano imperatore Massimino, il primo barbaro sul trono romano, fino al 258. Fu ucciso dai suoi soldati. I barbari entravano sempre più nelle file degli eserciti romani.
    L’impero raggiunse proporzioni non più governabili. Il tentativo di arginare la crisi dell’impero fu compiuto da Diocleziano (285-305). Per cercare di rendere governabile l’impero e di regolamentare la successione imperiale, Diocleziano lo divise in due parti, l’Oriente e l’Occidente. Le due parti dovevano essere governate da due augusti, affiancati da due collaboratori, detti cesari; dopo vent’anni i due cesari sarebbero succeduti ai rispettivi augusti, scegliendo a loro volta altri due cesari.
    Per i Germani le fertili pianure e le ricche città dell’impero costituiva un forte polo di attrazione. Fin dal II secolo i romani dovettero fronteggiare periodiche incursioni di tribù germaniche all’interno dei propri confini. Erano spedizioni che avevano come obiettivo il saccheggio e la razzia. Non si trattava di autentici tentativi di invasione, perchè i barbari, dopo aver fatto bottino, tornavano alle loro sedi e non avevano intenzione di stanziarsi in territorio imperiale. Queste misure non riuscivano a frenare le incursioni barbariche. Soltanto a partire dalla seconda metà del III secolo l’impero ridiede una ceta sicurezza alle terre di confine, dapprima con una serie di vittoriose campagne militari. Inoltre furono arruolati, con crescenti frequenza, dei volontari barbari. Per tenere a freno le incursioni germaniche, l’impero cominciò a ricorrere alla diplomazia piuttosto che alle armi. Sempre più spesso concesse l’ingresso pacifico di tribù germaniche in territorio romano. Alla fine del III secolo colonie di prigionieri barbari furono insediati ad opera dello stesso impero. La condizione di questi coloni era quella di contadini-soldato al servizio dell’impero. Contemporaneamente l’impero avviò una politica di alleanze con tribù germaniche insediate a ridosso dei propri confini. Esse mantenevano la propria indipendenza, ma si impegnavano a difendere i confini dell’impero da incursioni esterne, in cambio di denaro e di eventuale aiuto o protezione militare. Questi popoli presero il nome di federati dell’impero.
    Teodosio (383-395) formalizzò anche la divisione dell’impero in due parti, assegnando al figlio Arcadio la parte orientale e a Onorio la parte occidentale.

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