Tag: rinascimento

  • Il Barocco

    In Italia, già nella seconda metà del Cinquecento, gli ideali umanistici e rinascimentali erano in gran parte spenti ed era ormai venuta meno l’ottimistica fiducia nell’uomo, nella sua libertà creatrice, nell’affermazione delle sue capacità . A essi si era sostituito un sentimento più doloroso e travagliato della vita umana e i principi religiosi dettati dalla Chiesa cattolica tornati di nuovo in primo piano. Il fine dell’arte non doveva più essere il piacere suscitato dalla bellezza, ma l’edificazione morale. Nel Seicento, in seguito alle scoperte scientifiche e geografiche che allargono all’infinito i confini dell’universo, entrò in crisi la visione umanistica e rinasciemhtale dell’uomo, situato al centro dell’universo e in grado di dominare il mondo esterno. La realtà apparve complicata, misteriosa e l’atteggiamento dell’artista divenne di stupore, di ansia di conoscenza dell’ignoto, di ricerca di modi nuovi per rappresentare la complessità del mondo.
    La produzione artistica del Rinascimento è stata sempre legata a singole personalità , gelosi della propria arte. L’esperienze seicentesca dei Carrucci assume pertanto un rilievo nuovo e particolarissimo nella storia dell’arte europea. Intorno al 1585 i pittori bolognesi Ludovico, Agostino e Annibale Carracci si riuniscono per fondare quella che potremmo definire la prima scuola privata di pittura dell’Età Moderna.

    Libro, Mondadori-Percorsi di letteratura

  • Umanesimo e Rinascimento

    La vita culturale e l’attività intellettuale, conobbero, tra il XV e il XVII secolo, cambiamenti profondi nella concezione dell’uomo e della sua vita, nella produzione e nella diffusione del sapere, nell’organizzazione della cultura. Si è soliti, a questo proposito, di civiltà umanistico-rinascimentale. Il termine Umanesimo indica un movimento letterario, artistico e filosofico che ebbe al suo centro l’umanità : l’uomo al centro dell’universo, rifiutando l’idea mediovale di una creatura e passivamente sottomessa a Dio. Non sono più ammessi limiti all’agire dell’uomo e viene esaltata la libertà che egli ha di esprimersi attraverso la propria attività creatrice, di plasmare il mondo intorno a sè costruendo la sua civiltà e la sua storia . Tutto ciò è sintetizzato nella formula della cosiddetta scoperta dell’uomo, che caratterizzata la cultura del Quattrocento. Gli intelletuali di questo periodo sono interessati a ricercare con entusiasmo le opere della cultura e della civiltà del passato, testimonianze di ciò che l’uomo aveva concretemente creato nella storia. Gli studiosi si dedicarono a riscoprire l’antichità che, se anche nel corso del Medioevo non aveva mai cessato d essere studiato, era stata però considerata soprattutto in funzione della storia cristiana del mondo, come anticipazione e prefigurazione dell’avvento del cristianesimo. L’interesse per gli antichi non significò rifugio nel passato e rifiuto del presente, ma, al contrario, stimolo alla piena valutazione dell’operato dell’uomo, delle sue capacità di agire nella realtà del suo tempo. Stabilito un colloquio con i grandi scrittori greci e latini, gli intellettuali del Quattrocento cercarono appassionatamente di cogliere l’umanità nella sua intima essenza.
    I valori espressi dall’Umanesimo, l’immagine dell’uomo artefice della vita, l’ideale dell’equilibrio fra istinto e ragione, l’esaltazione dell’armonia e della bellezza, il culto del mondo classico, sono le componenti fondamentali anche di quel momento della storia culturale e artistica. Gli uomini di cultura italiana del XV e del XVI secolo si sentivano legati con un filo diretto alla grande civiltà classica di cui, consapevolmente, si ritenevano eredi, mentre consideravano il Medioevo un periodo di decadenza. Rinascimento è quindi, il ritorno in vita del mondo classico. E’ certamente vero che il Quattrocento e il Cinquecento videro una straordinaria produzione artistica e letteraria come mai prima c’era stata.
    Nel rinnovamento culturale e intellettuale del Rinascimento giocò un ruolo decisivo l’invenzione e la diffusione della stampa a caratteri mobili, che inaugurò una nuova epoca della comunicazione delle idee. Già nel XII secolo gli europei avevano imparato a produrre la carta, assai meno costosa della pergamena. I primi tentativi tipografici furono fatti utilizzando caratteri di legno inchiostrati, che richiedevano però un longo e accurato lavoro di preparazione artigianale e si consumava rapidamente. Alla metà del Quattrocento, il tedesco Gunteberg e l’olandese Coster, inventarono un procedimento di stampa che utilizzava caratteri mobili, fusi nel piombo, che potevano venire riutilizzati molte volte per comporre righe e pagine diverse. Grazie alla tipografia, il prezzo dei libri si ridusse di molte volte. Il libro faceva la sua comparsa come protagonista della riflessione e del dibattito intellettuale dell’Europa moderna. Naturalmente il libro divenne ben presto un problema politico: le autorità religiose per prime si posero il problema di un controllo sulla stampa. Nel 1501 il papa Alessandro VI istituì l’imprimatur, il nulla osta delle autorità religiose sui libri che trattava questioni di fede; più avanti, l’Indice dei libri proibiti (1559) avrebbe costituito uno degli istituti più caratteristici della Controriforma. Ma nello stesso senso si mossero ben presto anche le autorità civili, attraverso l’introduzione della censura: il libro e la libertà di stampa non tardarono a rappresentare uno dei terreni fondamentali della lotta per la libertà di coscienza e di pensiero. Nel 1543 proprio un libro, il De revolutionibus orbium coelestium (La rotazione delle orbitre celest) del matematico e astronomo Niccolò Copernico introdusse una vera e propria rivoluzione concettuale. Copernico rovesciava la concezione dell’universo, cioè la cosmologia, allora dominante, che poneva la Terra immobile al centro dell’universo e i pianeti e il Sole ruotanti intorno a essa. Al centro dell’universo, affermò Copernico, sta il Sole ed è la Terra a ruotare intorno a esso, così come gli altri pianeti. All’universo geocentrico Copernico sostituiva un universo eliocentrico. Essere copernicani significava infatti scuotere i fondamentali capisaldi del pensiero occidentale.

    Libro, Mondadori-Percorsi di letteratura / Libro, Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori- Il lavoro dell’uomo

  • Hegel: l’idealismo logico

    Hegel nasce a Stoccarda nel 1770 e studia in scuole religiose. Una volta laureato, viene chiamato a Berna a fare il precettore privato. Nelle famiglie ricche dove lavora ha la possibilità di frequentare grandi biblioteche dove si può accingere alla lettura dei classici. Egli studiò molto la cultura greca e soprattutto Platone. Voleva diventare un grande filosofo come Platone e non come il “genio” (Schelling) che solo in sogno conobbe la filosofia. Proprio mentre era a Berna scrisse le sue prime opere di natura religiosa: “La vita di Gesù”, “La positività della religione cristiana”. Le opere di questo periodo non ebbero grande successo anche se oggi sono state riscoperte e studiate.
    Successivamente pubblica: “Differenza fra il sistema filosofico di Fiche e quello di Schelling”, “Fenomenologia dello spirito”.
    Trasferitosi a Norimberga scrive “Scienza della logica” dove, partendo dall’idea prima di essere cerca di raggiungere la realtà determinata e quindi anche la coscienza.
    A Berlino divenne professore universitario facendo, con le sue lezioni, grande successo. Hegel divenne filosofo dello Stato Prussiano, con le “Lezioni Berlinesi”, libro contenente gli appunti delle sue lezioni, raccolti dai suoi alunni, esaltava le doti dello Stato tedesco e lo poneva come guida per gli altri.
    Egli sviluppa il suo pensiero tenendo presente il pensiero greco. Per Hegel il principio di ogni cosa è l’ Assoluto = distinzione di natura e spirito. L’assoluto (unità distinzione) ha un punto finale. “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale e reale” tutto ciò che si realizza ha una sua razionalità; ciò vuol dire credere alla provvidenza (ottimismo). Tutto ciò che è razionale si deve realizzare.
    Per Hegel l’assoluto si sviluppa secondo una struttura dialettica. Di dialettica ne hanno parlato i sofisti, ma era di natura bipolare; ne ha parlato Kant, ma rappresentava la pretesa della ragione di dimostrare le sue idee. Per Hegel invece, la dialettica rappresenta il movimento stesso dell’ Assoluto.

    STRUTTURA DELL’ASSOLUTO

    TESI: momento astratto intellettuale, Momento di posizione
    ANTITESI: opposizione, momento negativo della ragione
    SINTESI: momento positivo razionale, Movimento circolare
    L’antitesi si basa sul principio di opposizione che determina il movimento. La sintesi rappresenta il superamento dei limiti posti nella tesi e nell’antitesi.(SINTESI=AUFHBEN tagliare e conservare).

    Esempio:
    TESI: vita
    ANTITESI: morte
    SINTESI: specie (figli) (con i figli si può vivere oltre la morte).

    Quindi la tesi e l’antitesi vengono superati per affrontare un momento nuovo di ottimismo.

    Nelle opere giovanili già si può intuire questo metodo dialettico:
    TESI: momento rappresentato dalla religione greca; c’era armonia con la natura, la religione rispondeva ai bisogni dell’uomo.
    ANTITESI: rappresentata dalla religione ebraica; si rompe l’ equilibrio tra uomo e divinità mostrando l’uomo come schiavo, servo della divinità punitrice. Si ha quindi una scissione (separazione tra uomo e divinità).
    SINTESI: rappresentata dalla religione cristiana; la religione dell’amore. L’amore unisce l’uomo a Dio; come dice Platone: “nell’amore non c’è chi domina e chi è dominato, c’è unità. L’uomo della religione cristiana sa che è unito a Dio attraverso l’amore. Con l’amore si supera qualsiasi scissione (Fedro).

    Quindi l’assoluto rappresenta il momento culminante della filosofia. “La filosofia è come l’uccello di Minerva che vola al tramonto”.
    Minerva: Dea della sapienza
    Tramonto:momento di riflessione; (l’assoluto riflette su se stesso).

    L’idealismo di Hegel è un idealismo logico [sarà accusato di Panlogismo (tutto è razionalità)].

    FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

    La fenomenologia dello spirito rappresenta la storia romanzata dello spirito che si racconta attraverso la storia. Lo spirito si presenta come:

    COSCIENZA: Spirito
    AUTOCOSCIENZA: Religione
    RAGIONE: Sapere Assoluto

    Lo spirito cerca di presentarsi:

    COSCIENZA:
    * Certezza sensibile
    * Percezione
    * Intelletto

    AUTOCOSCIENZA:
    * Servo – padrone
    * Libertà (Stoicismo, scetticismo, cristianesimo)
    * Coscienza infelice

    RAGIONE:
    * Osservativa (Rinascimento)
    * Attiva (piacere, virtù, cuore)
    * Etica

    La coscienza è il momento in cui inizia tutto. Lo spirito prende coscienza di se (certezza sensibile). Quando capisce la differenza tra uno e molti, si passa alla percezione.
    Con l’intelletto si fa il concetto che permette di cogliere l’universale concreto.
    Concetto reale (concreto) – razionale (universale).
    La coscienza diviene autocoscienza nel rapporto con gli altri. Noi siamo delle coscienze, tra l’una e l’altra si crea un rapporto di “servo – padrone”.
    C’è chi ha paura della morte, dell’incognito. allora non affronta la vita e si affida a qualcun altro. Chi non ha paura sarà sempre padrone nella vita, chi invece ha paura avrà sempre un atteggiamento di servo.
    Il padrone che si serve del servo, non si rende conto però che è lui stesso servo del suo servo poiché ha bisogno di lui. Allora il servo prende coscienza della sua importanza per il padrone, che non potrebbe essere tale senza il suo servo.
    Da questa opposizione scaturisce la libertà spirituale. Il Cristianesimo del Medioevo ha portato la coscienza infelice: durante quel periodo infatti, si diceva ai cristiani di vivere in questo mondo pensando sempre che il vero mondo è quello dell’aldilà. Allora il cristiano nel Medioevo, era scisso, lacerato, perché viveva in questo mondo sapendo che non era il suo mondo.
    Nel Rinascimento ci cogliamo come ragione (universale concreto). Ragione osservativa: l’uomo nel Rinascimento vuole fare scienza. Poi da osservativa diventa attiva (la ragione può agire per piacere, come Faust); o per ragioni di cuore (come Rousseau) o per virtù (come Don Chisciotte). Il momento culminate vede la ragione come etica.

    Percorso speculativo

    * SPIRITO
    La bella vita etica “Antigone”
    La cultura (Illuminismo, Robespierre, Terrore)
    L’anima bella (Romanticismo, Novalis)
    * RELIGIONE
    * SAPERE ASSOLUTO

    La bella vita etica è il mondo greco. Si rifà alla tragedia di Antigone. Lei era una fanciulla che ha disubbidito a Creonte seppellendo il fratello. Si viene a formare un conflitto tra legge umana e legge del cuore. Ciascuno di noi ha simpatia per Antigone, ma se ciascuno di noi la pensasse come lei, non ci sarebbe Stato. Le leggi vanno rispettate anche se non condivise per mantenere il giusto rapporto individuo-stato.
    Da questo conflitto si giunge al poter vivere in società. E’ il caso dell’impero romano. La cultura rappresenta la presenza della legge dello Stato. Ma questo ha comportato il momento del Terrore. Siamo tutti uguali, ma nello stesso tempo nessuno lo era. Il rapporto tra individuo e Stato nell’Illuminismo era di paura.
    E’ un’anima bella che rischia di impazzire o intisichire. E’ individualistica.

    ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO

    ASSOLUTO O IDEA
    * Idea in se o Logica
    Essere (qualità, quantità, misura)
    Essenza [contenuto dell’essere]
    Concetto
    * Idea fuori di se o Natura
    Meccanica
    Fisica (magnetismo, elettricità, chimismo)
    Organica (geologico, vegetale, animale[sensibilità, irritabilità, riproduzione{vita, morte, specie}])
    * Idea in sè e per sé o Spirito
    Soggettivo (antropologia[anima], fenomenologia[coscienza], psicologia[libertà]);
    Oggettivo (Diritto, moralità, eticità [famiglia, società civile, stato]);
    Assoluto (arte[idealità, intuizione, forma]{l’assoluto è intuito}, religione[orientale, personale, cristiana]{l’assoluto è rappresentato}, filosofia{l’assoluto è pensato come concetto}).

    Idea in se o LOGICA
    Per Hegel tutto è logica, tutto è razionalità. “Le mie categorie hanno mani e piedi”; le categorie, forme della logica non sono astratte, ma concrete. Il momento vero è la sintesi, il concetto. Il vero concetto è l’idea, il momento in cui l’idea, partita da essere diviene concetto.

    Idea fuori di sé o NATURA
    Nella filosofia della natura, l’idea si estranea da sé. Essa rappresenta il momento negativo razionale, quello dell’antitesi. E’ un momento importante, necessario ma che Hegel non ritiene interessante poiché qualunque suo spettacolo, anche se stupendo, è inferiore ad ogni azione dell’uomo, anche se malvagia; perché nell’uomo c’è lo spirito libero.
    Non è come Schelling che la studia approfonditamente attraverso la fisica speculativa.
    Hegel dice: “io non credo alla natura come ce l’ha presentata il Romanticismo, (“Deus sive natura” Spinoza). Egli la suddivide in meccanica, fisica ed organica.
    La natura meccanica studia la natura nello spazio e nel tempo (esteriormente).
    La natura fisica analizza le leggi della natura. Le leggi sono quelle di Schelling(elettricità, magnetismo, chimismo).
    La natura organica ci presenta l’organismo geologico (il fossile).
    Hegel studia l’organismo secondo la concezione di Aristotele di funzione vegetativa e sensitiva. L’organismo vegetale ha la funzione vegetativa cioè di crescere, nutrirsi e morire. L’organismo animale ha invece la funzione sensitiva, quindi ha anche la capacità di sentire gli stimoli. L’animale sente; è sensibile; quando sente degli stimoli reagisce ad essi, di qualsiasi natura essi siano, secondo la legge di stimolo e risposta. La riproduzione rappresenta la continuazione della vita (vita, morte, specie).
    La specie è il punto culminante della riproduzione. Con la specie vengono superate le barriere della morte con la vita stessa. Ciò determina la Storia dell’umanità.

    Idea in sé e per sé o SPIRITO
    * Lo spirito soggettivo
    Nell’Antropologia Hegel ci presenta lo spirito soggettivo come anima biologica cioè come funzionalità, come vita (alla maniera di Aristotele). Un’anima primordiale a contatto con l’ambiente (teoria dell’evoluzione).
    Nella Fenomenologia dello spirito, si parla di coscienza (certezza sensibile, percezione, intelletto).
    La Psicologia ci studia dal punto di vista della libertà. La psicologia non viene studiata come scienza; lo diventerà solo nel 1879. Per il momento viene studiata solo come espressione della nostra libertà.
    * Lo spirito oggettivo
    Lo spirito oggettivo riguarda i rapporti che si concretizzano tramite la libertà. La libertà individuale si esplica nelle istituzioni.
    Il primo momento è il contratto; si riferisce alla proprietà che è la prima libertà individuale. Quindi il diritto si presenta come un momento esteriore, come rapporto visibile. Il primo rapporto visibile è il contratto, ciascuno di noi si realizza come possesso, e quindi con tutto ciò che comporta avere il contratto e la conservazione della proprietà privata.
    Se il diritto è l’aspetto esteriore, quello interiore è la moralità. Per Hegel è sempre un aspetto individuale.
    Per superare gli aspetti limitativi l’unico momento vero è la sintesi: individualità in riferimento alla comunità (eticità, organismi etici). La sintesi ci presenta dunque l’eticità, il significato dell’individuo in relazione alla società.
    Gli organismi etici sono:
    La famiglia. Essa è l’unione che nasce con un contratto quando fra due individui c’è sentimento (si nota quindi l’unione tra tesi ed antitesi).
    La famiglia dà l’idea che la moralità individuale è già in rapporto alla moralità del coniuge. Hegel vede questo rapporto come un nucleo chiuso ed armonico al suo interno. Però, questo nucleo chiuso, per necessità si deve rompere, scindere, lacerare (antitesi) quando i figli, diventati grandi, escono dalla famiglia. Quando questi escono rompono l’armonia che c’era all’interno della loro famiglia.
    Hegel esamina questa lacerazione e la chiama società civile.
    Questa indica una comunità di famiglie aperte. Si crea così un rapporto continuo, dinamico tra i vari individui; questa comunità ha bisogno però di una ricongiunzione armonica e questa si raggiunge solo con lo Stato.
    Lo Stato rappresenta il momento della sintesi e lo si può considerare come una grande famiglia. Questo rappresenta la “realtà etica consapevole si sé” di un popolo, ossia la consapevolezza del fine cui va indirizzata la vita comune. In questo senso esso è per Hegel Dio in Terra.
    Lo Stato quindi rappresenta la sintesi, la realizzazione dell’assoluto dal punto di vista storico.
    Lo Stato è vita perché è ragione (“Il Dio che si fa realtà”). La sua vivacità si nota nella guerra. Proprio questa viene vista da Hegel come vento che non permette alle acque di stagnare. “lo capisco che nelle guerre si corrono molti rischi però bisogna affrontarli per permettere agli Stati giovani di affermarsi”.
    La guerra quindi è necessaria e come tale è razionalità. Tramite la guerra si affermano le nazioni. La guerra si serve dell’astuzia della ragione degli uomini per fomentare la battaglia, lo scontro. La ragione quando ha suscitato la guerra si serve anche degli eroi (individui cosmico storici).
    Gli eroi per Hegel sono l’assoluto. L’assoluto si è realizzato in un individuo che ha sentito lo spirito dell’assoluto e lo ha realizzato nella storia e nello spazio. Es: “Cesare distrutto due Repubbliche fantasma e ha realizzato lo spirito nuovo”.
    Una volta che questi eroi compiono il loro compito di mostrare l’assoluto, vengono messi da parte.
    Per Hegel l’unica realtà vera è lo Stato che sviluppa la razionalità. Noi possiamo studiare la storia attraverso la libertà, attraverso la realizzazione della libertà.
    “Negli Stati orientali la libertà è di uno solo, poi negli Stati greco – romani la libertà appartiene a pochi (il Senato, l’aristocrazia), è solo nello Stato tedesco che da Lutero in poi la libertà appartiene a tutti”. Quindi è solo nello Stato tedesco che tutti sono liberi e quindi è lo Stato tedesco che deve essere lo Stato guida di tutti gli altri Stati, perché è l’unico che ha realizzato l’assoluto. (idea PANGERMANICA – la Germania ha il diritto di guidare gli altri popoli).
    Questo fu un discorso pericoloso più dei “discorsi alla nazione tedesca” di Fiche. Mentre questi ultimi furono scritti per necessità, per stimolare i tedeschi contro l’oppressione dello straniero, i discorsi di Hegel sono rivolti allo Stato che viene giustificato attraverso la razionalità.
    Naturalmente questo discorso venne ripreso durante la I guerra mondiale.
    Hegel tratteggia questo grande scenario (storia – realizzazione dell’assoluto). Nella storia nulla è fatto per caso, ma tutto ha un suo fine, uno scopo ben determinato. Tutto è razionale, tutto compie un movimento razionale.
    * Lo spirito assoluto
    Lo spirito fin’ora è stato soggettivo, oggettivo, ed adesso lo si può cogliere nella sua pienezza. Tutte e tre le funzioni dello spirito hanno per oggetto l’assoluto (lo spirito che si coglie in sé e per sé). Questo è il momento in cui si prende coscienza del giorno cioè rappresenta lo svolgimento dell’assoluto.
    L’assoluto può essere intuito nell’arte, rappresentato nella religione e pensato come concetto nella filosofia.
    L’arte è il momento di intuizione soggettiva di chi ha una natura sensibile. Schelling ha visto l’arte come momento di intuizione dell’assoluto, per lui l’arte è il momento culminante (unione indifferenziata di natura e spirito). Per Hegel invece, l’arte è un momento particolare che deve essere superato. L’arte si sviluppa attraverso tre momenti particolari dell’artista: idealità, intuizione, forma.
    In queste tre fasi si può trovare delineata la storia dell’arte. All’inizio della storia, nell’arte è stata predominante la materia (arte simbolica). L’arte orientale poi, si è manifestata nell’architettura dei templi (uso del marmo, della pietra).
    Nell’arte greco – romana, c’è stato invece un equilibrio tra materia e idealità e questa forma di arte si è manifestata nella scultura (armonia tra intuizione dell’artista e forma).
    Infine si giunge all’età moderna, all’età tedesca con l’arte Romantica.
    In questo tipo di arte predomina la soggettività dell’artista, infatti le espressioni d’arte di questo periodo sono la pittura, la musica e la poesia.
    In questo senso, l’arte tedesca è quella superiore a tutte le altre. Nell’arte noi cogliamo in un momento soggettivo l’intuizione dell’assoluto. Hegel, comunque, pur affrontando la distinzione tra bello naturale e bello artistico, ritiene che il soggetto da cui si trae l’ispirazione è sempre superiore.
    Ma l’arte in sé è un momento affidato al soggetto. Ma l’assoluto ha bisogno di avere un momento di oggettività.
    Questo momento lo si ha con la religione. In essa, l’assoluto è colto da tutti tramite la fede che fa avvertire oggettivamente la presenza dell’assoluto. Anche la religione si può studiare attraverso tre momenti: religione orientale; religione personale; religione cristiana.
    La religione orientale, rappresenta il primo momento in cui l’assoluto è visto in un feticcio (in questa religione c’è il culto del Dio Sole, della metempsicosi), al massimo si può avere un certo animalismo (pensare che tutta la natura sia divinizzata).
    Ma questa rappresenta l’infanzia dell’umanità, poi si passa alla religione personale (la divinità è vista come persona). Questa religione, di natura personale è tipico della religione ebraica.
    Ma anche questo momento, non è quello culminate.
    Infatti il momento culminante è dato solo dalla religione cristiana che presenta Dio come trinità: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo.
    Nemmeno la religione è un momento conclusivo, perché oggettivo. L’assolto è colto nella sua pienezza come natura concettuale (concetto).
    Il concetto è visto come complemento, coglie l’assoluto nella sua essenza. L’assoluto si può cogliere solo nella filosofia (panlogismo).
    Questo momento è il momento finale “E’ come l’uccello di Minerva che vola al tramonto”. C’è solo da riflettere, di prendere coscienza di ciò che è accaduto. Quindi la filosofia è anche storia.
    Attraverso i vari filosofi che hanno criticato le filosofie precedenti e le hanno superate si è potuto avere uno svolgimento nella storia, nella ricerca della filosofia finale.
    In questo svolgimento, l’assoluto cerca se stesso, cerca di farsi capire, di realizzarsi. La filosofia quindi risponde al tempo in cui si realizza e coglie quel momento storico in cui si sviluppa.
    Hegel dice che la sua filosofia è la massima filosofia, e come tale non potrà essere mai superata. Questa sua idea rappresenta il limite della filosofia hegeliana, perché la filosofia procede, come procede lo sviluppo dell’umanità.
    E’importante che la filosofia abbia un rapporto sociale con la storia e che instauri anche un rapporto con la religione.
    Però, pur considerando la filosofia come momento speculativo (sintesi), ritiene che la religione e la filosofia stiano sullo stesso piano.
    Per lui la filosofia non è superiore alla religione perché entrambe hanno lo stesso soggetto, l’assoluto.
    Un gruppo di suoi discepoli riterrà questa affermazione corretta (destra hegeliana), mentre un altro gruppo di studenti dirà che la religione e l’arte, non stanno sullo stesso piano della filosofia perché hanno lo stesso oggetto.

  • Giordano Bruno

    Vita e opere

    Giordano Bruno (1548-1600), nato a Nola, fu il più grande filosofo del Rinascimento, che, mentre assomma e compendia il lavoro dei predecessori (Talesio, Copernico, Cusano, Lullo, ect., oltre vaste tracce di neoplatonismo, stoicismo, eraclitismo), contiene i motivi principali della filosofia moderna (cfr. Spinoza, Shelling, Hegel, ect.).
    Entrò assai giovane nell’Ordine domenicano, ma ne uscì presto per l’incompatibilità delle sue dottrine.
    Andò peregrinando per la Svizzera, la Francia, l’Inghilterra, la Germania, finchè fu arrestato a Venezia dall’Inquisizione, e dopo qualche anno di prigione condannato al rogo.
    Scrisse De la Causa Principio et uno, l’infinito Universo e Mondi, Degli eroici furori, De Monade, De immenso, La Cena delle Ceneri, ect.

    Pensiero

    Bruno supera il modesto e cauto naturalismo di Telesio, elaborando un organico e compiuto sistema metafisico.
    1. Il centro della sua dottrina è l’infinità della natura, contrapposta alla finalità propugnata da Aristotele e dalla Scolastica.
    A questa idea egli giunse sia attraverso i dati che gli venivano offerti dal progresso della scienza, specialmente dal sistema copernicano, che già aveva spostato e allargato lo sguardo dell’uomo dalla terra al sole (ma il Bruno proede oltre Copernico, col negare la finitàdel mondo e l’immobilità delle stelle fisse, sia con speculazioni proprie, miranti a dimostrare che all’infinita Causa (Dio) deve corrispondere un effetto egualmente infinito (gli “infiniti mondi”).
    Se l’universo è infinito, cessa per questo fatto dall’avere un solo centro, ma come centro può esssere considerato ogni suo punto: nè la terra, nè il sole possono essere considerati il centro del mondo.
    La speculazione bruniana è tutta pervasa da questo sentimento dell’infinito, che, dopo la navigazione di Colombo, che aveva osato infrangere le Colonne d’Ercole, sembra interpretare fedelmente la nuova mentalità del Rinascimento.

    2. La dottrina dell’infinità della natura porta naturalmente Bruno al più rigoroso panteismo.
    Egli distingue nella natura una materia (Natura Naturata) e una forma o Anima del Mondo o unità o Monade assoluta e perfetta (Natura Naturans): la prima non può stare senza la seconda e viceversa, e non è che l’apparenza molteplice, mutevole, relativa, imperfetta della seconda (cfr. neoplatonismo).
    Tutto nel mondo è teofania, rivelazione di Dio: la Natura naturata ci conduce continuamente a una Natura naturante, che è la realtà in sommo grado; la molteplicità delle cose ad una Unità immobile ed eterna.
    In tale Unità tutte le opposizioni coincidono (cfr. Cusano), ed anche quello che noi riteniamo sia male è “nell’occhio dell’eternitade” bene.
    Bruno elimina in tal modo il dualismo aristotelico-scolastico di natura e di Dio, divinizzando la Natura e dichiarandola un complemento necessario di Dio, senza cui Dio stesso non sarebbe.

    3. La morale bruniana, che si trova specialmente nell’opera Degli eroici furori, concorda con questo naturalismo panteistico.
    Essa pone, al posto della quieta estasi medievale, l’eroico furore, cioè l’esigenza di un continuo autosuperamento dell’uomo verso il raggiungimento di fini sempre più elevati, per quanto sempre irraggiungibili.
    Anche Bruno, come Telesio, adotta il principio della doppia verità.
    Egli considera la fede come necessaria “per l’instituzione di rozzi popoli che denno esser governati”, mentre la verità di ragione spetta solo agli uomini che possono intendere e ai quali spetta di governare sè e gli altri: perciò i filosofi mai si sono opposti alla religione, anzi l’hanno favorita.
    Partendo da questo principio, egli si dichiara pronto, davanti all’Inquisizione, a ritirare le sue idee e ad ammettere i dogmi della Chiesa cattolica, come già a Ginevra quelli del calvinismo.

  • Aristotele

    Vita e opere

    Nacque a Stagira (Tracia) nel 384 a.C. Da Nicomaco, medico di Aminta, re di Macedonia.

    Primo soggiorno ateniese (Platone) – A 18 anni andò ad Atene, ove entrò in relazione con Platone, alla cui scuola appartenne per circa venti anni, cioè fino alla morte del vecchio maestro (347 a.C.).

    Alla corte di Macedonia – Nel 343 fu chiamato da Filippo, re di macedonia, alla sua corte, come precettore del figlio Alessandro: e grande fu l’influenza esercitata da Aristotele sul futuro conquistatore di imperi; grandissimi gli aiuti che Aristotele si ebbe per i suoi studi e per la creazione di una ricca bibblioteca che egli, primo fra i Greci, potè radunare.
    La sua amichevole relazione con Alessandro fu troncata quando Callistene, nipote di Aristotele e fautore del partito greco, cadde in disgrazia dell’imperatore.

    Secondo soggiorno ateniese – Tornato ad Atene verso il 335, fondò una scuola presso il ginnasio, detta il Liceo (per la vicinanza del tempio di Apollo Licio); e poichè insegnava passegiando nei giardini, che colà servivano al pubblico passeggio, la scuola prese il nome di paripatetica.
    Essa coincide coi dodici anni (335-323), nei quali il grande Alessandro espandeva per il mondo con la forza della spada la civiltà e la cultura ellenica.

    Esilio di Calcide
    – Morto Alessandro, Aristotele, come tanti altri ateniesi che erano stati ligi al Macedone, fu preso di mira, e un certo Demofilo portò contro di lui la solità accusa di empietà. Ma il filosofo disse di non voler dare occasione agli ateniesi di rendersi un’altra volta colpevoli verso la filosofia, e, prevenendo il bando, si recò in volontario esilio a Calcide, nell’Eubea.
    Qui morì l’anno dopo, nell’estate del 322, di una malattia di stomaco, lasciando al discepolo Teofrasto la direzione della scuola e la ricchissima bibblioteca.

    Opere – Le opere di Aristotele vertono su un’infinità di argomenti, ma delle 146 opere a lui attribuite, solo 47, più o meno complete, sono giunte sino a noi.
    Importante per la storia dell’aristotelismo la storia di questi libri.
    Secondo un raconto di Strabone, ripetuto da Plutarco, i libri di Aristotele, dopo la morte di Teofrasto, passarono a Neleo da Scepsi, i cui eredi li tennero nascosti per circa un secolo in un sotterraneo.
    All’inizio del I sec. a.C. essi sarebbero stati scoperti da Apellicone di Teio, e portati ad Atene; e di qui, per ordine di Silla (86 a.C.), a Roma, ove trovarono un riordinatore in Andronico di Rodi.
    Secondo tale racconto, dunque, i paripatetici posteriori a Teocrasto avrebbero ignorato i libri di Aristotele; e quindi quelli che si servirono di essi dopo un secolo e più, così come furono trovati, guasti dall’umidità, non potevano neppure essere certi se l’ordinamento di Andronico corrispondesse al pensiero originale dell’autore.
    Ciò spiega il sorgere della questione aristotelica presso i moderni allo scopo di assecondare la genuinità dei libri aristotelici e di vagliare la verità del racconto di Strabone.
    Zeller, dopo erudite ricerche, giunse alla conclusione che è verosimile tutta la parte del racconto che si riferisce al destino dei libri ereditati da Neleo; ma che è inverosimile che questi libri fossero i soli esemplari esistenti delle opere aristoteliche, dal momento che essi si trovano citati nel tempo che corre tra il sotterramento fatto dagli eredi di Neleo e il disseppellimento per opera di Apellicone.
    Le opere di Aristotele erano divise in essoteriche, o destinate l pubblico; e in esoteriche o acroamatiche, destinate ai propri discepoli.
    Le prime appartengono in genere alla prima dimora in Atene, quando Aristotele era discepolo di Platone, e sono molto affini alle opere del maestro (forma dialogica, ect.); ma nessuna di esse è pervenuta sino a noi (fatta eccezione di qualche frammento dell’Eudemo, intitolato a nome di un amico e in cui si propugnava pure l’immortalità dell’anima).
    Le seconde, di gran lunga più importanti, si possono raccogliere in cinque gruppi: logica, metafisica, fisica, etica, retorica.

    Opere di logica
    Furono raccolte sotto il nome di Organon (titolo che non appartiene ad Aristotele, ma ai più tardi commentatori Bizantini), poichè per il loro carattere, si possono considerare come strumento della ricerca scientifica e introduzione a tutto il sistema.
    L’Organonsi compone di conque parti:

    • Categorie, sui concetti universali. Appartengono nella parte fondamentale ad Aristotele, ma furono accresciute, da mano posteriore, dei cosiddetti Postpredicamenti.
    • Interpretazione, sul giudizio.
    • Analitici primi (2 libri), sul sillogismo; e Analitici secondi (2 libri), sull’induzione, la definizione e i primi principi.
    • Topici (8 libri), sui sillogismi dialettici e verisimili.
    • Elenchi sofistici, ove sono esposte e confutate le conclusioni capziose usat dai sofisti.

    Opere di metafisica
    Furono anch’esse raccolte sotto il nome di Metafisica, titolo che non appartiene ad Aristotele (il quale soleva chiamarla filosofia prima), ma ad Andronico di Rodi, che nella sua raccolta dispose i libri relativi “dopo le opere fisiche” (“metà tà physikà”).
    La metafisica si compone di 14 libri: essa tratta dei principi supremi del reale, cioè ciò che è primo per natura, e che viene quindi, per noi, dopo le cose naturali.

    Opere di fisica
    Comprendono la maggior parte degli scritti di Aristotele, il quale molto si applicò alle ricerche empiriche e sperimentali, e si può considerare, tra l’altro, il padre della zoologia.
    Le principali opere fisiche sono:

    • Fisica (8 libri), in cui tratta dei principi naturali, del moto, ect.
    • Del Cielo (4 libri)
    • Della generazione e corruzione (degli esseri)
    • Meteorologia (4 libri).
    • Storia degli animali (10 libri), Delle parti degli animali, Della generazione degli animali, grandi trattati di zoologia, che contengono una vasta e ben fondata classificazione, degna di essere paragonata a quella di Linneo (sec. XVIII).
    • Dell’anima (3 libri), la più importante opera di fisica, prima grande trattazione di psicologia.

    Ai libri Dell’anima si rannodano quelle piccole dissertazioni, parte fisiologiche, parte psicologiche, che sono comprese sotto il titolo collettivo di Parva Naturalia, e che trattano del senso, della memoria, del sonno, della lunghezza e brevità della vita, della vita e della morte, ect.
    Alle opere fisiche invece si rannodano, quasi come appendice, trattatelli speciali di argomenti naturali vari, raccolti col titolo di Problemi, ma in gran parte di composizione postaristotelica, poichè Aristotele cita in 7 o 8 i Problemi, ma nessuna citazione si riscontra con quelli che noi abbiamo.

    Opere di etica
    Sono tre, che svolgono i medesimi motivi:

    • Etica Nicomachea (10 libri), il cui titolo deriva da Nicomaco, figlio di Aristotele, che forse la pubblicò. Essa rappresenta la redazione più antica, ed è sicuramente opera genuina di Aristotele.
    • Etica Eudemia (7 libri), che ha tre libri in comune con l’Etica Nicomachea, e fu forse redatta da Eudemo sopra i libri di Aristotele.
    • Magna Moralia (2 libri), che si possono considerare un riassunto delle due etiche precedenti, specialmente di quella di Eudemo, e che è opera di discepoli.

    Opere di politica

    • Politica (8 libri).
    • Costituzioni politiche, grande raccolta di più che cento costituzioni greche e barbare. Ci rimane soltanto la costituzione di Atene, scoperta nel 1890 in un papiro egiziano.
    • Economici, di cui non è forse genuino il secondo libro, attibuito a Teofrasto.

    Opere di retorica

    • Retorica (3 libri)
    • Poetica, largo frammento di una più ampia opera in 2 libri.

    Datazione delle opere
    L’ordine cronologico delle opere di Aristotele non è così essenziale alla comprensione del suo pensiero come nel caso di Platone, perchè pare che Aristotele abbia elaborato il suo pensiero tutto di getto, in modo che le singole parti risultino intimamente collegate.
    Secondo Zeller, primi ad ssere composti furono gli scritti logici, poi i fisici, poi l’Etica e la Politica, che presuppongono la trattazione dell’Anima; infine la Poetica, la Retorica, ed ultima la Metafisica, al quale sarebbe rimasta incompiuta e dedita solo dopo la morte di Aristotele.

    Pensiero

    L’ordine con cui si può distribuire la dottrina aristotelica è il seguente: logica, metafisica, fisica, morale, poetica, retorica.
    La Metafisica è in realtà la parte più importante, poichè senza di essa sarebbe impossibile intendere le altre parti della filosofia aristotelica: ma alla metafisica è indispensabile propedeutica la logica, per cui è bene far da essa aprire la serie delle dottrine di Aristotele.

    Logica
    Aristotele è il sistematore della logica induttiva, già intravista da Socrate e da Platone, e il padre della logica deduttiva, o sillogistica, o ragionamento.
    Aristotele ritiene infatti che il pensare si compie mediante due essenziali processi: quello dell’induzione, che procede dal particolare all’universale; e quello della deduzione, che consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione).

    INDUZIONE o EPAGOGHE’
    1. L’induzione (o epagoghe), di cui Aristotele parla nei Secondi Analitici, consiste nel procedere per via astrattiva dal particolare all’universale (o concetto), cioè nell’astrare dal particolare le note contingenti e individuali e cogliere quelle comuni ed universali.
    In tal modo Aristotele si oppone all’innatismo platonico, e diventa un fervido assertore dell’empirismo: le nostre conoscenze derivano dall’esperienza mediante l’attività di astrazione esercitata su di essa dall’intelletto.

    2. Il concetto coglie l’essenza delle cose, ma è semplicemente significante, in quanto ancor fuori da ogni rapporto di vero e di falso, della vera affermazione e della vera negazione.
    Un nesso di concetti costituisce il giudizio, sia sotto la forma di definizione o giudizio universale (es. l’uomo è mortale); sia sotto quello di proposizione o giudizio del particolare (ed. Socrate è mortale).
    E’ proprio del giudizio l’affermare o il negare, cioè stabilire dei rapporti di vero o di falso: la verità non è infatti che un perfetto accordo tra il nesso dei concetti e il nesso delle cose (cfr. adaequatio rei et intellectus di S. Tommaso).

    3. Tra i concetti ve ne sono alcuni che possiamo considerare come i predicati più universali del reale, forme supreme dell’intelletto: essi sono le categorie, così denominate perchè mediante esse noi “accusiamo” (cioè predichiamo, qualifichiamo) gli oggetti tutti dell’esperienza.
    Le categorie sono dieci: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il luogo o spazio, il quando o tempo, il giacere o posizione, l’avere o inerenza, il fare o attività, il patire o passività.
    Le categorie, di cui parla Aristotele, si possono considerare sotto un duplice aspetto: logico o soggettivo; ontologico o oggettivo, metafisico.
    Esse infatti, in quanto predicati universali del reale, corrispondono alle forme universali del reale stesso: sono categorie del pensiero e categorie del reale, dell’essere.

    4. Aristotele studiò a fondo i concetti nei loro rapporti di specie e di genere, e nella loro estensione e comprensione.
    Quanto alla specie e al genere, i concetti si possono disporre secondo una gerarchia che in basso ha l’individuo e in alto le categorie, occupando in tale gerarchia il grado risultante dal genere prossimo e dalla differenza specifica.
    Definire un concetto – dice Aristotele – equivale a indicare del medesimo il genere prossimo e la differenza specifica. Così ad es., nella definizione del concetto uomo, “uomo è un animale ragionevole”, animale indica il genere prossimo, cioè il genere a cui il concetto appartiene; e ragionevole indica la differenza specifica, perchè distingue l’uomo dalle altre specie di animali. Genere è quindi il concetto più generale, in cui è incluso il concetto da definire. Specie è il concetto da definire, incluso nel genere.
    Quato all’estensione e alla comprensione, man mano che si procede dalle specie ai generi, si vanno formando concetti sempre più univrsali per l’estensione, ma sempre più poveri di comprensione, cioè dotati di una minor quantità di note essenziali: estensione e comprensione stanno in ragione inversa.

    LOGICA DEDUTTIVA
    1. La logica deduttiva di cui Aristotele parla specialmente negli Analitici Primi, presuppone la logica induttiva.
    L’induzione infatti, elaborando i concetti ed i giudizi, prepara la premessa al sillogismo o deduzione o ragionamento.

    2. il sillogismo consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione): esso è definito da Aristotele quel discorso “nel quale, stabilite alcune cose (verità), un’altra ne deriva necessariamente, per il fatto che quelle sono tali verità”.
    Il sillogismo si compone di una premessa maggiore (l’uomo è mortale) e di una premessa minore (Socrate è uomo), aventi in comune un termine medio (uomo) e di una conclusione (Socrate è mortale).
    Le figure del sillogismo sono quattro:

    1. sub-prae, in cui il termine medio fa da soggetto (subiectum) nella premessa maggiore, e da predicato (praedicatum) nella minore.
    2. sub-sub, in cui il termine medio fa da soggetto sia nella premessa maggiore che nella minore.
    3. prae-prae, in cui il termine medio fa da predicato sia nella premessa maggiore che nella minore.
    4. prae-sub, in cui il termine medio fa da predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella minore.

    3. Il sillogismo nella sua concatenazione e sviluppo è dominato dai cosiddetti assiomi, o principi supremi di ragione, che possono addirittura definirsi leggi del pensiero. Essi sono anapodittici, cioè indimostrabili perchè evidenti di per se stessi.
    Tali principi sono:

    • quello di identità, per cui si afferma che ciò che è, è; e ciò che non è, non è (A è A, Non A è Non A).
    • quello di contraddizione, che Aristotele stesso ha enunciato così: “è impossibile pensare che ad una stessa cosa convenga e non convenga lo stesso carattere (A non è Non A).
    • quello del terzo escluso, per il quale si afferma che fra i contraddittori non vi può essere alcun giudizio intermedio.

    Aristotele dona la massima importanza al principio di contraddizione, che egli dice essere principio anche degli altri tutti, sia per sè, come principio veramente essenziale del pensiero, sia per l’importanza che esso ha contro la concezione eraclitea, che affermava l’essere e insieme il non-essere delle cose nel perenne fluire del reale.

    4. Il sillogismo, di cui sonora si è parlato, è il sillogismo dimostrativo o apodittico, che, partendo da premesse certe e reali, conduce alla scienza.
    Accanto ad esso vi è il sillogismo dialettico (di cui Aristotele parla nei Topici), in cui le premesse sono soltanto verisimili, e che conduce all’opinione: e il sillogismo sofistico (di cui Aristotele parla negli Elenchi Sofistici), in cui le premesse sono semplicemente presunte per verisimili.

    5. Con questo complesso imponente di indagini Aristotele fonda la scienza del pensiero.
    Essa sarà modificata e integrata in questa e in quella parte dagli Stoici a Bacone a Galileo a Leibniz a Kant; con Hegel e coi suoi successori sorgeranno nuovi sviluppi e nuove logiche; ma in sostanza la logica aristotelica restò per circa 24 secoli a sorreggere il nostro pensiero.

    Metafisica
    La metafisica, o “filosofia prima“, è la scienza dell’Essere in quanto tale, cioè prescindendo dalle sue qualità sensibili.

    1. CRITICA DELLA DOTTRINA PLATONICA DELLE IDEE
    Aristotele inizia il proprio sistema con una profonda e serrata critica alla dottrina platonica delle Idee.
    Platone aveva detto che le Idee sono fuori dalle cose, Aristotele oppone a tale trascendenza tre obbiezioni fondamentali:

    • se le idee sono le essenze individuali, in che modo l’essenza può stare fuori di ciò di cui è l’essenza?
    • dato l’individuo sensibile da una parte e l’Idea dall’altra, ci vorrà un tipo, un’idea comune ad entrambi: ne nascerà una terza cosa. Questo argomento è detto del terzo uomo, perchè dalla dottrina platonica si inserisce la necessità di un terzo uomo, che sta sull’uomo individuo e sull’uomo-Idea, comune ad entrambi.
    • esiste l’universale, ma non fuori dell’individuale, bensì dentro di esso. Se avesse un’esistenza separata, sarebbe un duplicato inutile: l’idea fuori dalla cosa non spiega la cosa.

    2. TEORIA DELLA SOSTANZA
    La teoria della sostanza costituisce il centro di tutta la dottrina aristotelica.
    Sostanza è ciò che è, l’individuo. Es. Quest’uomo, questo tavolo.

    • La sostanza è sintesi (“sinolo”) di “materia” e di “forma”: la forma non è che l’Idea di Platone, strappata dal mondo iperuranio; resa da statica, dinamica; e immessa nella materia per organizzarla, per ordinarla. La forma è dunque l’attività organizzatrice della materia. Aristotele distingue la sostanza in sostanza prima , l’individuo; e sostanza seconda, la forma o essenza dell’individuo medesimo.
    • Ma la forma, in quanto organizza la materia, la muove, cioè fa passare dalla “potenza” all’“atto”, o, in altre parole, da uno stato di imperfezione e di indeterminazione a uno stato di sempre maggiore perfezione e determinazione. Es. da statua in potenza del marmo, a statua in atto o attuazione del medesimo. Potenza e atto sono dunque i due termini del moto, del divenire: potenza è la sostanza in quanto può assumere, attraverso il moto, una determinata forma; atto è la sostanza che ha assunto, sempre attraverso il moto, questa determinata forma. Aristotele distingue l’atto dall’entelechia: l’atto è tale in quanto realee concreta attività; l’entelechia è l’atto in quanto stato di perfezione a cui la sostanza aspira: mai la sostanza riesce ad attuare perfettamente la propria forma, eccetto Dio.
    • Ma per passare dalla potenza all’atto occorre uno stimolo, una causa efficiente, la quale operi in vista di un fine, di una causa finale. Lo sviluppo di una sostanza presuppone quindi 4 cause:
    1. materiale;
    2. formale;
    3. efficiente o motrice;
    4. finale.

    Es. nella sostanza statua possiamo distinguere:

    1. causa materiale: marmo;
    2. causa formale: idea della statua;
    3. causa efficiente: scultore;
    4. causa finale: idea della statua, ma in quanto si pone come fine dello scultore.

    Le ultime due cause si risolvono nella causa formale quando si tratta si sostanze naturali (le quali hanno in sè stesse la causa e il fine del moto); ma rimangono distinte quando si tratta di sostanze artificiali (le quali hanno fuori di sè la causa del moto e il fine), come è appunto il caso di una statua di marmo.

    3. TEOLOGIA
    La teoria sopra accennata porta di conseguenza ad ammettere l’esistenza di un Dio: è anzi ad Aristotele che si deve far risalire la prima dimostrazione filosofica dell’esistenza di Dio.
    Infatti il moto delle cose implica l’esistenza di un motore che giustifichi il moto medesimo, cioè il Motore immobile, Dio.
    In quanto motore immobile:

    • Dio non è causa efficiente, creativa del mondo, ma puramente finale, teleologica. Egli, come causa finale del mondo, attrae le cose, che si muovono verso di lui immobile.
    • Dio non può passare dalla potenza all’atto, ma è atto puro, pura forma, puro spirito, o – come si esprime Aristotele – “pensiero dei pensieri”.

    Egli, “come pensiero dei pensieri”, è assolutamente indifferente al mondo, puro pensiero teoretico, pura autocoscienza, privo di volontà e di personalità.

    Fisica
    La Fisica è in Aristotele non meno importante della Metafisica, poichè, a differenza di Platone (che, nonostante il disprezzo per i poeti, era dominato dalla fantasia), egli sapeva unire alla potenza sinteica del filosofo una grande attitudine all’analisi e all’osservazione scientifica.

    1. NATURA
    La natura è l’insieme delle sostanze che hanno in se stesse il principio del proprio moto, a differenza delle sostanze a cui il moto vien da fuori, per cui essa comprende non solo i corpi propriamente detti, ma anche l’uomo e l’anima umana.
    Anche Aristotele, come Platone, possiede un concetto finalistico della natura: questa non è per lui inerte, passiva, meccanica, ma intimamente viva, organica, animata.
    Tuttavia, a differenza di Platone, che aveva personificato questa finalità in un’Anima del mondo, Aristotele parla di una finalità inconscia ed intuitiva (panpsichismo?), e che chiama la noatura demoniaca, ma non divina.
    La natura, sospinta dalla sua immanente finalità, tende a svilupparsi in forme sempre più alte e perfette, determinando una gerarchia finalistica di sostanze, che va da quelle inorganiche a quelle organiche e all’anima umana, e che ha al proprio vertice il motore immobile, Dio.

    2. LA MATERIA
    La materia, come già per Platone, è principio oscuro ed amorfo, causa di imperfezione e di male.
    Essa resiste spesso all’attività e alla forma, ed è perciò causa dei caratteri accidentali delle sostanze.
    La materia, in quanto potenza che tende recarsi in atto, si muove: donde l’importanza che ha il moto nella fisica aristotelica.

    3. RELIGIONE CELESTE E RELIGIONE TERRENA
    L’universo aristotelico si divide in due regioni: regione celeste, dalla luna in su; e regione terrena, o sublunare.
    La regione celeste è perfetta e incorruttibile: sua materia è l’etere, detto anche quintessenza; il suo moto è circolare, cioè perfetto.
    La regione terrena è imperfetta e corruttibile: sua materia sono i quattro elementi tradizionali della filosofia greca, terra, acqua, aria, fuoco; il suo moto è rettilineo, cioè imperfetto.
    Da queste premesse si sviluppa l’astronomia aristotelica, che è un sistema geocentrico delle sfere omocentriche ideato dall’astronomo Eudosso, e che permetteva di collocare esteriormente il principio motore dell’universo, in opposizione ai pitagorici che lo collocavano al centro.
    La Terra, di forma sferica, sta immobile al centro dell’universo, e attorno ad essa si muovono le sfere dei pianeti e quella delle stelle fisse o firmamento: quest’ultimo è mosso da Dio, Motore immobile, e trasmette a sua volta il movimento alle sfere sottostanti.
    Perciò l’universo aristotelico è limitato nella sua forma sferica, cinto dal vuoto infinito; e in esso le posizioni (alto e basso) hanno un significato assoluto.

    4. L’ANIMA
    L’anima, che nela gerarchia degli esseri fisici occupa il posto supremo, si può definire la forma (“entelechia”) di un corpo organico, cioè di un corpo che è come organo o strumento di cui l’anima si serve per recare in atto il suo fine.
    Le piante possiedono solo l’anima vegetativa, che presiede alle funzioni di nutrizione e della riproduzione; gli animali, oltre la vegetativa, possiedono l’anima sensitiva, che presiede al moto e alla sensibilità; l’uomo, oltre alle sopracitate, possiede l’anima razionale.
    Aristotele, a differenza di Platone, non ammette nell’uomo anome separate, ma anime distinte nell’unità di una medesima anima: si tratta di funzioni diversedi una medesima anima.
    L’anima vegetativa presiede – si è detto – alle funzioni della nutrizione e della riproduzione.
    L’anima sensitiva presiede al moto e alla sensibilità; ma i sensi sono passivi, cioè hanno bisogno, per agire, di uno stimolo, di un oggetto sensibile in atto.
    Accanto ai sensi esterni ve ne sono altri interni, come il senso comune (o coscienza sensibile), che unifica in certo modo i sensi esterni; la fantasia, che riceve le immagini; e la memoria, che conserva le immagini, riconoscendo in esse una percezione già avuta.
    L’anima intellettiva presiede alla vera conoscenza, cogliendo le essenze o concetti delle cose.
    Essa si distingue in intelletto passivo (“nous patheticos”) e in intelletto attivo (“nous poieticos”).
    L’intelletto passivo (cosiddetto perchè ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in quanto può intendere l’universale contenuto nel particolare sensibile; ma, in quanto semplice possibilità d’intendere, non può passare all’atto se non sotto lo stimolo di un oggetto intelligibile in atto.
    L’intelletto attivo (cosidetto perchè non ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in wuanto rende intellegibile (per astrazione) l’universale contenuto nel particolare sensibile, e, resolo in tal modo intellegibile, lo presenta all’intelletto passivo, che, sotto tale stimolo, passa all’azione.
    Esso è come la luce che agisce sui colori, i quali nell’oscurità esistono soltanto in potenza, facendoli passare dalla potenza all’atto.
    Aristotele considera l’intelletto passivo come parte essenziale dell’anima umana, mentre definisce l’intelletto attivo come “separato” e “di natura divina”: esso proviene dall’alto entrando misteriosamente “per le porte dell’anima”, e ad esso soltanto sembra attribuisca l’immortalità.
    In realtà l’anima, in quanto forma di corpo organico, dovrebbe essere inseparabile dal corpo e, come questo, mortale. Di qui la varietà delle interpretazioni e dei commenti, che si contesero il pensiero aristotelico fino al Rinascimento, specie per quanto riguarda l’intelletto attivo nei suoi rapporti con l’intelletto passivo e col corpo.

    Etica
    1. Aristotele, a differenza di Platone e coerentemente alla critica mossa alla teoria delle Idee, non ammette che il fine delle cose il il Bene universale, che per la sua astrattezza non può essere realmente efficace, ma il bene particolare di ogni singola cosa.
    Tale bene particolare consiste a sua volta nell’attuazione dell’essenza propria della cosa medesima, come il fiore per la pianta, la bellezza per la gioventu, ect.

    2. La felicità dell’uomo (“eudemonia”) consiste perciò nell’attuazione del bene particolare dell’uomo medesimo, che è la ragione, cioè nel vivere secondo ragione.

    3. La virtù si identifica con la felicità, cioè consiste anch’essa nel vivere secondo ragione.
    Aristotele distingue due virtù:

    • virtù etiche, o virtù della parte affettiva dell’anima. Esse perfezionano la parte affettiva dell’anima, sottoponendola alla ragione; e poichè la ragione aspira a portare negli affetti dell’anima la medietà, il giusto mezzo fra gli estremi, la virtù etica consiste, più particolarmente, nel sottoporre gli affetti alla ragione in modo da importare in essi la medietà, il giusto mezzo, ed evitare ogni eccesso. Giusto mezzo, che non è la rigida media aritmetica, “perchè – osserva Aristotele – se, per uno, spendere dieci è troppo e spedere due è poco, ciò non vuol dire che il giusto mezzo sia sei”. Il giusto mezzo è, in altre parole, relativo agli individui: non potendo, ad es., la temperanza (virtù etica) richiedere la stessa quantità di cibo per un gigante e per un bambino. Le virtù etiche si acquistano con l’abitudine, o – in altre parole – con una volontà ben educata: concetto notevole, con cui Aristotele, opponendosi all’intellettualismo etico di Socrate e di Platone, afferma per la prima volta, nella storia del pensiero, che non basta la conoscenza per conseguire la virtù, ma occorre un altro importante elemento: la volontà. Virtù etiche sono, ad es., la fortezza, che è il giusto mezzo tra il timore e la fiducia; la temperanza, che è il giusto mezzo tra i piaceri; la liberalità, che è il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità; la giustizia, virtù etica suprema, ordine della società.
    • virtù dianoetiche, o virtù della parte razionale dell’anima. Esse perfezionano la parte razionale dell’anima, rendendola atta a ben conoscere ciò che si deve operare. Anche le virtù dianoetiche si acquistano con l’abitudine. Tali, ad es., la prudenza, intenta a discernere quelli che per l’uomo sono beni morali; e soprattutto la sapienza, virtù dianoetica suprema, perchè attività razionale pura, la più prossima al pensiero divino: essa è contemplazione della suprema verità, vita perfetta, “theoria”. In tal modo l’etica di Aristotele diventa l’espressione più compiuta dell’etica greca, e, con il più alto posto assegnato alla virtù teoretica per eccellenza, fissa il principio (che sarà accolto anche dal pensiero cristiano e sarà direttivo di tutta la filosofia sino all’epoca moderna) intellettualistico, per cui si celebrano nella virtù contemplativa l’essenza e il valore dell’etica umana.

    Politica
    1. Anche per Aristotele, come per Platone l’etica individuale si completa con l’etica sociale: l’individuo isolato non può raggiungere il suo fine perchè non basta a se stesso, e soltanto riunendosi in società può attuare il suo fine, la felicità.

    2. L’uomo è per natura un animale politico, cioè socievole: “fuori dalla società può esistere solo la belva o il Dio”.
    La famiglia è la prima società: essa ha come carattere essenziale la proprietà, di cui fan parte anche gli schiavi, perchè non è bene che gli uomini liberi si avviliscano nei lavori manuali.
    Lo Stato, benchè in ordine di tempo succeda alla famiglia, nel concetto le va innanzi, allo stesso modo che nell’organismo il tutto precede le parti, e il fine i mezzi destinati ad attuarlo: infatti lo Stato rappresenta la condizione di vita e di attività delle parti o individui che lo compongono.
    Il fine dello Stato è identico a quello degli individui: esso mira infatti alla falicità, o – che è lo stesso – al raggiungimento delle virtù etiche e dianoetiche degli individui medesimi.

    3. Le forme di Stato sono tre, come le loro degenerazioni, che si hanno quando chi governa, invece di mirare al vantaggio comune, mira al proprio vantaggio.
    Le forme sono la monarchia, che può degenerare in tirannide; l’aristocrazia, che può degenerare in oligarchia; la politia (moderna democrazia) che può degenerare in democrazia (moderna demagogia).
    Di tali forme è migliore quella che meglio risponde al carattere e ai bisogni del popolo, quantunque in astratto Aristotele preferisca una forma mista.

    4. Lo Stato di Aristotele, per quanto sia in esso evidente l’influenza platonica (Stato etico), è diverso da quello di Platone.
    Platone parte da una premessa idealistica: basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, basterà conoscere lo Stato politicamente perfetto, per poterlo attuare.
    Aristotele parte da una premessa realistica: non basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, è meglio costruire sul fondo dell’esperienza.
    Ne consegue che mentre Platone aveva concluso allo Stato ideale della Repubblica, proponendo la comunione delle donne, dei figli e dei beni, e concependo lo Stato come vuota e astratta unità; Aristotele conclude alla famiglia, alla proprietà, ai divrsi tipi di costituzione, concependo lo Stato come un organismo dove l’unità viva è raggiunta per via della molteplicità.

    Estetica
    Per Aristotele, come per Platone, l’arte è imitazione della natura (“mimesi”); ma a differenza di ùplatone, che condannava l’arte perchè imitazione dell’individuale sensibile, e perciò lontana tre gradi dal vero, Aristotele riabilita l’arte, perchè imitazione non dell’individuo quale è, ma come dovrebbe essere; non dell’individuale, ma dell’universale.
    Perciò l’arte differisce dalla storia (che ritrae solo i fatti particolari), in quanto “più filosofica e solenne della storia”.
    Certi generi, come la tragedia e la musica, determinano poi una speciale purificazione degli effetti, che prende il nome di catarsi: teoria oscura, in cui pare adombrato il moderno principio della spiritualità dell’arte.

    Giudizio sulla filosofia di Aristotele

    Aristotele si propone di eliminare il dualismo esagerato di Platone in nome di un maggiore realismo: riconciliazione dell’universale col particolare, dell’essere col divenire, dell’unità con la molteplicità, del divino con l’umano.
    Ma il tentativo, nonostante l’acutezza della polemica contro il Maestro, andò fallito.
    Nella Metafisica egli lasciò il dualismo di materia e di forma: disse che la prima non si può trovare senza l’altra, e poi concluse che la realtà somma (Dio, Motore immobile) era forma scevra di materia, cioè le ridivise di nuovo.
    Del resto, se la materia tende alla forma; perciò stesso è altro dalla forma; per di più resiste alla forma, sino al punto di apparire dominata dall’accidente e dal caso, e perciò è estranea e opposta alla forma medesima.
    Nella Fisica il dualismo di celeste e di terreno, di materia corruttibile o sublunare, e di materia incorruttibile o sopralunare: donde quel dualismo cosmologico, che è quasi il segno visibile del dualismo metafisico insuperato.
    Nella Psicologia lasciò il dualismo di nous passivo e nous attivo: quest’ultimo viene dal di fuori, e, pur trovandosi congiunto con le altre facoltà, non ha intima connessione con esse.
    Nell’Etica lasciò il dualismo di virtù etica e di virtù dianoetica: la virtù veramente umana è ora la prima, che consiste nella vita in comune; ora la seconda, che consiste nella contemplazione solitaria dell’uomo individuo.
    Sarà compito della filosofia posteriore, specialmente degli stoici e degli epicurei, cercar di eliminare tali dualismi, sulla base di un concetto più immanente della realtà.

  • Germani

    Storia antica

    Nelle zone germaniche possiamo citare i Franchi, gli Alamanni, e i Sassoni. Quelle conosciute ai tempi di Tacito (98 d.C.) buona parte in questo periodo sono già scomparse, come i Catti, Cauci, Cheruschi, Suebi, Gepidi, Burgundi ecc., forse integrati con altre tribù.
    Lo stesso Tacito con le sue ricerche e “interviste” ai romani che tornavano da quei territori, era venuto a conoscenza (e credeva) che discendevano da tre ceppi ben precisi nonostante quelle incontrate dalle legioni fossero circa 40 tribù diverse (da altri fonti circa un centinaio) . Un ceppo, gli Ingevonis e Istevoni provenivano dall’oceanus Germanicus (così chiamato allora il mare del Nord). Un altro ceppo dal Suevicum (Baltico). Il terzo dal “Cimbrico Jutland” (Danimarca), con gli Erminoni stanziati sull’Elba.
    Nel I secolo d.C. appaiono tutti amalgamati, quasi un unico popolo con forti analogie negli usi e i costumi, ma non nelle loro arcaiche istituzioni. Queste erano molto differenziate, ecco perché non è ancora il momento di chiamarli tutti Germani, e meno ancora Franchi anche se così li abbiamo già citati, e per comodità così li citeremo ancora fin quando la divisione sarà quasi netta (con Meroveo e Clodoveo).
    Fra poco con le orde che si abbatteranno su questo territorio – quindi altre fusioni- sarà ancora più difficile per gli storici capire chi erano esattamente queste popolazioni e da dove venivano. L’unica fonte storica è quella di Tacito, nella sua opera De origine situ germanorum, scritta nel 98 d.C.
    Privi di queste note non solo noi ignoreremmo le loro origini ma le ignorerebbero gli stessi Germani e i Franchi; non essendoci ancora nel secolo IV una lingua germanica scritta non potevano certo lasciare una documentazione storica. Quella di Tacito, resta in assoluto la prima opera d’informazione sulla vita e i costumi degli antichi Germani e ci offre anche l’opportunità di sapere qualcosa sulle loro divinità.
    Culturalmente sappiamo poco, etnicamente qualcosa, con l’archeologia molto di più. Ci sono oggi gli scavi archeologici che testimoniano con vari reperti che la prima sede originaria è tra la Scandinavia del sud e le coste del Baltico nello Jutland e lungo il corso del fiume Elba. Ci indicano i reperti rintracciati la cultura detta di Jastorf che è datata 700 a.C. Ed è questo il periodo dove avvengono le prime grandi migrazioni.
    Due le grandi direttrici migratorie: Verso il Reno a ovest e verso il Danubio a sud. Entrambe entrarono in contatto con la CIVILTA’ CELTICA che si era diffusa su tutta Europa fin dal 1600 a.C.
    Durante l’età del ferro (“la cultura di Hallstatt” è celtica) dal 700 a.C. fino al 500 a.C. i Celti sono sulla Mosa, sul Reno, sul Meno, sulla Marna, nello Champagne; tutti questi vennero chiamati GALLI. L’origine di questo termine sembra risalga all’indo-europeo garlus, dalla radice gar = gal, che significa gridare.
    Altri gruppi dominarono invece l’intero corso del Danubio dalle sorgenti del Giura fino al Mar Nero. Infine lo sviluppo celtico interessò anche l’Italia del nord nell’ultimo periodo della loro massima espansione nel 400 a.C. soprattutto sul territorio Padano.

    Le migrazioni germaniche al nord Europa, dunque iniziarono proprio nel 700 a.C. Nel 300 a. C. di Celti quasi non ne esisteva più traccia in Europa; o furono cacciati (ne ritroviamo un buon numero in Asia Minore prima come soldati di Filippo poi di Alessandro Magno) o lentamente furono assorbiti da questi altri popoli detti “figli del mare” – mero-vei, in inarrestabile movimento.
    Furono chiamati dai romani i Celtici e i Galli, tutti Germani, per il motivo che una delle prime tribù che conobbero e sconfissero, così si chiamava, cioè jerman, provenienti dallo Jutland nordico, scesi assieme ai Suebi, Marcomanni, Cimbri, Ambroni, e ai Teutoni, verso il Danubio superiore. L’ultima indicata si stanziò nella Gallia meridionale, e anche questa essendo una delle prime tribù che si scontrò con i romani di Gaio Mario nel 102 a.C. per un lungo periodo Teutonici rimase l’equivalente per indicare i Germanici, poi anche i latini iniziarono a usare questo termine gallico per indicare tutti le tribù dei figli del mare, molto diversi come costumi, però legati dalle somiglianze dei dialetti e dai tipici utensili usati nelle varie attività quotidiane.
    Dunque erano due le due grandi direttrici di marcia: verso ovest (Reno) e verso sud (Danubio). Sono trascorsi circa 1000 anni dalle prime migrazioni e insediamenti. Nel 373 d.C. siamo nel periodo dove a dominare sono rimasti solo due grandi gruppi: i popoli del nord attorno al Danubio, e sono questi gli Alamanni, mentre attorno al Reno gli altri, presto li chiameremo Franchi.
    A questo punto dovrebbe essere chiara la loro provenienza, ma ci sono però anche le leggende; una delle più affascinanti è quella di un cronista storico dove racconta che questo popolo nell’antichità faceva parte del regno di Re Priamo di Troia; dopo una sanguinosa guerra furono scacciati dalla Frigia. Vagarono con mogli e figli per molti anni, all’interno delle ottime terre del Mar Nero, poi scoperta la foce del Danubio, dopo essere venuti in lite fra loro, si divisero in due gruppi. Il gruppo comandato da un certo re Francione, risalì il grande fiume. L’agricoltura per quanto praticata era arcaica e non conosceva ancora la concimazione, essa si spingeva anno dopo anno su nuovi terreni dove i limi alluvionali favorivano le colture. Anno dopo anno Francione arrivò nel territorio che ritenne il migliore, incastonato fra quattro grandi fiumi, Danubio, Reno, Meno, Nekar, e gli diede il suo nome: FRANCONIA, il quel perimetro dove sorge oggi Norimberga, Stoccarda, Mannheim, Magonza, Darmstad, e infine Francoforte. Territorio che fu in seguito il centro della vita politica tedesca e del regno dei franchi orientali per molti secoli, poi residenza secolare degli stessi imperatori Carolingi.
    Di qui, narra la leggenda, re FRANCIONE partì per conquistare a est, al di là del Reno il territorio che poi prese il suo nome: la FRANCIA.
    Questa è una versione leggenda, molto popolare e accettata nel primo medioevo. Ma la storia più verosimile è un’altra più verosimile; ed è quella dei Mero-Vei (“figli” del mare). Pur non disponendo di documenti storici i reperti archeologici dicono oggi molte cose. Sembra dunque che il popolo dei Franchi, in questo periodo composto da moltissime tribù, una in particolare riuscì a prevalere e ad assorbire le altre. Era la tribù dei Salii, provenienti dal lago salato Issel (Salato).
    L’intera zona circostante, infatti, è chiamata Saaland: Terra del sale. Queste tribù a poco a poco, una parte si impose a sud ovest e arrivò fino allo Schelda, alla Mosa e sulle rive sx del Reno, mentre un’altra, penetrò all’interno della riva destra renana rimanendo piuttosto ribelle nei confronti dell’altra.
    E qui che l’imperatore Giuliano li incontrò per la prima volta in quella “pulizia” che abbiamo accennato nel 357, e dove dopo i vari compromessi concedette ai primi anche la libertà (con uno statuto di foederati) di rimanere sul proprio territorio nei vari pagus = ormai non più accampamenti ma veri e propri villaggi, e in seguito città.
    Ammiano Marcellino scrive circa la tribù di salii: uomini coraggiosi che si erano spinti a sud della Mosa fino ai fortini della strada romana di Colonia. I romani iniziano a distinguerli: “i liberi” cioè gli af-francati, alias Franchi salii, mentre gli altri, Ripuari salii, cioè quelli che vivono nell’altra ripa, cioè nell’altra sponda. (ripa è un termine romano, più precisamente usato dagli Itali di Corfinio, in Abruzzo). Ammiano afferma che questi ultimi, i Ripuari salii, avevano un proprio re. Uno di questi di cui si ha notizia é Clogio o Clojo o Clodione che occupava con altre tribù, vari pagus nella riva destra.
    Successivamente, quando i romani con Stlicone entreranno in difficoltà, i Salii si erano spinti risalendo il Reno, fino alla odierna Franconia. Qui nel prossimo 431 e 451 si scontreranno con Ezio il generale romano comandante della Gallia.
    Tutte le storie di Francia narrano (Ma anche lo storico Prisco che conobbe di persona il re) che alla morte di Clodione successe suo figlio Mereveo. Nel frattempo i salii si erano spinti nel Turnai e nella valle della Loira; e da Colonia fino alla odierna Francoforte (dando vita al loro territorio: la Franconia). Inizia dunque la dinastia dei Salii, detti anche Merovingi, o uomini venuti dal mare. Lo stesso re, definito il capostipite dei Merovingi, cioè Mereveo significa del resto, figlio del mare, da mer = mare, oveo = figlio.

    Storia medievale

    Basso Medioevo
    Durante il XII e il XIII secolo, il conflitto tra i due poteri si tradusse in Germania e in Italia nella rivalità tra i sostenitori degli Hohenstaufen (ghibellini) e quelli del papato (guelfi). Enrico V morì senza lasciare figli nel 1125; ignorati i diritti di successione dei nipoti Federico e Corrado Hohenstaufen di Svevia, i principi scelsero Lotario II, duca di Sassonia. Questi riprese i progetti d’espansione a oriente e di affermazione del potere imperiale in Italia, dove compì due spedizioni, dovendo nel contempo fronteggiare la rivolta degli Hohenstaufen che rifiutavano di riconoscerne l’autorità.

    Alto Medioevo
    I re germanici medievali ebbero dunque tre grandi obiettivi: mantenere sotto controllo i principi rivoltosi; acquisire il controllo dell’Italia, facendosi incoronare imperatori; espandersi verso nord e verso est. Quando l’ultimo re carolingio morì senza eredi, franchi e sassoni elessero Corrado, duca di Franconia, loro re; alla sua morte (918) scelsero come successore il duca sassone Enrico I l’Uccellatore, che sconfisse magiari e slavi e ottenne il controllo della Lorena. Nel 936 gli succedette al trono il figlio Ottone I; determinato a creare un governo efficiente e centralizzato riducendo il potere dei grandi feudatari laici, egli assegnò tutti i ducati a propri parenti, dividendoli in feudi non ereditari molti dei quali concessi a vescovi e abati. Questa politica, portata avanti anche dai successori di Ottone I determinò un sempre maggiore assoggettamento della Chiesa alla corona e l’ingerenza sempre più stretta dell’imperatore nel papato che sarebbe sfociata nella cosiddetta lotta per le investiture.
    Ottone rafforzò il dominio sulla Lorena e la Borgogna, sconfisse i danesi e gli slavi e sottomise definitivamente i magiari. Nel desiderio di emulare Carlomagno e cingere la corona imperiale, avviò quindi la disastrosa politica di coinvolgimento negli affari d’Italia: quando la regina dei longobardi Adelaide, rimasta vedova, gli chiese aiuto contro l’usurpatore Berengario, incoronatosi re d’Italia, Ottone, invaso il nord della penisola (951), sposò Adelaide, sconfisse Berengario e gli strappò la corona. Scese poi una seconda volta in Italia chiamato da papa Giovanni XII contro Berengario: sconfitto quest’ultimo, nel 962 fu incoronato imperatore dal papa.
    I successori di Ottone ne continuarono la politica in Germania e in Italia per tutto il X e l’XI secolo: Ottone II stabilì la Marca Orientale (Austria) quale avamposto militare del regno affidandola alla casata di Babenberg, ma fu sconfitto dai saraceni nel tentativo di conquista dell’Italia meridionale; sul piano interno, invece, Ottone III ed Enrico II (che morì senza figli) sostennero il movimento riformista benedettino sorto a Cluny, in Borgogna.

    Tardo Medioevo e primo Rinascimento
    Verso la fine del Medioevo, dai numerosi piccoli ducati tedeschi emersero alcuni grandi potentati, le cui famiglie signorili (tra le maggiori quelle degli Asburgo, dei Wittelsbach e dei Lussemburgo) si contesero i diritti sulla corona imperiale.
    Nel 1273 gli elettori posero fine al periodo del Grande Interregno scegliendo un principe svevo, creduto incapace di riconquistare le terre che essi stessi gli avevano usurpato; in effetti, appena eletto Rodolfo I d’Asburgo si pose l’obiettivo di estendere e rafforzare il potere del suo casato. Aiutato dai Wittelsbach e da altre famiglie, sconfisse il ribelle Ottocaro II di Boemia e ne confiscò le terre d’Austria, Stiria, Carinzia e Carniola, elevando così gli Asburgo tra le grandi potenze dell’impero. Quando il figlio ed erede Alberto I manifestò l’intenzione di proseguire la politica espansionistica del padre, venne fatto uccidere dagli elettori che scelsero quale successore il conte Enrico di Lussemburgo. Con la sede pontificia trasferita da Roma ad Avignone (vedi cattività avignonese) egli intervenne nella disputa tra guelfi e ghibellini nel tentativo di ristabilire l’autorità imperiale in Italia: attraversate le Alpi nel 1310, Enrico VII sottomise temporaneamente la Lombardia e si fece incoronare imperatore a Roma, ma poco dopo morì durante il tentativo di sottrarre Napoli ai francesi. La scena tedesca fu a quel punto nuovamente dominata dalla guerra civile fino a che il candidato dei Wittelsbach al trono, Ludovico il Bavaro, non sconfisse il rivale Federico il Bello d’Asburgo nella battaglia di Mühldorf nel 1322: il titolo gli venne disconosciuto da papa Giovanni XXII, che lo scomunicò. Ludovico IV gli oppose un antipapa e reclamò la convocazione di un concilio. Nel 1338 gli elettori stabilirono che da quel momento il re dei tedeschi eletto con voto di maggioranza sarebbe diventato immediatamente imperatore, senza che fosse necessaria l’incoronazione da parte del papa.
    Nel 1347 la scelta di cinque dei sette elettori cadde su Carlo IV di Lussemburgo re di Boemia e nipote di Enrico VII. Con la Bolla d’Oro (1356) questi assegnò permanentemente ed ereditariamente il titolo di grandi elettori agli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, al conte del Palatinato renano, al duca di Sassonia, al margravio di Brandeburgo e al re di Boemia.
    Il figlio di Carlo, Sigismondo, fu occupato principalmente a seguire gli affari interni delle sue terre boeme, attraversate dal movimento del riformatore Jan Hus: finito costui sul rogo come eretico, la Boemia fu sconvolta da un’ondata di sollevazioni popolari e di conflitti armati, le cosiddette guerre hussite. Morto senza lasciare eredi, Sigismondo ebbe come successore, eletto all’unanimità, il genero Alberto d’Austria, della linea degli Asburgo, imperatore con il nome di Alberto II. Con lui, la corona imperiale divenne in pratica ereditaria. Alberto II morì nel pieno della guerra civile in Boemia e di una invasione ottomana dell’Ungheria, regioni perse poi dal cugino e successore Federico III, che in più vendette il Lussemburgo alla Francia per sostenere la sua lotta con i turchi alle frontiere e con i principi tedeschi ribelli, che tuttavia nel 1486 lo costrinsero ad abdicare. Il figlio Massimiliano I, sposandosi con Maria di Borgogna, acquisì ricchissimi possedimenti che comprendevano le prospere città fiamminghe. Con il matrimonio del figlio Filippo il Bello con Giovanna, erede al trono spagnolo, ottenne la Spagna con i suoi domini in Italia e nel Nuovo Mondo; analogamente acquisì l’Ungheria e la Boemia combinando le nozze del nipote Ferdinando con la figlia di Ladislao II Jagellone.

  • Egiziani: le attività

    Cosmesi

    La cura del corpo era molto importante per gli antichi egizi. Essi utilizzavano creme, unguenti e profumi per ammorbidire e profumare la pelle. Le donne si schiarivano la pelle con un composto cremoso ricavato dalla biacca, disponibile in colori diversi, dalla più pallida alla più ambrata generalmente destinata alle labbra.
    Evidenziavano il contorno degli occhi con il kohl nero o verde, rispettivamente estratti dalla golena e dalla malachite. Le unghie venivano tinte così come le palme delle mani e dei piedi e a volte anche i capelli con una pasta a base di hennè. Utilizzavano specchi, pinzette per la depilazione e attrezzi per la manicure. I profumi (utilizzati da uomini e donne come le creme), venivano estratti da fiori, fatti macerare e pigiati. Tutte le essenze odorose avevano nel dio Shesmu il loro protettore. Venivano prodotti in laboratori associati ai templi e conservati in vasetti di pasta vetrosa, la faience.

    I trucchi dei Faraoni
    I trucchi, per gli Antichi Egizi, avevano il fine di proteggere la pelle da riverberi e irritazioni causati dal clima asciutto e dalla sabbia. Dai papiri ritrovati si è scoperto come ad esempio la malachite (un minerale color verde smeraldo) e la galena (un composto del piombo colore grigio scuro) venivano applicate sulle palpebre per curare il tracoma (infezione dell’occhio), l’emeralopia (riduzione della vista) e la congiuntivite, mentre l’ocra rossa era utilizzata per le labbra e le guance come i moderni rossetti e fard. Recenti studi hanno rivelato la composizione chimica delle polveri: galena nera, cerussite bianca, laurionite e fosgenite.
    Queste ultime due sostanze non si trovano in natura, ma sono il risultato di processi chimici che, quindi, lasciano intravedere una grande conoscenza in materia. Le dettagliate istruzioni riportate dai testi antichi illustrano i metodi utilizzati: la galena nera veniva scaldata per produrre l’ossido di piombo (sostanza di colore rosso) che veniva macinata e mescolata con sale e acqua.
    Tutti i giorni seguenti, per un totale di quaranta, la mistura veniva filtrata e mescolata nuovamente con del sale in modo da ottenere la bianchissima polvere di laurionite. La fosgenite, invece, veniva ottenuta con lo stesso procedimento tranne che per l’aggiunta supplementare di natron (un tipo di carbonato di sodio facilmente ricavabile dai sali presenti nelle rocce). La varietà delle lavorazioni di queste sostanze (macinazioni più o meno fini) permettevano di ottenere diverse tonalità di colori e di lucentezza in modo che ognuno poteva personalizzare il proprio trucco.
    La laurionite e la fosgenite, a seconda del dosaggio, unite alla galena nera producevano la varie tonalità di grigio. A tali sostanze venivano poi aggiunti grassi animali, cera d’api o resine che esaltavano la densità e le proprietà curative dei prodotti. Per problemi di vista, ad esempio, veniva aggiunta dell’ocra rossa alla galena, mentre per il comune orzaiolo si applicava un miscuglio di malachite e legno putrefatto. I trucchi erano considerati “fluidi divini” e perciò appartenevano al corredo funerario del defunto. Alcune di queste sostanze sono giunte fino a noi perfettamente conservate.

    Educazione

    La scuola egiziana fu fondata attorno al 2000 a.C. con lo scopo di formare giovani esperti da destinare alle funzioni amministrative dello Stato. Era una scuola rigida e poco permissiva, spesso venivano inflitte punizioni corporali. Le lezioni si svolgevano generalmente all’aperto. Gli alunni stavano accovacciati su stuoie intrecciate ed erano muniti di pennelli o cannucce e di cocci di terracotta sui quali scrivevano.
    Allo studio delle lettere erano ritenuti funzionali l’esercizio ripetuto della ricopiatura e della dettatura. Il giovane che voleva avere accesso ai più alti gradi dell’amministrazione doveva conoscere almeno una lingua straniera, così come chi voleva intraprendere con successo la carriera diplomatica doveva conoscere il babilonese. Importante era anche la preparazione fisica, curata mediante esercizi ginnici.

    Navigazione

    Il Nilo era la più importante via di comunicazione, la più rapida e la più facile. Anche nella stagione della siccità, quando le acque del Nilo erano basse, la sua navigazione era resa possibile dal vento di tramontana. Le imbarcazioni del periodo più antico erano zattere in fibra di papiro intrecciato.
    Erano leggere, ma poco adatte al trasporto di grandi quantitativi di merci, per questo furono sostituite con barche di legno, generalmente in cedro del Libano. Lo scafo era rettangolare o triangolare ed era spesso decorato. In particolare venivano raffigurati sul moscone gli occhi che consentivano alla barca di “vedere”. Numerose barche solari furono ritrovate affiancate a tombe reali, infossate in grandi buche. Erano destinate a crociere ultraterrene. La più famosa é quella di Cheope. Oggi l’imbarcazione più usata per la navigazione sul Nilo é la Feluca, piccolo veliero con lo scafo di legno.

    Professioni

    Barbiere
    Il barbiere forse era l’unico che non disponesse di una sede propria e per guadagnarsi da vivere girava da un quartiere all’altro con i suoi attrezzi fermandosi di tanto in tanto in qualche piazza rimanendo in attesa dei clienti.
    Seduto su di un semplice sgabello, il cliente si concedeva alle attenzioni del barbiere che operava con un catino d’acqua saponata, un rasoio e delle forbici.
    Il barbiere aveva clienti assicurati in quanto gli egiziani non amavano portare la barba o i baffi e se nei dipinti di qualche tomba vediamo raffigurato un uomo con la barba questa viene utilizzata solo per fare notare la condizione precaria dell’individuo oppure per raffigurare uno straniero. I barbieri del Re avevano un rango ben determinato all’interno della corte, infatti ogni mento ben nato doveva essere assolutamente glabro. Ad ogni modo non è molto chiaro che la barba non sia stata un segno di potenza mascolina.
    Soltanto in pochissimi casi un uomo poteva essere raffigurato con la barba; per esempio il lutto (che ci ha fruttato alcune rappresentazioni di defunti con il mento picchiettato di nero) oppure una partenza per l’estero.
    Al contrario degli esseri umani, gli dei vengono invece vantati per la loro fluente barba lunga e finemente intrecciata. Al momento della morte a personaggi importanti come il faraone oppure a personaggi meno nobili veniva applicata al mento una barba posticcia: queste appendici, un lusso del sovrannaturale, avevano uno scopo puramente rituale.

    Commerciante
    Il mercato era il luogo comune, il punto di raccolta per produttori, compratori e venditori, dove si svolgevano generalmente tutte le attività commerciali. In molti casi i commercianti egiziani entravano in contatto con i mercanti siriani e fenici a cui vendevano le eccedenze dei loro prodotti e che non erano riusciti a piazzare sul mercato interno.
    La grande esportazione dipendeva senz’altro dal tipo di governo regio che se ne serviva e molto spesso questa veniva utilizzata soprattutto come strumento politico per mantenere aperti i contatti con le popolazioni vicine: cereali agli Ittiti o agli Ateniesi, oro per l’Asia, ecc. Ad ogni modo le frontiere egiziane si schiudevano appena per i mercanti stranieri e tutto quello che entrava nel paese, dai mercanti ai prodotti, veniva posto sotto un rigido controllo amministrativo. I frutteti, le cave, le miniere del deserto erano comunque tutte monopolio del re.
    Fin dai tempi più antichi sono sempre state fatte spedizioni per mare o per terra allo scopo di raggiungere altri paesi ricchi di prodotti e di cui l’Egitto scarseggiava. Nel Nuovo Regno questi prodotti-chiave che mancavano all’Egitto ( come il legno del Libano oppure il rame dell’Asia ) non vengono presi come bottino o reclamati come tributo ma venivano negoziati da mandatari per conto del sovrano o dei templi che allora, potevano disporre di una flotta mercantile in proprio.
    All’interno del Paese la circolazione dei beni dipendeva essenzialmente dal commercio. Sui mercati rurali si barattava semplicemente : una collana per dei legumi, mentre per un acquisto un po’ più elevato bisognava utilizzare un’infinità di misure.
    “Venduto ad Hay dalla guardia Nebsmen : un bue, corrispondente a 120 deben di rame. Ricevuto in cambio due vasi di grassi equivalenti a 60 debem; cinque perizomi di tessuto fine, cioè 25 debem, un vestito di lino meridionale cioè 20 debem, un cuoio cioè 15 deben”.
    Questo caso, oltre a mostrarci come poteva essere complicato il computo della somma da pagare ci mostra anche come il metallo (rame, oro e argento) servisse da valore tipo per stima.

    Falegname
    I fabbricanti di mobilio nell’Antico Egitto era eccellenti artigiani se si considera il fatto che data la scarsità del legname locale questo doveva essere per la maggior parte importato.
    Così, scarseggiando in Egitto le piante di alto fusto, gli artigiani, utilizzando i tronchi degli alberi che avevano a disposizione come l’acacia o il carrubo, inventarono abili incastri per unire più pezzi di legno e ottenere così superfici più grandi. Non venivano utilizzati chiodi di nessun genere ma piccoli pioli di legno. Incastri, buchi e imperfezioni venivano poi abilmente stuccati e laccati per renderli invisibili. A volte gli incastri erano così perfetti che non era nemmeno necessario utilizzare la colla. Gli attrezzi dei falegnami erano alquanto semplici (gli strumenti di metalli erano di rame di bronzo): con delle seghe a mano venivano segati i tronchi degli alberi a disposizione, si usava l’ascia per abbozzare il legno ed un coltello ricurvo per modellarlo. L’azza veniva utilizzata per piallare mentre una pietra abrasiva aveva lo scopo di levigare e rendere lisce le superfici. C’erano inoltre scalpelli, punteruoli e trapani.
    Il trapano era ad archetto, un tipo molto comune ancora in uso in Egitto ed il molti altri paesi del Mediterraneo. Questo strumento manuale di origine molto antica con cui, attraverso un moto rotatorio, si possono praticare fori in vari materiali come legno, pietra e metallo. Il tipo ad arco prende il nome dalla corda testa alle estremità dell’asta a cui viene applicata la punta utilizzata per la perforazione e destinata ad aumentare la velocità di rotazione dell’utensile.

    Gioielliere
    Di tutti i gioielli che sono stati trovati non possiamo altro che approvare la bravura dei gioiellieri egizi che con il passare dei secoli è diventata sempre più raffinata e proverbiale. I famosi gioiellieri egiziani erano in grado di passare con facilità dalla lavorazione dell’oro a quella delle pietre dure creando magnifici oggetti grandi a volte pochi millimetri ma sempre perfettamente proporzionati. I gioiellieri del Faraone erano uomini tenuti in alto onore e, questi personaggi custodivano segreti che li avvicinavano alle divinità. Il mestiere, ereditario, si tramandava di padre in figlio insieme ai segreti della lavorazione dell’oro, rimaneva quindi un privilegio di famiglia la facoltà di creare le immagini degli dei o di preparare stupendi gioielli reali.
    Da tutto quello che ci è rimasto: dipinti, sculture, monili ritrovati nelle tombe delle varie epoche storiche, riusciamo a farci una chiara idea dell’evoluzione della gioielleria egiziana: la tipologia dei monili risulta numerosissima grazie alle mani esperte degli antichi orafi egiziani: materiali, fogge, disegni, decorazioni e lavorazioni sono tantissime e i moltissimi esempi di gioielli ritrovati ci mostrano l’abilità di questi antichi artigiani. L’altissimo livello tecnico raggiunto dagli orafi egizi portò questi artigiani ad eccellere nei lavori di fonderia e saldatura, battitura (si avevano foglie d’oro da 1/200° di mm.) e calco, ancora oggi sono insuperabili le antiche tecniche che andavano dall’incisione all’incrostazione, dalla doratura per stampaggio, alla cesellatura, pulitura e coloritura, senza dimenticare l’impiego della granulatura e della filigrana.

    Orafo
    Come quella dei gioiellieri, anche la categoria degli orafi era molto apprezzata in Egitto soprattutto per le svariate opere pubbliche che necessitavano della loro arte. Se i gioiellieri si occupavano esclusivamente nella creazione di straordinari monili, l’opera degli orafi era indirizzata soprattutto alle decorazioni delle porte dei templi, delle regge e degli innumerevoli tesori di proprietà dei faraoni.
    Nei loro laboratori il lavoro cominciava con una complessa tecnica di lavorazione dei metalli pregiati che venivano selezionati, fusi in forni a cielo aperto e colati dal crogiolo in stampi per lingotti di varie dimensioni. Questi lingotti venivano poi lavorati per mezzo di incudine e martello e utilizzati per i vari scopi.

    Medico
    La scienza medica in Egitto era conosciuta e rispettata anche in altri paesi ed era praticata soprattutto da specialisti generalmente appartenenti alla casta dei sacerdoti o addirittura degli scribi. Nell’Antico Egitto esisteva un termine generico per indicare il medico: egli era il “Sunu” e cioè “colui di quelli che soffrono”. Il geroglifico che rappresenta la professione, come si vede chi sotto, è composto da una freccia e da un vaso. La freccia indica il fatto di andare al bersaglio, ovvero di ottenere la precisione diagnostica (oppure lo strumento che serviva per incidere le carni del malato), mentre il vaso contiene i giusti rimedi per la guarigione.
    Per la medicina egizia il centro di tutto l’organismo era il cuore da cui partivano tutti i vasi all’interno dei quali scorrevano i fluidi e gli umori necessari alla vita. In Egitto alcune delle malattie grave conosciute erano la polmonite e la tubercolosi e altre malattie parassitarie e l’artrosi.
    Anche considerando il termine generico che riconosceva il medico, vari documenti che sono stati ritrovati ci informano che esistevano molte specializzazioni e anche Erodoto ci informa di questo fatto:
    “La medicina è ripartita in Egitto in questo modo : ogni medico cura una sola malattia e non più malattie.”
    Così, in Egitto non esiste un medico “generico” ma troviamo così l’oculista, il dentista, l’internista e addirittura il “pastore dell’ano” (specializzato nell’introduzione per via rettale dei diversi rimedi). Come per altre classi anche all’interno della casta dei medici esisteva una precisa gerarchia nell’ambito di ogni specializzazione. Esisteva quindi il medico, il grande medico, l’ispettore dei medici, il direttore dei medici fino ad arrivare al decano dei medici. Nello stesso modo esistevano dentisti, capi dentisti, direttori dentisti, ecc. Inoltre esistevano le varie organizzazioni locali che andavano dai corpi medici delle cave e delle miniere, a quelli dei villaggi operai o delle grandi proprietà terriere fino ad arrivare ai medici legali.
    Nonostante le varie associazioni minori, in Egitto, la figura del medico non era assolutamente legata a strutture di tipo corporativo e la sua condizione sociale variava a seconda dell’ambiente in cui operava. Se un medico era a disposizione di una cava o di una città operaia, in moltissimi casi, non godeva di nessun privilegio particolare e alcune volte era addirittura socialmente al di sotto di ispettori oppure di capi operai.
    Naturalmente se un medico operava all’interno del palazzo reale o nei tempi, questo godeva dei privilegi adeguati al proprio rango e visto che in Egitto era in uso il sistema di sommare le varie cariche, molte volte un medico poteva anche essere un nobile oppure politicamente importante. Come per molte altre professioni, anche quella del medico si tramandava di padre in figlio. Ad ogni modo la preparazione era comunque completata dall’apprendistato oppure dai corsi che si tenevano all’interno delle “Case della Vita”. Le varie conoscenze anatomiche era buone ma rimanevano comunque limitate, questo perchè chi compiva l’opera di mummificazione non era il medico ma operatori di un’altra casta, necessaria ma disprezzata e, siccome i rapporti tra loro e il medico erano inesistenti le varie conoscenze anatomiche erano molto scarse. In compenso oltre ad avere una buona conoscenza delle ossa, dei muscoli e dei legamenti, si aggiungeva una discreta conoscenza degli organi interni. Anche se il medico aveva una cognizione topografica esatta del corpo e delle sue parti (testa, collo, tronco, addome e arti) mancava in tutto o in parte la concezione di scheletro nella sua totalità anche se singolarmente le ossa erano ben identificate e conosciute.
    Ogni organo era conosciuto e considerato soltanto nella sua globalità con poche distinzioni per le varie parti che lo compongono. Per tutti possiamo citare il caso del cuore e del cervello, organi che nell’antica medicina egizia erano ben noti: ma se il cervello era ignorato come organo le sue funzioni ed il complesso delle attività nervose erano conosciute ma erano attribuite al cuore, l’organo più importante del corpo umano e “principio di tutte le membra”.

    Muratore
    Un’altra professione di cui ci è rimasto qualcosa di veramente impressionante è quella del muratore che, grazie all’utilizzo di vari materiali, poteva costruire piccoli edifici oppure enormi palazzi e templi.
    Di tutto quello che ci è rimasto e che oggi possiamo ancora ammirare sono esclusivamente le costruzioni in pietra mentre gli edifici minori che caratterizzavano i villaggi e le città sono praticamenti scomparsi a causa del materiale poco resistente che veniva utilizzato. Per questi edifici il muratore utilizzava semplicemente il limo del Nilo che, mescolato a sabbia e paglia tritata, poteva produrre il comune materiale da costruzione. Questo procedimento era molto lungo ed una volta che l’impasto era pronto, questo veniva posto in uno stampo per diversi giorni dove il “mattone” diventava solido ed infine poteva essere utilizzato per la messa in opera.
    Nonostante la tecnica rudimentale ed il materiale scadente, ancora oggi, in alcune zone, questo metodo ortodosso è ancora in uso e spesso si possono vedere questi “mattonifici” a cielo aperto oppure vedere case fabbricate con il sistema in voga secoli fa.

    Profumiere
    Generalmente la produzione dei profumi avveniva in laboratori specializzati alle strette dipendenze dei templi ed era il frutto di abili esperti del settore (per esempio, ad Edfu, il suo tempio possiede ancora una di queste officine dove, dai muri coperti dalle iscrizioni sono state trascritte le ricette di fabbrica dei diversi prodotti odorosi). Raramente al di fuori di questo contesto venivano aperti laboratori non dipendenti dalla casta sacerdotale. Estratti da varie erbe o fiori, i profumi venivano messi a macerare i appositi contenitori e infine mischiati con pregiati legni aromatici fatti arrivare dalla Siria o dall’Arabia. L’olibano e il terebinto, che crescevano sulle rive del Mar Rosso, erano particolarmenti apprezzati, soprattutto per usi rituali.
    Gli olii aromatici ed i profumi venivano conservati in fasetti di pasta vetrosa, di origine fenicia, o in fasetti di importazione tipici dell’area egea. Egizio invece era l’uso di custodirli in vasi di alabastro.

    Tessitore
    Nell’antico Egitto la tessitura delle vesti era un’arte praticamente femminile e quindi ogni famiglia egizia era in grado di provvedere al proprio fabbisogno personale.
    Il materiale più utilizzato era il lino che veniva a volte colorato con sostanze vegetali o minerali disciolte nell’acqua. Durante il Neolitico, con la produzione di stuoini per coprire i pavimenti delle capanne inzia in Medio Oriente l’arte della tessitura: erbe di palude e canne venivano intrecciate a mano senza l’aiuto di particolari attrezzature. Da questi inizi, attraverso un continuo processo di raffinamento della tecnica, si arriva presto alla tessitura delle fibre di lino e della lana delle pecore. Una volta scoperte le tecniche necessarie per estrarre le fibre dal lino e dalla canapa, gli egiziani si cimentaro nella produzione di stoffe sempre più fini e sempre più candide. Durante il Neolitico venne inventato il telaio e da quel momento le tecniche di filatura divennero sempre più efficienti. Basti pensare che in alcune tombe gli archeologi hanno ritrovato delle stoffe fini come seta.
    La filatura e la tessitura erano considerate attività prettamente femminili anche se in alcuni dipinti si possono vedere uomini al telaio. Ad ogni modo, già durante l’Antico Regno queste attività venivano svolte dai servi e dagli schiavi ed in alcuni casi anche dalle donne contadine che lavoravano per le classi superiori.
    L’industria della tessitura in Egitto consisteva quasi interamente nella produzione di lini. La coltura e la preparazione della pianta era quindi della massima importanza e occupava gran parte del lavoro contadino, al pari di quanto accade oggi per il cotone nei paesi produttori.

    Vasaio
    Come il muratore, anche il vasaio adoperava il fango argilloso del Nilo per la creazione dei suoi manufatti impastando l’argilla e collocandola poi su di un piccolo tornio azionato manualmente. Dopo aver modellato il vaso, l’artigiano lo inseriva nel forno per la cottura. A differenza del falegname il vasaio godeva dell’enorme privilegio di possedere una grande abbondanza di materia prima.
    Questa forma di artigianato si sviluppo enormemente già fin dalla preistoria e da quel tempo nulla è cambiato nelle tecniche di lavorazione e nella qualità tanto che oggi è molto difficile datare un comune vaso di terracotta egizio. Per la sua produzione il vasaio stava seduto per terra davanti ad una semplice ruota imperniata in un basso piedistallo e la faceva girare spingendola con una mano mentre con l’altra dava la forma alla creta. Come oggi la forma della fornace del vasaio era cilindrica. I vasi appena creati venivano meticolosamente accatastati all’interno del forno e sopra ad un supporto forato sotto il quale si accedendeva poi il fuoco. I vasi venivano poi coperti da terra o da ceramiche rotte in modo da ottenere così il tiraggio desiderato.
    In linea di massima la ceramica di uso comune è molto povera senza decorazioni artistiche e ornamenti, al massimo si vedevano alcune semplici linee. Anche se non esiste nessun paragone tra la ceramica egiziana e quella di altre civiltà, l’Egitto ha il vanto di aver inventato la tecnica dell’invetratura, tecnica che rende la ceramica assolutamente impermeabile e che permette di poterla decorare con colori brillanti e permanenti.
    Non ci è arrivata nessuna documentazione o antico disegno che ci possa mostrare questa tecnica ed anche il suo nome egiziano è stato ormai dimenticato. Il termine utilizzato oggi, “faience” proviene dalla città di Faenza famosa per la sua industria di ceramica durante il Rinascimento. Faience è appunto l’invetratura che ricopre i vasi di ceramica detta anche “majolica”, dall’isola di Majorca in Spagna. Sia a Faenza che a Majorca la tecnica dell’invetratura giunse dal mondo arabo durante il Medioevo. I più antichi oggetti di faience sono le piastrelle che decorano le camere sotterranee di Saqqara, perline per le collane e piccoli vasi. Durante il Nuovo Regno si trovano anche piccoli amuleti, statuette e bambole.

    Vetraio
    La tecnica per la produzione, conosciuta molto bene dagli egiziani, si sviluppò come evoluzione di quella della faience. Per ottenere una pasta vetrosa simile al nostro vetro i vetrai egiziani fondevano polvere di quarzo e cenere. Questo tipo di vetro era opaco ma con l’aggiunta di ossidi metallici si potevano ottenere delle meravigliose colorazioni.
    Sembra che la produzione del vetro si sviluppo al tempo degli Hyksos grazie forse ai contatti con il Levante e la Mesopotamia dove questa tecnica pare sia stata inventata. Le prima realizzazioni appartengono alla XVIII Dinastia, all’epoca degli Amenofi, ed erano dei piccoli e graziosi contenitori di profumi costituiti da fili di vetro colorato saldati poi assieme dalla cottura.

  • Arabi: le crociate

    ANTECEDENTI
    622 Maometto si ritira a Medina (Egira).
    638 Il califfo Omar conquista Gerusalemme.
    687 Inizia la costruzione della moschea di Omar a Gerusalemme.
    732 Battaglia di Poitiers, in cui Carlo Martello ferma l’avanzata degli arabi in Francia.
    842 Gli arabi occupano Messina e Taranto.
    842-902 Gli arabi conquistano la Sicilia.
    1076 I selgiuchidi conquistano Gerusalemme.
    1086 Gli arabi sconfiggono Alfonso VI in Spagna.
    Gli eventi in oriente precipitano
    1095 Urbano II predica la crociata a Clermont-Ferrand.
    1096 Partenza della crociata popolare. Massacri degli ebrei. I crociati popolari sono sterminati in Asia Minore.
    1097 Partenza della crociata ufficiale. Conflitto fra i crociati e Alessio I. crociati penetrano in Asia Minore.
    1098 I Fatimidi prendono Gerusalemme. I crociati si impadroniscono di Antiochia. Fondano la contea di Edessa e di Tripoli. Battaglia di Ascalona.
    1099 Luglio: i crociati prendono Gerusalemme. Fondazione del regno franco di Gerusalemme, guidato da Goffredo di Buglione.
    1100 Venezia e il regno franco di Gerusalemme concludono un accordo commerciale.
    1100-1118 Baldovino I re di Gerusalemme.
    1101 Numerose spedizioni di rinforzo falliscono.
    1102 Vittoria di Baldovino a Ramla. Presa di Cesarea.
    1103 I crociati prendono Acri e Byblos. I turchi vincono ad Harran. I bizantini reclamano Antiochia.
    1106 Tancredi d’Altavilla prende Apamea. Kilij Arslan prende Melitene.
    1107 Tancredi prende Laodicea.
    1109 Presa di Tripoli e di Beirut. Fondazione della contea di Tripoli.
    1110 Baldovino I conquista Sidone.
    1112 Ruggero di Salerno succede a Tancredi.
    1113 Progressi dei turchi. Baldovino I sconfitto a Tiberiade.
    1115 I crociati si alleano con l’atabek di Damasco. Battaglia di Tell-Danith. Baldovino I prende Moab.
    1118-1131 Baldovino II re di Gerusalemme.
    1119 Disfatta di Tell-Aqibrin. Ruggero di Salerno viene ucciso.
    1124 I crociati prendono Tiro.
    1126 Baldovino II raggiunge Damasco.
    1128 Zinki diventa padrone di Aleppo.
    1130 Zinki prende Hama e attacca Antiochia.
    1131-1148 Folco I d’Angiò re di Gerusalemme.
    1135 Zinki penetra nella contea di Tripoli.
    1136 Raimondo di Poitiers principe di Antiochia.
    1137 Folco capitola a Barin.
    1138 Giovanni Comneno costringe Raimondo di Antiochia a riconoscere la sua supremazia.
    1139 Folco e i damasceni si alleano contro Zinki.
    1140 Zinki toglie l’assedio a Damasco.
    1142 Zinki sconfigge i crociati sull’Oronte.

    La Prima Crociata
    Fu bandita ufficialmente da Papa Urbano II, organizzata e composta da veri cavalieri, ben armati ed equipaggiati. Dopo una sosta a Costantinopoli, dove furono stipulati accordi politici, militari e logistici, i crociati si diressero in Asia minore. Misero d’assedio e conquistarono Nicea e Antiochia. Poi Edessa, dove fondarono il loro primo Stato; infine il 5 luglio del 1099 entrarono e si impossessarono di Gerusalemme.
    I massacri fatti in quest’ultima città, furono spaventosi (li raccontò lo storico crociato Raimondo d’Anguilers).
    I bizantini sgomenti, si dissociarono ben presto dalle imprese dei crociati: sia perché questi, durante il loro transito, avevano saccheggiato anche molte città cristiane ortodosse; sia perché l’idea di una “guerra santa”, con tanto di vescovi, abati e monaci armati di tutto punto, era estranea alla loro mentalità; infine, i crociati (nonostante precisi accordi fatti in precedenza a Costantinopoli) avevano nessuna intenzione di restituire all’imperatore i territori conquistati (in tal senso particolarmente odiata dai bizantini era l’armata normanna, che si insediò ad Antiochia).
    Nei territori conquistati, i crociati conservarono e anzi accentuarono gli ordinamenti feudali esistenti: i contadini (arabi e siriani), già servi della gleba, dovevano pagare al proprietario delle loro terre una rendita che toccava il 50% del raccolto; mentre quelli liberi furono asserviti colla forza. Nelle città costiere dei loro stati, il commercio era in mano ai mercanti genovesi, veneziani e marsigliesi, che avevano ottenuto il privilegio (pagando i nuovi “padroni”) di poter costituire delle colonie.
    I crociati non furono in grado di apportare alcun elemento di novità nella vita economica dei paesi conquistati, semplicemente perché in quel periodo le forze produttive, la ricchezza materiale e culturale dell’Oriente, era di molto, superiore, a quella occidentale. Molti crociati, senza scrupoli (in mezzo c’erano anche ignoranti, bifolchi e delinquenti di ogni genere) si comportarono soltanto come ladri e oppressori: di qui la costante lotta con la popolazione locale, che all’oppressione feudale turca o bizantina, si era vista aggiungere quella straniera senza riguardo.
    Sul piano politico il sovrano dello stato latino aveva un potere limitato dall’assemblea dei più grandi feudatari. Gli stati erano divisi tra loro e sostanzialmente senza rapporti con quello bizantino. Sul piano religioso i sovrani cercavano di sostituire coi loro prelati il clero bizantino e arabo locale.
    Per la conquista di nuovi territori e la cristianizzazione forzata delle loro popolazioni furono istituiti gli ORDINI CAVALLERESCHI (quello dei TEMPLARI , di origine francese, quello Teutonico, di origine tedesca e quello dei GIOVANNITI, di origine italiana). Erano una specie di ordini di assistenza umanitaria, i cui membri, oltre ai voti monastici di castità-povertà-obbedienza, giurarono poi di difendere anche i Luoghi Santi contro gli infedeli. Ma alcuni, ligi all’Ordine originario, prestavano aiuto anche ai musulmani, curavano umilmente e amorosamente anche i nemici.
    Dunque, dal 5 al 15 luglio del 1099 Gerusalemme ritornava cristiana. A più di quattro anni dal discorso di papa Urbano II, che aveva sollecitato l’Occidente a liberare i Luoghi Santi, l’esercito crociato, provato da innumerevoli sofferenze, espugnava la Città Santa e riconsacrava i santuari della cristianità. La crociata non fu tuttavia una semplice realtà episodica, che coincise con la liberazione dei Luoghi Santi, ma una manifestazione di straordinaria forza della spiritualità medievale, che permeò dei propri valori, tutta quest’epoca fino agli albori dell’età moderna. All’odierno lettore essa può apparire solamente come un insensato spargimento di sangue, in realtà capire l’intolleranza del passato ed osservarne le conseguenze non può essere considerata opera priva d’utilità, in un’epoca come la nostra che ancora conosce la discriminazione religiosa ed il terrorismo fondamentalista. (Da considerare che allora erano entrambe le due religioni che regolavano, ispiravano e condizionavano anche la politica)

    La Seconda Crociata
    1144 Zinki occupa la contea di Edessa.
    1146 Norandino succede a Zinki. San Bernardo di Chiaravalle predica la seconda crociata a Vézelay. Corrado e Luigi ritornano in Europa.
    1149 Norandino prende Apamea e uccide Raimondo di Poitiers.
    1153 Baldovino III prende Ascalona.
    1154 Norandino prende Damasco.
    1155-1156 Renaud de Chatillon saccheggia Cipro.
    1159 Antiochia riconosce la sovranità di Manuele. I franchi alleati con i bizantini assediano Aleppo. Bisanzio tratta la pace con Norandino.
    1160 Renaud de Chatillon prigioniero di Norandino.
    1162 Amalrico I, successore di Baldovino III.
    1164 Norandino prende Harim.
    1167 Shirkuh in Egitto. Amalrico I prende Il Cairo.
    1168 Fallimento di Amalrico I in Egitto. Norandino prende Il Cairo.
    1169 Saladino visir in Egitto.
    1171 Saladino mette fine al califfato fatimide in Egitto.
    1174 Morte di Norandino e di Amalrico I. Avvento di Baldovino IV.
    Saladino conquista il potere in Siria.
    1177 Baldovino IV batte Saladino a Montgisard.
    1179 Saladino guida una spedizione contro Tiro.
    1180 Tregua tra Saladino e Baldovino IV.
    1182 Saladino attacca Nazareth, Tiberiade, Beirut.
    1183-1184 Saladino prende Aleppo e devasta la Samaria e la Galilea.
    1185 Il fanciullo Baldovino V re di Gerusalemme. Morirà ben presto e gli succederà Guido di Lusignano.
    1187 Disfatta dei crociati ad Hattin a opera di Saladino. Saladino prende Gerusalemme.

    La Seconda Crociata (1147-1187) fu dunque causata dalla caduta di Edessa (avvenuta nel 1144). Papa Eugenio III, riuscì a convincere il re di Francia Luigi VII e l’Imperatore germanico Corrado III (anche se all’inizio non voleva la partecipazione dei tedeschi ritenuti pericolosi) a muovere contro i turchi. In autunno i crociati tedeschi e francesi attraverso l’Ungheria e la Bulgaria raggiungono Costantinopoli.
    Ridotto l’esercito a un branco di delinquenti affamati vengono commesse sul territorio bizantino numerose rapine e violenze, fino al punto che l’imperatore Commeno, facendo il doppio gioco, chiese di nascosto aiuto addirittura al sultano dei turchi per difendersi da questi teppisti. I “crociati” già logorati dalla stanchezza e dalla fame, con questi ambigui appoggi (erano veri e propri atti di sabotaggi e ostilità) riservati a loro dai bizantini, disgregati soprattutto dalle discordie interne, decimati da privazioni e da epidemie, subirono prima un attacco in ottobre a Dorilea, poi dopo una ininfluente affermazione a Laodicea, furono presto sconfitti dai turchi presso i monti di Cadmus nel dicembre 1147.
    Asserragliatisi nei pressi di Damasco, pur con l’arrivo di rinforzi, soprattutto con contingenti di templari e giovanniti, il successivo anno, nel 1149, furono annientati. Nella fuga trovò rifugio a Costantinopoli il malaticcio Corrado III, con il nipote Federico già duca di Svevia dopo la morte del padre. (Morto poi Corrado nel ’52, sarà lui a ereditare dallo zio l’impero con quel nome che diventerà famoso per circa 40 anni, sconvolgendo mezza Europa, l’intera Italia, ma che poi morirà annegato nella successiva crociata: era Federico detto il Barabarossa).
    Commeno come contropartita chiede a Corrado di aiutarlo a riconquistare la Sicilia in mano ai normanni di Ruggero II. Ma non ha l’esito sperato, oltre che andare incontro a un fallimento, i normanni hanno già stretto alleanza con i Guelfi tedeschi ostili proprio a Corrado che offrono appoggio al Re di Sicilia normanno, convincendo Serbi e Ungheresi ad attaccare per indebolire da nord l’impero bizantino

    La Terza Crociata
    1187 L’arcivescovo di Tiro predica la terza crociata. Rispondono all’appello di papa Clemente III l’imperatore Federico Barbarossa, il francese Filippo Augusto e l’inglese Riccardo Cuor di Leone.
    1188 Saladino ha in mano tutto il territorio franco, tranne Tripoli, Tiro e Antiochia.
    1189 Guido di Lusignano assedia Acri.
    1190 Federico Barbarossa arriva in Asia Minore, prende Konia ma in un banalissimo bagno nel fiume Selef il 10 giugno muore annegato, lasciando l’esercito allo sbando.
    1191 Arrivano in Terrasanta Filippo Augusto e Riccardo Cuor di Leone. Questi prende Cipro, San Giovanni d’Acri e sconfigge Saladino ad Arsuf.
    1192 Guido di Lusignano re di Cipro. Corrado di Monferrato, signore di Tiro, designato re di Gerusalemme viene ucciso da un adepto della setta degli assassini. Enrico II di Champagne re di Gerusalemme. Riccardo Cuor di Leone batte Saladino a Jaffa ma fallisce davanti a Gerusalemme e torna in Occidente.
    1193 Morte di Saladino.
    1194 Amalrico di Lusignano re di Cipro.
    1197 Morte di Enrico di Champagne. I franchi riprendono Beirut.

    La Terza Crociata (1189-1192) fu bandita da Gregorio VIII, appena salito sul soglio alla morte di Urbano III, ma vi rimase nemmeno due mesi, gli successe Clemente III. La motivazione era caduta di Gerusalemme (1187) per opera del grande condottiero turco Saladino, che aveva con una serie di strepitose vittorie già esteso la sua signoria sull’Egitto e sull’Arabia occidentale. A differenza dei crociati, il Saladino non effettuava stragi nelle città vinte ai cristiani: questi anzi avevano la possibilità di andarsene pagando un riscatto (un uomo 10 denari, 5 la donna); chi non pagava era fatto schiavo. Ma poi Saladino abolì anche quest’iniqua richiesta per chi voleva andarsene, né costrinse a fare gli schiavi chi restava. Anzi, mise perfino una milizia per proteggere da alcuni fanatici musulmani la minoranza cristiana.
    Sebbene alla crociata partecipassero i re d’Inghilterra Riccardo Cuordileone e di Francia, Filippo II, nonché l’imperatore germanico Federico Barbarossa, i risultati furono irrilevanti (l’imperatore addirittura vi morì, lasciando un esercito allo sbando). Troppe erano le discordie interne: francesi, inglesi, tedeschi e italiani, si combatteranno a vicenda per il possesso di alcuni territori conquistati. Ma il più ambiguo rapporto si creò tra il re di Francia e il Re d’Inghilterra fino a rompere il sodalizio e ritornare il primo in Francia a combinare guai e a seminare zizzania:
    Gerusalemme, in sostanza, restava in mano turca, anche se i cristiani residenti avevano libertà di accesso alla città santa. Per le violenze e l’arroganza dei nuovi arrivati Bisanzio fu costretta ripetutamente ad allearsi con i turchi perché si era accorta che la presenza latina le causava più danni che vantaggi. Alla fine l’imperatore Isacco come aveva fatto il suo predecessore Commeno, si convinse che invece di aiutarli i crociati era meglio combatterli.
    Riccardo Cuor di Leone dopo i dissidi con il re di Francia rientrato in patria con ben altri obiettivi, preferì invece di combatterlo, fare una pace con Saladino. Ma al ritorno pur scampando a un naufragio, fu fatto prigioniero, poi consegnato a Enrico VI. Sul trono salì il fratello Giovanni Senzaterra, messo in soggezione proprio dal Re di Francia Filippo Augusto. Ritornato libero, Riccardo perdonerà il fratello, affronterà Filippo, riconquisterà il trono, ma nel ’99 nell’assedio di Chalus in combattimento perderà la vita. Tornerà a regnare il fratello più volte in conflitto con l’avido re di Francia, Filippo.

    LA QUARTA CROCIATA
    1202 Bonifacio II di Monferrato e Baldovino IX di Fiandra conducono la quarta crociata. Una delle più drammatiche e infide spedizioni.
    1204 I crociati prendono e saccheggiano Costantinopoli. Fondazione dell’Impero latino d’Oriente (1204-1261).

    La Quarta Crociata (1202-1204) – Alla fine del XII sec., Papa Innocenzo III, grazie al quale la chiesa cattolica aveva raggiunto l’apice della sua potenza, bandì la quarta crociata, cercando di approfittare della morte di Saladino (1193). Alla spedizione, diretta non solo verso Oriente, ma anche verso i paesi baltici, parteciparono i feudatari francesi, italiani e tedeschi (questi ultimi furono i soli quelli del Baltico). Essi decisero di partire da Venezia per servirsi della sua flotta: l’intenzione era quella di conquistare Gerusalemme dopo aver occupato l’Egitto. Ma Venezia, che aveva ottimi rapporti commerciali con gli egiziani, riuscì a dirigerli con l’inganno contro la rivale Bisanzio. I crociati, infatti, che non avevano denaro sufficiente per pagare il viaggio, accolsero la proposta di prestare aiuto ai veneziani per la conquista della città di Zara, appartenente al re cattolico d’Ungheria.
    Indignato, Innocenzo III scomunicò i crociati, ma subito dopo concesse il perdono nella speranza che muovessero contro i turchi. Ma durante l’assedio di Zara venne al campo crociato il figlio dell’imperatore di Costantinopoli per annunciare, che suo padre era stato cacciato dal fratello e che se l’avessero aiutato a ritornare sul trono avrebbero ottenuto grandi somme e promise anche la riunione delle due chiese cristiane. Innocenzo III – anche lui raggirato- alla notizia si affrettò a benedire l’intervento che poco prima aveva condannato.
    I crociati così si diressero verso Costantinopoli, ma qui incontrarono la resistenza della cittadinanza, che non ne voleva sapere dei latini. L’imperatore deposto venne rimesso sul trono senza spargimento di sangue, poiché il fratello usurpatore era fuggito dalla città. Ma i crociati pretesero che accanto all’imperatore fosse nominato con lo stesso titolo anche il figlio, il quale naturalmente aveva intenzione di mantenere fede agli impegni contratti a Zara. Soprattutto con Dandolo, l’ultranovantenne doge veneziano, che aveva fornito a credito il nolo delle navi per il viaggio, pattuito una somma ben precisa e stabilito precisi privilegi.
    Tuttavia, il tesoro della capitale era vuoto, il patriarca e il popolo si rifiutavano di riconoscere il papa come capo della chiesa universale e non avevano alcuna intenzione di pagare i debiti dell’imperatore, né di concedere privilegi ai crociati e ai veneziani. Per queste ragioni la popolazione insorse uccidendo sia l’imperatore, che il figlio.
    I crociati per venali motivi decisero di vendicarsi: irruppero nella città e per tre giorni la saccheggiarono orrendamente, proclamando l’Impero latino d’Oriente, dimenticandosi del tutto la spedizione contro Gerusalemme. A capo della chiesa bizantina fu posto un nuovo patriarca, che cercò di avvicinare la popolazione locale, greca e slava, al cattolicesimo. Il papato, ufficialmente, condannò il massacro, ma quando vide che l’imperatore eletto e il patriarca gli riconoscevano, piena supremazia su tutta la chiesa cristiana d’Oriente e d’Occidente, decise di accettare il fatto compiuto. Tuttavia, più ancora che il papato o i feudatari, fu Venezia a trarre i maggiori profitti dalla conquista dell’impero bizantino, del cui territorio essa aveva occupato i 3/8: in particolare, inoltre i mercanti veneziani riuscirono ad ottenere per le loro merci l’esenzione dai dazi in tutti i paesi dell’Impero.
    I particolari di questa spedizione, con i protagonisti finiti poi uccisi li troviamo in Cronologia nei singoli anni. Si risorse drammaticamente e permise con il crollo dell’impero bizantino la nascita di due grandi potenze, il regno dei Serbi e d’Ungheria.
    L’impero latino inizia a crollare del tutto nel 1261, sotto l’urto dei Bulgari e degli Slavi oltre che degli stessi ultimi incapaci governanti bizantini; questi ultimi aiutati dai genovesi, ma anche dai barbari che prima combattevano. Il fatto più strano fu che i nuovi re dei primi due paesi, che stavano costituendo (nella decadenza bizantina) ognuno il proprio regno (Bulgaria e Serbia – vedi anno 1195), furono appoggiati dal Papa. Temeva Roma prima o poi con la presenza veneziana sugli interi Balcani (l’intera costa dalmata e greca, era già della Serenissima) che stringessero un’alleanza o con i tedeschi o con i normanni. In un caso o nell’altro lo Stato della Chiesa veniva a trovarsi in mezzo stritolato da tre parti.
    Bisanzio in seguito si libererà dei latini, sopravvivrà per altri 200 anni, ma non tornerà più al suo antico splendore. I Turchi oltre che conquistarla, ne faranno la capitale del loro Stato.
    La V, la VI, la VII e l’VIII Crociata non ebbero molta importanza: i crociati subirono altre sconfitte o, nel migliore dei casi, scendevano a patti con i nemici prima ancora di dare battaglia; e questo nonostante che i mongoli si fossero alleati con loro contro turchi e arabi.
    Il fatto è che dopo la quarta crociata non v’era quasi più nessuno in Occidente disposto a partecipare a spedizioni lontane e pericolose, anche perchè quando i crociati si trovavano in difficoltà non ottenevano mai gli aiuti e i rinforzi richiesti.
    Nel periodo delle ultime crociate, in Europa si ebbe un notevole aumento della produzione, la tecnica agricola si era perfezionata, le città si erano sviluppate, l’intera economia divenne florida. Questo può spiegare perché vennero meno le cause che avevano indotto la società feudale occidentale a partecipare alle crociate. I mercanti, ad esempio, si accontentarono dei risultati delle prime quattro crociate, che avevano assicurato l’eliminazione della funzione mediatrice esercitata da secoli dall’impero bizantino tra est e ovest. Pragmatici com’erano, scoperti i vasti mercati orientali si misero addirittura a fare affari anche con i turchi.
    Gli stessi cavalieri ebbero la possibilità di entrare nelle truppe mercenarie dei re nazionali dell’Occidente, la cui importanza andava sempre di più crescendo con le attività produttive. Molti altri cavalieri furono utilizzati poi dalla Chiesa per colonizzare nuovi territori nel Baltico (in particolare Polonia, Cecoslovacchia, Boemia, Ungheria) e sui Balcani, al fine convertire alla religione cristiana gli slavi e tutto il territorio a est della Russia. L’impresa in parte riuscirà, ma dividendo l’Europa in due; nacque un dualismo religioso abbastanza critico che poi esploderà nel protestantesimo, creando una forte contrapposizione tra due unità politiche, soprattutto quando due dinastie di sovrani tedeschi si divideranno la Germania. Da una parte i prussiani (l’anima della futura Germania ariana (intesa come religione e anche come etnia – gli arii indoiranici) e dall’altra parte a oriente le ambizioni degli Asburgo (che domineranno su un territorio che non dimentichiamo si chiama deutschostereich – cioè “la parte ovest della Germania”. Austria è un nome recentissimo, di fine Ottocento, inizio Novecento.
    E nemmeno dobbiamo dimenticare che la stessa Austria, non è proprio per nulla omogenea, esiste la parte superiore e la parte inferiore che non è “sotto” e “sopra”, ma la prima è a est di Linz (fin dai tempi di Carlo Magno) la seconda è a ovest. La prima tipicamente “germanica”, l’altra un miscuglio di etnie; latini, slavi, cechi, boemi, croati, sloveni, che sono legati ancora oggi da motivi religiosi (cristiano cattolici) e da melanconiche glorie perdute dell’impero dei potenti e ambiziosi Asburgo, quando questa opulenta dinastia si è disgregata dopo la prima guerra mondiale.
    Due entità politiche che fanno ancora oggi -anno 2000- discutere; ed ognuna ha latente la volontà di egemonizzare l’altra, pur apparendo la nazione una tranquilla regione incastonata tra i monti e attraversata da quel lungo placido fiume che ha diviso fin dai tempi dei romani il territorio. La parte sinistra non ha dimenticato quando gli Asburgo dominavano con arroganza da Vienna fino in Belgio, e la parte destra (che comprende Vienna) d’altronde non ha dimenticato che la sua potenza si estendeva da La Manica al Lombardo-Veneto (oltre che essere paladino di altri Stati italiani) e da questi fino alla Boemia, Cecoslovacchia, Ungheria, alla ricca Slesia e infine alla Polonia.

    La Quinta Crociata
    Condotta da Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme, e Andrea II, re di Ungheria.
    1217 Fallimento dei crociati al Monte Tabor.
    1218-1219 I crociati prendono Damietta. San Francesco d’Assisi in Egitto.
    1221 Spedizione disastrosa dei crociati verso Il Cairo. Perdita di Damietta.

    La Quinta Crociata (1217-1221), bandita da Papa Innocenzo III, la vinse la piena del Nilo. I cristiani ne furono sommersi. I sopravvissuti in cambio di Damietta ottennero dal sultano di ritirarsi liberamente. In questa spedizione ci fu l’ingenuo tentativo di san Francesco d’Assisi di “convertire” il sultano.

    La Sesta Crociata
    1225 Federico II sposa Isabella di Brienne e diventa re di Gerusalemme.
    1229 Mediante il trattato di Jaffa, concluso con Al-Malik Al-Kamil, sultano d’Egitto, Federico II ottiene la restituzione di Gerusalemme per dieci anni. Vi si incorona re e torna in Europa.
    1244 I musulmani (turchi khwarizmiani) riprendono definitivamente Gerusalemme.
    1247 I turchi khwarizmiani riprendono Tiberiade e Ascalona.

    La Sesta Crociata (1227-1229) é la più anomala. Fu bandita da papa Gregorio IX e quasi imposta a un Federico II riluttante a partire, temendo che il papa durante la sua assenza – cosa come poi in effetti avvenne – approfittasse per invadere l’Italia meridionale; per questo temporeggiare fu scomunicato. Fu costretto alla fine a partire, ma giunto a destinazione la “crociata” fu presto conclusa attraverso un pacifico accordo con il sultano. Non ci fu dunque nessun fatto d’arme di rilievo. Le armi tacquero.
    Il “diplomatico” e “saggio” Federico II, concluse la trattativa col sultano d’Egitto (trattato di Jaffa) che garantiva Gerusalemme, Betlemme e Nazareth ai cristiani. Il Papa scandalizzato (ma cercava un qualsiasi prestesto) per aver concluso questo trattato di pace con gli infedeli gli lancia l’”interdetto”, chiede la disubbidienza dei sudditi, gli invade il suo regno. Federico s’imbarca, rientra in Italia, sconfigge le truppe pontificie e costringe il papa a togliergli la scomunica.
    E’ forse il migliore e il più fecondo periodo delle crociate. Federico che ha grandi interessi culturali, in Oriente, con gli ottimi rapporti stabiliti con i locali, lui appassionato osservatore, scopre la civiltà araba, mutua alcune istituzioni e trasferisce in Europa non solo tante invenzioni e tecnologie in occidente ignote, ma tutto il Sapere riposto nelle immense biblioteche arabe, che hanno conservato negli scaffali , in milioni di libri, tutto lo scibile umano degli ultimi venti secoli; dalle antiche civiltà orientali e occidentali, e paradossalmente anche i testi latini oltre che greci, scomparsi in occidente da più di mille anni.

    La Settima Crociata
    1248 Luigi IX il Santo sbarca a Cipro.
    1249 Luigi IX il Santo prende Damietta.
    1260-1277 Baibars, sultano dei mamelucchi.
    1260 Baibars ferma l’avanzata dei mongoli.
    1265 Baibars prende Cesarea e Arsuf.
    1268 Baibars prende Jaffa e Antiochia.

    La Settima Crociata (1248-1254). E’ quella del Re Santo, Luigi IX re di Francia. L’armata fu decimata prima da una tempesta, ciononostante i crociati riconquistano Damietta. Ma nel 1250 la battaglia ricomincia, Luigi fu fatto prigioniero. Liberato con un riscatto nel ’54 s’imbarcò per ritornare in Francia.

    L’Ottava Crociata
    1270 Luigi IX il Santo muore appena giunto a Tunisi.
    1274-1275 I mamelucchi saccheggiano la Cilicia.
    1277 Carlo d’Angiò pretendente alla corona di Gerusalemme. Si impadronisce di Acri.
    1282 Enrico II di Cipro assume il titolo di re di Gerusalemme ma regna solo su Cipro.
    1287 Il sultano d’Egitto Qalawun prende Tripoli.
    1291 Il sultano al-Ashraf, figlio di Qalawun, prende Acri. I franchi sono espulsi dall’Oriente.

    La Ottava Crociata (1269 ) è l’ultima (ufficialmente). Tramonta il sogno cristiano; é la definitiva disfatta europea. Guida la spedizione Giacomo I d’Aragona, ma già a Barcellona, subito dopo la partenza, una tempesta affonda buona parte della potente flotta. Solo poche navi raggiunsero la meta, ma inutilmente perchè Acri era assediata dai turchi. Senza mezzi, disorganizzati, ridotti di numero, rinunciarono ad una offensiva quasi suicida e se ne tornarono in patria.

    La Nona Crociata
    La Nona Crociata (1270) – Re Luigi IX, il Santo; è ancora lui a promuoverla. Si risolse in un disastro totale. Appena sbarcato in Tunisia, negli accampamenti scoppiò una tremenda epidemia di peste, che portò alla morte lo stesso Luigi. Chi sopravvisse se ne tornò a casa.

    La Decima Crociata
    (1271-1272) – Preparata dal Re d’Inghilterra Enrico III, la guida suo figlio Edoardo, ma é subito sconfitto. I cristiani perdono anche Krak, il leggendario castello dei cavalieri. A Edoardo non gli resta altro che fare con il sultano un trattato di pace.
    Nella sua relazione, Edoardo esprimerà tutto il suo sdegno per quello che ha visto in Palestina. Scandalizzato per i vasti traffici mercantili (anche di armi) tra veneziani, genovesi e cavalieri crociati da un lato, e gli “infedeli” dall’altro. Un mercato! Che non era iniziato quest’anno; il cinismo e la spregiudicatezza si era sistemato da anni.
    Nel 1289 c’è ancora un ultimo proclama, ma senza seguito. Le ultime resistenze cristiane in Terrasanta sono definitivamente sconfitte dai musulmani nel 1291 con la Caduta di S. Giovanni d’Acri. Una grande città abitata da crociati, ma divisa in quartieri, in perenni liti e dove ognuno pensava a difendere il proprio “orticello” più dagli “amici” cristiani che non dai nemici turchi. Andarono così incontro al disastro.

    Le altre Crociate
    Oltre quelle citate sopra, ci furono anche altre cinque spedizioni “non ufficiali”, finite tutte tragicamente. Quella degli 80.000 “straccioni” di Pietro l’Eremita del 1095 che abbiamo citata sopra (che é in effetti la prima crociata). Poi ci fu quella dei “Tedeschi” del 1096, che iniziarono il viaggio saccheggiando e massacrando non gli “infedeli” che non raggiunsero mai, ma i tedeschi ebrei di Ratisbona, Worms, Spira, Colonia, Treviri, Magonza. Poi quando penetrarono in Ungheria furono loro massacrati. Nessuno arrivò in Palestina.
    Nel 1100-1101 ci fu quella dei 100.000 lombardi diseredati, che diventarono lungo il cammino 200.000, e che avanzarono tra violenze e saccheggi. Giunti sul territorio turco, un terzo furono sterminati ad Amasia, un altro terzo a Iconio. Dei sopravvissuti, il 5 settembre del 1101 tra Isauria e Cilicia non ne rimase vivo nessuno.
    Stessa sorte toccò a quella detta “dei bambini” guidata dal monaco Stefano de Cloies. Era il 1212. Il frate imbarcò a Marsiglia 30.000 giovani su sette navi. Due colarono a picco già alla partenza, le altre raggiunsero la Tunisia. Qui i proprietari delle navi per rifarsi dei danni subiti, vendettero come schiavi ai turchi i “bambini” scampati. Federico II quando vi sbarcò sedici anni dopo nel 1228 ne incontrò 700 che erano ormai trentenni.
    Non meno sfortunati i “bambini” di un “profeta” anche lui “bambino”, il tedesco Nicholaus di 12 anni, che assicurava i suoi fanatici coetanei che “avrebbe camminato sul mare”. Raccolse 8000 adolescenti creduloni. Recatisi a piedi a Roma, il papa non concesse la benedizione, e li rimandò a casa. Nel riattraversare le alpi in pieno inverno morirono quasi tutti congelati in una bufera di neve.
    Si aggiunse a questa, la “crociata dei pastorelli” del 1251, sotto la guida di un altro fanatico pseudo-monaco di nome Giacobbe; un vecchio pastore che stregava i giovani con un piffero da pecoraio (da questo episodio nacque probabilmente la famosa leggenda del pifferaio di Hamelin). Formò un esercito di ragazzini francesi. Nell’attraversare città e paesi devastavano le proprietà dei ricchi, massacravano ebrei, razziavano ogni cosa. Avanzando, nell’avvicinarsi alle città, gli abitanti li attesero al varco; furono uccisi tutti.

    BILANCIO DELLE CROCIATE
    * Il risultato di maggior rilievo fu la conquista delle vie commerciali mediterranee, che prima erano controllate da Bisanzio e dai paesi arabi, i quali entrarono subito dopo in una profonda decadenza economica.
    * Le città dell’Italia settentrionale (Venezia, Genova e Pisa) assunsero un ruolo dominante nel commercio con l’Oriente.
    * Si introdussero in Europa occidentale nuove industrie e manifatture (seta, vetri, specchi, carta…) e nuove colture agricole (riso, limoni, canna da zucchero…). Compaiono i mulini a vento, sul tipo di quelli siriani.
    * La classe dei feudatari vede aggravarsi la propria crisi, sia perché ha impiegato molte risorse ottenendo scarsi vantaggi, sia perché si è rafforzata una nuova classe, la borghesia, ad essa ostile.
    * Le classi popolari, sacrificatesi senza ottenere alcuna contropartita, si orienteranno verso forme di protesta socio-religiosa (le eresie), ispirate all’uguaglianza evangelica.
    * I crociati distrussero le ultime tracce di fratellanza tra cattolici e ortodossi; e saccheggiando Costantinopoli, aprirono le porte agli invasori turchi.

    La mobilitazione ideologica nella guerra santa segnò il trionfo dello spirito d’intolleranza e di fanatismo. La chiesa infatti, accentuerà sempre più i fattori autoritari e dogmatici, legati al suo ruolo di guida suprema della cristianità.
    I marittimi, i mercanti, che per due secoli avevano afferrato al volo i vantaggi delle crociate, “iniziarono ad afferrare quelli offerti dal divenir – scriverà Dante – mercadanti in terra di soldano”.
    Dante, e molti altri, che soggiornarono in Sicilia, alla corte normanna, ci faranno scoprire i “tesori” contenuti nella biblioteca di Federico II. L’Europa scoprì una sconosciuta civiltà, e con questa tutto il suo ricco passato, universale, che l’aveva preceduta.
    L’avventura delle crociate fu iniziata per imporre una civiltà – che l’Occidente credeva altissima – e finì invece che ne scoprì un’altra più avanzata: scoprì le scienze, la matematica, la medicina, l’astronomia, la letteratura, la filosofia, l’agronomia, l’ottica, la geografia del mondo, e tante altre. Un enorme “mensa del sapere” che nutrirà d’ora in avanti l’intera Europa. Sconvolgendola!
    Riscopre tutta la civiltà classica, considerata fondamento di ogni progresso civile e spirituale dell’uomo, e sottopone a critica le nozioni tradizionali, che significò una rivalutazione dell’uomo e della sua possibilità di comprendere e trasformare il mondo.
    Riscoprirà perfino la musica, e con questa inizia il “preludio” dell’Umanesimo, per poi approdare alla grande “sinfonia” del Rinascimento.

    Conseguenze delle Crociate
    Non vi è dubbio che dal punto di vista strettamente militare le crociate si siano risolte in un completo fallimento: le conquiste dei soldati latini ebbero vita stentata ed effimera; dopo due secoli di lotta i Musulmani tenevano ancora saldamente l’Asia Minore. Contribuì molto a questo fallimento il fatto che ebbero il sopravvento gli interessi particolari dei vari prìncipi.
    Eppure la loro influenza si fece sentire con riflessi notevoli nei più svariati campi della vita europea. Il feudalesimo usciva indebolito dalle crociate: le enormi spese delle spedizioni avevano costretto i signori feudali a ipotecare le loro proprietà o a cederle a banchieri, al re, alla Chiesa. In cambio di denaro molte città e moltissimi contadini avevano riscattato i loro obblighi feudali. Migliaia di servi avevano lasciato la terra per non più tornarvi. Il prestigio della Chiesa romana era stato accresciuto dal felice esito della prima spedizione; le successive lo diminuirono progressivamente.
    La fede incorrotta del Medio Evo ricevette un fiero colpo: si argomentava che l’insuccesso delle crociate non giustificava più la pretesa del papa di essere il rappresentante di Dio in terra. Se le coscienze erano turbate, il commercio in compenso ricevette un mirabile impulso. Le flotte delle Città marinare italiane, di Marsiglia, di Barcellona, importavano i raffinati ritrovati della civiltà orientale, mentre spezie, seta, zucchero, gemme, profumi invadevano l’Europa.
    Si stesero mappe accurate delle coste asiatiche; cereali, alberi da frutta, piante di ogni genere, mal note in Occidente, vennero importate e coltivate su larga scala. Le scienze e le arti fecero tesoro dell’abilità e dell’esperienza dei Musulmani e anche i cronisti cristiani appresero a parlare con nuovo rispetto della civiltà araba. Inoltre, in seguito all’impulso che il commercio ricevette, si verificò un miglioramento del tenore di vita. Creatura del Medio Evo religioso e guerriero, l’idea di crociata si spense nel fervore di una rivoluzione civile ed economica, primo segno del Rinascimento.