Tag: preistoria

  • L’Italia preromana

    Mentre nascevano le prime civiltà urbane della Mesopotamia e dell’Egitto, in Europa la preistoria non si era ancora conclusa. Basti pensare che la scrittura fece la sua prima comparsain Italia non prima dell’VIII secolo. Le civiltà neolitiche europee conservavano a lungo un’organizzazione tribale e un grado di sviluppo di gran lunga inferiore a quello vicino-orientale.
    Analizziamo il passaggio tra la fase finale dell’Età del Bronzo (metà XII-fine X secolo a.C.) e l’inizio dell’Età del Ferro: il territorio della provincia di Viterbo in questa fase del Bronzo Finale è immerso nell’aspetto culturale protovillanoviano. Come nelle precedenti fasi dell’Età del Bronzo, essi sono situati soprattutto in posizione elevata e spesso, data la natura vulcanica di gran parte della regione, su speroni tufacei circondati da corsi d’acqua; ma si conoscono anche abitati posti nei pressi della costa tirrenica o sulla riva dei laghi vulcanici, come ad esempio il Villaggio del Gran Carro nel Lago di Bolsena. La tipologia prevalente d’insediamento vede la diffusione delle cosiddette aree con difesa perimetrale, porzioni di territorio con difese naturali (fossi, corsi d’acqua, pareti rocciose), talvolta potenziate dall’opera dell’uomo per renderle inespugnabili.
    La superficie coperta dagli insediamenti protovillanoviani, il 70 % dei quali situata su altura difesa, è mediamente di 4-5 ettari: gli abitati, in cui vivevano alcune centinaia di individui, controllavano un territorio di qualche decina di chilometri quadrati.
    Nel periodo del Bronzo finale, caratterizzato dagli aspetti culturali protovillanoviani, si nota una sostanziale aderenza ad alcuni degli aspetti del periodo successivo, quello Villanoviano nell’età del Ferro.
    Parlare del villanoviano significa fare un vero e proprio salto nel tempo di quasi tremila anni per arrivare quasi al IX secolo a.C. i villanoviani non inumavano i propri morti, tranne in rari casi. Di solito li cremavano e metevano i resti dentro a delle urne. Molti esperti ritengono che i villanoviani praticassero dei sacrifici umani, o più semplicemente che un congiunto o un servitore venisse ucciso per seguire il defunto nell’aldilà . Si dormiva e si viveva in un unico ambiente. In grandi vasi c’erano le provviste. Al centro c’era il focolare.
    Il tetto era di canne e in cima c’era un’apertura per il fumo. La civiltà etrusca fiorì a partire dal IX-VIII secolo a.C. nella regione compresa tra i fiumi Arno e Tevere; sul finire del VII secolo a.C., per l’acquista vitalità economica e commercia, gli Etruschi estesero la loro influenza a Sud, nel Lazio e poi in Campania, e a Nord, nella pianura padana, fondando nuove città . Essi si stabilirono anche in Corsica e Sardegna. Da sempre le vicende e la cultura di questo popolo sono avvolte di mistero, favorita dalla sua incerta provenienza. C’è, infatti, che ritiene che gli Etruschi siano giunti attraverso il mare, accreditando l’opinione dello storico greco Erodoto, vissuto nel V secolo a.C. Dionigi di Alicarnasso, vissuto dal 60 a.C. al 7 d.C., asseriva, che gli Etruschi erano autoctoni.
    Oggi si ritiene che i villanoviani accolsero gli apporti, nella lingua come nell’arte, della cultura orientale, di quella greca e degli altri popoli dell’Italia antica, grazie al flusso di genti ed esperienze nell’intesa rete di scambia commerciali e culturali che percorreva tutto il Mediterraneo. Infatti, nel 750 a.C. sbarcarono in Italia i greci e colonizzarono tutto il meridione. I villanoviani cominciarono a scrivere, prima l’alfabeto era sconosciuto. Le loro città fatte di capanne si trasformarono in città con case e templi. I discedento dei villanoviani erano sempre villanoviani dal punto di vista genetico, ma culturalmente erano molto diversi e si chiamavano etruschi. Il nome che noi diamo agli Etruschi corrisponde ai nomi loro dato dai latini (etrusci, tusci).
    I greci li chiamavano Tyrrenoi. Gli etruschi si chiamavano se stessi Rasenta. Occore però precisare che gli Etruschi non costituirono mai un vero e proprio stato unitario, bensì una confederazione di 12 città autonome, organizzate secondo il modello della città -polis greche e fenicie, federate in una lega, al contempo religiosa e politico. A questa lega appartennero le città di Arezzo, Volterra, Perugina, Chiusi, Populonia, Vetulonia, Orvieto, Roselle, Vulci, Tarquina, Cerveteri e Veio. Le città etrusche rette in un primo tempo a monarchia, in seguito subentrarono le repubbliche aristocratiche. I sovrani (detti lucumoni) concentravano nelle loro mani, per un anno, i poteri civili, militari e sacerdotali. Erano assistiti da un consiglio degli anziani, scelti tra i capi delle famiglie nobili, e da un’assemblea popolare. L’Etruria nel VI sec. a.C. aveva ormai una struttura sociale schiavistica.
    Oltre ai contadini sottomessi (molti dei quali era discendenti degli umbri e dei latini vinti un tempo) vi erano gli schiavi comperati e i prigionieri di guerra. La servitù domestica, i musicanti, le danzatrici, i ginnasti erano tutti schiavi. Anche se la lingua degli Etruschi non è stata del tutto interpretata, conosciamo bene l’arte di questo popolo, testimoniata da oggetti, statue e pitture murali rinvenuti nelle loro tombe. Questi reperti attestano che essa ha sviluppato caratteri autonomi rispetto a quella degli altri popoli della penisola e del Mediterraneo. Gli Etruschi furono molto abili nella lavorazione dei materiali che il loro territorio offriva: metalli, argilla. Altra occupazione fondamentale era l’agricoltura: coltivavano cereali d’ogni specie; sulle colline l’ulivo e la vite. Gli Etruschi furono i primi ad utilizzare sistematicamente l’arco, a partire del IV secolo a.C., nella penisola italica e in tutto l’occidente mediterraneo, ma è forse giunto in Italia dall’Asia Minore attraverso le colonie greche. Il suo utilizzo ha rappresentato una tappa fondamentale: nel vecchio sistema trilitico il peso del muro sovrastante grava sull’architrave, che tende a flettersi fino a spezzarsi; l’arco a tutto sesto, ovvero a forma di semicerchio, tende a distribuire tale peso lungo le pareti; in questo modo consente di praticare aperture di grandi dimensioni lungo i muri di qualsiasi altezza e spessore.
    Il tempio etrusco aveva forma e concezione spaziale diversa rispetto quella greco. Diversa era anche la sua utilizzazione: esso non era più la casa degli dei, ma luogo in cui il sacerdote interpretava i segni divini. Non ci sono pervenuti templi nella loro forma originaria. L’architettura funeraria degli Etruschi è documentata dalle ricce tombe, organizzate in vere e proprie città dei morti, la necropoli.
    I falisei, popolo dell’Italia antica, di ceppo linguistico differente a quello degli Etruschi, ha un’entità etnica diversa da questi ultimi, nonostante in alcuni periodi della sua storia si notino dei chiari contatti con la cultura etrusca.
    Il territorio dello stato falisco era compreso tra i confini naturali del fiume Tevere, dei Monti Cimini e Sabatini, corrispondente a parte della provincia di Roma a nord della capitale ed al settore meridionale della provincia di Viterbo. Le città principali della nazione falisca erano, da nord a sud, Vignanello, Fescennium (Corchiano ?), Falerii (Civita Castellana,la capitale), Sutri, Nepi, Capena e Narce (presso l’odierna Calcata). Sutri e Nepi erano poste in un’area di confine tra lo stato etrusco e quello falisco e la loro posizione ha talmente permeato della cultura di questi due popoli le cittadine da rendere difficile, agli storici, stabilirne l’appartenenza ad una nazione piuttosto che all’altra.
    La capitale dei Falisci, Falerii, raggiunge il massimo splendore nel periodo arcaico (VI secolo a.C.): in questo periodo si assiste ad una forte ellenizzazione della cultura falisca con la conseguente rielaborazione dei temi iconografici provenienti appunto dal mondo ellenico. La vicinanza con gli Etruschi fu spesso causa di scelte politiche comuni tra i due popoli: abbiamo notizia di alleanze strette per contrastare Roma che, dal V secolo a.C., diviene sempre più minacciosa nell’avanzata per la conquista dei territori dell’Italia centrale.
    Fra le altre civiltà evolute va segnalata quella dei celti (chiamati galli dai romani), una popolazione di lingua indoeuropea, che intorno al V secolo a.C. fu protagonista di un’imponente movimento migratorio dell’area renana verso la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna e l’Italia settentrionale.
    Gli italici dediti alla pastorizia nell’area appenninica, avevano un livello di organizzazione economica, sociale e politica arretrato.

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  • I primi passi dell’homo sapiens

    Circa 35-30.000 milioni di anni fa, però, l’homo di Neandertal scomparve e il pianeta restò popolato soltanto dalla sottospecie alla quale apparteniamo anche noi. L’homo sapiens sapiens fu il primo decorare le sue caverne con la pittura. L’invasione dei sapiens è stata lentissima. Dove avanzava il sapiens, il neanderthal inevitabilmente scompariva. La specie umana raggiunse l’Australia e l’America. 35.000 anni fa circa una importantissima mutazione fisiologica, che avviene solo nell’uomo: fa abbassare nella sue gola la laringe, che va a creare una vera e propria camera vocale, dove può modulare a suo piacimento i suoni che emette. Non potrà più bere e respirare contemporaneamente, come fanno gli scimpenzè, ma in compenso ora può articolare e modulare i suoni laringei. Al principio si pronunciò solo la p, è la più semplice consonante dopo la chiusura della bocca. Poi la b, m, poi le palatali c, le dentali t,d,g. Un bambino nei primi mesi ripete pari pari tutto l’intero processo descritto ora. 26.600 anni fa circa il nostro antenato ha scoperto che l’uomo cresce a somiglianza di ciò su cui fissa i proprio pensieri, nasce la curiosità , l’attenzione, la comparazione e quindi la riflessione. Inizia anche a creare un suo cantuccio, dove mette ciò che vede e sente, poi analizza, elabora, riassembla, ricrea, alcune verità le fa solo sue, autonome, una visione del mondo tutta sue. E’ il carattere! 26.580 anni fa circa se prima l’occhio vedeva e l’orecchio sentiva e il cervello era cieco, ora è quest’ultimo che vede. E’ il cervello che ora domina perchè ogni cosa la analizza, fa comparazioni con messaggi residenti che sono il frutto di tante esperienza. 26.525 anni fa circa il nostro antenato ha già capito cosa sono i rapporti sociali, la coabitazione tranquilla, l’armonia del gruppo, e rallenta-inibizione quelli che sarebbero gli impulsi che comprometterebbero la sue esistenza. La sue società è anche questo, inibizione che si formano davanti a un capo clan, che fa divieti, proibizioni, leggi. L’uomo nel pensiero utilizza un’area dove assorbe le frasi e i discorsi degli altri, mentre le sue risposte vengono (solo in parte) da quella dove ricompone quello che ha udito nel passato e nel presente. 26.400 anni fa circa l’uomo scopre l’empatia, capacità d’immedesimarsi in un’altra persona (calarsi nei suoi pensieri e agire quindi in un altro modo, che spesso non è il suo). In questa proiezioni distingue ciò che provoca gioie o dolori agli altri, e si prodiga per le prime e si astiene nel provocare i secondi, si da una norma; sta insomma nascendo l’uomo etico. L’etica è un’insieme di regole, obblighi, diritti, doveri che permette a una società di sopravvivere. E sono necessari quando i suoi membri presentano degli interessi alle volte in conflitto fra di loro, e occorre dunque adattarsi. 26.200 anni fa circa l’uomo ha scoperto, nella capacità dell’attenzione, la chiave della libertà . Una definizione che un etica (o morale) non si basi su questi fattori non è gradita a un credente ma costui dimentica che i dogmi stessi sono essi stessi un’informazione imposta da altri soggetti che hanno creato una sequenza di informazioni, spesso perfino astratte, vaghe, non sezionabili razionalmente, quindi non verificabili se vere o false. Hanno un unico scopo, propiziazione e conciliazione dei poteri, che in questo momento sono incomprensibili al nostro progenitore per dirigersi e controllarsi da soli dentro il suo mondo interiore. 26.100 anni fa circa è l’ora dove si forma le filosofie, le religioni, che va nascendo da un’etica ideale che chiunque ambisce. Scopriamo oggi, che in certe religioni primitive, era essenziale (e lo è ancora) il rito, mentre i miti, i credi, i dogmi sono costruiti a posteriori. Religione significa in occidente, che unisce il fedele alla divinità , mentre questo legame è completamente estraneo in altre grandi dottrine (come ad esempio il buddismo). E non sfugge che alcune religioni rimangono monoteistiche (un solo Dio personale come quello giudaico cristiano da temere e divinizzare), e altre sono rimaste politeistiche, come quella giapponese che ha una miriade di dei. Comune a tutte le religioni sono comunque i bisogni insoddisfatti il mistero angoscioso del doloro e della morte, la precarietà dell’esistenza, che fa trovare in esse una risposta compensatrice. Da esse nasce lo stato interiore (valori) e l’uomo scopre l’espressione più alta della vita spirituale della comunità umana. 25.220 anni fa circa osservate il cinico, l’egoista; il mondo è suo, lui non si interroga, prende ciò che vuole, non rispetta chi è etico. Quest’etico riuscirà persino a comprenderlo, a perdonare. 25.148 anni fa circa nel villaggio arcaico troviamo membri che discutono per la prima volta di etica e di norme, è l’inizio del comportamento morale, si mettono freni al dominio dei sensi: fame, sesso, libertà , possesso di beni. Altri, i ribelli, gli antisociali, che devono però per le leggi varie sottostare a quelle norme reagiscono con l’angoscia o la rabbia, e per mitigarla, ricorrono sempre più all’alcool. In questo arcaico dramma scoprono un altro succedaneo della beatitudine o eccitazione interiore: il suono, la danza, il movimento, il ritmo. 25.000 anni fa circa nascono le idee. 24.800 anni fa circa avviene anche un altro evento straordinario: in una buia grotta una femmina e un maschio nel delicato processo di identificazione scoprono assieme qualcosa e formando qualcosa di diverso nel proprio mondo interiore. Dopo la nascita della conoscenza del sè, stanno scoprendo e formando il mondo del noi, sta nascendo il sentimento reciproco del donarsi monogamo. Non è un rapporto sessuale, ma è un intima identità dei due che non la vivono solo, ma la condividono più che nell’intimità fisica in quella anteriore. E’ indubbiamente l’attimo dove nasce l’amore. Nasce quel legame più duraturo con una precisa direzione. 24.180 anni fa circa nella famiglia viene iniziata la suddivisione dei compiti, nasce la cooperazione di giovani e vecchi, prima d’ora quest’ultimi quasi considerato inutili al gruppo. Nella tribù, questa nuova figura, non più impegnata nella caccia, scopriamo che va assumendo un’importanza per il gruppo e il futuro della stessa società umana. E’ lui, quest’anziano, a raccogliere molteplici notizie, i fatti (è lui il libro, giornale, radio, tv del villaggio). 24.087 anni fa circa ora da una posizione centrale del campo, il nostro avo domina e s’interroga sui fenomeni che dominano il mondo. 24.075 anni fa circa l’uomo prende un bastone e ogni notte fa una tacca (tag=giorno, in sanscritto), dopo 28 notti la luna è ancora lì: il bastone è ora diventato la misura del tempo (mes=mese, in sanscritto è misura). 24.000 anni fa circa compaiono le prime manifestazioni artistiche, consistenti in incisioni di complesse interpretazioni, cioè le pitture e le figure di animali molto schematizzati. Simili raffigurazioni artistiche si possono fare solo se si utilizza un linguaggio molto sviluppato, che va a creare una autocritica realistica che porta a miglioramenti. 23.000 anni fa circa l’industria litica procede a passi di gigante, ritocchi bifacciali della selce, punte peduncole, lamelle a punte, dorsi a foglia di salice che diventano veri coltelli, raschiatoi per scuoiare, pulire. 18.000 anni fa circa vivono associato in orde e iniziano a vivere nelle prime costruzioni, mentre i nomadi vivono dentro capanni mobili, grandi e piccoli pali riuniti e coperti da grandi pelli. 17.000 anni fa circa iniziano pratiche per la caccia: magie, credenze in una idea della fecondità ; prime inumazioni con ricchi corredi funebri con ricchi corredi funebri (cibo, recipienti, utensili, ornamenti, armi varie). 15.000 anni fa circa a Lescaux, alle pareti di una caverna, troviamo la prima pittura con colore. 14.000 anni fa circa mutano le condizioni climatiche per un migliaio di anni: ha inizio una desertificazione nelle grandi foreste. 13.000 le grandi prede migrano verso nord, ora ci si ciba di piccoli animali che prima erano scartati: lepri, volatili, pesci, molte varietà vegetali. Questo fenomeno del cambiamento di dieta, avviene contemporaneamente in tutti i continenti. 12.800 anni fa circa la fame è molta, a fine sera si è a digiuni ed ecco raccogliere sparpagliati per terra anche dei piccoli granuli caduti da certe spighe dorate. Scoprono così la fonte piè economica degli alimenti energetici sono carenti di amminoacidi essenziali, ma uniti a grasso o bacche creato importanti capolavoro di alta cucina. 12.400 tracciamo anche qui i confini dell’ulivo, la colza e il mais. Senza acidi grassi e i lipidi non si hanno le membrane cellulari del sistema nervoso, non si formano i muri della difesa. Il cervello è sprovvisto di riserve lipidiche. 12.000 anni fa circa si ha nascita dell’arte. Il colore poteva essere applicato con le dita. Inoltre l’uomo inventa le frecce. 11.500 anni fa circa è un salto qualitativo cerebrale e avviene proprio sulle coste marine: lo iodio diventa per il metabolismo una fonte preziosa dell’aminoacido tirosina. 11.250 fa circa si formano quindi degli insediamenti proto-palafitticoli, e le risorse alimentari che hanno attorno hanno i preziosi sali minerali per la sinapsi del cervello. 9.500 anni fa circa in Iraq troviamo una bacinella per il grano. 9.000 anni fa circa a Shamra, in Siria, ritroviamo alcuni forni per il pane. 8.500 anni fa circa a Gerico le capanne, ora sono case in muratura. 8.300 anni fa circa nell’area mesopotamica appare una novità , la ceramica modellata: prime coppe, stoviglie, contenitori, vasi, impressi o dipinti. I lunghi intervalli tra il popolamento dei vari continenti sono dovuti al fatto che le successive glaciazioni rendevano impraticabili vastissime zone della Terra.
    Nel periodo neolitico (da 10000 a 3000 anni fa) si verificò un ulteriore perfezionamento nella lavorazione della pietra e la domesticazione di piante e animali, ovvero la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento. Si passò da un’economia di prelievo a un’economia di produzione. Le informazioni raccolte finora non permettono, però, di rispondere a un altro interrogativo: il nomadismo andò definitivamente in crisi con la domesticazione di piante e animali? L’allevamento, nel Neolitico ma anche in epoche successive, non era praticato come lo è per lo più oggi, cioè in modo sostanziale, all’interno di stalle e con l’utilizzo di foraggi prodotti apposta per gli animali, ma era invece di tipo transumante. Gli animali, infatti, traevano il proprio sostentamento da pascoli naturali che, una volta consumati, dovevano essere sostituiti, con il conseguente spostamento in nuove aree non ancora sfruttate. Appare però evidenti che lo sviluppo contemporaneo di agricoltura e pastorizia, che implicavano modi di vivere contrapposti, come il nomadismo e la sedentarietà , creava necessariamente conflitti. Con le società del neolitico iniziò quella trasformazione dell’ambiente. Gli uomini abbandonarono le caverne e il nomadismo per costruire villaggi stabili. I villaggi neolitici, anche quando raggiungevano notevoli dimensioni, non erano vere e proprie città : essi, infatti, mancavano di strade, di piazze, di opere e di edifici pubblici; non avevano un’organizzazione politica e amministrativa; erano costituiti da un insieme di edifici pubblici; non avevano un’organizzazione politica e amministrativa; erano costituiti da un insieme di famiglie, ciascuno delle quali era autosufficiente, ossia produceva i beni di cui aveva bisogno, sia agricoli sia artigianale. Dapprima a Eridu, poi in altri centri, comparvero i primi edifici pubblici: i templi, che raggiunsero presto grandi dimensioni. Questo fatto comportò considerevoli modificazioni nell’organizzazione del lavoro. Occorrevano dunque sia muratori, falegnami, scalpellini, persone che progettassero e dirigessero i lavori. Nomadismo, seminomadismo e insediamenti sono le tre caratteristiche principali che avranno nello sviluppo culturale, sociale e spirituale, una importanza enorme. Il nomadismo proseguirà nelle regioni del nord (sopra il 45° parallelo) fino al 1500 d.C., il seminomadismo si arresterà nel 2000 a.C. nel sud Europa (Francia, Spagna, Sud Italia, Grecia ) , mentre lo stanziamento fisso nella zona dei grandi fiumi è nel 10.000-8.000 a.C. già un fatto compiuto. (Nilo, Tigri, Eufrate). Nelle zone più calde e piovose dell’Asia Minore e Anteriore e nei luoghi in prossimità di grandi fiumi crebbero spontaneamente le graminacee. A partire dal 10000 a.C. abbiamo la scoperta del processo di germinazione del grano (da parte delle donne) e i primi esperimenti di coltura del Medio-Oriente. La prima bevanda alcolica risale circa al 10000 a.C. e deriva probabilmente dalla fermentazione di miele e di datteri. Grazie alla creazione della società agricole sedentarie, viene intrapreso l’addomesticamento degli animali. Nel 9000 a.C. inizia l’allevamento della pecora; nell’8000 a.C. quello delle api. Altre date importanti sono quelle relative alla capra (7500 a.C.), al maiale (7000 a.C.) e ai bovini (6000 a.C.). Nel 6000 a.C. hanno inizio in Egitto la coltura della vite e la produzione del vino. Intorno all’8000 a.C. l’agricoltura si afferma su larga scala. L’uomo del neolitico dispone di svariati prodotti, quali frumento, legume, cipolle, rape, cavoli. Nel 3500 a.C. in America Centrale vi è un consumo di zucchine, pomodori, avocado, fagioli e, in Perù la patata. Noci di cocco e banane fanno la loro comparsa nell’alimentazione asiatica. A partire dal 3500 a.C. la coltura dell’olivo si diffonde nel Mediterraneo orientale. La scrittura pittografia nasce dalla pittura, ossia dalla capacità che si sviluppa presso gli uomini primitivi di ritrarre gli oggetti. Ma si differenzia da essa perchè un’immagine dipinta intende rappresentare un’idea, mentre il segno pittografico è uno strumento tecnico per comunicare un messaggio. I cambiamenti climatici avvenuti dopo l’ultima glaciazione avevano modificato l’ambiente. Durante la preistoria la terra fu poco abitata e, di conseguenza, l’uomo primitivo ebbe a disposizioni enormi spazi che gli avrebbero consentito di trascorrere un’esistenza solitaria. Egli invece preferì stabilire dei rapporti. La caccia degli animali, per esempio, imponeva uno sforzo collettivo. Nel corso del Neolitico venne praticata un tipo di agricoltura che si definisce secca, perchè basata sull’acqua fornita dalle pioggia: un anno di scarsa piovosità era sufficiente pregiudicare l’intero raccolto. Risultati assai migliori diede invece l’agricoltura irrigua, basata sullo sfruttamento delle acque di grandi fiumi. Fu in queste zone che si svilupparono, tra il IV e il II millennio a.C, alcune grandi civiltà . Nel V millennio a.C., nella Mesopotamia meridionale iniziò il lento processo di trasformazione del villaggio che doveva portare alla nascita delle prime città . Le differenze fra la città e il villaggio erano le nuove funzioni esercitate dal centro urbano: • funzioni economiche: la città coordinava i lavori di controllo e smistamento delle acque; • funzioni religiose e politiche: gravitanti intorno al tempio, in cui operavano i sacerdoti e il palazzo, il luogo del potere politico, la sede del sovrano: qui veniva accumulata la ricchezza prodotte dalle campagne. La civiltà urbana tra il 3400 e il 3000 a.C., si estese dalla Mesopotamia meridionali, ad alcune zone dell’Anatolia, della Siria, dell’Iran, dell’Egitto e, poco più tardi, alla valle dell’Indo. In Cina i fenomeni che caratterizzavano la nascita delle città , come la costruzione di palazzi e di tombe più ricche delle altre sono documentati dagli scavi archeologici soltanto a partire dall’inizio del II millennio a.C. Con la comparsa delle città si sviluppò più rapidamente la tecnologia della lavorazione dei metalli. Questi materiali erano conosciuti dai vari gruppi di uomini già da molto tempo, 8000-7000 a.C, ma le tecniche di evoluzione si erano evolute molto lentamente. Non era facile cambiare l abitudini se non di fronte a dei procedimenti che presentassero una netta superiorità ; ma questo, all’inizio, non era affatto chiaro. A ciascuna di esse corrisponde una tappa della storia umana denominato con il nome del metallo che si lavorava in quel periodo: -età de rame va dal 5000 al 3300 a.C. circa; -età del bronzo dal 3300 al 1200 a.C.; -età del ferro dal 1200 al 700 a.C.

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  • La preistoria e gli uomini primitivi

    La storia dell’uomo è la storia del suo adattamento all’ambiente Terra e delle trasformazione che è riuscito a operare. Gli animali, viceversa, si limitano a raccogliere ciò che trovano in natura. Ma il primo carattere distintivo dell’evoluzione umana rispetto alle altre specie animali è la stazione eretta. 6 milioni di anni fa negli spostamento pre-ominidi hanno cessato di appoggiare qualche volta le nocche, iniziano la loro camminata a due gambe, in modo eretto, anche se ancora molto curvi sulla schiena. Perchè? Nella colonna vertebrale non è avvenuta invece una mutazione rapida come nel cervello e la colonna non sostiene efficacemente il corpo eretto. Infatti ancora oggi il 40% della popolazione accusa mal di schiena. Ingegneristicamente la nostra colonna vertebrale non è peseta. L’evoluzione della volontà intellettiva non ha corrisposto in parallelo all’evoluzione ossea.
    Tra il 1997 e il 2001 sono stati scoperti un certo numero di frammenti datati tra i 5,2 e i 5,8 milioni di anni che sembrano fare parte di una nuova specie, l’Ardiphithecus ramidus kababba. Le notizie emerse su questa nuova (presunta!) specie sono troppo rare e confuse per fare delle valutazioni attendibili.
    Il primo ominide di cui abbiamo notizie certe è l’Ardipithecus ramidus vissuto in Africa centrale circa 4 milioni e mezzo di anni fa. La scoperta di questo altro ominide venne fatta da Tim White ed i suoi allievi Berhane Asfaw e Gen Suwa, tra il 1992 e il 1993 ad Aramis in Etiopia. Oggi sappiamo con certezza che erano simili alle scimmie sia fisicamente che nel comportamento, i canini erano l’unico carattere particolare, le dimensioni minori permettevano un alimentazione diversa. Il pasto degli Australopithecus ramidus era costituito da frutti, germogli, fusti teneri e foglie fresche. La specie successiva è nota con il nome di Australopithecus anamensis, di cui sono state trovate numerose tracce in Kenia dalla èquipe di Meave Leakey. Tutti i fossili sono datati con sicurezza tra i 4,17 – 4,7 milioni di anni fa. I tratti di questa specie sono considerati a metà tra la scimmia e l’uomo, infatti i lineamenti del cranio sono estremamente primitivi e molto simili ai resti fossili delle altre scimmie, ma anche in questo caso i molari sono più grandi e lo smalto di cui sono costituiti è più resistente. Il resto del corpo presenta delle caratteristiche più avanzate, la tibia che è stata ritrovata quasi intera, (mancante soltanto del terzo centrale), lascia pensare per la sua forma che questi ominidi potessero essere. Gli Autralopithecus anamensis erano dotati di molari più grandi con lo smalto più consistente, che risultavano fortemente usurati da una masticazione prolungata, questo significa un ampliamento della dieta che comprendeva anche semi e frutta secca. Si suppone che si servissero di fosse per conservare bulbi, tuberi e radici infatti le particelle minerali avrebbero potuto contribuire ad usurare ulteriormente i denti.
    Nel 1974 ad Hadar in Etiopia, nella regione di Afar, Donald Johanson e Tom Gray rinvennero il corpo di un Australopithecus, risalente a circa 3,2 milioni di anni fa. Questo esemplare è stato inserito in una specie definita afarensis, vissuta in Africa centrale tra i 4 e i 2,9 milioni di anni fa. L’esemplare ritrovato era femmina, di altezza approssimativa di 1,07 m, 25 anni di età ed il peso di 27 kg. I maschi della stessa specie erano probabilmente alti 1,35 metri e pesavano circa 45 kg, il loro peso era maggiore di una volta e mezzo rispetto a quello delle femmine. L’Australopithecus afarensis che è una specie intermedia, avrebbe potuto oscillare tra l’andatura semibipede e l’andatura eretta, ma si è in parte emancipato dalla vita sugli alberi, utilizzandoli forse unicamente come riparo notturno. Le opinioni dei paleoantropologi su questo argomento sono anche discordanti, per gli americani Jack Stern e Randall Susman, gli arti inferiori degli Australupithecus afarensis erano prensili anche se in grado di camminare in posizione eretta, come indicato dalle mani e i piedi lunghi, incurvati e molto muscolosi. Un altro ricercatore americano, Bruce Latimer pensa che Lucy, era un bipede perfettamente adattato, e anche se dipendeva ancora dagli alberi, riteneva che gli arti inferiori fossero del tutto organizzati per camminare in posizione eretta, ne era una prova l’orientamento della caviglia simile a quella umana e questo fa pensare che il piede era mono flessibile. I vantaggi apportati dal completamento della andatura eretta sono notevoli: una maggiore manualità degli arti superiori, la possibilità di guardare più lontano grazie agli occhi frontali che consentivano una visione tridimensionale. La testa dell’uomo è posta sopra la colonna vertebrale, ciò consente allo scheletro di sostenere una testa molto pesante, permettendo così anche l’evoluzione di un grande cervello. In posizioni semieretta raggiungeva un livello di circa 1.30 m. Aveva le mani libere e molto probabilmente se ne servivano per procurarsi e usare certi elementi naturali, come bastoni, foglie, cortecce. Ogni gruppo di afarensis domina un territorio la cui estensione è simile a quello dei moderni scimpanzè: 10 miglia quadrati, limitato da fiumi e montagne. Ma che cosa ha costretto una scimmia a camminare retta sulle gambe? La verità è che camminare sulle gambe è diventato un tratto distintivo della nostra specie per una ragione sorprendente: il sesso. Solo in un’epoca più recente (3-2.5 milioni di anni fa), pare che gli austrolopiteci abbiano iniziato a usare le pietre per spezzare o tagliare altri oggetti.
    In un periodo compreso tra i 3 e i 2,5 milioni di anni fa la sua comparsa in Africa del Sud un altro tipo di Australopithecus denominato Africanus, fisicamente non molto dissimili dagli Australopithecus Afarensis. Le caratteristiche che distinguevano le due specie erano molto esigue, l’Australopithecus africanus aveva i molari più grandi e questo gli permetteva come vedremo in seguito di avere una dieta più amplia.
    Il periodo paleolitico (2 milioni a 10.000 mila anni fa) fu l’epoca delle grandi glaciazioni che, alterandosi a periodi più caldi, imposero nuove forme di adattamento, stimolando nell’uomo la continua scoperta di nuove tecniche di sopravvivenza. Dalle prime pietre rozzamente scheggiate, si passa alla lavorazione raffinata di pietra, avorio e osso per costruire altri strumenti più precisi: arpioni, lance, asce, frecce, coltelli, trapani. L’economia, in questa fase, era un’economia di prelievo, fondata sulla caccia, la pesca e la raccolta. All’interno di un gruppo umano, avvenne una prima forma di divisione del lavoro in base al sesso: le donne si occupavano del raccolto, gli uomini della caccia e della pesca. Gli animali carnivori erano esclusi. I metodi di caccia erano fondati sia sulla forza fisica, sia sull’astuzia: venivano preparate delle trappole, scavando fosse in cui venivano fatte cadere le prede. Gli antropologi chiamano bande i gruppi di venti a cinquanta individui da cui erano composte le società umane. Il nomadismo era una caratterista fondamentale di questa comunità . Uno dei più grandi problemi relativi all’alimentazione è come evidente il deterioramento delle scorte accantonate per i tempi difficili. Per quanto concerne carni e pesci, già dal Mesolitico si utilizza ciò che la natura mette a disposizione; così tra i metodi spontanei di conservazione i popoli nordici adottano il freddo, mentre al sud il sole garantisce l’essiccamento. Intorno a 2.5 milioni di anni fa l’austrolopitecus afarensis diede origine, per cause ancora sconosciute, a specie diverse: da un lato discesero altri austrolopiteci, che poi si estinsero, dall’altro derivò invece l’homo habilis, il primo ominide che possa essere classificato sotto il genere homo, che è appunto quello a cui appartiene anche l’umanità attuale.
    Le guance degli austrolopithecus boisei, dai potenti muscoli, la mascella enorme e i molari grandi il quadruplo dei nostri fanno sì che possano mangiare le piante più dure. L’ultimo esemplare in ordine temporale di cui siamo a conoscenza è l’Australopithecus garhi di cui abbiamo alcuni frammenti di cranio e della mascella superiore completa di denti, scoperti nel 1997 da Yohannes Haile – Selassie a Bouri in Etiopia, datati 2,5 milioni di anni fa.
    Ma le sorprese non sono finite qui, nel 1999 ad ovest del Lago Turkana in Kenya, sono stati trovati i resti di un nuovo ominide. E’ battezzata con il nome di Kenyantropus platyops. I resti datati tra i 3,5 e i 3,2 milioni di anni.
    L’homo habilis, vissuto circa 2 milioni di anni fa, non solo utilizzava gli strumenti che la natura gli offriva, ma ne costruiva di nuovi per difendersi, cacciare, rompere e tritare. Una volta acquisita la manualità nell’uso delle pietre rese taglienti è fin troppo evidente che gli ominidi cominciarono a fare nuove scoperte: si potevano rendere taglienti e aguzzi anche bastoni e rami, trasformandoli in qualcosa di micidiale, l’equivalente di lunghe zanne e lunghe corna. L’uomo stava diventando un nuovo tipo di predatore, con armi mai viste prima. Attraverso l’uso di questi utensili la loro dieta alimentare subirà grandi trasformazioni: la carne ha fornito agli habilis le proteine e i grassi necessari allo sviluppo del loro cervello. Nè leoni nè avvoltoi riescono ad appropriarsene, ma i nuovi strumenti degli habilis sembrano costruiti apposta. Egli possedeva un linguaggio articolato, sebbene semplice: sapeva cioè usare la voce per produrre suoni concatenati che comunicavano significati. Poteva quindi trasmettere ai propri simili le proprie conoscenze (la cultura). L’homo habilis era ancora molto peloso oppure no? La risposta è che ancora oggi noi abbiamo lo stesso numero di peli dello scimpanzè. Ma i nostri peli sono per lo più peli folletto, sono molto sottili e corti, anche se ricoprono tutte le zone del corpo.
    Una storia gruciale avveniva attorno a un milione e seicento mila anni fa, e a quel punto eravamo di fronte a una forma di ominide, più evoluta, l’homo ergaster, che molti considerano il primo rappresentante del genere homo. Sono abili cacciatori, già in grado di competere con i grandi predatori della savana, anche se a volte sono costretti a cedere il loro bottino a un leone affamato. Questi gruppi si rivelano anche grandi viaggiatori, sono i primi a uscire dall’Africa e a espandersi in Asia e in Europa. Le vertebre hanno il buco dove passa il midollo spinale, molto più stretto del nostro e secondo alcuni significa ciò potesse modulare meno bene i muscoli della respirazione, in altre parole non poteva parlare come noi. Succede un fatto che rappresenta forse meglio di ogni altra cosa il cambiamento che deve essere avvenuto a un certo punto della nostra storia, la nascita dei sentimenti, delle emozioni e della sofferenze.
    L’homo erectus, circa 1 milione di anni fa, si spostò nella fascia temperata dell’Europa e dell’Asia. Produsse strumenti ancora più precisi del suo predecessore. 900.000 anni fa circa i manufatti dopo scheggiatura erano levigati per prolungato sfregamento contro una superficie dura. Oltre ad essere levigati, gli utensili neolitici sono molto specializzati: lame utilizzabili anche come punte di lancia, punte di freccia, perforatori, raschiatoi per lavorare le pelli, asce forate per inanellare un bastone di legno, asce doppie o bipenne, mazze, accette, macine per macinare le granaglie, falci in legno con denti in selce per la mietitura di granaglie, ecc. Le ossa delle sue gambe fanno ritenere che fosse in grado di correre e di camminare, esattamente come l’uomo moderno. Successivamente costruirono le loro case. La famiglia dell’homo erectus era molto più unita e ci si aiutava. Tra maschio e femmina i costumi si sono molto evoluti rispetto a prima e la seduzione è diventata molto fine. Ciò che costruiscono è diventata cultura che viene trasmessa da padre a figlio. L’homo erectus iniziò ad alterare periodi di nomadismo, in cui cacciava, con periodi di sedentarietà , durante i quali viveva in zone che offrivano condizioni particolarmente vantaggiose. Ciò che portò l’homo erectus a vivere per periodi abbastanza lunghi nello stesso luogo fu soprattutto un’innovazione di straordinaria importanza: circa 600000 anni fa, o forse anche prima, egli imparò a controllare il fuoco. Proprio intorno al focolare, che permetteva di cuocere i cibi, di riscaldarsi, di tener lontano gli animali pericolosi, gli uomini incominciarono a stabilire sedi abitate per un certo periodo di tempo. I progressi nel controllo del territorio e nell’organizzazione degli insediamenti furono accompagnati da chiari miglioramenti nella tecnica di lavorazione della pietra, come asce, raschiatoi e coltelli. Grazie a queste innovazioni l’homo erectus era in grado di dare la caccia ai grossi animali e di utilizzarne in molti modi le spoglie, per esempio ricavandone la pelliccia per ripararsi dal freddo. Trascorse verosilmente molte serate insieme ai suoi simili intorno al fuoco. Se lo sviluppo di tecniche per la conservazione dei cibi appare un’evidente necessità , la cottura dei cibi non sembra spiegabile solo in termini di sopravvivenza. Noi oggi sappiamo bene che la cottura della carne la rende più digeribile e più nutritiva, in quanto ne scompone le fibre liberando proteine e carbodraiti. Gli ominidi di mezzo milione di anni fa, però, non possedevano queste informazioni. Essi probabilmente notarono che la carne cotta era più leggera e che molte verdure tossiche divenivano commestibili una volta cotte; appare tuttavia probabile che la scelta di cuocere i cibi fosse anche legata al gusto e non solo a esigenze iedetiche e igieniche. Tra i 300.000 e i 200.000 anni fa apparve l’homo sapiens arcaico, quando ancora erano presenti gruppi di homo erectus. Le arcate sopraccigliari erano meno evidenti ed il mento leggermente più sporgente. Egli viveva all’interno di gruppi formati da circa 20 membri e, dalle testimonianze ritrovate, è possibile affermare che questi uomini erano soliti a collaborare l’uno con l’altro. 166.000 anni fa circa l’homo sapiens scopre nelle erbe gli oppiacei: antidoti alla stanchezza, riceve sensazioni piacevoli, elimina il dolore, oblia, si illude. L’homo sapiens scopre un potente afrodisiaco: l’alcool. Ne usano e ne abusano, anestetizzano e allucinano, curano e uccidono. Il cervello ha imparato a produrre da solo certi oppiacei. In casi di astinenza non vuole rinunciare all’euforia, all’estasi. Ha imparato a fabbricarsele queste sostanze. 154.000 anni fa circa scopre l’abilità delle mani. Di ciottoli scheggiati ne troviamo fatti all’incirca un milione di anni fa, ma ora in quello stesso ciottolo, nel taglio, c’è la volontà , l’abilità nello scheggiarlo, l’esperienza acquisita che fa migliorare l’opra nelle varie operazioni. Nelle varie operazioni ha scoperto quelle più valide, le immagazzina e cerca di ripeterle. 152.000 anni fa circa non vive più da solo, ma altri come lui e come lui operano, hanno altre esperienze, che si trasmettono a vista con i primi gesti ibridi (combinazione di due gesti distinti). 151.000 anni fa circa da questi ultimi si passa subito ai messaggi composti, costituita da più elementi distinti, ognuno dei quali ha un gradi d’indipendenza (un pollice dipende come è messo, può indicare più cose: bere, andiamo, primo, chi segue ecc). 150.000 anni fa circa dai gesti accidentali, si passa a quelli espressivi, agli schematici, ai simbolici, ai codificati, a quelli tecnici, fino ad arrivare a quelli mimici-gestuali che sembrano un discorso intero. 149.000 anni fa circa nel gesticolare siamo ormai alla comprensione reciproca inequivocabile, si può avere qualcosa facendo un gesto preciso (se al Bar senza parlare mimate indice e pollice alle labbra, il barista capisce che volete bere un caffè e vi serve). 148.000 anni fa circa, nel cervello, si sviluppa la zona della prosopagnosia (riconoscimento della faccia), importantissimo per l’associazione del gruppo che va ora costituirsi con i vari elementi; si sviluppa infatti il sociale. Se un trauma cerebrale lede i gangli elettro-neurali ramificati di questa zona sappiamo che il soggetto non riconosce neppure sua madre. 144.000 anni fa circa a fianco di quest’area nasce quella della coprolalia: immagazzina le imprecazioni che impressiona, spaventano, fanno fuggire gli intrusi. 136.000 anni fa circa nascono ora le varianti gestuali, variazioni personali, o quelle di un gruppo su uno stesso tema (es.: ogni popolo adotta un gesto preciso per mandarci a quel paese, ma non è uguale a quello di un altro). 134.000 anni fa circa nascono i gesti di rito, dei saluti, di accoglienza, di commitato, con tutte le variazioni di gerarchia, di ruolo sociale. 133.000 siamo ora al contatto! I nostri progenitori ci hanno lasciato 457 forme di contatto fisico. Stringe la mano a chi crede amico, la mette sulla spalla, lo prende sottobraccio, lo abbraccia completamente, abbraccia la testa, lo accarezza, lo bacia, lo stringe a sè, lo cinge alla vota o lo prende sottobraccio. Negli ultimi 25.000 anni nel nostro ippocampo non siamo riusciti a dimenticarli, infatti nonostante la scoperta del linguaggio, solo al contatto fisico scopriamo alcune simpatie o avversioni. 125.000. anni fa nel rapporto dei due sessi il linguaggio-contatto diventa ancora più sofisticato, è in gioco l’intimità . In entrambi, la futura unione esige preliminari, per non fare solo una semplice unione, ma l’unione con alcune componenti di fedeltà . 100.000 apparve l’homo di Neanderthal, differiva di molto poco dall’uomo moderno, l’altezza media raggiungeva 1.70 m. Sembra anche aver preso parte a semplici cerimonie, fu il primo, circa 100.000 anni fa a seppellire i morti e a praticare riti funebri e che fossero in grado di parlare. Individui cechi e mutilati non venivano abbandonati. 100.000 si spinse nelle regioni a clima freddo dell’Europa. L’homo di Neandertal potè affrontare le basse temperature non solo perchè era di costituzione fisica molto resistente, ma anche perchè possedeva una cultura più avanzata dei suoi predecessori. Ad esempio, praticava la caccia in gruppi organizzati e usava trappole, fionde e lance appuntite.

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  • Romani

    L’Italia preromana
    Con il nome Italia, inizialmente veniva indicata solo la Calabria; nel III sec. a.C. l’Italia coincideva con la parte a sud dei fiumi Magra e Rubicone; nel 49 a.C., divenuta romana anche la Gallia Cisalpina, fu considerata Italia anche il Nord, mentre Sicilia e Sardegna di Diocleziano. La preistoria si protrasse in Italia più a lungo che nelle zone orientali. I primi documenti di civiltà in possesso degli storici risalgono al II millennio a. C.
    La vera e propria età storica vi ebbe inizio soltanto nell’VIII sec. a.C., ai tempi della colonizzazione greca in Italia meridionale e della fioritura della civiltà etrusca. Tra l’VIII e il IV sec. a.C. si stanziarono in Italia anche popolazioni indoeuropee, ricordate come Italici.
    Le colonie greche, intorno al VI sec. a.C., scatenarono feroci lotte per l’egemonia e furono poi oggetto delle mire egemoniche dell’Atene di Pericle. La civiltà etrusca fu indipendente per quattro secoli e sviluppò una cultura di elevato livello, anche rielaborando gli apporti della Grecia e dell’Oriente. La loro espansione li portò a scontrarsi con i Greci e con i Romani a sud e con i Galli a nord. Con progressive annessioni di città, l’Etruria venne incorporata nei possedimenti romani. Dalla preistoria all’VIII sec. a.C.
    Le prime comunità umane in Italia risalgono al tardo Paleolitico. Gradualmente si passò dalla caccia e dalla raccolta alla coltivazione del terreno e quindi a forme stabili di insediamento. Nella seconda metà del III millennio a.C. si cominciò a lavorare il rame.
    Agli inizi del II millennio a.C. si formarono alcune civiltà al nord, intorno ai laghi lombardi verso la metà del II millennio si diffuse la civiltà detta delle “terramare”, dai depositi di terre grasse rinvenuti archeologicamente (terra marna, terra grassa), nelle zone di Modena e Piacenza.
    La civiltà più progredita, la villanoviana, comparve alla fine del II millennio a.C.; dalla zona di Bologna si spinse verso sud fino al Piceno, costruendo villaggi di capanne. Dal XIV sec. a.C. si era diffusa una popolazione di pastori semi nomadi, lungo la dorsale dell’Appennino centrale, da cui il nome di civiltà “appenninica”.
    Iniziò poi la penetrazione di popolazioni indoeuropee dell’Europa centro-orientale che spinsero a sud le popolazioni già esistenti. Gli Italici si insediarono nella parte centro-sud della penisola, costringendo i siculi a emigrare in Sicilia.
    Con il nome Italici i romani indicarono poi le popolazioni non latine assoggettate nella penisola con una serie di guerre che caratterizzarono la fase più antica della loro storia. Durante le guerre puniche gli Italici si federarono con Roma e, dopo la vittoria, parte di essi ebbe riconosciuta la cittadinanza. Nell’VIII sec. a.C. Le principali popolazioni in Italia erano così stanziate: Liguri e Veneti a nord; Umbro-Sabelli e Latini al centro; Iapigi, Lucani e Bruzi a sud; Siculi e Sicani in Sicilia; Sardani e Liguri in Sardegna. In questo periodo, mentre l’Italia meridionale veniva colonizzata dai Greci, si sviluppava al centro-nord la civiltà etrusca.

    Le colonie della Magna Grecia
    Come dimostrano i rinvenimenti di ceramiche e altri materiali, i Greci frequentarono i porti italiani già in età micenea (sec. XVI-XI a.C.). Alla prima metà del sec. VIII a.C. risale l’insediamento calcidese sull’isola di Ischia che aprì la prima fase della colonizzazione greca d’Italia.
    I Calcidesi fondarono poi Cuma, Napoli, Reggio, Catania e Zancle; i Corinti fondarono Selinunte e Siracusa, i Rodiensi Gela e Agrigento; gli Achei dell’Acaia Sibari, Metaponto e Crotone, mentre Taranto fu l’unica colonia fondata da immigrati spartani.
    A partire dal sec. VI a.C. si scatenarono tra le città feroci lotte per l’egemonia. Le tre città achee distrussero verso l’inizio del secolo Siri, mentre fallì il tentativo di Crotone di sottometterne l’alleata Locri. Attorno al 510 a.C. ci fu uno scontro tra Sibari e Crotone; Sibari fu rasa al suolo. Negli anni centrali del sec. V a.C., su iniziativa degli Ateniesi, venne fondata sul sito dell’antica Sibari la colonia di Turi, osteggiata dai Tarantini.
    Negli ultimi anni del sec. V Crotone, Turi (in quanto erede di Sibari), Caulonia e Metaponto si unirono nella Lega italiota per difendersi dagli attacchi dei Lucani e del tiranno di Siracusa Dionigi I; alla Lega aderì in seguito anche Reggio, mentre Locri e Taranto furono dalla parte del tiranno. Dionigi, nel 389 a.C., sconfisse l’esercito della Lega espugnò e distrusse Reggio, ridusse la Lega sotto il controllo di Taranto che, col procedere del sec. IV, dovette più volte far ricorso a condottieri greci per difendersi dalle popolazioni sabelliche e iapigie.
    Dopo la parentesi del dominio tirannico di Agatocle, nei primi anni del sec. III, Taranto chiese l’intervento del re d’Epiro Pirro contro i Romani, a loro volta intervenuti in aiuto di Turi contro i Lucani; risultato del conflitto (280-275 a.C.) fu la sottomissione della regione a Roma.
    In età arcaica la Magna Grecia costituì una delle aree culturalmente più vivaci del mondo greco: nel tardo VI secolo la conquista persiana dell’Asia Minore produsse un movimento migratorio verso Occidente che vi trapiantò un gran numero di filosofi, intellettuali e artisti (tra i quali Pitagora e Senofane di Colofone), il fenomeno contribuì al sorgere di scuole filosofiche (a Elea, con Parmenide e Zenone) e mediche (a Crotone) di primissimo piano.
    La Magna Grecia svolse così un ruolo cruciale nella trasmissione della cultura greca a Roma.

    Gli Etruschi
    La civiltà etrusca fu il frutto dell’innesto di elementi stranieri (attorno ai quali non si hanno notizie certe) sulla preesistente cultura villanoviana, nell’area compresa tra l’Arno e il Tevere. Essenzialmente urbana, si organizzò in città-stato (Volterra, Fiesole, Arezzo, Cortona Perugia, Chiusi, Todi, Orvieto, Veio, Tarquinia ecc.) che, a scopi religiosi ed economici, diedero vita a una Lega formata da dodici città (dodecapoli).
    Ogni città era retta da re (detti lucumoni) e magistrati eletti tra i membri della casta aristocratica. Una prima fase espansiva (sec. VIII-VI a.C.) portò gli Etruschi a contendere a Greci e Cartaginesi il controllo delle rotte tirreniche e adriatiche e a estendere il proprio dominio dalla pianura padana alla Campania, fondando centri come Bologna, Mantova, Piacenza, Pesaro, Rimini, Ravenna, arrivando fino a Roma, che la tradizione vuole governata da re etruschi dal 616 al 509 a.C.
    L’autonomia di Roma e quindi la crescita della sua potenza si intrecciarono con la decadenza etrusca, acceleratasi dopo la sconfitta patita a Cuma nel 474 a.C. a opera dei Greci di Siracusa. La Campania fu persa di lì a poco per opera dei Sanniti e contemporaneamente i Galli dilagarono nella pianura padana. A partire dalla distruzione di Veio (395 a.C.), entro il sec. III a.C. Roma si impossessò di tutta l’Etruria.
    La scarsità di notizie precise attorno agli Etruschi deriva dal fatto che non hanno lasciato una letteratura, la loro lingua (che utilizza un alfabeto assimilabile a quello greco) è stata decifrata con l’aiuto di testi brevissimi, perlopiù iscrizioni sepolcrali. A speciali sacerdoti (gli aruspici, la fama dei quali rimase viva anche in età romana) era affidato il compito di prevedere il futuro e capire la volontà degli dei scrutando le viscere degli animali sacrificati e analizzandone il fegato.
    La centralità del culto dei morti presso gli Etruschi è attestata dalle numerose necropoli e tombe isolate disseminate in Toscana e nel Lazio: convinti che il defunto conservasse l’individualità congiunta alle proprie spoglie mortali, concepirono il sepolcro come un’abitazione sotterranea, arredata con letti, tavoli, utensili e affrescata da vivaci pitture.
    La società era formata da nobili, discendenti dei primi dominatori, e servi, discendenti delle popolazioni preesistenti all’occupazione etrusca. Vi erano schiavi adibiti ai lavori più pesanti, ma anche schiavi semiliberi che, per i loro meriti, potevano condurre vita migliore e anche elevarsi socialmente.

    Le origini di Roma: L’età dei re
    Sulla nascita di Roma sono più ricche di contenuto le leggende che non le conoscenze reali. Lo storico Tito Livio racconta dello sbarco dell’eroe omerico Enea, scampato alla Guerra di Troia, con il figlio Iulo e alcuni compagni.
    Enea fondò la città di Albalonga che, per otto secoli fu governata dai suoi discendenti. I gemelli Romolo e Remo, figli di Rea Silvia, la figlia del re Numitore, e del dio Marte, scamparono alla persecuzione del perfido Amulio, fratello di Numitore, che aveva usurpato il trono. Allevati da una lupa e poi dal pastore Faustolo, diventati adulti, uccisero Amulio e restituirono il trono al nonno. I fratelli decisero di fondare una nuova città ma, mentre Romolo ne tracciava i confini, Remo in segno di sfida saltò il solco e Romolo lo uccise. Era il 21 apr. 753 a.C., la data da cui si fa iniziare la storia di Roma. Per popolare la città, la leggenda narra che Romolo, invitati i Sabini a una manifestazione di giochi, rapì le loro donne. Il conflitto venne evitato in nome di una convivenza pacifica.
    Secondo le conoscenze storiche, invece, l’agglomerazione degli antichi insediamenti sparsi sui colli, specialmente attorno al Palatino (secoli IX e VIII a. C.), approdò alla formazione di un impianto urbano nel sec. VII a.C. La monarchia fu la forma di governo in auge fino al 509 a.C. La cacciata dell’ultimo re, l’intervento successivo di Cumani e Latini, assieme alla maturazione in ambienti aristocratici romani di un’avversione verso l’istituto monarchico, portò alla sua abolizione e alla nascita del regime repubblicano.
    Tra l’VIII e il I sec. a.C., per motivi di difesa dall’invasione etrusca, il villaggio del Palatino, ingranditosi e sviluppatosi in età dall’invasione precedente, si fuse con quelli vicini, Aventino, Esquilino, Celio, Viminale, Quirinale, Capitolino.
    Da questo processo di fusione (di cui rimane il ricordo della festa religiosa del Septimontium, a sottolineare anche il carattere religioso dell’unione), unito all’arrivo di popolazioni sabine, si formò la città di Roma. Secondo la tradizione, a Roma regnarono 7 re, fino al 509; probabilmente furono di più e quelli ricordati sono solo i più importanti. I primi quattro avevano origine latino-sabina, gli ultimi tre etrusca. Morto Romolo durante un temporale (i Romani credettero in una sua ascesa al cielo e lo adorarono col nome di Quirino).
    A Numa Pompilio vengono attribuite l’introduzione delle prime istituzioni religiose, la riforma del calendario con l’anno di 12 mesi e 365 giorni e 1’occupazione della fortezza etrusca del Gianicolo.
    A Tullo Ostilio sono legate le prime azioni militari, la conquista di Albalonga, la vittoria dei tre fratelli romani, gli Orazi, contro i tre fratelli albani, i Curiazi e l’espansione a danno delle popolazioni confinanti.
    Anco Marcio conquistò Ostia e Roma ottenne l’accesso sul mare stabilendo contatti con Etruschi, Cartaginesi e Greci.
    Tarquinio Prisco fu il primo re di origine etrusca. Fece costruire il Circo Massimo, il tempio di Giove Capitolino, la Cloaca Maxima. In campo amministrativo aumentò il numero dei senatori (da 100 a 200) permettendo l’accesso alla carica anche per meriti personali e non più solo per nobiltà di nascita.
    Servio Tullio, (secondo re etrusco) espanse ulteriormente il dominio verso sud; emanò una nuova costituzione basata sul censo (i comizi centuriati) e portò a 300 il numero dei senatori.
    Tarquinio il superbo (terzo re etrusco e ultimo re di Roma) fu un re dispotico e crudele, sospese le costituzioni e governò arbitrariamente con ogni tipo di sopruso.
    Secondo una tradizione, Tarquinio fu cacciato dai Romani e chiese aiuto al lucumone di Chiusi, Porsenna, che venne però sconfitto dagli eroi Orazio Coclite e Muzio Scevola. Secondo il racconto di Tacito invece fu lo stesso Porsenna invece a cacciare l’ultimo re. Da allora cominciò a prendere corpo l’ordinamento repubblicano.
    Dei sette re di Roma, quelli su cui comunque ci sono notizie più attendibili sono gli ultimi tre, perchè è certo che la potenza etrusca influenzò anche Roma; per gli altri purtroppo spesso la fantasia si sovrappone alla realtà.

    L’ordinamento politico
    Tre erano le principali istituzioni di governo nell’antica Roma: il re, il senato e comizi curiati. La carica di re non era ereditaria; il sovrano aveva anche il potere religioso (era sommo sacerdote) militare (era comandante dell’esercito) e giudiziario (era giudice supremo del popolo).
    Se il re pronunciava delle condanne a morte, però, il cittadino poteva fare appello all’assemblea de popolo (provocatio ad populum) e rimettersi al suo giudizio le funzioni di governo, compresi i poteri legislativo e giudiziario, erano svolte con l’assistenza di due assemblee: il senato e i comizi curiati. Il senato era composto da membri dell’aristocrazia scelti dal re e consultati per decisioni sia di politica estera che di politica interna; il senato doveva anche approvare o respingere le proposte di legge del sovrano e le deliberazioni dei comizi curiati.
    Alla morte del re dieci senatori sceglievano un nuovo candidato e lo proponevano ai comizi curiati. Questi ultimi erano formati da cittadini facenti parte delle 30 curie (ripartizioni della popolazione); ogni curia era formata da 10 genti (o gentes, gruppi gentilizi) doveva fornire all’esercito 100 fanti (una centuria) e 10 cavalieri oltre a un senatore per ogni gens (i senatori erano così 300, secondo la riforma di Servio Tullio). Le curie potevano riunirsi in assemblea, dichiarare la guerra, nominare il re, approvarne le proposte di legge e ratificare le condanne a morte. La sede delle riunioni era il Foro.

    Le classi sociali
    Due erano le grandi classi sociali: i patrizi, aristocratici proprietari terrieri, e i plebei, contadini, commercianti e artigiani, utilizzati anche dall’esercito. I patrizi avevano l’accesso alle cariche pubbliche, mentre i plebei ne erano esclusi.
    Con il miglioramento delle condizioni economiche, anche alcuni plebei divennero benestanti e iniziarono una serie di lotte per ottenere la parità di diritti. Al servizio dei patrizi vi erano i clienti che ricevevano dai loro padroni terreni da lavorare, bestiame e protezione in cambio del servizio militare e di un aiuto nella vita pubblica.
    Gli schiavi, prigionieri di guerra o plebei insolventi ai debiti, erano completamente nelle mani dei loro padroni, che potevano decidere della loro vita o anche donare loro la libertà; gli schiavi liberati erano detti liberti.

    La religione
    I culti delle diverse divinità erano affidati a dei collegi sacerdotali, il più importante dei quali era quello dei Pontefici, retto dal Pontefice massimo. Questi, che in età monarchica e imperiale coincideva con il re e con l’imperatore, presiedeva le cerimonie, stabiliva le feste e annotava i fatti storici (Annales).
    Vi erano poi il collegio dei Salii (che presiedeva il culto di Marte), quello delle Vestali (officiava il culto di Vesta, simbolo dell’eternità romana), quello degli Auguri (che dall’osservazione del volo e del canto degli uccelli e delle viscere degli animali sacri, i polli, traeva consigli sulle vie da seguire in caso di decisioni importanti) e quello dei Feziali (depositari del diritto riguardante guerre e alleanze).
    Tra gli dei, i tre più importanti erano luppiter (Giove), Marte e Quirino. Rilevante era anche l’importanza attribuita alle divinità familiari i Lari, gli spiriti degli antenati, e i Penati, protettori della dispensa.

    La Repubblica romana
    Cacciato l’ultimo re, Tarquinio il Superbo, la monarchia venne sostituita da un governo repubblicano a carattere aristocratico. In quel periodo, per alcuni anni, Roma dovette combattere contro Porsenna e contro le popolazioni latine preoccupate della sua ascesa.
    All’interno, il nuovo ordinamento provocò dei contrasti tra le due principali classi sociali, i patrizi e i plebei. Infatti, nonostante i vari poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario e militare, fossero affidati a magistrature diverse, erano comunque nelle mani di pochi cittadini patrizi, mentre tutti i plebei ne erano esclusi. Le lotte tra patrizi e plebei si susseguirono per parecchi anni, fino a quando i plebei ottennero alcune concessioni: l’accesso al consolato, il tribunato, l’emanazione di leggi scritte, la cancellazione del divieto di matrimoni misti.
    Nel frattempo, l’esercito romano, dopo aver combattuto l’invasione dei Galli a nord, si preparò a nuove conquiste nell’Italia meridionale, sconfiggendo i Sanniti, occupando Taranto e la Magna Grecia.

  • Etruschi: le attività

    L’alimentazione
    Le fonti letterarie conservateci che trattino questi soggetti risultano davvero scarse; le notizie che abbiamo ci sono infatti riportate da autori greci e latini, i quali -colpiti in modo negativo dal “lusso” dell’aristocrazia etrusca – non possono considerarsi una fonte attendibile, anche perche risultano di molto posteriori al periodo di fioritura della civiltà etrusca.
    Posidonio di Apamea, per esempio, racconta che gli Etruschi apparecchiavano le loro tavole “ben” due volte al giorno: del resto, anche i Greci consumavano due pasti al giorno, ma il pranzo era molto frugale. Il dato archeologico, che in genere è così importante, nel caso dell’alimentazione non è direttamente determinante; infatti, solo recentemente gli scavi degli abitati sono stati affiancati da indagini paleonutrizionali; oltre a ciò, relativamente rari risultano gli avanzi di pasto rinvenuti. Comunque utili notizie possono essere dedotte dagli utensili ritrovati negli ambienti adibiti a cucina, ma soprattutto dagli affreschi che decorano le pareti di alcune tombe, soprattutto quelli della “Tomba Golini I” di Orvieto, che mostrano immagini relative alla preparazione del banchetto.
    Da un famoso brano dello storico Tito Livio (Historiae XXXVIII, 45) sappiamo che in Etruria si coltivavano copiosissime messi (in particolare grano e farro); esse dovevano costituire l’alimento-base sulla mensa di tutti i giorni, sia sotto forma di pani e focacce, che di minestre e zuppe.
    Dalla citata notizia di Livio, inoltre, possiamo indurre che i bovini fossero allevati non solo per la carne, ma anche perche necessari per il lavoro dei campi, soprattutto per l’aratura. Gli avanzi di pasto rinvenuti durante gli scavi ci testimoniano, d’altra parte, la presenza sulla tavola etrusca di altri animali domestici quali ovini, caprini e suini, in proporzioni diverse a seconda del tempo o luogo in cui ci si trovasse; altra fonte di alimentazione, inoltre, era la selvaggina, come ci testimoniano gli autori antichi e alcuni famosi affreschi (la citata “Tomba Golini I” di Orvieto o la “Tomba della Caccia e della Pesca” di Tarquinia).
    Per quanto riguarda l’alimentazione ittica, ancora più rari risultano (dalla ricerca archeologica) gli avanzi di pasto, a causa della deperibilità degli scheletri dei pesci e del guscio dei molluschi; rimangono, comunque, come testimonianza archeologica, ami da pesca, aghi e pesi da rete. Gli Etruschi dovevano conoscere diverse varietà ittiche diffuse nel Mediterraneo, come mostrano i cosiddetti “piatti da pesce” in cui appaiono raffigurate, sulla superficie esterna, numerose specie manne.
    L’alimentazione del mondo mediterraneo antico è condizionata, ovviamente, dai prodotti che la natura offre e le condizioni climatiche simili nel mondo greco, latino ed etrusco, hanno generato una dieta ed una cucina per molti versi assai simili tra loro. Per l’età preistorica si hanno dati scientificamente molto interessanti per il villaggio del Gran Carro di Bolsena, scoperto sotto le acque del bacino lacustre e databile attorno al IX secolo a.C, nella fase di passaggio dunque tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro.
    Il setacciamento dei fanghi che ricoprivano le antiche strutture, eseguito nel 1974, portò alla luce una rilevante quantità di noccioli di frutta selvatica tra cui corniolo (Cornus mas), prugna selvatica (Prunus spinosa) e prugna damascena (Prunus insititia), nocciolo (Corylus avellana) e ghiande (Quercus sp.), ed anche vite (Vitis vinifera) che presto, grazie alle conoscenze trasmesse dai navigatori provenienti dall’Egeo, sarebbe stata trasformata in vino e non consumata solo come frutta.
    Tra i cereali sono presenti cariossidi di farro (Triticum dicoccum), tra i legumi resti di fave (Vicia faba). I cereali ed i legumi potevano essere consumati abbrustoliti o macinati per farne frittelle e minestre; la frutta poteva essere consumata fresca o fermentata in bevande a scarso tenore alcolico. Tra i resti faunistici (scavi 1980) ricordiamo la presenza di numerose specie domestiche (68 % del totale dei resti ossei rinvenuti) e selvatiche (32 %). Sono stati segnalati resti di caprovini, suini, bovini, equini, cani; tra i selvatici cervo, cinghiale, capriolo ed orso bruno.
    I dati disponibili dagli scavi condotti dall’Istituto Svedese di Roma a San Giovenale (Blera) abbracciano un arco cronologico molto ampio che va dall’età del Bronzo all’età romana: essi rivelano come attraverso i secoli il principale alimento siano stati i suini, gli ovini ed i bovini, talvolta integrati da esemplari cacciati come il cervo, il capriolo e la lepre.
    Se cerchiamo analogie con il mondo romano di cui si possiedono numerose notizie in più rispetto all’ etrusco, apprendiamo che si tendeva al consumo soprattutto di suini, mentre i caprovini erano destinati alla produzione di latte e lana, i bovini al lavoro nei campi. La carne era arrostita su lunghi spiedi (in greco obeloi) che, in epoche premonetali, cioè quando ancora non si usavano monete e si ricorreva allo scambio di prodotti e di metalli a peso, costituivano nel Mediterraneo un elemento di scambi assai frequente.
    Ma poteva essere anche bollita in grandi calderoni da cui veniva estratta con uncini. A San Giovenale sono stati rinvenuti fornelli e pentole di terracotta che testimoniano la quotidiana vita dell’abitato: molti dei materiali archeologici provenienti soprattutto dagli abitati arcaici della Tuscia (San Giovenale ed Acquarossa) sono esposti in un’interessantissima mostra permanente presso il Museo Archeologico Nazionale di Viterbo (Rocca Albornoz).
    Lo scavo di un insediamento agricolo etrusco del IV – III secolo a.C. condotto dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale a Blera in località Le Pozze (scavi 1986-87), ha permesso il rinvenimento di 570 semi e noccioli di frutta, tra cui segnaliamo corniolo, nocciolo, ghiande di quercia, olivo (Olea europaea), vite, fico (Ficus carica), pero (Pyrus sp.) ed orzo (Hordeum sp.).
    Tra i resti di animali, presenti i suini, la capra, i bovini, le galline. Indagini paleonutrizionali, cioè sulle modalità alimentari del passato, condotte sulla popolazione etrusca, hanno rivelato che dal VII secolo a.C. all’età romana l’economia alimentare sia rimasta a base agricola; un consumo maggiore di carne e latticini, rilevabile dall’aumento di Zinco nelle ossa, si ha nell’età arcaica (VI secolo a.C.- inizio V secolo a.C.): con il passaggio all’età classica ed all’ellenistica si nota una graduale diminuizione del consumo di prodotti di origine animale, forse conseguenza di quella forte crisi economica che avrà il suo inizio nel V secolo a.C. e che si protrarrà con la conquista romana.

    La cucina etrusca
    Le raffigurazioni pittoriche della tomba Golini I di Orvieto (l’antica Volsinii) databili alla seconda metà del IV secolo a.C., ci offrono una visione interessante delle attività di cucina di un’importante famiglia dell’aristocrazia: sulle pareti sono rappresentati i servi che fanno a pezzi la carne con una piccola ascia, altri che preparano i cibi sotto lo sguardo attento di una donna: preparano focacce, cuociono le cibarie nel forno, mesciono le bevande nelle brocche.
    Nelle altre pareti appaiono i loro padroni, seduti o sdraiati sulle klinai, i letti tricliniari del banchetto, in compagnia delle proprie donne dalle ricche vesti, illuminati da alti candelieri di bronzo lucente, serviti da schiavi nudi ed allietati da suonatori di lira e tibicines (flauti doppi).
    Ma cosa si mangiava nell’antica Etruria? Oltre alla frutta e verdura di cui abbiamo fatto cenno, quali erano le pietanze, i cibi preparati ? Nei tempi più antichi erano frequenti le minestre di cereali e legumi, come le gustose zuppe di verdura: ne è un ricordo eccezionale l’acquacotta, uno dei piatti della tradizione culinaria viterbese. Le sfarinate di cereali erano utilizzate per fare frittelle e focacce.
    La carne era bollita ed arrostita: sono frequenti nei corredi delle tombe gli alari, gli spiedi e le pinze per maneggiare i tizzoni di brace. Condimento ideale per ogni cibo era l’olio d’oliva, di qualità eccellente, esportato in tutto il Mediterraneo come testimonia il rinvenimento di anfore etrusche: anche oggi la qualità dell’olio viterbese lo denota come prodotto tipico, così come il vino.
    La mancanza di una letteratura specifica non ci aiuta nella conoscenza di ricette e preparazioni tipiche, lontane dalla raffinata e forse confusionaria cucina d’età romana: ma non è difficile immaginare che i piatti più tipici della tradizione gastronomica toscana e viterbese, così legati alla sana e semplice cultura contadina, siano il perpetuarsi della cucina etrusca.

    Il vino
    Già nel VII secolo a.C. la vite e l’olivo erano coltivati intensivamente in Etruria ma, per quest’ultimo, la produzione non fu mai considerata importante dagli autori antichi; del vino etrusco, invece (anche se in senso talvolta negativo), scrivono sia Orazio che Marziale. Il vino bevuto nell’antichità era molto diverso da quello d’oggi: denso, fortemente aromatico, ad elevata gradazione alcolica.
    Il primo mosto ottenuto dalla vendemmia veniva in genere consumato subito, mentre il restante veniva versato in contenitori di terracotta con le pareti interne coperte di pece o di resina. Il liquido veniva lasciato riposare, schiumato per circa sei mesi e a primavera, infine, poteva essere filtrato e versato nelle anfore da trasporto. Il liquido così ottenuto non veniva bevuto schietto ma mescolato, all’interno di crateri, con acqua e miele, e travasato nelle coppe dei cornrnensali, servendosi di attingitoi e sìmpula. Sulla mensa, il vino era contenuto in brocche e vasi a doppia ansa (stàmnoi), mentre per l’acqua si utilizzavano spesso piccoli secchi, denominati sìtule.
    Non potevano mancare, in una cucina ben attrezzata, i colini. Questi instrumenta sono presenti in tutta l’area mediterranea, dall’Egeo alla Gallia Meridionale, a iniziare dal VI secolo a.C. fino all’età romana imperiale. Gli esemplari più antichi (II millennio a.C.) sono stati trovati in Grecia, nell’ isola cicladica di Santorino, realizzati in terracotta. Potevano essere ottenuti anche in altro materiale (argento, bronzo, rame, ceramica) e diverse risultano le varianti della forma a seconda dell’uso.
    Alcuni colini appaiono provvisti di un imbuto (nome latino infundìbulum), collegato al colino stesso, altri ne sono privi, altri infine si denotano semplicemente per un “bulbo” ricavato al centro della vasca. Alcuni di essi rivelano, sul lato opposto al manico, un sostegno rettangolare orizzontale destinato a reggere il colino stesso sull’imboccatura del vaso in cui veniva versato il liquido; in un secondo momento, il colum poteva essere lasciato appeso all’orlo del recipiente, pure tramite questa sorta di gancio. I colini provvisti di imbuto venivano usati per filtrare il vino e altri liquidi in tipi di recipiente contraddistinti da strette imboccature.

    Fornelli, stoviglie e altri utensili per cucina
    Gli Etruschi, di solito, non avevano, all’interno delle loro abitazioni, un vano adibito a cucina quale lo intendiamo oggi; spesso si cuoceva all’aperto, ma comunque esistevano sistemi di cottura che utilizzavano dei particolari “fornelli”.
    Ne esistono sostanzialmente di tre tipi, provvisti ognuno di relative varianti: il tipo più antico è di forma cilindrica e munito sulla superficie superiore di una piastra forata e, sulla parte inferiore, di un’ apertura per l’alimentazione del fuoco; verso la fine del VII sec. a.C. compare un secondo fornello semicilindrico, a forma di ferro d cavallo, con tre parti sporgenti verso l’interno per sostenere la pentola; c’è infine un ultimo modello, simile a una piccola botte aperta per appoggiarvi il recipiente per la cottura e, in quella inferiore, per il carico del combustibile.
    Il secondo tipo era già conosciuto nella Magna Grecia e doveva risultare migliore del primo modello, in quanto permetteva una cottura più veloce. In diverse zone dell’Etruria, per esempio a Poggio Civitate, Murlo (SI), sono state trovate specie di campane di terracotta provviste di un ‘ansa alla sommità, sotto le quali venivano posti i cibi da cuocere; intorno veniva messa la brace per consentire la cottura, simile dunque a quella sub testo dei Romani.
    Altri utensili per cuocere i cibi sono gli spiedi (in greco obelòi), usati per arrostire la carne. Li troviamo talvolta conservati nelle tombe, forgiati in bronzo o ferro, lunghi anche 1 m e associati a graffioni. Quest’ultimo tipo di strumento ha più volte attirato l’attenzione degli studiosi, che hanno tentato di definirne l’uso. Prevalgono oggi due interpretazioni: la prima tende a identificare questo oggetto con un porta-fiaccole, i cui rebbi sarebbero stati destinati a sostenere materiale combustibile; la seconda, avvalorata anche da fonti letterarie (strumenti simili sono infatti descritti, con tale uso, dalle testimonianze romane, contraddistinti dal nome latinizzato di hàrpago), lo considera un utensile domestico, anzi culinario, usato per infilzare e cuocere pezzi di carne, recuperarli dai calderoni e togliere pietanze “dal fuoco”. Nel medioevo, per es., si usavano uncini per impedire che i cibi in cottura venissero a galla.
    Tra gli instrumenta domestica vanno anche annoverate le “teglie” (simili nella forma alle odierne padelle), alcune del tipo monoansato, in bronzo. Si tratta di utensili domestici adibiti a contenere i cibi in fase di cottura e chiamati anche pàtere o bacinelle, di cui esistono diverse varianti a seconda del modo in cui risultino forgiati orlo e ansa.
    La medesima classe di recipiente si trova replicata, nel corso del III secolo a.C., nella cosiddetta “Ceramica a Vernice Nera” di produzione volterrana, che ispira le sue fonne a prototipi di vasi in metallo, ottenendo così contenitori a un costo inferiore di quello raggiunto dagli originali.
    Un altro oggetto d’uso domestico che compare tra le suppellettili da cucina è la grattugia, in genere ricavata in bronzo, ma talvolta anche in metallo pregiato. Il termine latino ràdula è usato da Columella (De re rust. XII, 15,5) per un oggetto che doveva servire a raschiare la vecchia pegola dai vasi, prima di spalmarvela nuovamente.
    Non siamo certi, tuttavia, che si tratti del medesimo oggetto, in quanto Columella non lo descrive. Omero già la menziona (Iliade XI, 638), usata per grattugiare il fonnaggio; era infatti usata per fare il kykèion, bevanda composta da vino forte, orzo, miele e fonnaggio grattugiato, bevuta dagli eroi omerici. Non sappiamo se anche gli Etruschi avessero una bevanda simile.

    La filatura e la tessitura
    A parte la preparazione e la cottura dei cibi, le attività domestiche peculiari della donna etrusca (anche di elevato ceto sociale) erano la filatura e la tessitura della lana e delle fibre vegetali (lino). Già in epoca villanoviana, i corredi delle tombe femminili contengono frequentemente rocchetti e fuseruole di ceramica e, talvolta, fusi di bronzo.
    L’attività della tessitura, del resto, è documentata negli scavi degli abitati da numerosi pesi da telaio, di norma realizzati in terracotta in forma troncopiramidale, oppure costituiti da semplici ciottoli (il telaio vero e proprio era invece interamente di legno). Alcune antiche scene figurate, per esempio sul tintinnàbulo di bronzo di Bologna (VII sec. a.C.), riproducono le diverse fasi di lavorazione delle fibre tessili, in particolare della lana.
    Dopo essere stata cardata, cioè pulita e pettinata, quest’ultima veniva attorcigliata in fili grezzi e poi filata con il fuso (in legno, osso o bronzo); il filo così ottenuto, avvolto sui rocchetti, era quindi utilizzato per la tessitura, eseguita per lo più mediante telai verticali, nei quali i fili erano tenuti in tensione, a gruppi, dagli appositi pesi.

    Aspetti della vita, economia e tecnica
    La ricostruzione della vita che si svolgeva nelle case dei ricchi non presenta eccessive difficoltà. Si è già accennato alla posizione della donna che partecipa ai conviti e alle feste con perfetta parità di fronte all’uomo. In età arcaica le donne e gli uomini banchettano distesi sullo stesso letto: ed è probabilmente a questa usanza che risale l’affermazione di Aristotele (in Ateneo, 1,23 d) che “gli Etruschi mangiano insieme con le donne giacendo sotto lo stesso manto”.
    Si è anche supposto che Aristotele si riferisca ad una falsa interpretazione di alcuni sarcofagi sui quali appaiono i due coniugi giacenti sotto un manto simbolo di nozze. La cerimonia nuziale presso gli Etruschi comprendeva infatti il rito (conservato tuttora dagli Ebrei) della copertura degli sposi con un velo: come attesta il rilievo, di non dubbia interpretazione, di una umetta di Chiusi.
    Ma è possibile che l’uso del velo esistesse in realtà anche per i letti conviviali. Si presume comunque che i Greci, per un atteggiamento di incomprensione e di ostilità verso gli Etruschi forse risalente ad antiche rivalità politiche, trovassero argomento di scandalo nella libertà formale della donna etrusca, così diversa dalla segregazione della donna greca almeno nel periodo classico: e fosse quindi facile e quasi naturale attribuire alle etrusche i caratteri e il comportamento delle etère, le sole donne che ad Atene partecipassero ai banchetti con gli uomini.
    Nascevano così e si diffondevano – con quella facilità nell’accettare e ripetere notizie anche incontrollate specialmente sui costumi dei “barbari”, quasi come motivi letterari, che è propria del mondo classico – le dicerie sulla scostumatezza degli Etruschi, sulle quali insiste Ateneo (IV, 153 d; VII, 516 sgg.) e di cui si fa eco perfino Plauto (Cistellaria, Il, 3, 20 sgg.).
    A partire dal V-IV secolo le donne etrusche non partecipano più ai conviti distese sopra il letto come gli uomini, ma sedute, secondo l’usanza che resterà poi stabilmente diffusa nel mondo romano.
    Raffigurazioni di banchetti con più letti (generalmente tre, donde il romano triclinio), come quelle delle tombe tarquiniesi dei Leopardi o del Triclinio, ci presentano quadri pieni di naturalezza e di gioiosa semplicità. Non mancano cqnviti all’uso greco, con la presenza di soli uomini, culminanti anche in orge piuttosto sfrenate, con abbondanti libazioni e balli (tomba delle Iscrizioni a Tarquinia). I banchetti solenni, come del resto anche altre feste (giuochi, funerali, ecc.), sono regolarmente accompagnati dalla musica e dalla danza.
    Le pitture della tomba Golini di Orvieto ci portano anche nell ‘interno delle cucine dove si preparano i cibi per il banchetto, anche con la presenza del suono forse magico-propiziatorio di un suonatore di doppio flauto.
    Una notevole serie di rappresentazioni si riferisce a giochi e a spettacoli (tombe tarquiniesi degli Auguri, delle Olimpiadi, delle Bighe, del Letto Funebre, ecc., tombe dipinte e rilievi di Chiusi). È evidente che l’influsso ellenico domina su questo aspetto della vita etrusca; ma si ha l’impressione che il carattere agonistico e professionale dei giuochi e delle gare greche tenda a trasformarsi nel mondo etrusco in un divertimento spettacolare.
    Niente è più suggestivo ed interessante, a questo proposito, del piccolo fregio della tomba delle Bighe a Tarquinia, nel quale il pittore ha immaginato un grande campo sportivo o circo, visto spaccato secondo i due assi lungo e corto, con l’arena e le tribune lignee sulle quali trovano posto gli spettatori; nell’arena sono corridori con le bighe, cavalieri, coppie di lottatori e pugilatori, un saltatore semplice e con l’asta, un corridore armato (oplitodromo), giudici di gara ed altri personaggi vari; sulle tribune spettatori dei due sessi s’interessano nel modo più vivace all’esito delle gare, come mostra chiaramente la loro mimica concitata.
    Non è escluso che ad agoni sportivi partecipassero anche i membri delle famiglie più illustri. Va ricordato a tal proposito il gioco etrusco della Truia (ludus Troiae), che consisteva in una gara di corsa a cavallo lungo una pista intricata in forma di labirinto: esso è riprodotto nel graffito di un vaso etrusco arcaico e sappiamo che era ancora in uso al principio dell’impero come esercizio della gioventù romana.
    A gare equestri partecipavano assai probabilmente i giovani membri della stessa nobile famiglia proprietaria della tomba tarquiniese delle Iscrizioni. Il rapporto dei giochi agonistici con il mondo funerario è documentato, oltre che dall’evidenza delle tombe, dal passo di Erodoto (I, 167) relativo alle cerimonie espiatorie compiute dai Ceretani per il massacro dei prigionieri focei.
    Accanto agli spettacoli di natura agonistica debbono esser ricordati anche quelli mimici, musicali, acrobatici e farseschi che erano specificamente attribuiti ad attori etruschi ricordati con il nome di histriones o ludiones (la forma etrusca corrispondente sarebbe tanasa(r), fhanasa) e che furono introdotti a Roma dall’Etruria nel 364 a.C. come «ludi scenici» (Livio, VII, 2-3). Di fatto esistono non poche testimonianze figurate di pitture, vasi dipinti. bronzetti, che raffigurano personaggi in costumi particolari, talvolta mascherati, che partecipano a vere e proprie rappresentazioni: le quali sembrano essere per altro di carattere assai vario, dall’esibizione popolaresca di saltimbanchi ed equilibristi (come nelle tombe dei Giocolieri di Tarquinia e della Scimmia di Chiusi), a qualcosa che può ricordare il dramma satiresco e porsi al limite di un’azione drammatica (ben diversa in ogni caso dal genere della tragedia di imitazione greca, senza dubbi tardivo, di cui si è già fatto cenno).
    Va poi ricordato un genere di giochi più cruento, nel quale è forse da riconoscere un’anticipazione dei combattimenti gladiatorii, che del resto la tradizione antica considerava di origine etrusca (Ateneo, IV, 153) e comunque provengono in Roma dalla Campania anticamente etruschizzata. Può darsi che i giochi in questione nascano dall’uso funerario, come attenuazione dei sacrifici umani che in molte civiltà primitive accompagnano la morte di principi o di personaggi illustri; giacche nella lotta cruenta è lasciata al più forte o al più abile dei contendenti la possibilità di scampare alla propria sorte.
    Un combattimento di tal genere sembra rappresentato nella tomba degli Auguri di Tarquinia: un personaggio mascherato e barbato, designato con il nome fhersu (corrispondente al latino persona, da maschera»), con un cappuccio, un giubbetto maculato ed un feroce cane al guinzaglio, assale un avversario seminudo e con il capo avvolto in un sacco e armato di una clava.
    Quest’ultimo è presumibilmente un condannato che lotta in condizioni di inferiorità; ma è anche possibile che egli riesca a colpire il cane con la clava e abbia quindi alla sua mercè l’assalitore. Sulla natura e sulla funzione del personaggio con cappuccio, barba e giubbetto maculato – sicuramente un essere umano e non un dèmone come si credette in passato – esistono tuttavia notevoli incertezze dal momento che egli ritorna più volte altrove in figurazioni pittoriche (tombe del Pulcinella, delle Olimpiadi, del Gallo, forse della Scimmia: un nano o un bambino) in atteggiamenti o in contesti che nulla hanno a che vedere con la gara mortale della tomba degli Auguri.
    Sembra veramente che si tratti piuttosto di una caratterizzazione generica, e che possa addirittura parlarsi della più antica «maschera» della storia dello spettacolo italiano. Passando ora a considerare i problemi della vita economica e produttiva dell’Etruria antica, diremo che è da supporre che in origine le risorse degli abitanti del paese fossero di natura prevalentemente agricola e pastorale (a parte, ovviamente, la raccolta, la caccia e la pesca); ma presto esse dovettero esser rivoluzionate, almeno in alcune zone, dallo sfruttamento delle ricchezze minerarie, ed ulteriormente integrate dall’attività dei traffici terrestri e marittimi.

    Un quadro sufficientemente esatto della produzione etrusca nell’ultima fase della storia della nazione ci è offerto dal noto passo di Livio (XXVIII, 45) sui contributi offerti a Roma dalle principali città etrusche annesse o federate per l’impresa oltremarina di Scipione l’Africano durante la seconda guerra punica. Ecco l’elenco delle prestazioni fatte secondo le principali risorse di ciascun distretto in materie prime e prodotti:
    Caere: grano ed altri viveri
    Tarquinia: tela per le vele delle navi
    Roselle: legname per la costruzione delle navi e grano Populonia ferro
    Chiusi: legname e grano Perugia legname e grano
    Arezzo: armi varie in grande quantità, utensili e grano
    Volterra: scafi di navi e grano
    Vediamo definirsi chiaramente nelle zone meridionali e centrali i di- stretti agricoli (Caere, Roselle, Chiusi, Perugia, Arezzo, Volterra), alcuni dei quali avvantaggiati anche dallo sfruttamento dei residui grandi boschi, mentre Populonia appare esplicitamente indicata come centro siderurgico ed Arezzo come città industriale.
    La zona mineraria etrusca abbraccia prevalentemente i territori di Vetulonia (con le colline metallifere) e di Populonia (con l’isola d’Elba); ma ad essa dobbiamo aggiungere anche il massiccio dei Monti della Tolfa, dove si hanno tracce di antiche miniere non più sfruttate.
    L ‘estrazione dei metalli (rame, ferro, in minor grado piombo e argento) da questi territori risale forse anche in parte alla preistoria, ma fu praticata sistematicamente a partire dall’inizio dell’età del ferro. La sua importanza per la storia dell’Etruria arcaica è grandissima e in un certo senso determinante, come già sappiamo.
    Alla valorizzazione di queste ricchezze naturali si ricollega presumibilmente lo sviluppo stesso delle città tirreniche; mentre la minaccia e la pressione continua dei Greci sulle coste dell’Etruria è un segno dell’importanza che si annetteva al possesso, all’influenza o soltanto alla vicinanza delle zone minerarie. Non ci sono noti gli aspetti tecnici dell’estrazione e della prima lavorazione dei minerali, se non da pochi indizi di natura archeologica – quali gallerie scavate in alcune località delle colline metallifere e strumenti in esse rinvenute, forni, scorie della fusione del ferro nella zona di Populonia – e da poche notizie antiche, dalle quali ricaviamo ad esempio che Populonia era il primo centro di fusione del metallo grezzo estratto dalle miniere dell’Elba e luogo del suo smistamento e diffusione, ma probabilmente non di lavorazione ulteriore.
    La produzione etrusca è in gran parte influenzata della ricchezza di metalli del territorio: ce ne accorgiamo dalle armi, dagli strumenti, dalle suppellettili di bronzo e di ferro che abbondano nelle tombe. Soprattutto notevoli sono le opere di metallotecnica artistica trovate a Vetulonia, a Vulci, a Bisenzio, nei dintorni di Perugia, a Cortona; la fonte di Livio già ricordata designa inoltre Arezzo (da cui proviene la famosa Chimera).
    Il ferro e il bronzo etrusco erano anche lavorati in Campania, donde probabilmente minerale grezzo e prodotti si diffondevano verso il mondo greco (Diodoro Siculo, v, 13). In Grecia erano rinomate le trombe etrusche di bronzo; un frammento di tripode del tipo di Vulci si rinvenne sull’acropoli di Atenen. Non debbono essere trascurati altri aspetti della produzione artigianale ed industriale, come la tessitura e la lavorazione del cuoio, specialmente per le calzature che erano note e certo largamente esportate nel mondo mediterraneo (Polluce, VII, 22, 86).
    La produzione corrente di stoffe, oggetti lignei, ceramiche (e soltanto di queste ultime ci resta nel nostro clima la totalità delle testimonianze, come già detto) fu inizialmente limitata ad un circuito familiare o di villaggio. Gli scambi si estesero con il progresso del lavoro artigianale specializzato e con la conseguente necessità di reciproche acquisizioni tra ambienti e centri diversi. Si passò quindi ai commerci esterni, terrestri e soprattutto marittimi, favoriti dalla domanda di oggetti di lusso e di prestigio e dall’offerta delle maggiori fonti di potenzialità economica, cioè dei metalli nell’ambito di una società aristocratica.
    Ma nel periodo aureo dei grandi traffici internazionali, cioè in età arcaica, la massa degli scambi avveniva, come già in precedenza accennato, essenzialmente per baratto di merci. Pezzi di rame grezzo (aes rude) e poi contrassegnato (aes signatum), come anche oggetti o spezzoni di oggetti lavorati, specialmente asce, poterono costituirsi quali intermediari di scambio; si aggiunga l’argento pesato secondo un piede ponderale originario del Mediterraneo orientale (detto, impropriamente, «piede persiano», di circa grammi 5,70), che rimarrà poi tipico del sistema ponderale delle monete etrusche.
    La coniazione di monete, che nel mondo greco risale al VII secolo, resterà fondamentalmente estranea alla concezione dell’economia etrusca: ciò che può considerarsi, se si vuole, un altro segno di primitivismo o di arcaismo. Di fatto le monete greche circolarono precocemente, insieme con gli altri più rozzi strumenti di scambio locali; e di esse si ebbe qualche imitazione, in oro (dubitativamente) e argento, in età arcaica.
    Ma di una vera e propria monetazione etrusca d’argento e d’oro non si può parlare se non a partire dalla metà del V secolo (cioè nell’età della relativa recessione economica) specialmente a Populonia, sotto l’influenza della monetazione greca dell’Italia meridionale e seguendo i sistemi ponderali etrusco e calcidese. Di fatto è la zona mineraria che sembra comporre in Etruria la moneta, per comprensibili ragioni di accelerazione e moltiplicazione di scambio. Soltanto più tardi, e non prima dell’affermarsi dell’egemonia romana alla fine del IV secolo, appariranno monete di bronzo fuse (aes grave) e coniate.
    Sappiamo che gli Etruschi avevano una tecnica progredita nel campo della ricerca, dello sfruttamento, del convogliamento delle acque. La ricerca delle acque era fatta dagli aquilices: specie di rabdomanti. Plinio (Nat. Hist. ,III, 20, 120) parla dei canali scavati dagli Etruschi nel basso Po: ed effettivamente in diverse zone dell’Etruria tirrenica si riscontrano sistemi di cunicoli di drenaggio che risalgono all’età preromana e dimostrano un’intensa applicazione di opere idrauliche a scopo di bonifica e di irrigazione.
    La vita nelle zone paludose della maremma e del basso Po non si spiegherebbe d’altro canto se fosse già stata diffusa, durante il periodo aureo della civiltà etrusca, l’infezione malarica: la quale dovette appunto cooperare, durante la tarda età ellenistica, ad affrettare la decadenza di molte città etrusche costiere. Al denso manto boschivo che copriva tanta parte dell’Etruria si suppone dovuto lo sviluppo di una tecnica che abbiamo ragione di ritenere caratteristica del mondo etrusco (anche se le fonti letterarie sono meno esplicite che per altre peculiarità): vogliamo dire l’arte della lavorazione del legno per la grande carpenteria architettonica e per l’ingegneria navale.
    Anche a questo proposito sarebbe errato trascurare i precedenti orientali e greci. Ma la facilità della materia prima deve pure aver avuto la sua importanza. In ogni caso le tombe scavate nella roccia ad imitazione di interni di case, specialmente quelle della necropoli di Cerveteri, suggeriscono le più varie e ardite soluzioni nell’impiego del legno per le costruzioni, soppiantato solo tardivamente dalla pietra. Va però tenuto conto della diffusione dei mattoni crudi nell’alzato delle pareti, in concomitanza con gli elementi lignei dei pilastri, delle porte e delle coperture.
    Un altro impiego fondamentale del legno è per le navi, da guerra ed onerarie, che costituirono lo strumento della potenza commerciale e politica etrusca, e che appaiono rappresentate in un grande numero di figurazioni di ogni età. Significativo, a proposito della tecnica costruttiva, è il ricordo degli scafi (interamenta) forniti da Volterra a Scipione come già si è visto, evidentemente fabbricati in uno degli scali marittimi volterrani.
    Per le forme evidentemente, come desumiamo dalle immagini, non ci si dovette scostare dai modelli greci; leggendaria è la notizia dell’invenzione dei rostri da parte di un Piseo figlio di Tirreno (Plinio, Nat. Hist.. VII, 56, 209); ma è curioso, ed unico nel suo genere, il modello di nave con prora a testa di pesce dalle cui fauci fuoriesce una lancia.

    Le armi e l’abbigliamento
    Immagini di guerrieri singoli e scene di parate, duelli e battaglie sono frequentissime nei vasi e nei rilievi dell’Etruria arcaica. Insieme con le armi reali superstiti essi costituiscono una vasta documentazione della guerra e dell’armamento. Sull’arte etrusca della guerra assai poco si rileva dalla tradizione, che tuttavia suggerisce che l’organizzazione militare primitiva dei Romani debba molto all’Etruria.
    Ma anche per questa materia – soprattutto ove si considerino le testimonianze figurate – l’influenza della tattica e dell’armamento dei Greci sembra essersi affermata in modo dominante soprattutto per quel che riguarda la presenza della fanteria oplitica, cioè dei guerrieri con armi pesanti, che costituì verisimilmente il nerbo dello stato cittadino arcaico.
    In origine si combatteva sui carri, forse più a lungo che in Grecia, se non c’inganna il carattere mitologico di molte figurazioni; comunque già a partire dal VII secolo appare operante la cavalleria. Tutto ciò premesso, non può trascurarsi l’esistenza di fenomeni che ricollegano il mondo etrusco specialmente nella sua fase più antica a tipi di armamenti presenti piuttosto nell’area europeo- continentale che in Grecia.
    Armi offensive sono l’asta pesante con la punta e il saurocter di bronzo o di ferro, l’asta leggera o giavellotto, la spada lunga – il cui uso sembra cessare già in epoca arcaica, e che è soltanto una sopravvivenza dell’armamento della tarda età del bronzo – , la spada corta o gladio, la sciabola ricurva (machaira) in uso a partire dal VI secolo, il pugnale, l’ascia che in epoca antichissima è a due lame e, come già si è accennato, appartiene forse all’armamento dei capi. Armi difensive sono l’elmo di bronzo, lo scudo, la corazza, gli schinieri.
    Gli elmi primitivi hanno una forma ad apice o a calotta sormontata da cresta, o a semplice calotta, o con apice a bottone; assai per tempo si diffondono gli elmi di tipo greco corinzio. Ma la forma classica di elmo etrusco di bronzo è una sorta di morione talvolta sormontato da penne, di cui molti esemplari si sono rinvenuti nelle tombe etrusche (tipico uno degli elmi apparsi tra gli oggetti votivi del santuario ellenico di Olimpia, con l’iscrizione dedicatoria a Zeus del tiranno di Siracusa Gerone che li dedicò come bottino di guerra dopo la vittoria navale dei Greci sugli Etruschi presso Cuma nel 474 a.C.); con il termine moderno di elmo tipo Negau lo si incontra, con varianti, diffuso largamente anche nell’Italia adriatica e settentrionale e nell’area alpina e slovena.
    Le corazze erano in origine di tela, con borchie rotonde o quadrangolari di metallo laminato; ma poi furono lavorate interamente di bronzo, del tipo ad elementi staccati o tutte di un pezzo riproducenti a sbalzo la muscolatura del tronco virile. Scudi rotondi di bronzo appaiono così in epoca arcaica come nel periodo più recente; ma alcune figurazioni ci rivelano anche forme di scudi ellittici o tendenti al quadrato, probabilmente di legno o di cuoio.
    Un cenno va fatto ai bastoni offensivi e difensivi, nei quali è forse da vedere un ricordo delle antiche clave usate nelle culture primitive: di essi appare qualche testimonianza nei monumenti arcaici, mentre il tipo del bastone ricurvo all’estremità, detto lituo, tende successivamente a diventare in modo sempre più esclusivo un’insegna sacerdotale, e come tale passa al mondo romano.
    Per quel che riguarda l’abbigliamento maschile e femminile e le acconciature, in mancanza di materiale direttamente conservato, dobbiamo servirci essenzialmente dei monumenti figurati, del resto abbondanti e ricchi di particolari.
    Naturalmente il clima influisce sul vestiario non meno delle tradizioni locali; ma la moda dei prototipi diffusi dal mondo greco ebbe anche in questo campo un’azione determinante. La consuetudine prettamente mediterranea della seminudità maschile è ancora viva nell’Etruria arcaica; le piccole figurazioni plastiche del periodo villanoviano ci mostrano anzi addirittura numerosi esempi di nudità completa maschile e femminile, ma non sappiamo fino a che punto essa risponda alla realtà della vita quotidiana (nell’arte essa è assai meno frequente che in Grecia).
    Comunque ancora in piena civiltà del VI e V secolo gli uomini, specie nell’intimità domestica, andavano a torso nudo; e quest’uso tradizionale si riflette nel costume “eroico” del defunto banchettante delle figure scolpite sui coperchi dei sarcofagi e delle urne di età ellenistica. Completamente nudi appaiono soltanto servi ed atleti, ma neppur sempre. Un ampliamento dell’originario perizoma bordato che copriva i fianchi è costituito dal giubbettino che riveste anche il petto, ed è di moda negli ultimi anni del VI secolo.
    Ad esso poi si sostituirà la tunica, imitata dal chitone dei Greci. Ma il secondo elemento tipico del costume maschile è il manto di stoffa più pesante e colorata, già diffuso in epoca arcaica. Con l’accrescersi dell’entità del vestiario il manto acquisterà un ‘importanza sempre maggiore, fino ad aumentare di ampiezza e ad arricchirsi di decorazioni dipinte o ricamate, diventando la veste nazionale degli Etruschi, la tèbennos, dalla quale discende in via diretta la toga romana.
    Le donne e le persone anziane vestono fin dai tempi arcaici una tunica in forma di camicia lunga fino ai piedi di stoffa leggera pieghettata o decorata sui bordi, alla quale si sovrappone il manto dipinto di stoffa più pesante. È da notare, per un periodo che va dalla fine del VII al principio del V secolo, l’uso di stoffe con un disegno a rete che si suppone lavorato a ricamo e che s’incontra sui monumenti così nelle tuniche (statuetta di Caere al Campidoglio, vasi cinerari chiusini) come nei mantelli (situla della Certosa).
    Fin dall’epoca più antica si osservano una cura ed un interesse particolare degli Etruschi per le calzature. Le tombe arcaiche di Bisenzio hanno restituito sandali in forma di zoccolo ligneo snodato con rinforzi di bronzo. I calzari potevano essere di cuoio e di stoffa ricamata. La forma tipica in uso nel VI secolo è quella allungata in alto dietro il polpaccio e con punta rialzata davanti, cioè i così detti calcei repandi di origine greco-orientale, dei quali alcune caratteristi- che sopravvivono ancora nelle ciocie dei montanari dell’Italia centrale. Anche più tardi, accanto ai sandali bassi, sono in uso gli alti stivaletti: queste diverse fogge passano, quasi senza mutamenti, al costume romano.
    Sul capo era portato nel VI secolo un tipo di berretto o sacchetto a cupola di stoffa ricamata, comune così agli uomini come alle donne, e con diverse varianti, il così detto tutulus, anch’esso di origine orientale, ionica, ma divenuto caratteristico del costume etrusco; Altre forme di copricapi sono il berretto a punta rigida o a cappuccio di alcuni speciali personaggi (ad esempio il già citato persu della tomba degli Auguri), sacerdoti e divinità; il berretto di lana o di pelle con base larga e punta cilindrica portato dagli aruspici ed attestato in diversi monumenti; e infine il cappello a larghe falde alla greca (pètasos) che sembra particolarmente diffuso nell’Etruria settentrionale (figure di terracotta della decorazione architettonica di Poggio Civitate di Murlo, flautista della tomba della Scimmia di Chiusi), come del resto nell’Italia del nord (arte delle situle). Ma generalmente così gli uomini come le donne andavano a capo scoperto; e questa è l’usanza che diviene predominante a partire dal V secolo.
    Dapprima gli uomini sono barbati e portano i capelli lunghi spioventi sulle spalle; ma già dalla fine del VI secolo i giovani vanno rasi e con i capelli corti, secondo la moda greca. La barba scompare quasi del tutto a partire dal III secolo a.C. (e non tornerà di moda in Italia se non quattrocento anni più tardi, ai tempi dell’imperatore Adriano).
    Le donne nei tempi più antichi (VIII-VI secolo) recano i capelli lunghi pioventi a coda annodati o intrecciati dietro le spalle: successivamente li lasciano cadere a boccoli sulle spalle e infine (VI-V secolo) li annodano a corona sul capo o li raccolgono in reticelle o cuffie. È notevole la probabile moda di sbiondire le chiome, che parrebbe attestata dalle pitture della tomba dei Leopardi di Tarquinia. Nel IV secolo prevale una pettinatura a riccioli cadenti ai lati del volto.
    Più tardi, in piena età ellenistica, si preferisce il ciuffo annodato sulla nuca, alla greca. Grande importanza nel costume etrusco hanno i gioielli. Alla fine dell’età del bronzo si diffonde largamente per tutto il mondo mediterraneo l’uso delle spille di sicurezza, le fibule, che sono fra gli oggetti più caratteristici delle tombe dell’età del ferro.
    Quelle usate dagli uomini si distinguono da quelle femminili per l’arco spezzato e serpeggiante. Le fibule si confezionano generalmente di bronzo, ma anche di metalli preziosi e riccamente adorne con pezzi di pasta vitrea e d’ambra: alcuni esemplari di età orientalizzante, come la fibula aurea a disco della tomba Regolini-Galassi, sono di proporzioni colossali e sfarzosamente decorate.
    L’uso delle fibule si attenua nel VI secolo e cessa quasi del tutto dopo il V: si conserva soltanto in costumi tradizionali, come quello dei sacerdoti aruspici. Altri tipi di gioielli sono i diademi, gli orecchini, le collane, i braccialetti, gli anelli. Nel periodo orientalizzante lo sfarzo del loro impiego ha un aspetto barbarico: e lo stesso si può dire per l’età ellenistica. Il solo periodo in cui i gioielli furono impiegati dagli Etruschi, e specialmente dalle donne, con parsimoniosa eleganza è la fase aurea del VI-V secolo: ad essa si attribuiscono magnifici esemplari di collane con bulle o ghiande ed orecchini lavorati con la raffinata tecnica della granulazione.

    La medicina
    La perizia degli Etruschi nell’Arte Medica era celebre e gli antichi scrittori Greci e Romani ne parlano soprattutto riguardo alla conoscenza delle proprietà officinali delle piante. Per conoscere il grado di preparazione raggiunto dai “medici” etruschi ci viene in aiuto l’Archeologia: il rinvenimento di numerosi ex voto in terracotta o bronzo raffiguranti anche organi interni del corpo umano denota chiaramente l’estrema abilità anatomica di questo popolo; così come la presenza di numerosi ferri da chirurgo e da dentista nel corredo di alcune tombe.
    Nel Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia è conservato un teschio umano che reca una protesi dentaria in oro, prova dell’abilità dei dentisti. Grande importanza avevano poi le acque termominerali, di cui la Tuscia è ancora oggi ricchissima: gli Etruschi conoscevano bene le proprietà medicamentose di ogni sorgente, sacra e dedicata a divinità diverse, così come i Romani i quali, con la conquista di queste terre, eressero spesso grandi impianti termali alimentati dalle preziose acque di queste sorgenti.

  • Etruschi: la storia

    Estensione territoriale e sviluppo dell’Etruria interna
    In Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat: quasi tutta l’Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi, dice Catone (Servio, ad Aen., XI, 567); e Livio (I, 2; V, 33) insiste sulla potenza, sulla ricchezza, sulla fama degli Etruschi in terra e in mare dalle Alpi allo stretto di Messina. I dati archeologi ci ed epigrafici e le notizie di altre fonti storiche confermano il valore di queste tradizioni, pur limitandone la genericità e consentendo di chiarire con sufficiente approssimazione quali territori italiani furono propriamente abitati e quali sottomessi dagli Etruschi o in qualche modo da loro influenzati politicamente, economicamente o culturalmente.
    Consideriamo anzitutto quella che siamo soliti denominare Etruria propria, compresa tra il Mare Tirreno, il corso del Tevere e il bacino dell’ Amo, cioè l’Etruria storica costituente la Regione VII dell’Italia augustea. Ad essa appartengono le dodici città (dodecapolis) che secondo il canone tradizionale formavano la nazione etrusca. La tradizione antica ha accreditato presso gli storici moderni l’idea che questo territorio fosse la sede originaria della stirpe, dalla quale sarebbero partite le imprese marittime e le conquiste terrestri (verso il Lazio e la Campania e verso le zone transappenniniche). Ma su questa semplice affermazione occorrerà comunque un più approfondito giudizio critico.
    Già trattando delle origini etrusche si è fatto cenno alle ipotesi di una progressiva «etruschizzazione» dell’Etruria storica che, secondo i sostenitori della provenienza trasmarina dei Tirreni, sarebbe logicamente avvenuta partendo dalle coste verso l’interno, con la sottomissione o l’incorporazione di elementi indigeni italici (gli Umbri di Erodoto). A riprova della esistenza di questo originario fondo italico e della persistente eterogeneità etnica di aree comprese entro i confini geografici dell’Etruria si addusse tra l’altro l’abbondante presenza di nomi personali di origine italica nelle città etrusche, per esempio a Caere, ma non soltanto a Caere (l’Etruria settentrionale è particolarmente ricca di tali elementi soprattutto in tempi recenti); si è dato inoltre particolare valore al fenomeno dei Falisci, di lingua originariamente latina, abitanti nell’ansa orientale del Tevere, oltreche al ricordo dei Camertes Umbri dell’Etruria interna e di Umbri Sarsinates per la zona di Perugia.
    Ma il significato di queste constatazioni può rovesciarsi, considerando l’eventualità (che è del resto controllabile in molti casi) di penetrazioni storiche sabine e umbre in Etruria specialmente nelle zone di confine e di processi di latinizzazione come a Caere dopo l’imporsi dell’egemonia romana nel IV secolo a.C. Soltanto nel caso del territorio falisco riconosciamo effettivamente la presenza originaria di una popolazione di lingua non etrusca stabilita sulla riva destra del Tevere, in presumibile continuità con l’area latina estesa a sud oltre il fiume; ed è significativo che in questa zona, come nel Lazio, manca la tipica cultura del ferro villanoviana, che invece è presente, vistosissima, nel non lontano centro di Veio. Il territorio falisco subì certamente un’influenza politica e culturale etrusca determinante, soprattutto in età arcaica, non diversamente da alcune parti del Lazio inclusa la stessa Roma (la ricorrenza di iscrizioni etrusche accanto a quelle falische è prova del bilinguismo delle classi dominanti); ma poi prevalsero pressioni ed infiltrazioni di elementi italici sabini che caratterizzarono fortemente il dialetto locale.
    In ogni caso possiamo considerare assolutamente certo che fin dall’inizio dei tempi storici esiste un mondo etrusco ben definito e riconoscibile la cui estensione coincide sostanzialmente con quella della regione che fu chiamata dagli antichi Etruria, cioè non solo la fascia costiera tirrenica ma anche tutto il retroterra fino alla valle del Tevere e alle pendici dell’ Appennino Tosco-Emiliano. Lo dimostrano da un lato l’impronta unitaria della lingua documentata dalla diffusione delle iscrizioni etrusche fin dal loro primo apparire nel VII secolo; da un altro lato il carattere inconfondibile degli aspetti culturali a partire dal villanoviano e per tutti i loro successivi sviluppi, in piena coincidenza con l’univoca tradizione antica sulla etruscità di questi territori e dei relativi centri. Ogni ipotesi circa l’eventualità di preesistenti differenze e sovrapposizioni o commistioni etniche andrà semmai respinta più lontano nella preistoria.
    Ogni progresso dalle coste verso l’interno si spiega logicamente, non già con l’idea di una penetrazione etnica, ma con le concrete ragioni storiche di una penetrazione d’impulsi economici e culturali provenienti dai centri marittimi più direttamente esposti a sollecitazioni esterne. Seppure con minore concentrazione ed intensità gl’insediamenti interni partecipano in pieno e vigorosamente allo sviluppo dell’Etruria arcaica.
    Esistono, ben s’intende, condizioni ambientali diverse da quelle delle zone litoranee. Mancano i fondamentali e primordiali presupposti di un accelerato incremento basato sui contatti e sui commerci marittimi, oltrechè sullo sfruttamento delle miniere prevalentemente concentrate lungo la linea costiera, e sulla potenzialità, di ambedue questi fattori combinati.
    Si offrono in compenso estese, profonde e variate terre vallive e collinari ricche (allora) di boschi o idonee al pascolo e specialmente all’agricoltura, costituente la base principale dell’economia; mentre le comunicazioni interne dovevano essere favorite dalla navigazione fluviale e lacustre e si aprivano vie di contatti e di scambi, lungo ed oltre il corso del Tevere e dell’Amo ed attraverso la dorsale appenninica, con le regioni centrali della penisola e con il settentrione fino al versante adriatico. A questa configurazione del paese con le sue risorse sembrano potersi in qualche modo ricollegare i caratteri delle forme associative e delle strutture socio-economiche e in ultima analisi i lineamenti della storia più antica dell’Etruria interna.
    Di fatto noi vediamo apparire molto diffuso un sistema di piccole aggregazioni sparse nel territorio o più intensamente addensate in zone presumibilmente favorevoli a coltivazioni granarie od ortofrutticole o a vigneti (quando fu introdotta e si diffuse la vite) o al piccolo allevamento: tipici gli esempi attorno al lago di Bolsena, lungo la valle tiberina, nei territori di Chiusi, di Volterra, ecc.; si può parlare di persistenze della tradizione dei villaggi preistorici, ma anche di fattori economici e sociali che possono aver determinato lo sviluppo di insediamenti rurali ed un incremento demografico decentrato.
    L ’emergere di ceti dominanti, cui si deve ovviamente ogni impulso innovatore, poggia soprattutto sul possesso terriero: ne cogliamo un riflesso nei grandi sepolcri a tumulo con ricchi corredi funebri più o meno isolati nelle campagne (presso Cortona, nel Chianti, nella valle dell’ Amo), contemporanei e simili a quelli che appaiono invece accorpati nelle grandi necropoli urbane di Caere, di Tarquinia, di Vetulonia, di Populonia.
    C’è poi da considerare la frequenza di centri di maggiore consistenza aventi carattere di «borghi» generalmente in altura e muniti (in latino si sarebbero detti oppida), per i quali si può pensare a comunità autonome in qualche modo affini ai piccoli popu/i ricordati dalla tradizione per il Lazio protostorico: ne conosciamo esempi rilevanti, anche per le loro testimonianze archeologiche, soprattutto nell’Etruria meridionale e centrale, come San Giovenale, San Giuliano, Blera, Norchia, Tuscania, Acquarossa, Bisenzio, Castro, Poggiobuco, Pitigliano, Satumia, ecc. Alcuni di questi abitati, come quelli molto simili del vicino territorio falisco, ad esempio Narce, risalgono a nuclei dell’età del bronzo.
    Alla loro vitalità arcaica sembra aver fatto seguito dopo il VI secolo una decadenza talvolta fino alla sparizione (è il caso di Acquarossa presso Ferento) per il mutare delle condizioni economiche e politiche determinato dalla crescita delle grandi città, sia litoranee sia interne, da un più marcato imporsi del loro dominio territoriale, da presumibili fenomeni di inurbamento, di accentrazione fondiaria, di insicurezza delle campagne a seguito di eventi bellici, minacce esterne, ecc.; ma alcuni dei vecchi centri di media grandezza avranno all’opposto rilevanti sviluppi in età avanzata (Sutri, Tuscania, Sovana).
    Un caso particolare rivelato dagli scavi recenti è quello dello splendido complesso architettonico-urbanistico di Poggio Civitate presso Murlo nel territorio di Siena che dà l’impressione di una fondazione principesca, santuario e forse anche residenza, fiorita fra il VII e VI secolo e poi praticamente abbandonata, richiamando in certo senso a quel sistema di dominii gentilizi che parrebbe altrimenti intravvedersi, soprattutto nel nord, dai grandi sepolcri monumentali extraurbani.
    Ma l’Etruria interna ha anch’essa le sue città, seppure meno numerose e addensate di quelle della fascia litoranea. La nascita e lo sviluppo di alcune di esse, meno distanti dal mare come Veio e a nord Volterra, o più arretrate come Volsinii (Orvieto) e Chiusi, avvengono contemporaneamente ai processi formatori delle città costiere e sostanzialmente con le stesse caratteristiche. Per altri centri che avranno pari dignità in avanzata età storica come Perugia, Cortona, Arezzo si può discutere, alla luce dei dati archeologici finora conosciuti, se il vero e proprio accentramento urbano si sia attuato più lentamente, per il perdurare di forti nuclei abitativi nei possedimenti aristocratici delle campagne; ma anche se l’origine può essere stata diversa queste città esistevano già certamente in età arcaica.
    Ciò che appare soprattutto interessante è il fatto che le città dell’Etruria interna si trovano disposte in qualche modo ad arco o a corona lungo una fascia approssimativamente corrispondente ai confini geografici dell’Etruria: da sud a nord, a breve distanza dalla riva destra del Tevere, Veio, Falerii (seppure di origini falisce), Volsinii (nella zona di confluenza del Paglia con il Tevere), Perugia; al margine dei monti confinanti con l’Umbria Cortona; lungo l’Arno Arezzo e Fiesole; ne si escludono del tutto da questo sistema, benchè meno periferiche, Chiusi e Volterra. Senza dubbio esiste un generale rapporto con le grandi vie fluviali.
    Ma non si può sfuggire all’impressione che nell’ubicazione delle città si configuri anche una sorta di delimitazione protettiva che in certo senso conferma l’idea di un’antica concezione unitaria del territorio etrusco.
    Per altro verso proprio la marginalità di questi centri deve aver offerto possibilità di contatti e di scambi con le confinanti regioni esterne, oltreche di aperture a fenomeni espansivi: quali s’intravvedono per Veio (e per il territorio falisco) con il Lazio e la Sabina; per Volsinii e Perugia con l’Umbria; per le città più settentrionali in genere con i paesi d’oltre Appennino.

    Una vera e propria ricostruzione di eventi storici, di politica interna ed esterna, nell’età più antica è impossibile come per l’Etruria costiera. È immaginabile uno sviluppo parallelo e notevolmente differenziato dalle singole zone per l’ampiezza del territorio e per la diversità delle situazioni e delle gravitazioni come si è già accennato.
    Di primitive monarchie, sorte dai ceti egemonici o come prevalente affermazione di piccoli potentati locali, possediamo soltanto echi leggendari (e naturalmente d’incerta autenticità e cronologia): così per Veio si ricordavano un re Morrius o Mamorrius discendente di Halesus fondatore di Palerii (Servio, ad Aen. VIII, 285) ed un re Propertius connesso con le origini della città di Capena (Catone in Servio, ad Aen. VII, 697), ed inoltre un re Velo Vel Vibe vissuto ai tempi di Amulio di Albalonga, cioè riferibile all’VIII secolo a.C. secondo la cronologia tradizionale; più concretamente le iscrizioni arcaiche ci danno nomi di stirpi gentilizie di alto rango di cui una, i Tulumne, assurgerà al potere regio, se non prima, nel V secolo.
    È difficile dire quali rapporti, di rivalità, di alleanza, ecc., vi siano stati fra i centri dell’Etruria interna e tra questi e i centri costieri: una immagine piuttosto attendibile di queste situazioni nella prima metà del VI secolo potrebbe riflettersi nel fregio «storico» dipinto della Tomba Francois di Vulci (posteriore di oltre due secoli agli avvenimenti, ma fondato, come crediamo, su buone tradizioni), che mostra figure e nomi di principi o capi di alcune città, come Laris Papathna di Volsinii (Velznax) e Pesna Arcmsna forse di Sovana (Sveamax), collegati a quanto sembra con Cneve Tarchunie, cioè un Tarquinio di Roma (Rumax), contro condottieri e avventurieri provenienti da Vulci.
    Ancora più difficile è ipotizzare se, o fino a che punto, già in età arcaica si siano venute determinando quelle tradizioni o istituzioni di colleganza stabile, religiosa e in parte politica, tra le «dodici città» dell’Etruria, che in età più recente vedremo incentrata intorno al santuario del dio Voltumna, il Fanum Voltumnae, a Volsinii o presso Volsinii, e che porterà al prestigio e alla fama di questa città come «capitale dell’Etruria» Etruriae caput (Valerio Massimo, IX, 1).
    Ma il momento del grande sviluppo, socialmente rivoluzionario, di Volsinii, sembra doversi collocare – alla luce delle testimonianze archeologiche ed epigrafiche delle necropoli di Orvieto – piuttosto negli ultimi decenni del Vl secolo come si avrà occasione di sottolineare più avanti, Certamente invece molto antica, e straordinaria, è la fioritura economico-culturale, e di conseguenza presumibilmente la potenza, di Chiusi, situata nel cuore dell’Etruria centro-settentrionale, in una posizione eccezionalmente favorevole di accessi e di transiti al centro di densissimi abitati, con irradiazioni verso l’alta valle del Tevere e Perugia attraverso il Lago Trasimeno e le vie terrestri, e da un altro lato verso il Senese (si pensi al già ricordato «santuario-palazzo» di Murlo, dove si manifestano influenze artistiche chiusine); cosicchè non deve far meraviglia che la tradizione storica registri sul finire del VI secolo una espansione politico-militare di Chiusi in piena area costiera tirrenica, con la spedizione del re Porsenna contro Roma, spiegabile soltanto immaginando un’egemonia della monarchia chiusina progressivamente acquisita già nei decenni precedenti su gran parte dell’Etruria interna.

    L’espansione e l’apogeo degli Etruschi in Italia
    A questo punto, considerata l’Etruria propria, converrà affrontare il quadro di quella più vasta «Etruria» che oltre i confini geografici del Tevere e dell’ Appennino fu creata dall’espansione non soltanto economica e politica, ma anche in parte notevole stanziale e demografica degli Etruschi in altri territori dell’ltalia antica.
    Espansione, va detto subito, che anche e soprattutto alla luce delle scoperte e delle valutazioni critiche più recenti deve ritenersi assai più precoce di quanto si credesse in passato, diremmo addirittura contestuale al primo manifestarsi della civiltà etrusca, comunque in atto già per diversi aspetti avvenuta all’inizio dei tempi storici: se, come dobbiamo presumere ed abbiamo già fondatamente supposto, la presenza del villanoviano a sud nel Salernitano e a nord in alcune zone dell’Emilia e della Romagna significa presenza etrusca (o, se si preferisce volendo giocare sui termini, protoetrusca).
    Ma va anche detto subito e fermamente che non sembra lecito rinunciare al concetto di espansione, cioè di stanziamenti secondari o conquiste, per ipotizzare vaghe e confuse insorgenze etniche in luoghi lontani; e ciò per due ragioni: 1) in primo luogo per il rispetto dovuto alla tradizione storica antica che esplicitamente e concordemente parla di fondazioni o colonizzazioni etrusche in Campania e nell’ltalia settentrionale; 2) inoltre per la reale differenza che si percepisce, sulla base dei dati linguistici, archeologici e storiografici, fra il territorio compattamente etrusco dell’Etruria propria e le regioni esterne nelle quali convivono altre stirpi, lingue e tradizioni e nelle quali l’etruschizzazione, anche se intensa, appare comunque limitata nello spazio oltre che nel tempo.
    Ciò premesso, sempre sul piano generale non può sfuggire alla nostra attenzione il fatto che la espansione etrusca, lungi dal manifestarsi concentricamente attorno all’area originaria, appare orientata secondo un lungo asse longitudinale che scende a sud seguendo il versante tirrenico in direzione della Campania e sale a nord attraverso l’Appennino Tosco-Emiliano verso la pianura padana, lasciando praticamente intatto e non superato il confine orientale del Tevere che separa l’Etruria dall’Umbria.
    La spiegazione dell’appariscente fenomeno potrà ricercarsi, se non andiamo errati, proprio nelle condizioni dei tempi remoti ai quali risalgono le prime spinte espansive, in parte collegabili con le attività marittime, lungo il Tirreno, in parte identificabili con fattori d’attrazione delle piaghe transappenniniche, mentre meno favorevole doveva apparire una penetrazione verso l’interno della penisola anche per la forte presenza e pressione di quelle genti italiche che sono storicamente conosciute come Sabini e Umbri.

    Verso il Sud
    Il dominio etrusco in Campania, la cui storicità fu rivendicata da una classica opera di J. Beloch contro precedenti scetticismi, è largamente comprovato dalle fonti letterarie antiche, dai documenti epigrafici e dalle testimonianze archeologiche. Gli scrittori greci e romani parlano della fondazione di una dodecapoli (Strabone, V, 4,3) evidentemente sul modello di quella dell’Etruria propria, e più specificamente dell’origine o dell’occupazione etrusca di Capua, considerata la capitale, NoIa, Nocera, Pompei e altri centri campanr.
    Le iscrizioni etrusche sono piuttosto abbondanti, e tra queste primeggia la tegola di Capua, che è il più lungo testo in lingua etrusca che possediamo dopo il manoscritto su tela della Mummia di Zagabria. Il materiale archeologico e le opere figurate presentano più o meno spiccate, a volte strettissime, analogie con gli aspetti e le sequenze culturali dell’Etruria fino al V secolo. Occorrerà tuttavia, per dare una più sicura e precisa dimensione storica a questo quadro generale, cercare di definirne per quanto possibile i termini geografici e cronologici.
    Va comunque ricordato che la presenza degli Etruschi in Campania costituisce soltanto uno dei fattori che concorrono a definire la fisionomia etnica, politica e culturale, estremamente complessa, di questa regione la cui funzione fu d’importanza primaria – e per certi aspetti ed in alcuni momenti determinante – nella storia dell’ltalia antica.
    Gli altri fattori sono le popolazioni indigene, variamente denominate Ausoni, Opici, Osci, Sanniti, Campani; e la colonizzazione greca. La tradizione antica fu propensa a schematizzare questa pluralità etnica nel senso di una successione di invasioni ed occupazioni: ciò che in parte, ma solo in parte, corrisponde a reali avvicendamenti storici.
    Più concreta appare invece la prospettiva geografica, che delimita la presenza greca alla fascia costiera del golfo di Napoli (fondazioni degli Eubei a Pithecusa, cioè lschia, e a Cuma, con estensione a Partenope o Paleopoli, donde poi Napoli; forse Rodii; più tardi Samii a Dicearchia cioè Pozzuoli; mentre altri attacchi coloniali greci s’incontrano soltanto a sud del fiume Sele); colloca l’espansione etrusca fra il golfo di Salerno e il retroterra campano, la «mesògaia», fino al fiume Volturno; riconosce alle genti indigene il carattere di generale sottofondo etnico e perduranti stanziamenti marginali specialmente a nord del Volturno; ambienta i Sanniti sull’arco montano con processo verso la pianura. È molto probabile che le origini dell’etruschizzazione della Campania siano da collocare nel quadro delle più antiche attività marittime degli Etruschi nel Tirreno, di cui si è già discorso.
    L’apparizione di un tipo di cultura villanoviana a Pontecagnano presso Salerno nel IX secolo con qualche riflesso verso l’interno (Valle del Tanagro), come elemento che ha tutto l’aspetto di essere intrusivo rispetto alle dominanti manifestazioni culturali locali di inumatori, e le successive sequenze in parte analoghe e parallele a quelle dell’Etruria propria, includenti, ciò che è più importante, la presenza di iscrizioni etrusche arcaiche nella stessa Pontecagnano e nell’area della penisola sorrentina fino a Castellammaredi Stabia e a Pompei, coincide piuttosto significativamente con le notizie delle fonti antiche circa il possesso etrusco del litorale salernitano, cioè del cosiddetto «agro picentino», fino alla foce del Sele e alla esistenza della colonia etrusca di Marcina.
    Il problema che si pone è quello del rapporto, cronologico e storico, tra questi remoti insediamenti costieri e la più vasta area del dominio territoriale etrusco interno tra il Volturno e la valle del Sarno, cioè la vera e propria Campania etrusca avente come centro principale Capua e tutta una serie di città caratterizzate dalla presenza di iscrizioni etrusche e di materiali propri di una cultura materiale di tipo etrusco (benchè di regola pertinenti ad una fase cronologica piuttosto avanzata, tra la fine del VI e la prima metà del V secolo), come Suessula, Acerra, Nola, Pompei, Nocera: queste due ultime costituenti in certo modo una cerniera con l’ area sorrentino-salernitana.
    L’ipotesi di una netta priorità della colonizzazione costiera pel golfo di Salerno sul dominio etrusco della mesògaia campana che ne sarebbe stata quasi una tardiva conseguenza va attenuata o corretta nel senso di una possibile e probabile pluralità di antiche vie di approccio dall’Etruria propria alla Campania, e soprattutto del maturare di condizioni storiche diverse attraverso l’età arcaica.
    La stessa discussione sul problema dell’interpretazione dei dati tradizionali circa la cronologia della fondazione etrusca di Capua appare di secondaria importanza: i recenti scavi hanno confermato la progressiva formazione di un grosso centro fra il IX e I’VIII secolo, con caratteri indigeni ma con sensibili richiami alI’ area culturale etrusca, falisca e laziale, e con una progressiva affermazione di influenze etrusche soprattutto nel VI secolo; prove sicure del carattere fondamentale etrusco della città si avranno tuttavia soltanto per gli inizi del V secolo.
    Si può presumere che alla primordiale colonizzazione, o protocolonizzazione, del litorale salernitano abbiano fatto riscontro penetrazioni per via terrestre (valle del Sacco e del Liri?) e per via di mare (foci del Liri e del Volturno?) verso l’ubertosa e appetibile pianura della Terra di Lavoro; e che la precoce e salda installazione coloniale greca nel golfo di Napoli (già almeno dalla metà dell’VIII secolo), chiudendo questa privilegiata via d’accesso portuosa, abbia favorito il consolidarsi di un dominio etrusco interno, a sua volta serrato ad arco attorno alla fascia d’influenza di Cuma e tendente a sfociare al mare più a sud alla foce del Sarno (Pompei) e nel golfo di Salerno in congiunzione con i vecchi scali del territorio picentino.
    Si disegnerebbero così, con una certa verosimiglianza, le grandi linee interpretative della storia della etruschizzazione della Campania e della sua dialettica di contrasto con la colonizzazione greca, ferma restando anche l’esistenza del problema dei rapporti con le popolazioni locali, che possiamo immaginare di coesistenza e di sovrapposizione nelle zone di più intensa occupazione etrusca, e di vicinato, scambi e influenze nelle zone marginali specialmente a nord del Volturno, come nel retroterra picentino, ma anche già forse di minacciosa irrequietezza lungo l’arco montano abitato dai Sanniti dal quale proverranno gl’impulsi e i movimenti destinati a segnare nel futuro la sorte dell’Etruria campana e dell’intera Campania.
    Gli sviluppi di questa storia nel V secolo appartengono tuttavia ad una fase cronologica più avanzata che sarà oggetto di trattazione successiva. La presenza e la dominazione degli Etruschi in Campania coinvolgono naturalmente il problema dell’espansione etrusca nell’area intermedia fra l’Etruria e la Campania, cioè nel Lazio.
    Una fase di prevalenza etrusca nella storia del Lazio è esplicitamente affermata dalla tradizione antica, con particolare riguardo ai racconti relativi alla dinastia etrusca dei Tarquini regnante in Roma tra la fine del VII e gli ultimi decenni del VI secolo; confermata largamente dalle scoperte epigrafiche e in generale dalle testimonianze archeologiche e artistiche; universalmente riconosciuta dagli studiosi moderni.
    Ma va subito aggiunto che, rispetto alla Campania, esiste una differenza sostanziale. Nonostante la maggiore vicinanza geografica, anzi la contiguità territoriale con l’Etruria, che manca alla Campania, non si può parlare per il Lazio di un dominio etrusco definito, unitario e stabile, tanto meno di una colonizzazione demografica, quali sono accertabili per la Campania come si è visto; si riconosceranno semmai sovranità parziali, immigrazioni di capi, influenze istituzionali e culturali, tali da giustificare l’impressione di una sorta di «protettorato» che ha la sua ragione storica, evidentissima, nell’esigenza di assicurare alle città etrusche, considerate singolarmente e nel loro insieme, il controllo delle vie di transito terrestri e marittime (cioè di appoggio al cabotaggio) verso la Campania.
    Ma il fondo della popolazione con la sua lingua, le sue tradizioni e le sue strutture resta non etrusco, cioè latino: ciò che senza dubbio dipende dal fatto che l’espansione etrusca a sud del Tevere, quando avviene, trova un mondo di società protostoriche già da tempo evolute, organizzate, sulla via dell’urbanizzazione e presumibilmente coscienti di una loro identità «nazionale», quale è quello che ci si rivela attraverso le scoperte archeologiche soprattutto recenti e recentissime, con le sue fasi di cultura «protolaziale» o «albana» dei crematori della fine dell’età del bronzo e del principio dell’età del ferro (X-IX secolo) e di cultura dei fiorenti centri di inumatori dell’VIII-VII secolo tipicamente esemplificata dalla grande necropoli di Decima.
    La penetrazione degli Etruschi non sembra anteriore al VII secolo. Essa appare preceduta da una serie di scambi tra i territori dell’una e dell’altra sponda del Tevere, che tuttavia non alterano la sostanziale diversità della loro fisionomia culturale: basti pensare che gli aspetti caratteristici della civiltà villanoviana, che pure raggiungono le lontane coste del Salernitano, sono ignoti al Lazio (come del resto al territorio falisco pur situato sulla sponda etrusca). Viceversa è notevole la diffusione nel villanoviano dell’urna cineraria in forma di capanna che ha la sua origine e il suo epicentro nell’area laziale. I rapporti culturali piuttosto stretti esistenti tra il Lazio e i territori di Capena e di Falerii fra il IX e il VII secolo si giustificano con l’identità del fondo etnico-linguistico.
    Ma si può parlare anche di una più vasta rete di connessioni che include Veio, il territorio capenate e falisco e Roma. D’ altra parte su questa zona medio-tiberina deve aver pesato, in questo stesso periodo, anche un altro elemento di indubbia rilevanza storica, e cioè la pressione degl’italici Sabini discesi dall’interno della penisola lungo la valle del Tevere fino a raggiungere Roma e ad essere implicati nelle sue stesse origini.
    Una concreta presenza etrusca nel Lazio è attestata dalle tombe principesche di Palestrina, l’antica Praeneste (tombe Castellani, Bernardini, Barberini) databili intorno al secondo quarto del VII secolo, caratterizzate da fasto si corredi orientalizzanti per molti aspetti analoghi a quelli di Caere e dalla presenza di un’iscrizione etrusca; inoltre dalla tomba a tumulo pure orientalizzante scoperta a Lavinio, la città sacra costiera a sud di Roma, sotto un più tardo sacrario ricordato dagli antichi come «tomba di Enea»; nonche dai sepolcri e dai depositi votivi di Satricum includenti una iscrizione etrusca della fine del VII secolo.
    etrusca dei Tarquini negli ultimi decenni del VII secolo, con la «chiamata al potere» di Tarquinio Prisco in sostituzione del re sabino Anco Marcio; ne per quanto sappiamo esistono indizi archeologici a favore di una presenza etrusca in Roma prima di quel momento. Tutti questi dati esigono un tentativo d’interpretazione storica. È possibile che la richiesta di sicurezza dei confini delle città etrusche meridionali, Caere e Veio, e di aperture commerciali e politiche verso il sud abbiano imposto, nel momento di massima fioritura della potenza tirrenica, la creazione di punti di controllo e l’imposizione di signorie etrusche nei centri locali, sia all’interno in direzione della cruciale via della valle del Sacco (come è presumibile per Palestrina), sia lungo la costa fino a quel territorio dei Rutuli (e poi dei Volsci) che Catone ricordava sotto il dominio etrusco.
    Il «ritardo» di Roma – pur divisa dall’Etruria solo da un guado, e dunque naturalmente esposta per prima ad un ingresso degli Etruschi nel Lazio – costituisce un problema la cui spiegazione potrà ricercarsi, oltre che nella stessa grandezza e potenza autonoma di un centro in rapido sviluppo (tanto che già nel VII secolo, stando alla tradizione, era stato in grado di distruggere Albalonga, cioè di imporre il suo predominio sulle antichissime comunità albane nel cuore del Lazio), anche e soprattutto nell’ostacolo rappresentato dai Sabini allora presenti e presumibilmente predominanti a livello di direzione politica in Roma stessa (contro i Sabini appunto si manifesterà poi, sempre secondo la tradizione, la principale attività militare di Tarquinio Prisco assurto al potere regio).
    Alla tradizione annalistica raccolta dalla grande storiografia romana (specialmente Livio e Dionisio D’Alicarnasso) circa gli eventi dinastici e socio-politici di Roma dalla fine del VII e per tutto il VI secolo non possiamo più negare oggi, sia pure con ogni riserva e prudenza critica, una sostanziale veridicità storica. Combinata con altre versioni collaterali delle fonti antiche e parzialmente confermata dai dati epigrafici e archeologi ci (cioè topografico-monumentali e artistici), essa ci offre un quadro sufficientemente perspicuo della presenza etrusca a Roma e nel Lazio.
    Prescindendo dai particolari aneddotici e dall’autenticità individuale dei personaggi – di cui tuttavia non è da diffidare a priori (si pensi ad esempio alla spiccata verosimiglianza di una figura come quella della regina Tanaquil, con il suo prenome femminile etrusco Thanachvil di larga diffusione nella epigrafia arcaica, nata da nobile famiglia tarquiniese ed esperta nell’interpretazione dei prodigi celesti secondo la scienza degli Etruschi: Livio, I, 34) -, noi possiamo riconoscere l’esistenza di una fase iniziale di affermazione e di consolidamento della sovranità etrusca in Roma, e di etruschizzazione di Roma, collocabile tra gli ultimi decenni del VII e i primi decenni del VI secolo e sia pure convenzionalmente definibile come «età di Tarquinio Prisco».
    Dobbiamo ritenere che allora l’aggregato romano abbia assunto il suo volto definitivo di città unitaria ed organizzata, con una cinta difensiva, la creazione di uno spazio pubblico (il foro) distinto dalle abitazioni private, l’attrezzatura dell’arce del Campidoglio con l’inizio della costruzione del tempio di Giove Capitolino, secondo esplicite notizie delle fonti letterarie; ed effettivamente le scoperte archeologiche sembrano far risalire a questo periodo le prime stabili costruzioni architettoniche civili e religiose con le loro decorazioni di terracotta, soprattutto alla Regia (presumibile santuario-dimora ufficiale dei re) e al Comizio, sopra tracce di tombe e capanne più antiche.
    Sul piano politico e sociale si presumeranno l’avvento e la supremazia di una classe dirigente etrusca, che possiamo pensare installata di preferenza con le proprie dimore ai piedi del Campidoglio tra la valle del Foro e il guado tiberino, in quello che sarà il futuro Vicus Tuscus: ne abbiamo testimonianze dalle iscrizioni etrusche, di cui due provenienti dall’adiacente area sacra di S. Omobono (una specialmente, incisa su una placchetta d’avorio in figura di leoncino, menziona un Araz Silqetenas Spurianas di possibile origine tarquiniese come lo stesso re Tarquinio secondo la tradizione); il carattere prevalentemente aristocratico della struttura dei poteri della città al principio del VI secolo potrebbe trovare una conferma indiretta anche nell’iscrizione dedicatoria latina del cosiddetto vaso di Duenos, se duenos è termine generico indicante una qualità sociale del donante (= bonus, cioè «nobile»).
    È importante notare che le iscrizioni in lingua etrusca sembrano essere tutte di carattere privato, mentre il testo del famoso cippo del Lapis Niger nel Foro Romano, ormai con sicurezza databile in questo periodo e riferibile a prescrizioni di cerimonie sacre del re nel Comizio, è scritto in latino e pertanto documenta, nonostante la sovranità etrusca, l’uso del latino come lingua ufficiale dello stato.
    Gli eventi e i personaggi del regno di Servio Tullio succeduto a Tarquinio Prisco, nei decenni centrali del VI secolo, ci appaiono in verità ricordati dalla storiografia romana con particolari drammatici, in parte fiabeschi e talvolta persino contraddittori (origini oscure, comunque non etrusche, del protagonista; irregolarità formali della sua assunzione al potere; riforme e popolarità, per cui pote essere più tardi esaltato come fondatore delle libertà repubblicane e persino ispiratore della costituzione della repubblica: esplicitamente Livio, I, 60; imparentamento e rivalità con la famiglia dei Tarquini, di perdurante potenza, culminanti nella sanguinosa «presa di potere» di Tarquinio il Superbo), tali da far pensare ad un racconto in qualche modo sistematizzato che nasconda situazioni, avvenimenti e processi istituzionali assai più complessi.
    Il riferimento dell’imperatore Claudio, nel suo discorso al Senato registrato dalle Tavole di Lione (C.I.L. XIII, 1668), a una tradizione etrusca che identificava Servio Tullio con Mastarna compagno di gesta di Caelius Vibenna eponimo del Monte Celio apre il discorso sulla fondata possibilità di inserire in questo periodo – che potremmo anche qui definire convenzional-mente come «età serviana» – tutti gli avvenimenti e personaggi connessi con il «ciclo» semileggendario delle avventure dei fratelli Celio (o Cele) e Aulo Vibenna (nella forma etrusca Caile e Avle Vipina) e di Mastarna o Maxtarna (etrusco Macstrna), citate in numerosi e vari accenni delle fonti letterarie e raffigurate nelle pitture della Tomba Francois di Vulci oltre che in qualche altrò monumento minore. Si tratta di un’ azione militare o di un complesso di azioni militari, presumibilmente tendenti al formarsi di una grossa «signoria» nel cuore dell’Etruria meridionale e su Roma stessa, condotta dal «nobile duce» Celio Vibenna con il fratello Aulo, ambedue originari di Vulci (Festo, Arnobio), e con il «fedelissimo compagno» (Claudio) Mastarna, oltre che con altri camerati di varia estrazione, un Larth Ulthe, un Marce Camitlna e un Rasce (l’«etrusco»?) forse di condizione servile (Tomba Francois).
    È dubbio se questa sconvolgente iniziativa sia partita da un tentativo ufficiale di affermazione egemonica della città di Vulci, che comunque più tardi sembra essersene appropriata la gloria come provano le pitture della Tomba Francois; in ogni caso s’incontrò l’opposizione di altre città tra cui Volsinii e Roma, i cui capi coalizzati (Larth Papathna di Volsinii, Pesna Arcmsna di Sovana? , Cneve Tarchunie di Roma), dopo aver catturato lo stesso duce nemico Celio Vibenna – liberato dall’amico Mastarna -, furono a loro volta sconfitti e a quanto sembra massacrati (Tomba Francois).
    Ne conseguì la mano libera su Roma, con il presumibile abbattimento del potere dei Tarquini che forse in origine avevano favorito l’azione dei Vibenna (Tacito, Festo), l’installazione di questi ultimi al margine della città (sul Celio?), infine con la morte di Celio il probabile passaggio del dominio di Roma ad Aulo – il cui cranio trovato sul Campidoglio farebbe parte di una storiella pseudoetimologica tendente a spiegare il nome Capitolium come «caput Oli regis» – e quindi a Mastarna, cioè, secondo le fonti di Claudio, a Servio Tullio.
    L ‘insieme di questi fatti potrebbe collocarsi tra la fine del regno di Tarquinio Prisco e l’inizio del «regno» di Servio Tullio, diremmo attorno ai tempi di passaggio dal primo al secondo venticinquennio del VI secolo (Tacito, Ann.. IV, 65 accenna a Tarquinio Prisco, ma da storico prudente avverte che per i rapporti con i Vibenna potrebbe essersi trattato anche di «un qualsiasi altro re»: ed effettivamente nella Tomba Francois appare un Cneve Tarchunie, un Gneo Tarquinio, del tutto ignoto alla tradizione storiografica canonica).
    La cronologia proposta, e diciamo pure la storicità dell’intera saga dei Vibenna e di Mastarna, trova una luminosa concreta conferma archeologica nella scoperta a Veio dell’iscrizione dedicatoria di un Avile Vipiiennas, recante in forma arcaica l’identica formula onomastica di Aulo Vibenna e databile nella prima metà del VI secolo.
    Abbiamo dunque ragioni per credere che in questo periodo i legami fra Roma e l’Etruriasiano stati rafforzati dalla presenza di elementi e di poteri diversi dalla dinastia dei Tarquini. La questione diventa più complessa per quanto riguarda l’interpretazione storica del personaggio Mastarna che, pur nel suo stretto vincolo con i Vibenna, non ci appare necessariamente di origine etrusca: il suo nome singolo ha tutta l’apparenza di un appellativo qualificante o di un titolo, per di più chiaramente riferibile alla parola latina mogister con l’aggiunta del suffisso aggettivale etrusco -no.
    Ciò ha indotto alcuni studiosi moderni a supporre l’esistenza a Roma già in età regia della funzione del mogister populi che all’inizio della repubblica avrebbe sostituito il potere del re come magistratura suprema unica di dittatura ordinaria, collegata al concetto di populus quale totalità dei cit- tadini, in un quadro tendente a trasformare lo stato in una comunità egualitaria contro la supremazia delle vecchie oligarchie gentilizie.
    Il «re» Servio Tullio, al quale la tradizione attribuiva la riforma centuriata, potrebbe essere stato il promotore di questo rinnovamento ed egli stesso esponente dell’affermazione delle nuove classi sociali in qualità di mogister populi (donde l’identificazione con Mastarna) in contrasto con l’ordine preesistente rappresentato dalla dinastia dei Tarquini; la sua azione politica, dopo la parentesi della reazione tirannica di Tarquinio il Superbo negli ultimi decenni del VI secolo, sarebbe stata destinata a trionfare con l’inizio della repubblica.

    Verso il Nord
    Passando a considerare l’ opposta direttiva dell’ espansione terrestre degli Etruschi, cioè l’ Italia settentrionale, dobbiamo dire che anche qui esistono zone per le quali si può parlare, come per la Campania, di una occupazione stanziale, cioè di un dominio di popolamento, che s’incentra essenzialmente nell’attuale Emilia- Romagna a contatto con l’Etruria propria attraverso i passi del crinale appenninico. Le fonti antiche alludono insistentemente ad una colonizzazione e del pari alla fondazione di dodici città, di riflesso delle dodici città dell’Etruria propria.
    Si aggiunga il ricordo di un’azione colonizzatrice particolarmente antica, adombrata nella leggenda che l’attribuiva principalmente a Tarconte, l’eroe delle origini eponimo e fondatore di Tarquinia (versioni citate negli Scholia Vernonesia e in Servio, ad Aen., X, 200, specialmente a proposito delle origini di Mantova). Una derivazione ravvicinata dalle zone dell’Etruria settentrionale interna si percepisce d’altra parte nelle tradizioni relative alla fondazione di Felsina (Bologna) e di Mantova da parte di Ocnus (altrimenti Aunus, forse da Aucnus) figlio o fratello di Aulestes, a sua volta fondatore di Perugia.
    Emiliano è larghissimamente testimoniata dagli scrittori classici, storici e geografici, e confermata dall’archeologia con estrema dovizia di dati incontestabili, inclusi i documenti epigrafici.
    Si tratta ora di precisare, nei limiti del possibile, i tempi, i luoghi, i caratteri e gli sviluppi di questa occupazione.
    Nella più diffusa tradizione degli studi moderni la conquista etrusca dei territori della pianura padana, cioè di quella che suol definirsi appunto «Etruria padana», avrebbe avuto luogo con notevole ritardo rispetto alla nascita dell’Etruria propria, e cioè non prima della fine del VI secolo, quando a Bologna, a Marzabotto e a Spina – i centri archeologicamente più significativi dell’etruschismo nordico – appaiono i primi segni di una civiltà d’inconfondibile impronta etrusca e con iscrizioni etrusche.
    Questa tesi fu proposta dai primi scavatori delle necropoli bolognesi e in particolare sostenuta da E. Brizio in rapporto alla generale teoria della provenienza degli Etruschi dall’oriente e della loro sovrapposizione agli Umbri identificati con i «Villanoviani», tenuto conto del perdurare della cultura villanoviana a Bologna fino all’inoltrato VI secolo e dell’apparente distacco topografico fra i sepolcreti appartenenti a questa cultura e le tombe di tipo «etrusco».
    Ma questa interpretazione è già stata oggetto in passato di più o meno cauti dubbi, ed ora crediamo di poter affermare con sufficiente fondatezza che l’apparizione, tutto sommato localmente improvvisa, del villanoviano nel IX secolo debba considerarsi la manifestazione esteriore di un iniziale passaggio di elementi etruschi dalla Toscana oltre l’Appennino, e ciò non soltanto per le valutazioni precedentemente espresse sul significato etnico della diffusione villanoviana in generale, ma anche proprio per l’indizio, non da sottovalutare, di quelle tradizioni che associavano in qualche modo la colonizzazione padana con i tempi delle origini della nazione etrusca.
    Che a Bologna in età villanoviana già si parlasse etrusco sembrerebbe del resto dimostrato dalla recente individuazione di una iscrizione etrusca incisa sopra un vaso della fase tardo-villanoviano di Arnoaldi, databile intorno al 600 a.C., cioè assai prima della supposto «conquista etrusca» della fine del VI secolo. Un altro motivo che collega ab antiquo il villanoviano transappenninico alla grande matrice dell’Etruria tirrenica si coglie nella sua stessa localizzazione geografica, che è rappresentata da due zone limitate immediatamente aderenti all’Appennino: la prima in Emilia, a Bologna e nei suoi immediati dintorni, in corrispondenza dello sbocco delle valli dei fiumi Reno e Savena, cioè dei passi Piastre-Collina e Futa; la seconda in Romagna, a Verucchio, San Marino ed altre località minori, in corrispondenza e a guardia della valle del Marecchia con i suoi raccordi montani all’alto bacino del Tevere e al Casentino.
    Esse hanno veramente tutta l’apparenza di due “teste di ponte” dall’Etruria verso la pianura padana e la costa adriatica. La cultura villanoviana di Verucchio si evolve dal IX fino al VI secolo attraverso almeno tre fasi, di cui soprattutto la seconda presenta singolari affinità con il villanoviano evoluto dell’Etruria meridionale, mentre la terza fase, in cui pur resta dominante la cremazione, appare già largamente imbevuta di elementi orientalizzanti; assai notevoli e comprensibili in ogni caso sono i rapporti con le vicine culture medio-adriatiche di Novilara e del Piceno.
    Alla possibilità di una remota penetrazione etrusca lungo le coste del Mare Adriatico si ricollega l’esistenza dell”‘isola” villanoviana di Fermo nelle Marche, in piena zona di cultura picena, con caratteristiche anche qui di forti somiglianze con il villanoviano dell’Etruria meridionale; non sembra incongruo citare in proposito il ricordo di una fondazione tirrenica, cioè etrusca, del santuario di Hera a Cupra a non grande distanza da Fermo (Strabone, V, 4, 2): è immaginabile una sia pur modesta attività marittima sull’ Adriatico analoga a quella coeva sul Tirreno?
    Per quel che riguarda il villanoviano dell’Emilia è eviqente che esso ha attirato e attira in modo preminente l’attenzione degli studiosi non soltanto per la priorità delle scoperte risalenti a circa la metà del secolo scorso e per la ricchezza dei materiali, ma anche e soprattutto per la possibilità di sistematiche classificazioni topografi-che e cronologiche e per la continuità di vita storica del suo maggiore centro, Bologna.
    L’area circostante in pianura, entro limiti piuttosto ristretti segnati dai corsi del Panaro e del Santerno e, a nord, del Reno presenta insediamenti di villaggi con tutto l’aspetto di una specifica occupazione agricola (ne si può escludere che proprio la disponibilità di queste estese terre coltivabili abbia primamente attratto gli abitatori delle zone a sud dell’Appennino); ma l’occupazione si addensa essenzialmente a Bologna che via via assumerà il carattere di un aggregato protourbano.
    Ed è a Bologna che noi cogliamo le linee di uno sviluppo che va dal IX al VI secolo, distinto in quattro fasi successive (più o meno corrispondenti ai periodi già designati con i nomi delle località dei sepolcreti: Savena-San Vitale, Benacci I, Benacci II, Arnoaldi), delle quali le ultime appaiono progressivamente imbevute di elementi orientalizzanti, pur nella tradizionale fedeltà al rito della cremazione, con l’apparizione di stele funerarie scolpite e il sostituirsi ai vecchi cinerari biconici di cinerari in forma di situle (secchie) con decorazione stampigliata.
    È difficile dire quale impatto possano aver avuto le prime penetrazioni etrusche a nord della catena appenninica con le popolazioni locali di là dalle sfere, ripetiamo limitate, della presenza villanoviana. Di queste altre popolazioni sappiamo del resto poco o nulla, anche dal punto di vista della documentazione archeologica che per il resto dell’area emiliano-romagnola e in generale per la Padania orientale risulta ancora scarsamente conosciuta durante l’età del ferro, mal distinguibile dalle sopravvivenze della tarda età del bronzo che fu comunque fiorente in queste zone (notevole, anche se priva di significato storico dato il dislivello cronologico, è la netta contrapposizione tra l’area delle terremare del bronzo nell’Emilia occidentale e l’area di occupazione villanoviana dell’età del ferro).
    Fa, bene inteso, eccezione il grosso e netto complesso di manifestazioni della civiltà Paleoveneta a nord del Pò e dell’Adige, con il suo svolgimento parallelo a quello del villanoviano emiliano e la sua certa connotazione etnica.
    Un fenomeno protostorico ben definito che sembra fronteggiare a nord della grande piana fluviale il fenomeno villanoviano esteso ai piedi dell’Appennino, cioè già i Veneti di fronte agli Etruschi, e con influenze culturali via via crescenti sull’area emiliana, sensibili soprattutto nell’ultima fase bolognese di Arnoaldi.
    Sui fatti della Romagna, non rileno incerti di quelli emiliani per i tempi più antichi, si potrà accennare soltanto ad osservazioni sporadiche specialmente in zone montane, con particolare riguardo alle tombe di guerrieri in circoli di pietra di San Martino in Gattara nell’alta valle del Lamone, che per altro non sono anteriori alla fine del VI secolo e che possono oggi attribuirsi con certezza, più che a genti indigene (o peggio a supposti invasori gallici), all’avanzata verso il nord di Italici umbri, dei quali si avrà occasione di riparlare.
    In sostanza la espansione protostorica degli Etruschi verso la pianura padana e la costa adriatica non deve aver trovato rilevanti ostacoli in preesistenze probabilmente non dense e forse attardate; in ogni caso essa deve esser rimasta contenuta ai margini dello spartiacque appenninico con aspetti economici, sociali e culturali di sostanziale conservatorismo rispetto all’Etruria propria (ciò che tuttavia non esclude un pro gresso, accelerato tra il VII e il VI secolo, sia negli scambi con le aree esterne tirrenica, veneta e medio-adriatica, sia negli aspetti interni delle forme di vita e del lusso: specialmente a Verucchio, dove più che a Bologna s’intravvede il formarsi di gerarchie economico-politiche e conseguenti emergenze culturali).
    Il solo indizio, sia pure discutibile e discusso, di una politica attiva oltre i limiti dell’Emilia centrale e interessata alla difesa degli equilibri dell’intera pianura padana parrebbe riconoscersi nella notizia di Livio (V, 34) sulla battaglia combattuta, e perduta, dagli Etruschi nelle vicinanze del Ticino contro i Galli discesi in Italia con Belloveso e Segoveso ai tempi del re Tarquinio Prisco e della fondazione focea di Marsiglia, cioè intorno al 600 a.C., se questa cronologia alta dell’invasione celtica è accettabile come crediamo: saremmo comunque in un periodo avanzato di Bologna villanoviana, corrispondente alla fase Arnoaldi, e curiosamente proprio ai tempi nei quali si data la prima iscrizione etrusca sopra ricordata.
    Ma la grande espansione etrusca nel nord, con la sua massima estensione e con la pienezza e ricchezza delle sue più caratteristiche espressioni, deve collocarsi effettivamente non prima degli ultimi decenni del VI secolo, quale probabile conseguenza di avvenimenti economici e politici di portata assai più vasta riguardanti non soltanto l’Etruria, ma l’intera area italiana e i mari circostanti.
    È in questo momento, e soprattutto a partire dagli inizi del V secolo, che l’incipiente crisi della potenza marittima etrusca nel Tirreno può aver richiamato allo sbocco adriatico; che lo sviluppo dei centri dell’Etruria interna (Volsinii, Perugia, Chiusi, Volterra, Fiesole) può aver favorito un più pressante interesse per gli aperti territori d’oltre Appennino e determinato nuove ondate di migrazione verso il nord; che l’incremento dei traffici con l’Europa centrale attraverso le Alpi ed in pari tempo la minacciosa pressione dei Celti già dilaganti nella pianura padana possono aver reso necessario un consolidamento ed un ampliamento della presenza etrusca nell’ltalia settentrionale trasformandola in vero e proprio dominio.
    Di fatto vediamo ora trasformarsi l’antico centro bolognese in città, l’etrusca Felsina; nascere subitaneamente nella media valle del Reno, quale stazione viaria, ma probabilmente anche come centro d’interesse minerario, Marzabotto (cui si ritiene di attribuire il nome antico di Misa), con la sua esemplare pianta regolare a strade incrociate di tipo ortogonale che gli dà una così evidente impronta di “colonia”; fiorire sul mare alla foce di un antico ramo del Po la grande città di Spina aperta ad ogni traffico e ad ogni presenza e influenza dei Greci, e più a nord Adria condominio degli Etruschi e dei Veneti (sui quali ormai si riversa il prestigio culturale etrusco).
    Nell’antica area marittima romagnola è ricordato e in parte attestato il possesso etrusco di Ravenna; il controllo degli Etruschi si estende anche all’Emilia occidentale almeno fino all’Enza e forse oltre (certamente contenuto dall’opposta avanzata celtica: priva di fondamento è l’etruscità e comunque incerta l’ubicazione di Melpum già da molti ritenuto un avamposto etrusco in Lombardia); sicuramente fu passato il Po verso le Alpi come provano le tradizioni dell’origine etrusca di Mantova e taluni indizi culturali ed epigrafici, con preminente attrazione verso la valle dell’Adige quale canale di comunicazioni transalpine fra il territorio dei Veneti e l’espansione dei Celti, donde la tradizione liviana dell’origine etrusca dei Reti.
    La civiltà etrusca nell’Italia settentrionale tra la fine del VI e l’inoltrato IV secolo è rappresentata tipicamente a Bologna, come nei centri coevi e archeologicamente emergenti di Marzabotto e di Spina, dalla fase culturale tradizionale detta della Certosa (da uno dei più rappresentativi sepolcreti bolognesi): la caratterizzano abbondanti arredi di tipo etrusco, larghissime importazioni di ceramica greca attica, il diffondersi del rito funebre dell’inumazione, le stele sepolcrali figurate (essenzialmente a Bologna), le iscrizioni etrusche.
    Alcuni di questi elementi possono suggerire qualche fondata ipotesi sulle correnti d’origine, dall’Etruria propria, del popolamento e delle influenze culturali di questa grandiosa “colonizzazione”. Molti indizi archeologici, epigrafici e onomastici ci riportano, con indubbia verosimiglianza storico-geografica, alle città dell’Etruria settentrionale interna quali Chiusi, Volterra e Fiesole (si pensi tra l’altro alla comune seppur differenziata produzione delle stele nel volterrano, attorno a Fiesole e a Bologna); transiti diretti ed antichi furono senza dubbio le medie valli appenniniche. Ma esistono anche tracce di influenze provenienti dall’Etruria meridionale che potrebbero far sospettare una direttiva risalente lungo la valle del Tevere, tramite Volsinii e Perugia, fino a raggiungere la costa adriatica: ciò che da un lato ci consente di richiamare la saga “perugina” di Aulestes e di Ocnus, da un altro lato ci fa pensare alle remote affinità del villanoviano romagnolo e di Fermo con il villanoviano sud-etrusco.
    Quali che siano le provenienze e i fattori di alimentazione dell’etruscità padano-adriatica, certo essa acquistò nel V secolo una sua individualità e compattezza, attorno ai centri maggiori (dalla polarità interna di Felsina a quella marittima di Spina), oltreche una sua straordinaria rilevanza storica-economica, politica, culturale, tale da giustificare la tradizione della dodecapoli nordica contrapposta alla dodecapoli tirrena.
    Ma dello sviluppo e della sorte finale di queste città e di questo dominio si tratterà in modo più specifico nel quadro della successive vicende del mondo etrusco.
    Non può tralasciarsi infine un cenno a quell’altra direttiva di espansione etrusca verso il nord che è rappresentata dalla Liguria. Ci troviamo di fronte a premesse e a situazioni storiche del tutto diverse, in cui l’attività marittima deve aver avuto la sua parte di naturale rilevanza rispetto a possibili conquiste o installazioni terrestri, con qualche analogia (per altro vaga e diremmo embrionale) con i fenomeni dell’avanzata e della presenza etrusca nel mezzogiorno. Il territorio compreso tra le foci dell’ Amo e la valle del Magra, cioè la Versilia e la Lunigiana, fu certamente investito da una penetrazione etrusca già in età arcaica, anche se prevalentemente abitato da popolazioni liguri e con una certa fluttuazione nel tempo tra Etruschi e Liguri: lo attestano le fonti antiche (seppure con ambiguità nella sua attribuzione alle due stirpi), alcune testimonianze archeologiche ed epigrafiche, oltre che la finale attribuzione di queste zone all’Etruria augustea; ma la stessa Pisa, pur nella importanza della sua posizione geografica alla foce dell’Arno, non sembra essere mai stata tra le maggiori città etrusche, collocandosi in una zona marginale del territorio di Volterra e quasi di confine rispetto al resto dell’Etruria; mentre Luni avrà anch’essa un suo autentico e grosso sviluppo urbano soltanto alla fine della civiltà etrusca.
    Fra l’Etruria padana e le penetrazioni etrusche in territorio ligure non sono pensabili coerenti rapporti sia per l’interposta area montuosa tenuta da primitive e notoriamente bellicose tribù locali, sia anche e soprattutto per l’avanzata dei Celti.
    Una progressione terrestre verso occidente non sembra del resto aver superato la Magra; mentre è probabile, e comprovata da iscrizioni etrusche, una presenza commerciale etrusca, forse anche al limite di un controllo “coloniale” ; nel centro portuale di Genova; più oltre le attività marittime verso le coste provenzali debbono aver trovato un fermo nelle istallazioni greche, effettivamente coloniali, di Monaco e di Nizza.

    L’alleanza cartaginese e gli scontri con i Greci e con Roma
    Le fonti storiche greche ci parlano per il VI secolo a.C. di accese rivalità “internazionali” per il controllo delle rotte marittime, dandoci notizia di vere e proprie battaglie navali tra Greci ed Etruschi. Così, ad esempio, nel caso della battaglia combattuta l’anno 535 a.C. circa, nelle acque del Mare Sardo, della quale ci informa Erodoto.
    Si tratta di uno degli episodi più salienti di tutta la storia etrusca, provocato dall’intrusione greca nel “mare di casa” degli Etruschi e, in particolare, dalla fondazione, intorno al 565 a.C., della colonia di Alalie (Aleria) sulla costa orientale della Corsica. Protagonisti di questa impresa erano stati i profughi della città di Focea, nella Ionia asiatica, che per sfuggire alla minaccia persiana si erano trasferiti a più riprese in Occidente e, attorno al 600 a.C., si erano stabiliti alle foci del Rodano fondandovi Massalie (Marsiglia).
    Gli scali marittimi e le stazioni commerciali che i Massalioti avevano installato nel Golfo del Leone e sulle coste del Mar Ligure misero così in crisi il commercio etrusco. Quando l’ultima ondata di Focei provenienti dalla madre patria occupati dai Persiani si stabilì in Corsica, gli etruschi furono costretti a reagire. A muoversi fu Cere, la quale si alleò con Cartagine, anch’essa seriamente danneggiata nei suoi interessi commerciali dall’intrusione focea. L’alleanza condusse allo scontro armato al quale presero parte sessanta navi dei Focei e altrettante di Etruschi e Cartaginesi.
    Stando sempre a Erodoto, a vincere furono i Greci, ma la vittoria rimase senza frutto “poiché – scrive lo storico – quaranta delle loro navi furono distrutte e le restanti rese inservibili”, sicché “essi tornarono ad Alalie, presero a bordo i figli, le donne e quanto dei loro beni potevano trasportare e, lasciata la Corsica, partirono verso Reggio”.

    Alcuni dei prigionieri focesi furono portati a Cere e lapidati. Coloro che passavano sul luogo dell’eccidio, racconta ancora Erodoto, animali o uomini, “diventavano rattrappiti, storpi o paralitici”. Gli Etruschi mandarono allora a interrogare l’oracolo di Delfi, il quale ordinò loro di celebrare sacrifici e di tenere ogni anno giochi per placare le anime dei Focesi massacrati.
    Il successivo clamoroso episodio della lotta per il predominio del Mediterraneo di verificò agli inizi del V secolo a.C. nel 480 a.C. quando i Greci di Sicilia, accettando la supremazia dei Siracusani, affrontarono a Imera i Cartaginesi sbarcati in forze nell’isola sotto la guida di Amilcare. La sconfitta dei Cartaginesi fu un colpo anche per gli etruschi, benché non avessero partecipato direttamente al conflitto. Qualche anno dopo, nel 474 a.C., essi dovettero affrontare Cuma, ribelle al loro predominio in Campania, e il tiranno siracusano Gerone, da Cuma chiamato in soccorso. Furono sconfitti in una memorabile battaglia navale presso Capo Miseno, che segnò l’inizio del declino della loro potenza sul mare.
    I Greci cominciarono ad assalire e saccheggiare le località etrusche della costa tirrenica, creando così un calo delle attività produttive degli Etruschi, che non potevano fare più affidamento sull’esportazione. Durante una spedizione siracusana, vennero saccheggiate Vetulonia e Populonia.
    Anche sull’Adriatico gli Etruschi avevano cercato di espandersi. Tappe fondamentali la fondazione di Marzabotto, una sorta di stazione intermedia in Emilia sul percorso verso il delta del Po, e di Spina, sul mare. Spina era un emporio molto vivace, frequentato dagli Ateniesi, fino al IV secolo a.C., quando la presenza di questi sull’Adriatico cominciò ad essere contrastata e alla fine soppiantata dai Siracusani. Incidentalmente, era da questi mercati adriatici che transitava l’ambra, la resina giallastra reperibile sul Baltico, usata in gioielleria, per la quale donne, ma anche uomini, andavano matti. Ragioni economiche più che mire espansionistiche spiegano dunque il dilatarsi della presenza etrusca a nord e a sud della penisola.
    Nel corso del V secolo a.C. due gravi pericoli si affacciarono ai due estremi del mondo etrusco: a nord, la pressione delle tribù celtiche penetrate da tempo in Italia attraverso le Alpi; a sud, l’incipiente espansionismo di Roma la quale, scaduta la tregua del 474 a.C., riprese con determinazione la guerra contro Veio. Nel 396 a.C. Veio venne conquistata e distrutta, mentre il suo territorio fu incorporato nello Stato romano. Nello stesso anno della caduta di Veio, le fonti storiche parlano di occupazione da parte dei Galli della prima città dell’Etruria padana: una non meglio precisata Melpum che alcuni pensano di localizzare nei pressi di Milano o persino di identificare con essa.
    Nell’Etruria meridionale, intanto, due fatti nuovi vennero a caratterizzare il IV secolo a.C. Da una parte ci fu la progressiva emarginazione di Cere che, sia pure pacificamente, finì col soccombere all’alleata Roma, alla quale cedette il suo antico ruolo. Da un’altra parte, ci fu invece il ritorno di Tarquinia, la quale grazie ad una accorta politica di sfruttamento delle risorse agricole del suo territorio, riuscì a superare la crisi che l’aveva lungamente abbattuta e a rifiorire, con ricchezza e potenza.
    Ma l’accresciuta potenza e la sua stessa posizione geografica, portarono Tarquinia ad una situazione di antagonismo con Roma, che portò alla guerra scoppiata nel 358 a.C. e che si concluse nel 351 a.C. senza vincitori né vinti, ma con una tregua quarantennale. Intanto sul fronte settentrionale finiva l’Etruria padana: nella seconda metà del IV secolo infatti l’onda celtica travolse tutti i centri etruschi della regione, compreso quello più importante di Felsina (Bologna), occupata dai Galli.
    Alla fine del IV secolo a.C. gli etruschi erano ormai ridotti entro i confini originari, peraltro già intaccati a sud dall’espansione romana. Nel 311 a.C. si riaccese la guerra contro Roma. Ancora una volta l’iniziativa dovette essere degli Etruschi, ma protagoniste dello scontro furono ora le città centro-settentrionali, con a capo Volsini affiancata da Vulci, Arezzo, Cortona, Perugia e Tarquinia, svincolatasi dalla tregua appena scaduta.
    Nel 308 a.C. Tarquinia rinnovò la tregua, mentre Cortona, Arezzo e Perugia si arresero accettando condizioni umilianti. L’anno 302 a.C. la guerra etrusco-romana, non ancora definitivamente conclusa, tornò a riaccendersi, per protrarsi, con una serie pressoché ininterrotta di campagne annuali, fino al 280 a.C.: i Romani quasi sempre all’attacco, gli Etruschi costretti alla difensiva e a rinchiudersi spesso nelle loro città fortificate. Tra il 281 e il 280 a.C. si arresero per sempre Vulci e Volsini, mentre le città settentrionali si affrettarono a rinnovare i precedenti trattati di pace. Tutti infine dovettero sottoscrivere patti associativi o “federativi” (dal latino foedus, trattato), in forza dei quali mantenevano una formale indipendenza, con lo status giuridico di “alleate” (sociae), mentre, di fatto, accettavano la supremazia di Roma, ponendosi nei confronti di questa in rapporto di sudditanza.

    L’Etruria “federata”
    La capitolazione delle città etrusche e il loro ingresso forzato nell’alleanza con Roma segnò l’inizio dell’ultimo periodo della storia etrusca: quello che viene definito dell’Etruria “federata”. A fondamento del nuovo ordine imposto all’Etruria stavano dunque i vincoli federali derivanti dai trattati. Questi ebbero, a seconda dei casi, clausole speciali e diverse, particolarmente dure per le città che più direttamente si erano opposte a Roma e più lungamente e duramente avevano lottato contro di essa.
    Includenti tra l’altro anche l’imposizione di tributi e il controllo sulla pubblica amministrazione.
    In generale, i trattati imponevano a tutte le città di rinunciare a qualsiasi iniziativa politica autonoma; di riconoscere come propri gli amici e gli alleati di Roma e i suoi nemici; di fornire alla stessa Roma aiuti ogniqualvolta essa ne facesse richiesta, specialmente in occasione di guerre e con contributi di uomini e mezzi; di coordinare con gli interessi Romani ogni loro attività, anche di natura produttiva e commerciale; di garantire il mantenimento dei propri ordinamenti istituzionali fondati sul potere delle oligarchie aristocratiche; di accettare (o di richiedere) l’intervento di Roma in caso di gravi turbamenti sociali e di conflitti interni. L’aspetto positivo del sistema federativo consisteva nel fatto che le singole città continuavano a vivere la loro vita “locale”, sostanzialmente libera e autonoma, regolata e ordinata secondo i principi e le usanze della tradizione nazionale, di mantenere le proprie leggi, la propria lingua e la propria religione.
    La federazione fu messa a dura prova dall’invasione dell’Italia da parte di Annibale. La seconda guerra punica (218 – 202 a.C.) toccò l’Etruria soltanto marginalmente, durante la discesa dell’esercito cartaginese lungo la valle tiberina, ma l’impressione suscitata dalla disfatta subita dai Romani al Trasimeno, in territorio etrusco, fu tanto forte che nelle città etrusche si risvegliò qualche desiderio di rivincita. Ci furono dei movimenti di simpatia nei confronti di Annibale e qualche seria agitazione che costrinse i Romani a rafforzare i loro presidi.
    Poi comunque i patti vennero rispettati e ogni città diede il suo contributo prezioso prima alla resistenza e poi alla riscossa romana; in particolare quando, nel 205 a.C., furono forniti aiuti massicci a Scipione per l’allestimento della sua spedizione africana.
    Tito Livio scrive in proposito che le città etrusche si comportarono ognuna secondo le proprie possibilità e ne elenca dettagliatamente i contributi: Cere dette frumento e viveri di vario genere; Tarquinia tele di lino per le vele delle navi; Roselle, Chiusi, e Perugia fornirono legname per la costruzione degli scafi e frumento; Volterra frumento e pece per le calafature; Populonia ferro; Arezzo, infine, approntò grandi quantità di armi (3.000 scudi e altrettanti elmi e 100.000 giavellotti), strumenti e attrezzi da lavoro e 100.000 moggi (= antichi recipienti) di grano e rifornimenti di ogni sorta da servire per quaranta navi.
    Con il I secolo a.C., tra il 90 e l’89, Roma concesse agli Etruschi i diritti di cittadinanza e nacquero così, tra l’80 e il 70 a.C., i municipi Romani dell’Etruria. La realtà storica degli Etruschi venne infine consacrata con una delle regioni in cui la stessa Italia venne suddivisa da Augusto: la regione VII, alla quale toccò di perpetuare, fino alla fine del mondo antico, il nome glorioso dell’Etruria.

    L’epilogo etrusco: i Galli e Roma
    In questo paragrafo analizziamo in modo più approfondito il rapporto tra Roma e gli Etruschi. Abbiamo già detto che l’Etruria perde la supremazia sui mari a scapito di Siracusa e vede fallire il suo progetto di alleanza con i Cartaginesi ed (a livello più ampio) con i Persiani sconfitti a Salamina dagli ateniesi (filo-siracusani). Infatti presso Cuma, in particolare a Capo Miseno, la flotta etrusca è sconfitta dai siracusani, che, successivamente, saccheggiano le coste toscane, in particolare Populonia e Vetulonia, e l’isola d’Elba e prendono la Corsica e Ischia (454 a.C.).
    In Sicilia, presso Imera, stavolta per via di terra, gli Etruschi perdono di nuovo contro i siracusani e contemporaneamente a Salamina la Grecia sconfigge i Persiani. Fallisce così l’alleanza tra Etruschi, Cartaginesi e Persiani che voleva contrapporsi a quella tra Greci e Siracusani. Nel 350 a.C. alcuni ambasciatori tirreni si recano in Mesopotamia da Alessandro Magno, per chiedere aiuto, ma non ricevettero una pronta collaborazione: Alessandro avrebbe preparato un’invasione dell’occidente solo dopo circa dieci anni.
    Dopo Veio, testimone della scarsa coesione tra le città della lega, cadono le altre città, una dopo l’altra, tra cui Falerii, capitale dei Falisci e gli avamposti di Tarquinia. Nel 387 a.C. i Celti di Brenno sconfiggono i Romani ad Allia, devastano l’Etruria e Roma, che si ricostruisce, anche se in un primo momento, nel quale Camillo si oppose, si pensava di spostare la capitale da Roma a Veio.
    Nel 350 a.C. i siracusani depredano Pyrgi e Caere, Roma conquista Tarquinia, con forti rappresaglie ed i Galli dilagano in Valle Padana, non trovando la minima resistenza. Tutte le città della lega del nord sono prese, ad eccezione di Spina e Mantova. Spina ed Adria verranno poi prese dai greci che nel frattempo avevano fondato Ancona.
    L’economia agricola è distrutta: non si produce più vino, ricompaiono le paludi in Valle Padana, il sistema idrico è distrutto, cresce solo del grano che la città di Spina commercia con la Grecia (non si producono più vasi attici, anche perché la città greca di Marsiglia ha una florida attività con i Liguri e i Galli). Per rappresaglia contro i Galli, alcuni etruschi eseguono atti di pirateria sui carichi di grano.
    Nel 310 a.C. i Romani, comandati da Q. Fabio Rulliano, invadono e saccheggiano la Selva Cimina ritenuta sacra e inviolabile. Gli Etruschi non seppero sfruttare le guerre sannitiche: nel 295 a.C. subirono in particolare una sconfitta a Sentinum, non interagendo bene con gli Umbri.
    E’ anche vero che i Romani separarono geograficamente le varie tribù sannitiche tra loro e queste, a loro volta, dagli Etruschi, mantenendo neutrale la striscia di territorio dei Peligni (Sulmona-Chieti). Nel nel 283 a.C. assoldarono (dapprima venendo depredati) i Galli per combattere contro Roma vicino Bassano in Teverina, sul lago Vadimone, ma furono sconfitti, tanto che le acque del Tevere si tinsero di rosso.
    In tale occasione furono cacciati dall’Italia i Galli Senoni (che subirono un genocidio nei pressi di Rimini), con la fondazione di Sena Gallica (Senigallia) ed i Boi. Si ribellarono ai Roamni ad Arezzo, ma furono annientati. Sperarono inutilmente in Pirro, che dopo aver vinto ad Eraclea (Basilicata) nel 282 a.C., perse a Maleventum. Sostennero Annibale vanamente nel 210 a.C., subendo ritorsioni e processi sommari dai Romani. Eseguirono azioni di sabotaggio, di frode e di pirateria contro Roma.
    I Romani fondarono colonie di controllo in Etruria: Rusellae, Castrum Novum (Porto Clementino), Alsium, Fregene, Saturnia e Graviscae. Nel 225 a.C. i Galli devastano di nuovo l’Etruria e sono sconfitti dai Romani a Talamone, la Maremma non si riprenderà più dalla devastazione: il grande sistema idrico di bonifica è stato distrutto e si lascia il posto a paludi e zanzare. Si racconta che Ansedonia, Graviscae, Rusellae erano città inospitali, con aria insalubre.
    L’Etruria pagò a caro prezzo le azioni di guerriglia e di favoreggiamento dei vari condottieri, scesi in Italia per combattere i Romani: confische di beni, tribunali, persecuzioni, liste di proscrizione. Fino al 100 a.C. i Tirreni godevano ancora di un’agiata economia e di una certa ricchezza, segno di una continua attività commerciale, seppure sempre più debole.
    Osserviamo che in questa fase il destino dei Tirreni è molto simile a quello dei Sanniti, entrambi in lotta contro Roma. Il latifondismo riduce alla fame il Sannio e l’Etruria: il prezzo del grano si è ridotto, visto che tanti oramai sono i paesi dell’impero che lo producono. Con l’avvento di Caio e Tiberio Gracco viene proposta la riforma agraria e si fonda un partito d’ispirazione popolare, per porre un freno a questa piaga della società.
    A seguito della loro uccisione nel 130 a.C. l’Italia conosce il flagello della guerra sociale. Il console Lucio Giulio Cesare, per evitare la guerra, propone la lex julia: abroga il latifondo e concede la cittadinanza romana, anche se non con diritto di voto, ai popoli si schierano per la pace. Gli Etruschi si accontentano ed evitano di scendere in combattimento al fianco dei Sanniti, che assieme ai Piceni e Marsi avevano fondato una capitale a Corfinium, in Abruzzo. Tale evento è ricordato a Perugia nell’Ipogeo dei Volumni.
    Cessata la guerra tale legge fu respinta dal Senato e scoppiò la guerra civile che vide come protagonisti Mario, popolare, vittorioso sulle tribù celtiche dei Cimbri e Teutoni, e Silla, uomo degli ottimati (patrizi), abile e astuto stratega.
    Nonostante il popolo si fosse schierato per il primo, Silla, dopo aver massacrato i Sanniti, marciò su Roma e prese il potere. Pompeo intanto sconfisse truppe tirrene in Val di Chiana e ad Arezzo (88 a.C.). Mario, assieme a Cinna, altro popolare, approfittando della guerra che Silla aveva mosso a Mitridate in Grecia, riprende il potere.
    E’ un buon periodo per tutti i popoli italici. Mario e Cinna muoiono tra l’86 e l’84 a.C.. Silla ritorna e nell’82 a.C. sconfigge i popolari a Prenestae, dove avviene una strage di Sanniti, e poi a Porta Collina (Monte Antenne-Roma) con un altro famoso massacro. Silla si dirige in Etruria, dove subisce l’unica sconfitta a Saturnia, ma poi si vendica a Chiusi con l’aiuto di Pompeo.
    Fino al 79 a.C., anno della caduta di Volterra, ci sono state rappresaglie, liste di proscrizione, con premi per chi uccideva i proscritti, inibizione dalle cariche pubbliche, confische di beni, riduzione dei territori ad Arezzo, Fiesole e Chiusi. L’Etruria era alla fame. Solo più tardi, Cicerone riuscì a far ridare terre a Volterra ed Arezzo.
    Nel 62 a.C. alcuni abitanti di Fiesole e Arezzo si unirono vanamente a Catilina e furono sconfitti a Pistoia. Come si vede, l’Etruria, è stata sempre sede di sommosse. Il periodo di Cesare (49-44 a.C.) è ottimo per i Tirreni: c’è rispetto, pace e riprendono le attività commerciali. Del resto Arezzo si mostrò simpatizzante il generale, accogliendo le coorti spedite in avanscoperta prima di passare il Rubicone.
    Con la morte di Cesare finisce il nono secolo etrusco. Con l’avvento di Augusto si assiste alla distruzione di Perugia del 40 a.C. per aver appoggiato il fratello di Marco Antonio, sconfitto ad Azio da Agrippa nel 31 a.C., con la deportazione di 300 perugini, trucidati nel Foro Romano. Mecenate consigliò l’imperatore di ricostruire Perugia, che si chiamò Augusta Perusia. Comincia per l’Etruria uno sviluppo nel turismo, di moda già all’epoca. Famose erano le fonti termali Fontes Clusini presso Chianciano e Aquae Populoniae presso Populonia.
    Nacquero le provincie, le colonie, le regioni romane ed i processi di latinizzazione presero sempre più piede. L’ultimo imperatore amico dei tirreni fu Claudio, loro grande studioso, morto nel 54 a.C., che compose i ” Tyrrhenica “, studi di etruscologia, mai trovati.
    Dunque gli Etruschi insegnarono moltissimo ai loro discepoli romani, che li distrussero e perseguirono una politica di propaganda e di denigrazione nei loro confronti: tecnica adottata nei confronti di tutti i popoli vinti, in particolare dei tirreni che erano stati i fondatori dell’urbe.

  • Egiziani: la scienza

    La scienza degli antichi egizi era solo sperimentale e basata sul più rigoroso pragmatismo: serviva cioè soltanto a scopi pratici. Per fare un esempio, a un astronomo d’allora poco importava che il cielo fosse il ventre di una mucca o di una dea, una lastra di metallo o un’altra cosa qualsiasi. Occorreva studiarlo solo per poterne trarre qualche utilità, per orientarsi, per stabilire il corso dei mesi o prevedere l’inizio dell’inondazione. Così nella matematica o nella geometria il calcolo astratto, il teorema non applicabile tutti i giorni, la speculazione scientifica esulavano totalmente dalla loro mentalità. Esulavano comunque, anche da quella di tutti gli altri popoli della terra e, per avere il “pensiero”, bisognerà attendere i presocratici. Entro questi limiti, le conoscenze degli egizi erano senza dubbio all’avanguardia in tutti i campi dello scibile.

    Astronomia

    Fin dai tempi predinastici gli egiziani avevano un’ottima conoscenza del cielo e si ebbero precise mappe celesti. Conoscevano le stelle fisse ed i pianeti (fino a Saturno). Ad Eliopoli sorsero veri e propri osservatori per rilevare con esattezza il passaggio degli astri e già durante la IV dinastia vennero apportate le esatte correzioni. Le costellazioni raffiguravano dei ed animali ( l’unica affine alle nostre era il Leone).
    Era noto il calendario di 365 giorni ed un quarto, i mesi erano dodici e le stagioni tre:

    * Akhet ( Inondazione )
    * Peret ( Emersione )
    * Chemu ( Aridità )

    Il calendario egizio, perfezionato nel 238 a.C. dove viene introdotto l’anno bisestile, fu adottato tale e quale da Giulio Cesare e perfezionato ancora da Gregorio XIII è quello in uso oggi. Per essere più precisi gli antichi egizi usavano tre tipi diversi di calendario e cioè:

    * un calendario “agricolo” per l’uso di tutti i giorni
    * un calendario astronomico
    * un calendario lunare utilizzato per certi rituali o eventi

    Con il calendario “agricolo” l’anno era diviso in tre stagioni di quattro mesi ciascuna; ogni mese era composto da trenta giorni il che significa che un anno era composto da 360 giorni. A questi venivano sommati 5 giorni chiamati “epagenomeni” ed erano considerati come i compleanni di Osiride, Horo, Seth, Iside e Neftis. I mesi, delle tre stagioni nominate precedentemente erano suddivisi come segue:

    * Akhet I = Thot
    * Akhet II = Paopi
    * Akhet III = Athor
    * Akhet IV = Khoiak
    * Peret I = Tobi
    * Peret II = Mekhir
    * Peret III = Pnamenoth
    * Peret IV = Pharmuthi
    * Chemu I = Pakhons
    * Chemu II = Paoni
    * Chemu III = Epep
    * Chemu IV = Mesore

    Molti templi tenevano un calendario con l’elenco di tutti i rituali e di tutte le feste che dovevano cadere in date specifiche. Nel tempio di Esna, per esempio, questo elenco è stato scritto su alcune delle colonne. Nel tempio di Horo a Edfu, il mese di Khoiak era particolarmente ricco di feste.

    Come ben sappiamo calcolando solamente i 365 giorni per ogni anno, il calendario sarebbe lentamente cambiato: ogni 4 anni il calendario “agricolo” sarebbe aumentato di un giorno. Il nostro sistema attuale di datazione prevede l’anno bisestile mentre gli antichi egiziani, per sopperire a tale discrepanza utilizzarono la strada astronomica per misurare il tempo: hanno osservato il sorgere della stella Sirio insieme con il sole che coincideva sempre con l’inizio dell’inondazione.

    Alcuni rituali, specialmente quelli che coinvolgevano Osiride e la divinità lunare Khonsu, dovevano essere compiuti durante specifiche fasi lunari. Per calcolare quando era possibile effettuare tali rituali, gli antichi egiziani tenevano un calendario delle fasi lunari, secondo il quale un mese coincideva con un ciclo lunare.

    Luna
    La luna era connessa agli dei Thot, Khonsu e Osiride e in epoca ellenistica, con Iside che i Greci vedevano come Selene. La luna era anche connessa con il mito di Osiride, dato che i 14 giorni della luna calante erano simbolizzati nel mito dai 14 pezzi del dio smembrato. La luna era considerata un sole che brilla di notte e dunque aveva le prerogative dell’astro diurno, come quella di essere adorata da babbuini, mentre la notte possono essere gli sciacalli che, con i loro ululati, adorano il satellite. Normalmente era raffigurata come un disco che stava su una falce.

    Occhi del cielo
    Per gli antichi egiziani il cielo aveva due occhi : il sole era quello di destra e la luna il sinistro. Nelle multiforme sfumature della mitologia egizia il sole fu l’occhio destro di Horo e poi l’occhio di Ra, tuttavia in alcuni miti l’occhio è indipendente e lascia Ra o per distruggere i nemici o per rivoltarsi contro di lui.

    Questo caso si verificò quando l’occhio, distrutti i nemici, tornò da Ra e vi trovò un altro occhio cresciuto al suo posto. Ra calmò l’occhio in collera trasformandolo in “ureo”, posto sulla sua fronte (l’occhio poteva essere anche Mut). Anche il ciclo lunare entrò nel mito e il satellite, occhio sinistro del cielo e di Horo, diede origine al mito della battaglia fra questo dio e Seth (la luce e il buio); Seth strappa l’occhio e lo divora (fase di luna nuova), ma Horo sconfigge Seth ed è guarito (luna piena).

    Disco solare alato
    Un’antica concezione del cielo sostiene che esso era dato dalle ali di un falco spieagate sul mondo. Un disegno su un pettine mostra una barca solare, assieme al falco di Horo, su un paio d’ali che simbolizzava (tutto) il cielo.
    A partire dalla V Dinastia il disco solare fu posto fra due ali così l’immagine del cielo divenne un simbolo solare. Dopo il Nuovo Regno il disco solare apparve come simbolo di protezione sulle porte dei templi e sulla parte alta delle stele.

    Zodiaco

    Lo zodiaco, come lo conosciamo noi oggi, fu introdotto in epoca greco romana ma, in alcuni casi deriva dalle costellazioni già individuate dall’astronomia degli antichi egiziani durante il periodo faraonico. Ad esempio è possibile citare: la “Gamba del Bue” (Orsa Maggiore), un dio (Orione), la dea Soped con il capo sormontato da un cono (Sirio), un leone, un coccodrillo, un ippopotamo, ecc.

    I documenti principali dove si possono trovare i prototipi dei vari segni zodiacali sono : i zodiaci rotondi (vari soffitti di tombe greco romane e lo zodiaco di Dendera) e quelli rettangolari (Ramesseum). In questi documenti è possibile individuare :

    * il dio Hapi, spirito del Nilo, che intento a versare l’acqua dalla sua grotta derivò l’acquario;
    * i due pesci che tenuti insieme da una doppia lenza assicurano al defunto la loro anima del passato e del futuro;
    * l’ariete (animale sacro) che qui rappresenta l’animale connesso con le trasformazioni della rigenerazione;
    * un vitello rosso (toro) detto anche il “vitellino dalla bocca di latte” e che rappresenta il sole nel suo trasformarsi quotidiano;
    * lo scarabeo (cancro) che rappresenta il divenire solare;
    * il leone, che in questo caso è connesso con il mito della “Dea Lontana” e rappresenta la ferocia del calore del sole estivo;
    * la dea Iside (vergine) che porta una spiga di grano simbolo di abbondanza e rinascita;
    * la bilancia, raffigurata in connessione con il 3° mese dell’inondazione, doveva essere connessa con dei riti agrari in cui si pesava l’orzo;
    * lo scorpione è il simbolo della dea Selket ed è in rapporto con Iside;
    * il faraone, in atto di lanciare una freccia dal suo carro, si trasforma in “Shed”, il Salvatore, e quindi fonde il busto umano con il corpo del cavallo (dando origine al Saggitario);
    * il capricorno invece è di origine babilonese e rappresenterebbe forse le trasformazioni del seme nella terra.

    Misurazione del tempo

    Per i moltissimi rituali che affollavano ogni giorno i grandi templi era necessaria una suddivisione precisa del tempo; per questo i sacerdoti egizi dovendo conoscere esattamente ogni fase del giorno, elaborarono diversi sistemi di misurazione. Della XVIII Dinastia risale la clessidra ad acqua e che funzionava sullo stesso principio di quella a sabbia, anch’essa già presente in Egitto.

    Vi erano poi le meridiane fisse, molto diffuse nel mondo antico, tanto che i romani ne vollero una di tipo egizio nel Campo Marzio a Roma. Essa era gigantesca e aveva un obelisco come gnomone. L’obelisco è ancora visibile; anche la meridiana, che occupava il vastissimo spazio oggi costruito, è stata ritrovata in profondi strati raggiungibili dagli scavi delle cantine di alcuni edifici.

    Si tratta dei disegni, delle linee e delle scritte della meridiana ottenute con motivi bronzei inseriti nel marmo; oggi l’intero disegno ha potuto essere ricostruito anche se le parti visibili sono solo poche aree accessibili. Gli egizi ebbero anche un pratico orologio solare portatile, composto da un piastrino munito di filo a piombo per garantire la perfetta verticalità del piastrino, che era ortogonale a un regolo con graduazione oraria su cui doveva cadere l’ombra del piastrino stesso.

    Matematica e Geometria

    Da quanto hanno ci hanno lasciato è facile capire che per gli egiziani la matematica non era un problema : sottrazioni e addizioni erano come quelle che conosciamo oggi, mentre le moltiplicazioni avvenivano per successive duplicazioni.
    Anche se gli egiziani non consideravano il numero zero e non c’era nessun simbolo geroglifico che lo identificava, utilizzavano una numerazione decimanle basata sul numero 10.

    Generalmente i numeri venivano scritti da sinistra a destra iniziando con il denominatore più alto. Per esempio il numero 2.525 (2.000 + 500 + 20 + 5)

    Il sistema decimale utilizzato dagli egizi aveva come unità di misura il cubito ( 0,450 metri ) o il cubito reale ( 0,525 metri ), divisi in sette palmi e ventiquattro dita.

    Erano noti la radice quadrata, le frazioni, utilizzando particolari segni per indicare due terzi, tre quarti, quattro quinti e cinque sesti, e alcuni problemi elementari di algebra e trigonometria. Dal papiro Rhind ( British Museum ) risulta che gli egiziani avevano anche ottime conoscenze della geometria ed il papiro, che contiene una serie di teoremi geometrici lo dimostra: l’area del parallelogramma regolare era precisa, un po’ meno quella del trapezio.

    Il papiro di Rhind
    Il papiro di Rhind rappresenta una delle testimonianze più importanti per la conoscenza delle origini della matematica nell’Antico Egitto. Il papiro di Rhind (o Ahmes) è largo circa 30 cm e lungo circa 5,46 m e si trova attualmente al British Museum; era stato acquistato nel 1858 in una città balneare sul Nilo da un antiquario scozzese, Henry Rhind; il contenuto del papiro è tratto da un esemplare risalente al Medio Regno tra il 2000 e il 1800 a.C. ed è scritto in ieratico, un linguaggio più agile rispetto al geroglifico. Nel papiro di Rhind lo scriba Ahmes formulò che l’area di un campo circolare con un diametro di 9 unità era uguale all’area di un quadrato con un lato di 8 unità:

    Un campo rotondo di 9 khet di diametro. Qual è la sua area? Togli 1/9 dal diametro, 1; il rimanente è 8. Moltiplica 8 per 8: fa 64. Quindi esso contiene 64 sesat.

    Si tratta di una formula approssimata per calcolare l’area di un cerchio di diametro x:(x – (1/9)x)²
    Dal confronto di questa ipotesi con la formula moderna che permette di calcolare l’area di un cerchio A = p * r², risulta che la regola egiziana attribuisce a p un valore di circa 3 + 1/6, approssimazione abbastanza vicina al valore esatto e degna di considerazione. Per molti anni si è supposto che i greci avessero appreso i rudimenti della geometria dagli Egiziani; Aristotele spiegava che la geometria era nata nella Valle del Nilo, anche se per trovare conquiste matematiche più avanzate è necessario volgere lo sguardo alla più turbolenta vallata della Mesopotamia.

    Pesi e Misure

    Per la loro imponente e complessa organizzazione statale, per l’alto livello raggiunto dall’architettura e le varie operazione burocratiche, gli Egiziani avevano bisogno di un preciso sistema di misure e pesi che iniziarono a sviluppare sin dalle origini della storia faraonica.

    Lunghezza
    Per quanto riguarda la lunghezza la misura di base era il cubito che inizialmente era la misura dell’avambraccio dal gomito alla punta del dito medio. Viste le ovvie difficoltà costituite dalle varie differenze individuali vennero create due misure standard:

    * il cubito reale (niswt): che veniva utilizzato nella vita quotidiana e probabilmente nacque durante la II Dinastia. Era lungo 523 millimetri e suddiviso in 7 spanne e 28 pollici;
    * Il cubito piccolo: che misurava 24 pollici (braccio, piede, palmo, mano e pugno).

    Entrambi venivano standardizzati per mezzo di regoli in pietra o legno.
    Per usi architettonici e urbanistici servivano naturalmente delle misure maggiori che erano poi i multipli del cubito reale: il “khet” o canna era di 100 cubiti, l’”iteru” (fluviale) corrispondeva a 5000 cubiti (2,615 chilometri); per la cartografia e per l’esplorazione si utilizzava l’iteru da 20.000 cubiti mentre le superfici venivano calcolate in sethat, corrispondenti a un khet quadrato.

    Volumi
    In un paese dove la gran parte dei pagamenti e delle tassazioni venivano effettutae in cereali, la misurazione del volume era indispensabile e quasi senz’altro un obbligo. La misura più utilizzata era il barile (hekat) che corrispondeva a 4,54 litri suddivisi poi in frazioni minori.

    La misurazione di enormi volumi per liquidi di largo consumo veniva effettuata in anfore che corrispondeva a 13 litri mentre per misurazioni molto più piccole, come ad esempio i profumi, veniva utilizzato l’hin da 0,503 litri.

    Peso
    Per il peso l’unità di misura più diffusa era il deben che corrispondeva a 91 grammi che era a sua volta suddivisibile in 10 parti dette kedet o kite.

    Oltre alle unità di misura “ufficiali” esistevano anche quelle attribuite al valore di mercato e quello merceologico dei beni basate su unità standard che venivano calcolate dai rapporti fra rame, argento e oro corrispondenti a 1:100:200. A causa di queste diverse unità nacquero diversi sistemi valutari basati sul deben di bronzo, sul seniu d’argento, lo hin dei liquidi ed il khar del volume per il grano.

    Su queste basi valutarie venne basato il complesso sistema economico egiziano. In Egitto la moneta (hedh) era nota fin dal Nuovo Regno ma venne introdotta e utilizzata soltanto durante la XXVI Dinastia con la fondazione delle colonie commerciali greche.

    Medicina

    I medici dell’antico Egitto erano molto numerosi, per questo motivo ognuno di loro si occupava quasi esclusivamente delle malattie che meglio conosceva. I medici ordinari erano affiancati dai professionisti di grado superiore, gli ispettori ed i sovrintendenti. Ad assisterli era del personale paramedico di sesso maschile.

    Essi dovevano le loro conoscenze anatomiche all’osservazione degli animali durante il macello, e non all’imbalsamazione del defunto che era riservata ai sacerdoti devoti ad Anubi. Il cuore era considerato sede delle emozioni e dell’intelletto. Il benessere del corpo si doveva, a loro avviso, allo scorrimento dei suoi liquidi nei metu, i vasi che lo attraversavano. Se uno di questi vasi si ostruiva si manifestava la malattia. La polmonite e la tubercolosi erano tra le malattie più diffuse a causa dell’inalazione di sabbia o di fumo dei focolari domestici. Le malattie parassitarie erano altrettanto comuni a causa della mancanza di igiene. Gli attrezzi più comuni di un medico erano: pinze, coltelli, fili di sutura, schegge, trapani e ponti dentari.

    Anatomia del corpo umano
    Nonostante gli antichi egizi effettuavano la mummificazione su quasi tutti i cadaveri, non avevano un’approfondita conoscenza del corpo umano. Tutto questo è spiegabile dal fatto che chi svolgeva questa attività, era un corpo di comuni lavoratori delle classi inferiori generalmente privo di cultura e di particolare interesse; non c’erano medici o studiosi predisposti a questa sorta di “autopsia”.

    Si può certo capire le concezioni mediche come le conosciamo noi oggi differiscano parecchio da quelle dell’Antico Egitto. Gli antichi egizi avevano una perfetta cognizione di anatomia topografica nella distinzione del corpo in varie parti come testa, collo, tronco, addome, arti ma, ad esempio, mancava la concezione di scheletro nella sua totalità anche se le singole ossa erano ben conosciute. Anche per quanto riguarda gli organi, gli antichi egizi avevano delle ottime conoscenze anche se essi venivano sempre considerati globalmente, con poche distinzioni delle varie parti che li componevano. Per fare un esempio, era ben conosciuti sia il cuore che il cervello ma, le loro funzioni erano considerate in tutt’altro modo: il cervello, come organo vitale era ignorato mentre le sue funzioni e le attività nervose venivano attribuite al cuore che era il centro della vita.

    Al di là dell’anatomia applicata o alla funzione dell’imbalsamazione, le varie parti anatomiche svolsero un ruolo importante nella simbologia e nella religione. Se alla morte, l’intero corpo era il veicolo e il ricettacolo della vita terrena e extra terrena, le sue varie parti potevano assumere molteplici significati.

    Chimica

    Anche se gli antichi egiziani non ci hanno lasciato moltissime informazioni riguardanti i loro studi, esperimenti o procedimenti chimici da loro utilizzati e si sa che non possedevano concetti simili ai nostri sulla scienza chimica come organico insieme di studi, essi erano a conoscenza di una scienza chimica che impiegarono per la realizzazione dei loro prodotti. Dai loro studi possiamo distinguere almeno sette classi di procedimenti chimici a seconda dei prodotti e delle tecniche impiegate: farmacopea, cosmetica e profumi, terracotta (vasi, ceramica), faience e vetro, colori, metalli e mummificazione.

    Gli egiziani avevano un grande spirito di osservazione e sperimentazione; la loro farmacopea fu sviluppata al punto che molti procedimenti sono ancora oggi impiegati nella medicina naturale dell’Egitto e Nubia, tuttora validissimi in terapia.

    Al giorno d’oggi sembrano essere stati scoperti dalla scienza ufficiale le proprietà terapeutiche delle piante, dei minerali o dei derivati animali. Ma in realtà la loro conoscenza empirica risale alle epoche più lontane della storia umana, probabilmente alla preistoria. Anni, secoli, millenni di prove, di osservazioni, si sono tramandate di generazione in generazione, intimamente unite all’esigenza primaria di non abbandonare al suo destino il mamalto o il ferito. Tutte queste informazioni hanno portato alla creazione di una proto-farmacopea, e poi di una vera scienza farmacologica. Gli antichi egizi utilizzavano preparati di origine vegetale, minerale e animale. Fra i preparati di derivazione vegetale si trovavano i semi di acacia, la carruba, i datteri, il ricino e varie altre piante, fra cui ricordiamo ancora il laudano, una resina arabica la cui essenza aromatica è secreta dalla pianta di cisto, utilizzata nella preparazione di unguenti medicinali e profumi.

    Fra i derivati animali, ecco un esempio di ricetta:

    Altro (rimedio) per far spuntare i capelli di un calvo : grasso di leone, 1; grasso d’ippopotamo, 1; grasso di coccodrillo, 1; grasso di gatto, 1 : grasso di serpente, 1; grasso di capretto, 1; ridurre in una massa e ungere la testa calva.

    I minerali impiegati erano molti: oltre al conosciunto natron, rame, feldspato, allume, ossido di ferro, calcare, ocra rossa, carbonato e bicarbonato di sodio, sale da cucina, zolfo, composti arsenicali e carbone.

    Per quanto riguarda i profumi e i cosmetici sappiamo da varie iscrizioni che entrambi i prodotti furono spinti ai massimi livelli e nei laboratori dei templi si produssero i profumi più fini. La faience ed il vetro si svilupparono fin dalla preistoria giungendo alti livelli di perfezione e raffinatezza. Nella metallurgia, che molto probabilmente ebbe i suoi inizi in Asia, gli egiziani ne svilupparono le tecniche.

    Per quanto riguarda la mummificazione gli egiziani furono i creatori ed i maestri, elaborando vari procedimenti e varie ricette che implicavano un’ottima conoscenza della chimica dei minerali (natron), piante, oli minerali e vegetali, grassi animali e resine. Nel complesso dunque gli egiziani svilupparono ottime conoscenze nel campo chimico ma volte, com’era loro natura, essenzialmente al campo empirico.

  • Egiziani: le attività

    Cosmesi

    La cura del corpo era molto importante per gli antichi egizi. Essi utilizzavano creme, unguenti e profumi per ammorbidire e profumare la pelle. Le donne si schiarivano la pelle con un composto cremoso ricavato dalla biacca, disponibile in colori diversi, dalla più pallida alla più ambrata generalmente destinata alle labbra.
    Evidenziavano il contorno degli occhi con il kohl nero o verde, rispettivamente estratti dalla golena e dalla malachite. Le unghie venivano tinte così come le palme delle mani e dei piedi e a volte anche i capelli con una pasta a base di hennè. Utilizzavano specchi, pinzette per la depilazione e attrezzi per la manicure. I profumi (utilizzati da uomini e donne come le creme), venivano estratti da fiori, fatti macerare e pigiati. Tutte le essenze odorose avevano nel dio Shesmu il loro protettore. Venivano prodotti in laboratori associati ai templi e conservati in vasetti di pasta vetrosa, la faience.

    I trucchi dei Faraoni
    I trucchi, per gli Antichi Egizi, avevano il fine di proteggere la pelle da riverberi e irritazioni causati dal clima asciutto e dalla sabbia. Dai papiri ritrovati si è scoperto come ad esempio la malachite (un minerale color verde smeraldo) e la galena (un composto del piombo colore grigio scuro) venivano applicate sulle palpebre per curare il tracoma (infezione dell’occhio), l’emeralopia (riduzione della vista) e la congiuntivite, mentre l’ocra rossa era utilizzata per le labbra e le guance come i moderni rossetti e fard. Recenti studi hanno rivelato la composizione chimica delle polveri: galena nera, cerussite bianca, laurionite e fosgenite.
    Queste ultime due sostanze non si trovano in natura, ma sono il risultato di processi chimici che, quindi, lasciano intravedere una grande conoscenza in materia. Le dettagliate istruzioni riportate dai testi antichi illustrano i metodi utilizzati: la galena nera veniva scaldata per produrre l’ossido di piombo (sostanza di colore rosso) che veniva macinata e mescolata con sale e acqua.
    Tutti i giorni seguenti, per un totale di quaranta, la mistura veniva filtrata e mescolata nuovamente con del sale in modo da ottenere la bianchissima polvere di laurionite. La fosgenite, invece, veniva ottenuta con lo stesso procedimento tranne che per l’aggiunta supplementare di natron (un tipo di carbonato di sodio facilmente ricavabile dai sali presenti nelle rocce). La varietà delle lavorazioni di queste sostanze (macinazioni più o meno fini) permettevano di ottenere diverse tonalità di colori e di lucentezza in modo che ognuno poteva personalizzare il proprio trucco.
    La laurionite e la fosgenite, a seconda del dosaggio, unite alla galena nera producevano la varie tonalità di grigio. A tali sostanze venivano poi aggiunti grassi animali, cera d’api o resine che esaltavano la densità e le proprietà curative dei prodotti. Per problemi di vista, ad esempio, veniva aggiunta dell’ocra rossa alla galena, mentre per il comune orzaiolo si applicava un miscuglio di malachite e legno putrefatto. I trucchi erano considerati “fluidi divini” e perciò appartenevano al corredo funerario del defunto. Alcune di queste sostanze sono giunte fino a noi perfettamente conservate.

    Educazione

    La scuola egiziana fu fondata attorno al 2000 a.C. con lo scopo di formare giovani esperti da destinare alle funzioni amministrative dello Stato. Era una scuola rigida e poco permissiva, spesso venivano inflitte punizioni corporali. Le lezioni si svolgevano generalmente all’aperto. Gli alunni stavano accovacciati su stuoie intrecciate ed erano muniti di pennelli o cannucce e di cocci di terracotta sui quali scrivevano.
    Allo studio delle lettere erano ritenuti funzionali l’esercizio ripetuto della ricopiatura e della dettatura. Il giovane che voleva avere accesso ai più alti gradi dell’amministrazione doveva conoscere almeno una lingua straniera, così come chi voleva intraprendere con successo la carriera diplomatica doveva conoscere il babilonese. Importante era anche la preparazione fisica, curata mediante esercizi ginnici.

    Navigazione

    Il Nilo era la più importante via di comunicazione, la più rapida e la più facile. Anche nella stagione della siccità, quando le acque del Nilo erano basse, la sua navigazione era resa possibile dal vento di tramontana. Le imbarcazioni del periodo più antico erano zattere in fibra di papiro intrecciato.
    Erano leggere, ma poco adatte al trasporto di grandi quantitativi di merci, per questo furono sostituite con barche di legno, generalmente in cedro del Libano. Lo scafo era rettangolare o triangolare ed era spesso decorato. In particolare venivano raffigurati sul moscone gli occhi che consentivano alla barca di “vedere”. Numerose barche solari furono ritrovate affiancate a tombe reali, infossate in grandi buche. Erano destinate a crociere ultraterrene. La più famosa é quella di Cheope. Oggi l’imbarcazione più usata per la navigazione sul Nilo é la Feluca, piccolo veliero con lo scafo di legno.

    Professioni

    Barbiere
    Il barbiere forse era l’unico che non disponesse di una sede propria e per guadagnarsi da vivere girava da un quartiere all’altro con i suoi attrezzi fermandosi di tanto in tanto in qualche piazza rimanendo in attesa dei clienti.
    Seduto su di un semplice sgabello, il cliente si concedeva alle attenzioni del barbiere che operava con un catino d’acqua saponata, un rasoio e delle forbici.
    Il barbiere aveva clienti assicurati in quanto gli egiziani non amavano portare la barba o i baffi e se nei dipinti di qualche tomba vediamo raffigurato un uomo con la barba questa viene utilizzata solo per fare notare la condizione precaria dell’individuo oppure per raffigurare uno straniero. I barbieri del Re avevano un rango ben determinato all’interno della corte, infatti ogni mento ben nato doveva essere assolutamente glabro. Ad ogni modo non è molto chiaro che la barba non sia stata un segno di potenza mascolina.
    Soltanto in pochissimi casi un uomo poteva essere raffigurato con la barba; per esempio il lutto (che ci ha fruttato alcune rappresentazioni di defunti con il mento picchiettato di nero) oppure una partenza per l’estero.
    Al contrario degli esseri umani, gli dei vengono invece vantati per la loro fluente barba lunga e finemente intrecciata. Al momento della morte a personaggi importanti come il faraone oppure a personaggi meno nobili veniva applicata al mento una barba posticcia: queste appendici, un lusso del sovrannaturale, avevano uno scopo puramente rituale.

    Commerciante
    Il mercato era il luogo comune, il punto di raccolta per produttori, compratori e venditori, dove si svolgevano generalmente tutte le attività commerciali. In molti casi i commercianti egiziani entravano in contatto con i mercanti siriani e fenici a cui vendevano le eccedenze dei loro prodotti e che non erano riusciti a piazzare sul mercato interno.
    La grande esportazione dipendeva senz’altro dal tipo di governo regio che se ne serviva e molto spesso questa veniva utilizzata soprattutto come strumento politico per mantenere aperti i contatti con le popolazioni vicine: cereali agli Ittiti o agli Ateniesi, oro per l’Asia, ecc. Ad ogni modo le frontiere egiziane si schiudevano appena per i mercanti stranieri e tutto quello che entrava nel paese, dai mercanti ai prodotti, veniva posto sotto un rigido controllo amministrativo. I frutteti, le cave, le miniere del deserto erano comunque tutte monopolio del re.
    Fin dai tempi più antichi sono sempre state fatte spedizioni per mare o per terra allo scopo di raggiungere altri paesi ricchi di prodotti e di cui l’Egitto scarseggiava. Nel Nuovo Regno questi prodotti-chiave che mancavano all’Egitto ( come il legno del Libano oppure il rame dell’Asia ) non vengono presi come bottino o reclamati come tributo ma venivano negoziati da mandatari per conto del sovrano o dei templi che allora, potevano disporre di una flotta mercantile in proprio.
    All’interno del Paese la circolazione dei beni dipendeva essenzialmente dal commercio. Sui mercati rurali si barattava semplicemente : una collana per dei legumi, mentre per un acquisto un po’ più elevato bisognava utilizzare un’infinità di misure.
    “Venduto ad Hay dalla guardia Nebsmen : un bue, corrispondente a 120 deben di rame. Ricevuto in cambio due vasi di grassi equivalenti a 60 debem; cinque perizomi di tessuto fine, cioè 25 debem, un vestito di lino meridionale cioè 20 debem, un cuoio cioè 15 deben”.
    Questo caso, oltre a mostrarci come poteva essere complicato il computo della somma da pagare ci mostra anche come il metallo (rame, oro e argento) servisse da valore tipo per stima.

    Falegname
    I fabbricanti di mobilio nell’Antico Egitto era eccellenti artigiani se si considera il fatto che data la scarsità del legname locale questo doveva essere per la maggior parte importato.
    Così, scarseggiando in Egitto le piante di alto fusto, gli artigiani, utilizzando i tronchi degli alberi che avevano a disposizione come l’acacia o il carrubo, inventarono abili incastri per unire più pezzi di legno e ottenere così superfici più grandi. Non venivano utilizzati chiodi di nessun genere ma piccoli pioli di legno. Incastri, buchi e imperfezioni venivano poi abilmente stuccati e laccati per renderli invisibili. A volte gli incastri erano così perfetti che non era nemmeno necessario utilizzare la colla. Gli attrezzi dei falegnami erano alquanto semplici (gli strumenti di metalli erano di rame di bronzo): con delle seghe a mano venivano segati i tronchi degli alberi a disposizione, si usava l’ascia per abbozzare il legno ed un coltello ricurvo per modellarlo. L’azza veniva utilizzata per piallare mentre una pietra abrasiva aveva lo scopo di levigare e rendere lisce le superfici. C’erano inoltre scalpelli, punteruoli e trapani.
    Il trapano era ad archetto, un tipo molto comune ancora in uso in Egitto ed il molti altri paesi del Mediterraneo. Questo strumento manuale di origine molto antica con cui, attraverso un moto rotatorio, si possono praticare fori in vari materiali come legno, pietra e metallo. Il tipo ad arco prende il nome dalla corda testa alle estremità dell’asta a cui viene applicata la punta utilizzata per la perforazione e destinata ad aumentare la velocità di rotazione dell’utensile.

    Gioielliere
    Di tutti i gioielli che sono stati trovati non possiamo altro che approvare la bravura dei gioiellieri egizi che con il passare dei secoli è diventata sempre più raffinata e proverbiale. I famosi gioiellieri egiziani erano in grado di passare con facilità dalla lavorazione dell’oro a quella delle pietre dure creando magnifici oggetti grandi a volte pochi millimetri ma sempre perfettamente proporzionati. I gioiellieri del Faraone erano uomini tenuti in alto onore e, questi personaggi custodivano segreti che li avvicinavano alle divinità. Il mestiere, ereditario, si tramandava di padre in figlio insieme ai segreti della lavorazione dell’oro, rimaneva quindi un privilegio di famiglia la facoltà di creare le immagini degli dei o di preparare stupendi gioielli reali.
    Da tutto quello che ci è rimasto: dipinti, sculture, monili ritrovati nelle tombe delle varie epoche storiche, riusciamo a farci una chiara idea dell’evoluzione della gioielleria egiziana: la tipologia dei monili risulta numerosissima grazie alle mani esperte degli antichi orafi egiziani: materiali, fogge, disegni, decorazioni e lavorazioni sono tantissime e i moltissimi esempi di gioielli ritrovati ci mostrano l’abilità di questi antichi artigiani. L’altissimo livello tecnico raggiunto dagli orafi egizi portò questi artigiani ad eccellere nei lavori di fonderia e saldatura, battitura (si avevano foglie d’oro da 1/200° di mm.) e calco, ancora oggi sono insuperabili le antiche tecniche che andavano dall’incisione all’incrostazione, dalla doratura per stampaggio, alla cesellatura, pulitura e coloritura, senza dimenticare l’impiego della granulatura e della filigrana.

    Orafo
    Come quella dei gioiellieri, anche la categoria degli orafi era molto apprezzata in Egitto soprattutto per le svariate opere pubbliche che necessitavano della loro arte. Se i gioiellieri si occupavano esclusivamente nella creazione di straordinari monili, l’opera degli orafi era indirizzata soprattutto alle decorazioni delle porte dei templi, delle regge e degli innumerevoli tesori di proprietà dei faraoni.
    Nei loro laboratori il lavoro cominciava con una complessa tecnica di lavorazione dei metalli pregiati che venivano selezionati, fusi in forni a cielo aperto e colati dal crogiolo in stampi per lingotti di varie dimensioni. Questi lingotti venivano poi lavorati per mezzo di incudine e martello e utilizzati per i vari scopi.

    Medico
    La scienza medica in Egitto era conosciuta e rispettata anche in altri paesi ed era praticata soprattutto da specialisti generalmente appartenenti alla casta dei sacerdoti o addirittura degli scribi. Nell’Antico Egitto esisteva un termine generico per indicare il medico: egli era il “Sunu” e cioè “colui di quelli che soffrono”. Il geroglifico che rappresenta la professione, come si vede chi sotto, è composto da una freccia e da un vaso. La freccia indica il fatto di andare al bersaglio, ovvero di ottenere la precisione diagnostica (oppure lo strumento che serviva per incidere le carni del malato), mentre il vaso contiene i giusti rimedi per la guarigione.
    Per la medicina egizia il centro di tutto l’organismo era il cuore da cui partivano tutti i vasi all’interno dei quali scorrevano i fluidi e gli umori necessari alla vita. In Egitto alcune delle malattie grave conosciute erano la polmonite e la tubercolosi e altre malattie parassitarie e l’artrosi.
    Anche considerando il termine generico che riconosceva il medico, vari documenti che sono stati ritrovati ci informano che esistevano molte specializzazioni e anche Erodoto ci informa di questo fatto:
    “La medicina è ripartita in Egitto in questo modo : ogni medico cura una sola malattia e non più malattie.”
    Così, in Egitto non esiste un medico “generico” ma troviamo così l’oculista, il dentista, l’internista e addirittura il “pastore dell’ano” (specializzato nell’introduzione per via rettale dei diversi rimedi). Come per altre classi anche all’interno della casta dei medici esisteva una precisa gerarchia nell’ambito di ogni specializzazione. Esisteva quindi il medico, il grande medico, l’ispettore dei medici, il direttore dei medici fino ad arrivare al decano dei medici. Nello stesso modo esistevano dentisti, capi dentisti, direttori dentisti, ecc. Inoltre esistevano le varie organizzazioni locali che andavano dai corpi medici delle cave e delle miniere, a quelli dei villaggi operai o delle grandi proprietà terriere fino ad arrivare ai medici legali.
    Nonostante le varie associazioni minori, in Egitto, la figura del medico non era assolutamente legata a strutture di tipo corporativo e la sua condizione sociale variava a seconda dell’ambiente in cui operava. Se un medico era a disposizione di una cava o di una città operaia, in moltissimi casi, non godeva di nessun privilegio particolare e alcune volte era addirittura socialmente al di sotto di ispettori oppure di capi operai.
    Naturalmente se un medico operava all’interno del palazzo reale o nei tempi, questo godeva dei privilegi adeguati al proprio rango e visto che in Egitto era in uso il sistema di sommare le varie cariche, molte volte un medico poteva anche essere un nobile oppure politicamente importante. Come per molte altre professioni, anche quella del medico si tramandava di padre in figlio. Ad ogni modo la preparazione era comunque completata dall’apprendistato oppure dai corsi che si tenevano all’interno delle “Case della Vita”. Le varie conoscenze anatomiche era buone ma rimanevano comunque limitate, questo perchè chi compiva l’opera di mummificazione non era il medico ma operatori di un’altra casta, necessaria ma disprezzata e, siccome i rapporti tra loro e il medico erano inesistenti le varie conoscenze anatomiche erano molto scarse. In compenso oltre ad avere una buona conoscenza delle ossa, dei muscoli e dei legamenti, si aggiungeva una discreta conoscenza degli organi interni. Anche se il medico aveva una cognizione topografica esatta del corpo e delle sue parti (testa, collo, tronco, addome e arti) mancava in tutto o in parte la concezione di scheletro nella sua totalità anche se singolarmente le ossa erano ben identificate e conosciute.
    Ogni organo era conosciuto e considerato soltanto nella sua globalità con poche distinzioni per le varie parti che lo compongono. Per tutti possiamo citare il caso del cuore e del cervello, organi che nell’antica medicina egizia erano ben noti: ma se il cervello era ignorato come organo le sue funzioni ed il complesso delle attività nervose erano conosciute ma erano attribuite al cuore, l’organo più importante del corpo umano e “principio di tutte le membra”.

    Muratore
    Un’altra professione di cui ci è rimasto qualcosa di veramente impressionante è quella del muratore che, grazie all’utilizzo di vari materiali, poteva costruire piccoli edifici oppure enormi palazzi e templi.
    Di tutto quello che ci è rimasto e che oggi possiamo ancora ammirare sono esclusivamente le costruzioni in pietra mentre gli edifici minori che caratterizzavano i villaggi e le città sono praticamenti scomparsi a causa del materiale poco resistente che veniva utilizzato. Per questi edifici il muratore utilizzava semplicemente il limo del Nilo che, mescolato a sabbia e paglia tritata, poteva produrre il comune materiale da costruzione. Questo procedimento era molto lungo ed una volta che l’impasto era pronto, questo veniva posto in uno stampo per diversi giorni dove il “mattone” diventava solido ed infine poteva essere utilizzato per la messa in opera.
    Nonostante la tecnica rudimentale ed il materiale scadente, ancora oggi, in alcune zone, questo metodo ortodosso è ancora in uso e spesso si possono vedere questi “mattonifici” a cielo aperto oppure vedere case fabbricate con il sistema in voga secoli fa.

    Profumiere
    Generalmente la produzione dei profumi avveniva in laboratori specializzati alle strette dipendenze dei templi ed era il frutto di abili esperti del settore (per esempio, ad Edfu, il suo tempio possiede ancora una di queste officine dove, dai muri coperti dalle iscrizioni sono state trascritte le ricette di fabbrica dei diversi prodotti odorosi). Raramente al di fuori di questo contesto venivano aperti laboratori non dipendenti dalla casta sacerdotale. Estratti da varie erbe o fiori, i profumi venivano messi a macerare i appositi contenitori e infine mischiati con pregiati legni aromatici fatti arrivare dalla Siria o dall’Arabia. L’olibano e il terebinto, che crescevano sulle rive del Mar Rosso, erano particolarmenti apprezzati, soprattutto per usi rituali.
    Gli olii aromatici ed i profumi venivano conservati in fasetti di pasta vetrosa, di origine fenicia, o in fasetti di importazione tipici dell’area egea. Egizio invece era l’uso di custodirli in vasi di alabastro.

    Tessitore
    Nell’antico Egitto la tessitura delle vesti era un’arte praticamente femminile e quindi ogni famiglia egizia era in grado di provvedere al proprio fabbisogno personale.
    Il materiale più utilizzato era il lino che veniva a volte colorato con sostanze vegetali o minerali disciolte nell’acqua. Durante il Neolitico, con la produzione di stuoini per coprire i pavimenti delle capanne inzia in Medio Oriente l’arte della tessitura: erbe di palude e canne venivano intrecciate a mano senza l’aiuto di particolari attrezzature. Da questi inizi, attraverso un continuo processo di raffinamento della tecnica, si arriva presto alla tessitura delle fibre di lino e della lana delle pecore. Una volta scoperte le tecniche necessarie per estrarre le fibre dal lino e dalla canapa, gli egiziani si cimentaro nella produzione di stoffe sempre più fini e sempre più candide. Durante il Neolitico venne inventato il telaio e da quel momento le tecniche di filatura divennero sempre più efficienti. Basti pensare che in alcune tombe gli archeologi hanno ritrovato delle stoffe fini come seta.
    La filatura e la tessitura erano considerate attività prettamente femminili anche se in alcuni dipinti si possono vedere uomini al telaio. Ad ogni modo, già durante l’Antico Regno queste attività venivano svolte dai servi e dagli schiavi ed in alcuni casi anche dalle donne contadine che lavoravano per le classi superiori.
    L’industria della tessitura in Egitto consisteva quasi interamente nella produzione di lini. La coltura e la preparazione della pianta era quindi della massima importanza e occupava gran parte del lavoro contadino, al pari di quanto accade oggi per il cotone nei paesi produttori.

    Vasaio
    Come il muratore, anche il vasaio adoperava il fango argilloso del Nilo per la creazione dei suoi manufatti impastando l’argilla e collocandola poi su di un piccolo tornio azionato manualmente. Dopo aver modellato il vaso, l’artigiano lo inseriva nel forno per la cottura. A differenza del falegname il vasaio godeva dell’enorme privilegio di possedere una grande abbondanza di materia prima.
    Questa forma di artigianato si sviluppo enormemente già fin dalla preistoria e da quel tempo nulla è cambiato nelle tecniche di lavorazione e nella qualità tanto che oggi è molto difficile datare un comune vaso di terracotta egizio. Per la sua produzione il vasaio stava seduto per terra davanti ad una semplice ruota imperniata in un basso piedistallo e la faceva girare spingendola con una mano mentre con l’altra dava la forma alla creta. Come oggi la forma della fornace del vasaio era cilindrica. I vasi appena creati venivano meticolosamente accatastati all’interno del forno e sopra ad un supporto forato sotto il quale si accedendeva poi il fuoco. I vasi venivano poi coperti da terra o da ceramiche rotte in modo da ottenere così il tiraggio desiderato.
    In linea di massima la ceramica di uso comune è molto povera senza decorazioni artistiche e ornamenti, al massimo si vedevano alcune semplici linee. Anche se non esiste nessun paragone tra la ceramica egiziana e quella di altre civiltà, l’Egitto ha il vanto di aver inventato la tecnica dell’invetratura, tecnica che rende la ceramica assolutamente impermeabile e che permette di poterla decorare con colori brillanti e permanenti.
    Non ci è arrivata nessuna documentazione o antico disegno che ci possa mostrare questa tecnica ed anche il suo nome egiziano è stato ormai dimenticato. Il termine utilizzato oggi, “faience” proviene dalla città di Faenza famosa per la sua industria di ceramica durante il Rinascimento. Faience è appunto l’invetratura che ricopre i vasi di ceramica detta anche “majolica”, dall’isola di Majorca in Spagna. Sia a Faenza che a Majorca la tecnica dell’invetratura giunse dal mondo arabo durante il Medioevo. I più antichi oggetti di faience sono le piastrelle che decorano le camere sotterranee di Saqqara, perline per le collane e piccoli vasi. Durante il Nuovo Regno si trovano anche piccoli amuleti, statuette e bambole.

    Vetraio
    La tecnica per la produzione, conosciuta molto bene dagli egiziani, si sviluppò come evoluzione di quella della faience. Per ottenere una pasta vetrosa simile al nostro vetro i vetrai egiziani fondevano polvere di quarzo e cenere. Questo tipo di vetro era opaco ma con l’aggiunta di ossidi metallici si potevano ottenere delle meravigliose colorazioni.
    Sembra che la produzione del vetro si sviluppo al tempo degli Hyksos grazie forse ai contatti con il Levante e la Mesopotamia dove questa tecnica pare sia stata inventata. Le prima realizzazioni appartengono alla XVIII Dinastia, all’epoca degli Amenofi, ed erano dei piccoli e graziosi contenitori di profumi costituiti da fili di vetro colorato saldati poi assieme dalla cottura.

  • Egiziani: la società

    Punto focale del governo egizio e apice di questa società a struttura piramidale era il re, il faraone. Il potere che gli viene conferito nasce da un’antica struttura sociale preistorica, derivata dalla struttura tribale che prima portò alla creazione di villaggi, città e distretti (nomoi) e poi finalmente, alle Due Terre, unite dalla persona divina del faraone.
    L’Egitto esisteva grazie ad un potere centralizzato e fortemente burocratizzato che fosse in grado di gestire le ricchezze del paese per poi ridistribuirle. E la prima ricchezza era l’agricoltura che non sarebbe stata fiorente senza i sistemi idrici che solo il re poteva coordinare.
    Si venne così a creare un governo in cui vivere non era nè idilliaco nè infernale e gli egizi, nonostante le tassazioni, non volevano vivere in nessun’altro paese (neppure gli stranieri, che ben volentieri si trasferirono in Egitto). Il governo egiziano è completamente impostato sul concetto di Verità e Giustizia, la Maet. E’ così che tutti i burocrati, di qualsiasi livello, erano educati e preparati dalla struttura sociale all’equità. Non mancarono governanti ingiusti ma anche l’umile contadino poteva rivolgersi al visir o al faraone stesso per avere giustizia. Nei millenni di storia egiziana gli equilibri del governo cambiano secondo le varie epoche:

    * potere assoluto e quasi tribale dell’Epoca Thinita;
    * autocrazia dell’Antico Regno;
    * le crisi del Primo e Secondo Periodo Intermedio con il potere in mano ai nomarchi e la spartizione del governo centrale;
    * governo centrale che ritorna in mano al sovrano durante il Medio e Nuovo Regno.

    Con la XVIII Dinastia l’Egitto entra sempre più nella scena politica “mondiale” in quel tempio racchiusa nell’area mediterraneo-medio orientale dove l’imperialismo egizio in Asia è la risposta alle energie e alle ambizioni di quei ceti emergenti, impropriamente detti “borghesi”. Tutto questo è correlato ad un riorientamento della regalità. Non a caso con la XVIII Dinastia la capitale dell’Egitto viene fissata a Tebe, la sepoltura faraonica viene sdoppiata in un ipogeo nascosto nella Valle dei Re e in un tempio funerario tramite il quale la regalità dialoga con il popolo.
    Funzionari, nomarchi, sacerdoti, burocrazia “borghese”, militari : è vasta la costellazione di forze sociali che hanno agito nel mondo egizio. E’ evidente un discorso di classi dirigenti. Dietro c’erano gli altri, quelli indicati con la parola nemeh che da povero passò a significare “libero lavoratore”, soprattutto i contadini, le cui tombe sono anonime.

    La Monarchia

    Alla fine della preistoria l’Egitto Predinastico aveva una configurazione simile all’epoca storica: l’unica cosa che ancora mancava era l’unità di tutto il paese. I capi del Neolitico raccolsero sotto il loro dominio delle aree sempre più ampie sino ad arrivare ad avere i due regni, del Nord e del Sud, che riflettevano sia i diversi tipi di ambiente naturale, che i modelli di vita conseguenti. In questa fase i re erano considerati “Horo” sulla terra, cuore della società. L’unificazione del paese sotto un unico re rese più forte la posizione del “sovrano delle Due Terre” che divenne di conseguenza il suo stesso spirito.

    Il faraone era simbolo e sostegno di un Egitto forte, unito e felice. La parola faraone, che viene dalla Bibbia, è anacronistica per gran parte della storia egiziana. Il termine originario pr-c3 (pronuncia per-‘ao) significa “grande casa” e indicava la residenza reale e venne usato per indicare il monarca a partire da Thutmosis III (XVIII Dinastia). Per quanto riguarda i nomi personali sono indicati da una titolatura con cinque nomi, che spesso comprendono lunghi epiteti riferiti ad un programma o ad una realizzazione del re, ad esempio: “Colui che tiene unite le Due Terre”.

    Il re aveva in sè tutti i poteri divini. La testa corrispondeva al falco di Horo; il viso a “Colui che apre le vie”; il naso a Thot, le cosce alla dea-rana e le natiche alle dee Iside e Neftis; oppure poteva diventare fisicamente figlio di dio con la Theogamia. Come figlio di Ra il re era “l’immagine vivente sulla terra” del dio-sole. Prendeva possesso simbolicamente delle sue proprietà con la cerimonia del “correre intorno al muro”. Oltre flagello e pastorale, simboli di autorità sulla terra, portava anche lo scettro was degli dei, l’uraeus, l’occhio infuocato del sole-dio e la coda di animale (coda di toro perchè il re era visto come toro possente). Il divino, il paese, il re: è il nucleo indivisibile dell’ideologia. Un testo del Primo Periodo Intermedio, che fu un momento di crisi, descrive un governo paternalistico, severo e provvidenziale (insegnamento per Merykare, testamento politico di un re per il figlio). Le cerimonie dell’incoronazione esprimono la natura divina del re, che un Horo e riceve la successione da parte di Osiride, che è figlio di uno o più dei e viene presentato a uomini e dei. Due dei porgono al re le corone dell’Alto e del Basso Egitto; egli corre intorno al muro in segno di presa di possesso del suo dominio.

    Il re viene spesso rappresentato con una barba posticcia simile a quella degli abitanti di Punt, la terra in cui gli egiziani pensavano fossero originari molti dei. Indossa la doppia corona, pschent, simbolo dell’unità del paese. Sulla fronte compare sempre l’ureo, il cobra femmina che è la manifestazione della dea che personifica l’occhio ardente di Ra. Da molti documenti ufficiali si conoscono le intenzioni del sovrano, quel che dice o fa, l’immagine della personalità e delle funzioni regali. Sono sempre chiare le intenzioni politiche. La regalità faraonica durò, fra alti e bassi, quasi tremila anni, un tempo lunghissimo, durante il quale succedette di tutto. Ma il sovrano, per gli egizi, rimaneva sempre umano e divino, il servitore supremo degli dei.

    La Famiglia

    Fin dalla nascita l’antico Egizio veniva protetto dalla morte. Al momento della nascita le sette fate decidevano il destino del neonato che, essendo già scritto, era combattuto da scribi e sacerdoti che, per poterlo modificare, elaborarono la scienza degli oroscopi: l’anno era diviso in giorni fasti e nefasti a seconda delle ricorrenze di avvenimenti mitici. Veniva inoltre predetto, tramite appositi calendari, il tipo di morte del nascituro. I primi gesti e le prime voci erano considerate dei segni da cui trarne le sorti future. La massima aspirazione per un padre era quella di vedere il proprio figlio succedergli nella carica.

    La famiglia è un valore molto importante nell’Antico Egitto ed è comune per tutte le classi sociali. Qualsiasi famiglia egizia è infatti di tipo monogamico tranne quella del faraone che è l’unico a permettersi un harem che, comunque, non intacca i rapporti tra marito e moglie. Intorno al 2700-2500 a.C. la potestà paterna e il diritto di primogenitura vengono sostituiti dall’eguaglianza dei diritti. I valori che reggono la vita familiare più marcati sono il grande rispetto per il padre e l’affetto per la madre, vera e propria raffigurazione della dea Iside all’interno della casa.

    In tutte le rappresentazioni geroglifiche l’uomo viene sempre accompagnato nelle sue azioni dalla moglie e dai suoi figli in un clima di grande armonia come quando, alla fine della giornata, viene raffigurato a giocare con la moglie. Anche lo stesso faraone è protagonista di numerose scene simili. Le storie d’amore divenute famose, Ramesse II e Nefertari, Akhenaton e Nefertiti, Tutankhamon e Ankhsenama, sono evidenti esempi di come si svolgeva la vita familiare nell’Antico Egitto.

    In tutte le occasioni più o meno ufficiali, il faraone è sempre accompagnato nelle sue gesta dalla sua sposa e dai suoi figli. In molte occasioni la sposa partecipava addirittura ai combattimenti dell’esercito, famose furono le imprese di Nefertari contro gli Ittiti, tanto da venire considerata più influente e determinante del marito stesso.

    In un terzo momento, intorno al 1000-800 a.C., il valore spirituale della famiglia si affievolisce lasciando spazio ad interessi economici ed opportunistici. Il matrimonio diviene un comune contratto tra le parti, nel quale vengono anche precisate le condizioni per il divorzio. Il marito afferma:
    “Ti ho presa in sposa, tu mi hai portato denaro d’argento, se io ti lascerò e ti odierò ti restituirò questo denaro più il terzo di quanto avrò guadagnato con te”. Da parte sua la moglie dice:
    “Tu hai fatto di me la tua sposa, mi hai dato denaro; se io ti abbandonerò e amerò un altro uomo, ti restituirò quanto ho ricevuto e non pretenderò nulla di quanto avrò guadagnato insieme a te”.

    L’amore per la famiglia è frutto dell’amore che legò Iside e Osiride dalla cui vita nacque la cultura egiziana. La loro storia fu il modello sul quale si basò la società dell’Antico Egitto.

    La Condizione della donna

    La donna egizia era considerata “la signora della casa”; se si trattava di una donna del popolo, si occupava della macinatura dei cereali e della preparazione della birra, della filatura e della tessitura del lino; se apparteneva alla nobiltà, invece, sovrintendeva al lavoro delle ancelle. La donna condivideva con il marito la vita sociale e disponeva di un patrimonio che portava in dote allo sposo, ma che un contratto le restituiva in parte in caso di vedovanza. Per legge il marito era tenuto a mantenere la propria moglie.

    La sua posizione giuridica non differiva da quella dell’uomo. Si preoccupava assieme allo sposo dell’educazione dei figli ed in particolare le era affidata l’educazione della figlia femmina. Si sposava molto giovane, spesso con un uomo più anziano di lei. Solitamente il matrimonio era combinato dai genitori. I due sposi potevano essere consanguinei e appartenevano sempre allo stesso ceto sociale. Colui che sposava una schiava, viveva al di fuori della legalità e i loro figli erano considerati schiavi. All’interno dell’harem, la donna in apparenza godeva di molti agi, ma in realtà era costretta in uno stato di confinamento.

    Il matrimonio era una semplice festa tra le due famiglie e si concludeva con il trasferimento della sposa a casa del marito. Contratti scritti sono riferibili solo all’età tarda. In caso di divorzio il marito passava degli alimenti alla moglie nella misura di un terzo rispetto alla quota definita nell’accordo iniziale. Cause principali di divorzio erano l’adulterio e la sterilità. Se l’infedeltà del marito era tollerata era possibile che egli prendesse una seconda moglie, al contrario se l’adultera era la moglie veniva frustata e subiva l’amputazione di un orecchio o del naso. La donna aveva diritto dopo la morte ad una tomba tutta sua al pari dell’uomo.

    Il Contadino

    Il contadino era analfabeta e la considerazione sociale di cui godeva era del tutto impari alla fatica profusa. Gli strumenti da lui utilizzati erano diversi, tra questi lo Shaduf, una sorta di traliccio che sorreggeva un’asta, da una parte veniva appeso un contrappeso e dall’altra un secchio che, calato nell’acqua e riempito, poteva essere rapidamente trasportato dove necessitava. La terra che il contadino coltivava non era mai sua, ma della corona o di un ordine sacerdotale. Il suo lavoro era condizionato dalla piena del fiume.

    Egli veniva aiutato da un seminatore che spargeva i semi nei solchi tracciati. Spesso era presente un funzionario del proprietario della terra. Il periodo più duro per il contadino era il momento della raccolta, doveva infatti lavorare sotto lo sguardo degli ispettori del Faraone, impegnati a determinare la quota di prodotto che gli sarebbe stata sottratta. Dopo la raccolta, si presentava lo scriba per definire l’ammontare delle tasse.

    L’Artigiano

    Solo pochi tra gli artigiani riuscivano ad uscire dall’anonimato ed a firmare le proprie opere. I piccoli artigiani raramente potevano contare su una sede di lavoro stabile in prossimità del villaggio in cui abitavano. Spesso erano costretti a faticosi e prolungati spostamenti. Il materiale più usato era l’oro, disponibile in abbondanza nelle miniere della Nubia e del deserto orientale.

    L’oro veniva sbalzato e punzonato con uno strumento appuntito, venivano utilizzate delle fornaci, indispensabili per la fusione dell’oro quando si doveva realizzare un manico o un becco da aggiungere ad un vaso. Molto abili erano i falegnami ed i mobilieri, anche se l’Egitto era costretto ad importare dal Libano il legname di cui scarseggiava.

    Il Soldato

    L’Egitto, per tutta la durata dell’Antico Regno, non dispose di un esercito organizzato, ma nel Medio Regno si andò formando un’esercito permanente, affidato al comando di ufficiali di vario rango ed impegnato nelle campagne di conquista della Nubia. Il soldato era costretto a lunghi turni di addestramento, all’uso delle armi ed all’obbedienza della rigida disciplina. L’esercito era diviso in vari reparti, ogni reparto obbediva ad un sovrintendente che doveva rendere conto ad un generale. Una squadra di scribi provvedeva ad inventariarne perdite, forniture, prigionieri. Le armi utilizzate erano lance e frecce per i combattimenti a distanza, il pugnale, la spada, la clava, il bastone per il corpo a corpo. Dagli Ittiti gli Egizi appresero l’uso del carro da guerra, che permise loro di vincere lo scontro con gli Hyksos.

    I Servi, gli Schiavi

    Il popolo Egizio era costituito da uomini liberi, sebbene compresi in una gerarchia sociale rigida dove tutti dovevano contribuire al benessere del paese. Esistevano i cosiddetti dipendenti, non si trattava di schiavi, ma di uomini del popolo che alle tradizionali attività agricole alternavano corvées obbligatorie.

    Il lavoro coatto era finalizzato alla costruzione dei complessi funerari o a spedizioni militari in Nubia o nel vicino Oriente. Da qui provenivano i prigionieri di guerra ai quali venne applicata l’etichetta di schiavi. Nel Medio Regno, il divario tra lavoratori liberi e coatti si fece più ampio, dato che gli individui si identificarono sempre più con il mestiere svolto, i lavoratori si emanciparono e non furono più costretti a rispondere alla chiamata del Sovrano.

    Lo Scriba

    La figura dello scriba nacque con la necessità di inventariare con precisione gli enormi ammassi di derrate alimentari in entrata ed in uscita dalla casa del Faraone. I tempi di formazione dello scriba erano lunghi, si andava dalla copiatura dei testi redatti in geroglifico corsivo, alla compilazione di miscellanee da opere letterarie. Solo gli alunni più dotati, quelli che apprendevano la difficile arte del geroglifico monumentale, quello più complicato, riuscivano ad arrivare a corte.

    Lo scriba, consapevole del ruolo che ricopriva, custodiva gelosamente i segreti della sua professione e li tramandava di generazione in generazione. I suoi tradizionali strumenti di lavoro erano uno stilo, un’astuccio con gli incavi per contenere l’inchiostro in pasta, una cordicella e, appeso, un piccolo contenitore per l’acqua in cui intingere e ripulire i pennelli. Gli scribi scrivevano sul papiro, facile da raccogliere e trasportare e che, opportunamente lavorato, formava fogli resistenti e morbidi allo stesso tempo. Gli scribi provvedevano ad incollarli uno all’altro in caso di testi estesi. Inutile dire che la professione di scriba era la più difficile ed ambita di tutto l’antico Egitto.

    Il Sacerdote

    La casta sacerdotale aveva un ruolo importante nella gestione del potere, affiancando i Faraoni e minacciandone a volte la supremazia. Il sacerdote aveva il compito di officiare i numerosi e complicati riti imposti dagli Dei. Potevano inoltre avere l’accesso alla parte più interna del tempio, quella in cui era conservata la statua del Dio, dopo preventive pratiche purificatorie. La circoncisione, la rasatura del corpo, l’astensione da cibi come le verdure a foglia verde o i pesci di mare, il divieto periodico di rapporti sessuali (ai sacerdoti era consentito sposarsi) costituivano la regola.

    Dopo essersi purificato, il sacerdote faceva il suo ingresso nel tempio rivestito di una tunica di lino purissimo, mentre il corteo degli officianti si fermava davanti alla porta della cella centrale, in attesa della rottura dei sigilli. Tolti i sigilli, compariva il simulacro del Dio. Durante la celebrazione dei giorni di festa, spesso la statua del Dio veniva trasportata su barche solari.

    Il Funzionario

    La professione di funzionario era piuttosto ambita anche se spesso avveniva solo tramite trasmissione ereditaria. Il Visir, braccio destro del Faraone, veniva anche detto “sovrintendente a tutti i lavori del sovrano”, in quanto direttore del cantiere finalizzato a dargli onorevole sepoltura.

    Era giudice supremo e riceveva periodicamente postulanti che venivano ad esporgli le loro lagnanze. A lui si doveva la trasmissione degli ordini del Faraone agli scribi di palazzo, l’imposizione di tasse e corvées, la gestione delle trattative diplomatiche.

    Il Nomarca

    Nomarca deriva dal termine “nomo” che in greco indicava i vari distretti in cui venne suddiviso l’Egitto: i nomarchi erano i capi del nomo e generalmente appartenevano a classi sociali elevate : principi, nobili, ecc.
    Originariamente erano i direttori dei lavori del sovrano, coordinatori e responsabili per l’area assegnata. Verso la fine dell’Antico Regno le cariche divennero sempre maggiori ed ereditarie. Le terre inizialmente di proprietà del sovrano passarono nelle mani dei nomarchi grazie a donazioni o privilegi reali e alla fine lo stato perse il proprio potere centrale cadendo in un caos totale che continuò durante tutto il Primo Periodo Intermedio.Quando venne ristabilito l’ordine, i nomarchi erano diventati dei principi indipendenti, ognuno a capo del proprio distretto su cui regnavano come sovrani incontrastati. Furono proprio alcuni di questi principi, quelli tebani, che riunirono di nuovo l’Egitto dando vita al Medio Regno. Furono ancora i principi tebani che scacciarono gli Hyksos dalla terra d’Egitto fondando il Nuovo Regno. In questo ultimo periodo i nomarchi continuano ad esistere ma il loro potere venne limitati dal potente apparato burocratico del paese.Va fatto notare che quando i nomarchi erano ancora dei veri principi e con ampio potere di azione, lo usarono generalmente a favore del popolo : essi soccorsero la popolazione in tempo di carestia e spesso recarono aiuto anche ai nomoi vicini. Nei Bassi Tempi riappaiono le grandi proprietà fondiarie ed ereditarie dei nomarchi ma, sotto i Lagidi ed i Romani, i nomarchi sono riportati al ruolo iniziale di funzionari statali.

    Il Faraone

    Il Faraone era la suprema autorità della piramide sociale Egizia. La parola “Faraone” significa “grande casa”. Il faraone veniva raffigurato con la barba, ricurva o fissata al mento da un nastro. Altri simboli dichiaravano il suo potere, come la corona, bianca quella dell’Alto Egitto, rossa quella del Basso Egitto, doppia quella del Paese unificato.

    Attaccata alla cintola del gonnellino aveva una coda di animale, variamente identificata in una coda di cane o di toro. Il Re impugnava un bastone pastorale ricurvo ed il flagello. Sulla sua testa compariva spesso l’Ureos, il serpente cobra femmina, rappresentazione dell’occhio del dio solare; sulle spalle era appollaiato il falco Horus, il figlio di Iside ed Osiride. Al sovrano ci si poteva avvicinare solo nell’atto del suddito che si prostra sino a baciare la terra. La sua nascita era preceduta da apparizioni miracolose che ne anticipavano la consacrazione. La giornata tipo del Faraone era minuziosamente organizzata, da una parte gli impegni ufficiali, dall’altra le occupazioni domestiche.
    Quanto si sa dei Faraoni vivi, dei loro pensieri, dei sentimenti é nulla rispetto a quello che si sa di loro da morti, unica eccezione quella del Faraone Akhenaton che pitture di gusto insolitamente realistico ritraggono in scene di vita familiare che ne testimoniano l’attenzione verso le figlie e la moglie.

    I Simboli del Potere

    Le Corone
    Le corone dei sovrani egiziani avevano un profondo significato simbolico e ognuna di esse era adatta per situazioni e significati particolari. Oltre ad alludere al carattere dei loro possessori erano innanzi tutto un simbolo di potere.
    Considerando la visione egizia secondo la quale qualsiasi oggetto o qualsiasi raffigurazione creata dal pensiero potesse avere vita propria, anche le corone erano considerate soprannaturali e nutrivano il re in modo che esso potesse condividerne il favoloso potere.

    A significato del loro potere su tutta la terra d’Egitto, i re, come signori delle “Due Terre”, indossavano la doppia corona denominata pa-sekhemty (la potente) ed era una combinazione della corona bianca dell’Alto Egitto (hedjet) e della corona rossa del Basso Egitto (deshret). A loro volta queste corone rappresentavano l’incarnazione delle divinità che proteggevano la regalità: Nekhbet per l’Alto Egitto e Wadjet per il Basso Egitto.

    All’incirca dall’epoca di Snefru, sovrano della IV Dinastia, veniva portata la corona dalle doppie piume e consisteva in due alte piume di struzzo.

    Più tardi, a partire dalla XVIII Dinastia, il sovrano adottò la corona blu chiamata Khepresh.

    La corona portata principalmente da Osiride e chiamata Atef era una combinazione della corona dalle doppie piume e della corona bianca dell’Alto Egitto con l’aggiunta di un disco solare posto all’apice e che sostituiva l’apice bulboso.

    Gli egizi, che tendevano la sincretismo, videro le corone come l’occhio del dio sole, ma anche come l’uraeus e come fiamma protettrice del re. Sotto le corone il re portava un tessuto particolare, il nemes.

    Corone divine e Copricapi
    Una delle cose che più colpiscono il pubblico che guardi le immagini degli dei egizi sono le singolari corone e copricapi che spesso li contraddistinguono; tuttavia non sempre l’osservazione del copricapo assicura l’identità della divinità; ciò perché, a causa dei fenomeni di sincretismo cui si è accennato sopra, più divinità possono fondersi in una sola e dunque avere attributi intercambiabili; in questo caso solo le iscrizioni possono illuminarci; talvolta si hanno entrambe le informazioni, dato che il “copricapo” della divinità è un segno geroglifico o il simbolo stesso della divinità.

    Vediamo brevemente una piccola galleria di dei, a titolo di esempio (come si noterà, alcune divinità hanno attributi comuni – corna di vacca, disco solare, piuma di struzzo -, che si riferiscono a sincretismi o a caratteristiche comuni e intercambiabili):

    * Amentet (personificazione dell’ovest ): il geroglifico dell’ovest: uno stendardo accorciato con piuma e uccello.
    * Amon: corona con due alte piume.
    * Anuket: corona con piume.
    * Atum: corona doppia.
    * Gheb: corona combinata con quella del Basso Egitto e l’Atef; talvolta un’oca.
    * Ha: il segno geroglifico per “deserto”, ossia la stilizzazione di una zona collinosa.
    * Hathor : corna di vacca con disco solare.
    * Heh: una fronda di palma.
    * Hemsut: lo scudo con due frecce incrociate.
    * Horo: doppia corona o doppia corona di piume.
    * Iabet(personificazione dell’Est ): il segno dell’est, ossia una lancia ornata come stendardo.
    * Iside: corna di vacca e disco solare, o copricapo a forma di avvoltoio, o il segno geroglifico per “trono” (che indica il nome di Iside).
    * Khonsu: il disco e la falce lunare.
    * Maet: la piuma di struzzo.
    * Meskhent : una spiga di erba o grano tagliata e arrotolata.
    * Min: corona di doppie piume con un nastro che pende sino in basso sulle spalle.
    * Mut: copricapo a forma di avvoltoio; spesso sormontato dalla corona doppia.
    * Nekhbet: il copricapo con avvoltoio della corona del Basso Egitto.
    * Neit: scudo con due frecce, o una faretra, e la corona del Basso Egitto.
    * Neftis: un recinto rettangolare visto in pianta e sormontato da un canestro intrecciato (il segno geroglifico di “Signora della Casa”).
    * Nut: un vaso arrotondato.
    * Osiride: corona atef.
    * Ptah: una calotta liscia.
    * Sciu: una piuma di struzzo.

    Gli Scettri
    Fra i più antichi simboli di potere regale e divino, gli scettri egizi furono diversi; esponiamo brevemente di seguito una lista dei principali:

    * Hekat: è lo scettro a uncino che assomiglia all’odierno pastorale vescovile. Era portato da re e alti ufficiali. Il più antico, alto quasi quanto un uomo, era un tempo il bastone dei pastori e anche più tardi lo si trova come attributo del dio pastore Andjeti. Da questa forma originaria derivò quella più recente dello scettro più corto e più ricurvo. Nella scrittura il geroglifico dell’eka significa “governare”. Nel Medio Regno il bastone veniva posto nei fregi dei sarcofagi come simbolo di Osiride.
    * Nekhekh: è il flagello.
    * Was: si tratta di un lungo scettro la cui parte posteriore ha la forma di animale mitico.
    * Aba: si tratta di uno scettro a forma di paletta.
    * Wadj: è lo scettro ad estremità floreale che rappresenta il papiro e ne ha le sue caratteristiche e i suoi significati.
    * Khu: è lo scettro a forma di piuma.
    * Aut: scettro semplice con la forma di bastone ricurvo a un’estremità.

  • Egiziani: la religione

    Gli Dei

    Ra
    Personificazione del dio solare, associato ad Atum (il tutto) è, secondo le teologie Eliopolita ed Ermopolita, il creatore dell’universo. Viaggiava nel cielo con il suo equipaggio su due barche: quella del giorno e quella della notte. Veniva ingoiato la sera da Nut e partorito la mattina. Da lui era stata emanata una figlia, Maat.

    Atum
    Dio principale di Eliopoli, creatore per eccellenza, fu poi identificato con il sole la sera i suoi animali sacri erano il leone, il serpente e l’icneumone.

    Shu
    Dio dell’aria secca, figlio di Atum-ra e gemello di Tefnut. Genera Geb e Nut. Nell’iconografia separava Geb da Nut.

    Tefnut
    Dea dell’aria umida, figlio di Atum-ra e gemella e sposa di Shu. Dea di Oxyrhynchos.

    Nut
    Dea del cielo, sorella e sposa di Geb, madre di Osiride, Iside, Seth e Nefthi. Ingoia il sole a tramonto e lo partorisce al mattino.

    Geb
    Dio della terra, sposo e fratello di Nut, padre di Osiride, Iside, Seth e Nefthi.

    Osiride
    Dio di Busiride. Figlio di Nut e Geb, é il dio-re dell’Egitto, lo sposo-fratello di Iside e il padre di Horus. Dopo la morte regna sull’aldilà dove, oltre che sovrano, é giudice supremo. Come dio della vegetazione viene spesso rappresentato in forma di mummia da cui germogliavano delle piante.

    Iside
    Figlia di Nut e Geb, é la grande maga, la dea madre e regina. Osiride ne é lo sposo-fratello, Horus il figlio. Il suo nome significa “il trono”.

    Seth
    Dio di Ombos. Figlio di Nut e Geb, fratello di Osiride, Iside e Nefthi, di quest’ultima anche sposo. Dio della siccità e del cattivo tempo, in senso lato potenza distruttrice, simbolo del male. Secondo la leggenda fu l’uccisore di suo fratello Osiride.

    Nefthi
    Dea di Diospolis Parva. Figlia di Geb e Nut, sorella di Osiride, Iside e Seth, di quest’ultimo anche sposa (pur non innamorata) e madre di Anubi. E’ la dea della casa.

    Horus
    Dio di Behdet. Dio falco sdoppiato in Horus il Grande (Haroeris) e in Horus Bambino (Arpocrate). Figlio di Iside e Osiride, regna sull’Egitto dopo la morte del padre. I faraoni sono considerati suoi discendenti.

    Ptah
    Dio di Menfi e, secondo la teologia Menfita, creatore dell’universo. La sua esistenza avrebbe preceduto quella di Atum-ra. Patrono degli scultori e dei forgiatori, il suo animale sacro era il toro Apis.

    Sekhmet
    Dea di Rehesu, era la dea della salute e del male nello stesso tempo, patrona della guerra e della medicina. E’ raffigurata in forma leonina ed é ritenuta sposa di Ptah. Era legata a Bastet, la dea gatta, nella quale si riteneva si fosse trasformata.

    Nefertum
    Dio della regione di Menfi. Era figlio di Ptah e Sekhmet.

    Thot
    Dio di Hermopolis. Dio della saggezza, messaggero degli dei. Nell’oltretomba assiste alla pesatura del cuore del defunto. E’ generalmente rappresentato con al testa di ibis. E’ il dio della scienza, della scrittura, delle arti magiche e delle fasi lunari.

    Anubi
    Dio sciacallo di Cinopolis, assiste Horus e Thot nella pesatura del cuore dei defunti, preposto ai segreti. E’ figlio illegittimo di Osiride e di Nefthi.

    Hathor
    Dea di Afroditopolis e di Dendera. Dea dell’amore, patrona della musica e della danza, generalmente rappresentata nell’aspetto di vacca. Il suo emblema era il sistro

    Khnum
    Dio caprone di Hypselis, Esna ed Elefantina, inventore degli uomini (modellati al tornio del vasaio) e, come “Signore della cascata”, regolava le piene del Nilo.

    Satet
    Dea di Elefantina e sposa di Khnum.

    Anuket
    Dea dell’isola di Sehel e della prima cateratta; veniva raffigurata con un copricapo di strana foggia, forse di origine straniera. Assieme a Khnum e Satet, di cui era forse figlia, formava la triade di Elefantina.

    Maat
    Divinità astratta, simbolo della verità e della giustizia. Figura nella cerimonia del giudizio del defunto. Dea della “regola” a cui dovevano attenersi uomini, re e dei.

    Neith
    Dea di Sais. Il suo culto, di derivazione tribale, continua in età storia, quando diventa la divinità funeraria nota con il nome di Mehurt. Dea creatrice della guerra, in seguito dea della caccia. A Esna era compagna di Khnum.

    Amon
    In origine una delle otto divinità primordiali adorate ad Ermopoli. Diviene poi il dio supremo, la divinità solare Amon-ra. La città di Tebe é il centro principale del suo culto. Il suo nome significa “il misterioso”, assieme alla moglie Muth e al figlio Khons forma la triade di Tebe. Il suo animale è l’ariete, come si può intuire dal viale cerimoniale del suo tempio principale a Karnak, uno dei più grandi ed importanti del paese.

    Muth
    Dea di una località vicino a Karnak, dove si eleva il suo tempio. La si raffigura sotto forma di donna o di avvoltoio. I copricapi delle regine, che presentano spesso le ali e una testa di avvoltoio, si intitolano alla dea, sposa di Amon.

    Khons
    Dio di Tebe associato alla luna. Con Amon e Muth formava la triade di Tebe

    Sobek
    Dio coccodrillo del Fayum e di Kom Ombo, connesso alle acque ed alla fertilità. Più tardi dio creatore.

    Hapi
    Divinità rappresentante il Nilo. Non si tratta del fiume divinizzato, ma piuttosto del suo spirito, della sua essenza dinamica. Veniva rappresentato come uomo dai seni pesanti e dal ventre prominente, a simboleggiare abbondanza; la divinità portava sempre doni, fiori e piante.

    Bes
    Nume protettore della casa e dei bambini.

    Altre divinità:

    Serket
    Appartiene alla cerchia delle dee maghe, associate a Iside. Dea scorpione, era rappresentata come scorpione a testa di donna o come donna con uno scorpione in testa. Secondo le leggende locali era la madre di Harakhte (il sole all’orizzonte) e sposa di Horus.

    Nun
    Massa liquida primordiale da cui é emerso il dio-sole Atum-ra. Oltre che nei miti della creazione compare in quello della distruzione del genere umano come la divinità che consigliò a Ra di inviare il proprio occhio contro i ribelli.

    Upuaut
    L’apritore di strade.

    Apis
    Toro sacro, considerato incarnazione di Ptah.

    Apofi
    Nome del serpente che nel regno di Duat (oltretomba) lotta contro il dio sole per contrastarne l’approdo a oriente.

    Heh
    Milioni, associato ad altri Heh presenta le pervasività dell’aria.

    Min
    Dio della terra e della fecondità, appellativo di Horus. Era il dio locale di Coptos e della regione desertica tra il Nilo ed il mar Rosso, come pure di Panopolis. Veniva sempre rappresentato come dio itifallico.

    Montu
    Dio guerriero, patrono della guerra e delle sue arti.

    Tueret
    Dea ippopotamo, protettrice della casa e della gravidanza.

    Seshat
    Dea del destino.

    Khepri
    Nome che indica l’aspetto mattiniero del sole, generalmente rappresentato come scarabeo.

    Imset
    Figlio di Horus, dalla testa umana. Dio funerario, rappresentato sul vaso canopo contenente il fegato. E’ posto sotto la protezione di Iside.

    Hapy
    Figlio di Horus, dalla testa di babbuino. Dio funerario, rappresentato sul vaso canopo contenente i polmoni. E’ posto sotto la protezione di Nefthi.

    Quebhsenuf
    Figlio di Horus, dalla testa di falcone. Dio funerario, rappresentato sul vaso canopo contenente l’intestino. E’ posto sotto la protezione di Selket.

    Duamutef
    Figlio di Horus, dalla testa di sciacallo. Dio funerario, rappresentato sul vaso canopo contenente lo stomaco. E’ posto sotto la protezione di Neith.

    Bastet
    Dea di Bubasti. Raffigurata con testa di gatta, fa parte di un mito che la vede ultima trasformazione del ciclo: l’occhio del sole, figlio di Ra, si era infuriato e, trasformatosi in leonessa (Sekhmet) era fuggita in Nubia; qui, raggiunta da Thot, era stata calmata dal dio. Più tranquilla, si trasformò in donna dalla testa di gatta, dall’indole pacifica.

    Nekhbet
    Dea avvoltoio di El Kab. Era associata alla regalità.

    Uaget
    Dea serpente di Buto, era patrona della regalità e associata a Nekhbet nei titoli del faraone.

    La creazione del mondo

    Nella religione egiziana sono diversi i miti che riguardano la creazione del mondo; ciascuna delle grandi città sede di culti religiosi tendeva con un proprio mito a far prevalere se stessa (il proprio dio “patrono”) sulle altre.
    Al principio sono le acque di Nun, il caos nelle cui profondità giace addormentato lo spirito del creatore. Da Nun emerge una collinetta sabbiosa (rappresentazione dell’Egitto), sulla quale, prendendo l’aspetto di una fenice, si posa il creatore, Atum-ra, il Sole. Atum-ra, “tenendo il fallo in pugno ed eiaculando diede vita ai gemelli Shu (dio dell’aria) e Tefnut (dio dell’umidità)”. Versioni meno esplicite dicono che fu uno sputo o uno starnuto a dare vita ai gemelli. Dai due gemelli nascono Nut (il cielo) e Geb (la terra). Dice il mito che Geb e Nut, innamorati, se ne stavano tutto il tempo abbracciati, impedendo alla vita di germogliare. Atum-ra allora comanda a Shu di separarli. Shu calpesta Geb e con le mani solleva Nut (che infatti é sempre rappresentata inarcata e con le mani ed i piedi aggrappati a Geb).
    Da Geb e Nut nascono Osiride, Seth, Iside e Nefhti che con Horus (figlio di Osiride ed Iside) ed i quattro dei loro progenitori formano l’Enneade. Esiste una materia primordiale nella quale nuotano otto creature: Nun e Nanhet, le acque primigene, Het e Hanhet, lo spazio infinito, Kek e Hehet, l’oscurità, Amon e Amanuet, l’ignoto. Assieme formano l’Ogdoade. Essi fecero nascere il sole e crearono Atum. Si fusero in un grande uovo dal quale nacque il creatore. Dopo di ciò si estraniarono dall’universo creato. Questi otto dei quindi precedono l’Enneade.
    Dal caos (Nun) nasce l’idea di Atum-ra che prende corpo nel cuore divino di Ptah. Quindi l’idea viene espressa dalla bocca di Ptah. Segue la creazione di tutta l’Enneade.

    Teologia Predinastica
    Neith (in seguito signora dei mestieri) stende il cielo nel suo telaio. Con la navetta pazientemente vi tesse il mondo. Ultimata la tessitura Neith intreccia alcune reti con le quali pesca gli esseri viventi dalle acque primigene. Quindi inventa il parto e lo esperimenta su di sè per dare vita a Ra.

    Gli Dei sulla Terra
    La leggenda racconta che quando gli Dei camminavano sulla terra era il tempo delle dinastie e Osiride era il quarto dio che regnava in terra, dopo Ra, Shu e Geb. I suoi predecessori si erano ritirati in cielo stanchi e scoraggiati: non erano riusciti ad educare gli uomini. Solo un dio che accettasse di condividere le sofferenze e la morte segnata nel destino dell’uomo con l’aiuto della moglie, la sorella Iside, insegnò agli uomini a coltivare il grano, a fare la farina e il pane, a pigiare l’uva, a fare con l’orzo una specie di birra e a fabbricare armi.
    Osiride, affiancato dal dio Thot delle arti e della scienza, inventò i segni della scrittura e si prestò a civilizzare il resto del mondo, lasciando al governo dell’Egitto la moglie Iside. Al suo ritorno il fratello Seth e Aso, la regina dell’Etiopia, avevano ordito una congiura contro di lui: Osiride fu invitato a banchetto e Seth organizzò un gioco. Fece costruire un baule tutto ornato d’oro, con le misure corporee del fratello; questo sarebbe appartenuto a chiunque fosse riuscito ad entrarci del tutto. Ovviamente gli invitati provarono a stendersi nella cassa ma non erano della taglia giusta, ma quando toccò a Osiride tutti notarono che vi entrava a meraviglia e subito sette complici di Seth si avventarono sulla cassa sigillandola con il faraone vivo al suo interno. Il baule fu quindi gettato nelle acque del Nilo da dove raggiunse le spiagge del Biblo ai piedi di una tamerice. Intanto Iside, venuta a sapere dell’accaduto, raggiunse Biblo e si mise a cercare il cofano.
    Ospite della regina e sua cara amica, svelò il suo essere di dea e riconoscente dell’ospitalità, decise di rendere immortale il principino: ogni notte lo immergeva nelle acque purificatrici, ma invano. La regina ne fu profondamente rattristata, ma allo stesso tempo grata e le avrebbe offerto tutto ciò che avesse voluto.
    Iside richiese la grande colonna che il re fece costruire con il tamerice, dove era contenuto il cofano, ne trasse lo scrigno e riempì il tronco di profumi, lo avvolse in aulenti bende e lo lasciò al re e al suo popolo come suo ricordo e preziosa reliquia. Ripresa la via del ritorno, fece fermare la carovana e aprì la cassa. All’apparire del volto del marito, le sue urla riempirono l’aria di dolore; usò tutte le possibili formule magiche per richiamare in vita lo sposo (“Tu che ami la luce, non camminare nelle tenebre”), ma nulla cambiò. Nascose la cassa in un luogo presso Buto tra le paludi del Delta. Ma per caso Seth, andando a caccia di notte lo trovò e apertolo, tagliò il corpo del fratello in 14 pezzi che sparpagliò per tutto l’Egitto.
    Iside, saputolo, ricominciò la ricerca e riuscì a ricomporre il corpo con l’aiuto della sorella Nefti, Thot e Anubi, che pare sia il figlio illegittimo di Osiride e Nefti.
    Iside si trasformò in nibbio e sbattè le ali per restituire il soffio della vita al defunto e si posò al posto del sesso scomparso di Osiride facendolo riapparire e ad esserne fecondata. Anubi imbalsamò il corpo di Osiride che divenne il signore del regno dei morti, confezionando la prima mummia fasciata e ricoperta di talismani; sui muri del sepolcro furono incise le formule magiche di rito e accanto al sarcofago fu deposta una statua a lui somigliante. Compiuto il rito della sepoltura, Iside ritornò a nascondersi nelle paludi per proteggere il nascituro dalle vendette di Seth.
    Quando Horo nacque, fu protetto con tutto l’amore, crebbe e Osiride tornò sulla terra per farne un soldato. Radunati tutti i suoi fedeli, partì alla ricerca di Seth per vendicare il padre. La battaglia durò tre giorni e tre notti: Horo mutilò Seth, ma questo si trasformò in un enorme maiale nero e ingoiò l’occhio sinistro di Horo. Alla fine Seth stava per soccombere, quando Iside implorò il figlio di risparmiarlo alla sorella Nefti. Horo, in uno scatto di ira, tagliò la testa alla madre, ma Thot la guarì ponendole una testa di mucca. La battaglia non ebbe né vincitori né vinti: Thot guarì Seth che fu costretto a restituire l’occhio sinistro ad Horo. Tutta la battaglia fu posta nelle mani del giudizio di Thot e del Divino Tribunale convocati da Seth che non volle ammettere il proprio fallimento. Siccome il tribunale sorgeva su di un’isola, Seth ordinò a tutti i traghettatori di vietare a qualsiasi donne di salire sulla barca.
    In questo modo Iside sarebbe stata impossibilitata a sostenere la propria causa. Iside riuscì comunque a raggiungere l’isola regalando un anello d’oro al traghettatore. Dopo 80 anni il Divino Tribunale sentenziò che Horo avesse il regno del Basso Egitto e Seth quello dell’Alto Egitto.

    La leggenda dell’Occhio di Ra
    Il Sole ha perduto il proprio occhio e invia i figli Shu e Tefnut alla ricerca del fuggiasco, ma il tempo passa e costoro non ritornano. Ra decide quindi di sostituire l’assente, ma, nel frattempo, l’Occhio ritorna e si accorge di essere stato sostituito. Dalla rabbia, si mette a piangere e dalle sue lacrime (remut) nascono gli uomini (remet). Ra lo trasforma allora in cobra e se lo pone sulla fronte: l’Occhio diventa così l’Ureo, che fulmina i nemici del dio.

    La ribellione degli uomini
    Anche in Egitto, come in altre parti del mondo, esiste il mito della ribellione degli uomini contro gli Dei. La leggenda egiziana narra che il dio creatore Ra, per affrontare questa situazione, decise di inviare sulla terra il suo Occhio sottoforma della dea Hathor. Hathor, che ha sembianze di leonessa, divora in una notte parte dell’umanità e poi si addormenta. Ra crede che l’umanità sia stata punita a sufficenza e perciò decide di spargere sulla terra una birra colorata che, mescolata alle acque del Nilo, produce un liquido simile al sangue.
    Hathor al risveglio beve questo liquido che le causerà la morte per ubriachezza. Il resto dell’umanità è quindi salvo e Ra, deluso, si ritira in cielo affidando gli uomini a Thot e i serpenti, simbolo di regalità, a Geb. Viene così sancita la separazione tra Dei e uomini. Ogni specie avrà un proprio posto nell’universo che, da questo momento, conoscerà lo spazio, get, e il tempo, neheh.

    La leggenda del dio Min
    La leggenda racconta di un uomo che, essendo mutilato, non potè partecipare ad una guerra per la quale partirono tutti gli uomini del villaggio. L’uomo mutilato, approfittando dell’assenza degli altri uomini, mise incinta tutte le donne. Al loro ritorno i soldati vollero giustiziare l’uomo mutilato, ma alla fine decisero di divinizzarlo facendo così nascere il dio Min che, per la sua storia, venne rappresentato senza un braccio e senza una gamba, ma con un evidente risalto del sesso maschile.

    Animali sacri

    Non tutti gli animali erano considerati sacri e, tra questi, solo determinate speci lo erano. Così solo una particolare specie di coccodrillo, di serpente o di falco era sacra. In epoca tarda, probabilmente a causa del progressivo ed inarrestabile sfacelo del regno egizio, la religione sfociò sempre più nella superstizione che portò a riti e a credenze molto particolari.

    I Gatti
    Nell’Antico Egitto i gatti domestici erano adorati e raffigurati in dipinti, sculture e incisioni. Gli Antichi Egizi tenevano in grande considerazione questo animale, tanto che lo scelsero per rappresentare Bastet e Sekhmet, sorella di Bastet ed anch’essa raffigurata con parti di gatto. Il gatto condivideva con Bastet la fertilità e la chiaroveggenza, mentre con Sekhmet la preveggenza. Sekhmet, che rappresentava la giustizia e la potenza in guerra, veniva interrogata dai sacerdoti per conoscere i piani del nemico e quindi aiutare i soldati in battaglia.
    I gatti erano considerati animali sacri al punto che, se accidentalmente ne veniva ucciso uno, lo sfortunato responsabile doveva essere punito con la morte.
    In caso di incendio o qualsiasi emergenza che richiedeva l’evacuazione di un’abitazione, il gatto doveva essere salvato prima di ogni altro membro della famiglia e degli oggetti che si trovavano nella casa. Quando un gatto moriva, per le persone a esso legate cominciava un lungo periodo di lutto, caratterizzato dalla rasatura delle sopracciglia e dalla percussione di gong funebri per esprimere il dolore.
    Gli Egizi credevano che anche per il gatto esistesse l’aldilà e perciò anch’essi venivano mummificati e, quindi, sepolti, con tanto di funerale.
    In una tomba del 1700 a.C.circa, furono trovati diciassette scheletri di gatto, ognuno dei quali era stato provvisto di una ciotola per il latte che ne assicurava la sopravvivenza nell’aldilà, insieme a topi e piccoli animali mummificati.
    Nell’antica città di Beni Assan in un solo cimitero furono rinvenute più di trecentomila piccole mummie.

    Il Libro dei Morti

    Il Libro dei Morti ha origini molto antiche, forse addirittura precedenti all’inizio dell’epoca faraonica e contiene le direttive per un corretto viaggio dell’anima nell’al di là.
    Il Libro dei Morti era, per gli Antichi Egizi, quello che è la Bibbia per i Cristiani. In epoca tarda veniva addiruttura preso alla lettera poichè, probabilmente, i suoi significati erano divenuti un po’ annebbiati. Il nome in egiziano era REU NU PERT EM HRU, letteralmente “Capitoli per il giorno futuro”. L’appellativo Libro dei Morti è stato assegnato dai primi studiosi che ne interpretavano i contenuti.
    All’interno del volume, sopravvissuto solo in alcune parti, sono infatti trattati riti magici, metafisica e i vari stati dell’anima prima e, soprattutto, dopo la morte. Secondo Wallis Budge, il Libro dei Morti non è stato scritto dagli Egiziani, ma avrebbe origini ben più antiche e, quindi, sarebbe stato ereditato da una civiltà precedente.
    Il Libro dei Morti si divide in tre parti chiamate recensioni: eliopolitana, tebana e saita. La prima versione, quella eliopolitana, datata intorno al 3500 a.C., mentre la copia più antica giunta sino a noi, risale alla XVIII dinastia e ascrive chiaramente il ritrovamento del capitolo alla I dinastia. Tutto ciò è avvallato dagli stessi geroglifici ritratti che riproducono fedelmente Osiride e Horo a dimostrazione dell’antichità di questo culto. I libri sacri (recensione eliopolitana) furono abbandonati o, forse, smarriti fra la VI e la XI dinastia per poi riaffiorare tra la XI e la XII dinastia (recensione tebana).
    Tra la XII e la XVII dinastia il Libro dei Morti scompare di nuovo nell’oblio, mentre la XVIII dinastia recupera ancora l’antico culto riportando le antiche iscrizioni, fatte su sarcofagi, piramidi e statue, su papiri (recensione saita). Normalmente scritto su un rotolo di papiro, il Libro dei Morti serviva per pronunciare le formule magiche durante il rito funerario che facilitavano il viaggio del morto nell’aldilà. All’inizio queste formule erano incise nella camera funeraria. Successivamente i testi vennero scritti sulla cassa funebre e solo più tardi su carta.
    Il numero dei capitoli del libro sepolti con il defunto variava a seconda del denaro che egli possedeva (i testi più semplici venivano fatti in serie lasciando uno spazio bianco per scrivere il nome del morto). Sulle strisce di papiro venivano trascritti i testi delle formule funerarie e disegnate alcune vignette ornamentali. Nei disegni gli uomini venivano raffigurati con la carnagione rosso mattone perché stavano al sole, le donne venivano dipinte gialle o bianco avorio perché restavano in casa. Il Libro dei Morti scritto su papiro era contenuto in astucci di forma diversa (per esempio una statuina di Osiride) con scomparti segreti e deposti nelle tombe. Le formule del libro dei morti servivano a far vivere la salma nella tomba, a non farla putrefare e a impedire che le tagliassero la testa. Altre formule servivano a non far lavorare l’anima nell’aldilà e a impedirle di incontrare serpenti e coccodrilli.
    Una particolare formula del libro serviva a indurre il cuore a testimoniare a favore del suo padrone durante la psicostasia; questa formula, spesso, era anche incisa sullo “scarabeo del cuore”, un amuleto che veniva posto sul cuore del defunto.
    Altra formula importante era quella per la Ba che doveva tornare dal defunto: “Dio grande, fa che l’anima Ba possa venire a me da qualsiasi luogo si trovi. Che ella veda il suo corpo, che ella riposi sulla sua mummia. Che non perisca mai!”. La massima aspirazione per l’antico Egizio era di tornare a vedere la luce dopo la morte.

    Le 42 Confessioni
    Queste le quarantadue confessioni negative che lo spirito del defunto nega di aver commesso. Leggendole attentamente evocano alla nostra mente di cristiani lontani ricordi. Egli dice davanti al giudice assegnatogli:
    Non ho commesso ingiustizie
    Non ho rubato esercitando violenza
    Non ho commesso atti violenti
    Non ho rubato
    Non ho ucciso né uomo né donna
    Non ho agito in modo ingannevole
    Non ho rubato oggetti di proprietá divina
    Non ho pronunciato il falso
    Non ho pronunciato malvagità
    Non ho attaccato altri
    Non ho violato la donna d’altri
    Non ho commesso peccato contro la purezza
    Non ho intimorito altri
    Non ho vissuto nella rabbia
    Non ho finto sorditá alle parole giuste e veritiere
    Non ho incoraggiato conflitti
    Non ho abusato d’altri
    Non ho espresso giudizi affrettati
    Non ho contaminato le acque
    Non non stato insolente
    Non ho perseguito alcuna distinzione

    La regola di Maat

    Nei simboli geroglifici, Maat veniva rappresentata come lo zoccolo del trono. Il suo significato è l’ordine, la saggezza, la ritualità, la rettitudine, la giustizia, la morale, l’armonia universale. Essa è la custode della legge divina, verità perfetta e sapienza assoluta. Simbolo di Maat, nel linguaggio dei geroglifici, era lo zoccolo del trono, rettitudine per eccellenza. Ogni decisione del faraone veniva ispirata a Maat come garanzia di assoluta giustezza e perciò accettata dal popolo come incontestabile verità. Maat è la figlia di Ra, il dio sole, e sorella di Thot, dio della sapienza. Con lui sedeva sulla prua della nave di Ra, impugnando lo scettro e l’ankh e portando la piuma bianca della verità.
    Nel momento della sua salita al trono, il faraone prestava giuramento a Maat, mentre, al termine della vita terrena, nella sala di Maat, o sala della giustizia, si svolgeva la pesatura del cuore del defunto con la piuma della giustizia.
    Questa era la tradizionale dichiarazione di innocenza (dal Papiro di Ani) di fronte a Osiride:
    Non ho detto il falso
    Non ho commesso razzie
    Non ho rubato
    Non ho ucciso uomini
    Non ho commesso slealtà
    Non ho sottratto le offerte al dio
    Non ho detto bugie
    Non ho sottratto cibo
    Non ho disonorato la mia reputazione
    Non ho commesso trasgressioni
    Non ho ucciso tori sacri
    Non ho commesso spergiuro
    Non ho rubato il pane
    Non ho origliato
    Non ho parlato male di altri
    Non ho litigato se non per cose giuste
    Non ho commesso atti omosessuali
    Non ho avuto comportamenti riprovevoli
    Non ho spaventato nessuno
    Non ho ceduto all’ira
    Non sono stato sordo alle parole di verità
    Non ho arrecato disturbo
    Non ho compiuto inganni
    Non ho avuto una condotta cattiva
    Non mi sono accoppiato (con un ragazzo)
    Non sono stato negligente
    Non sono stato litigioso
    Non sono stato esageratamente attivo
    Non sono stato impaziente
    Non ho commesso affronti contro l’immagine di un dio
    Non ho mancato alla mia parola
    Non ho commesso cose malvagie
    Non ho avuto visioni di demoni
    Non ho congiurato contro il re
    Non ho proceduto a stento nell’acqua
    Non ho alzato la voce
    Non ho ingiuriato dio
    Non ho avuto dei privilegi a mio vantaggio
    Non sono ricco se non grazie a ciò che mi appartiene
    Non ho bestemmiato il nome del dio della città.

    Viaggio nell’aldilà

    Quando il Ka si separa dal Ba, ossia quando lo spirito abbandona il corpo, sopraggiunge la morte. Poichè per gli Egizi le azione dei vivi erano in contatto diretto con quelle dei morti, il rito funebre ed il culto dei defunti assumevano una notevole importanza. Nel rito funebre, la prima grande operazione era la mummificazione del cadavere che serviva al defunto per mantenere la conoscenza di se stesso e della propria identità sino a quando non si fosse identificato con il dio Ra. Nella preistoria, e poi nell’uso della gente comune, il cadavere veniva raccolto nella posizione fetale come per farlo ritornare nel seno della Dea Madre, quindi cucito nella pelle animale, chiuso in un grande otre di coccio e sotterrato nel deserto che, grazie al clima caldo e asciutto, era ideale a disseccare e mantenere il corpo a lungo.
    Dalla “casa della vita”, luogo dove veniva eseguita la mummificazione, partiva la processione. Davanti il baldacchino infiorato con il sarcofago e dietro i congiunti con le “piagnone” (donne e bambine che piangevano gettandosi continuamente terra sulla testa). Poi il lungo corteo del corredo funebre con gli oggetti appartenuti al defunto.
    Raggiunto il Nilo la processione proseguiva sul fiume sacro, fonte e vita dell’Egitto, come a simboleggiare l’inizio del viaggio per il Nilo celeste. Arrivato alla necropoli e alla propria tomba si iniziavano i riti di purificazione della mummia con acqua e incenso. La cerimonia finale consisteva nella lettura, da parte di un sacerdote, del “libro dei morti”. La mummia veniva cosparsa di profumo e incenso, mentre due sacerdoti inservienti procedevano all’apertura degli occhi e della bocca con lo scalpello e l’antica accetta sacra di silice per permettere al Ba del morto (l’anima) di vedere e parlare nell’al di là. Tale cerimonia richiamava la nascita delle creature umane e divine, rispettivamente dagli occhi e dalla bocca di Ra. In questo modo veniva terminata la preparazione del defunto al grande viaggio. Il sarcofago con tutto il corredo veniva calato nella tomba, ogni cosa veniva sigillata, e levie d’accesso ostruite e murate.
    Ora ha inizio il culto del morto che è basato essenzialmente sulle preghiere e sulle offerte che costituiscono l’alimento spirituale. Le preghiere rappresentano il colloquio tra il Ka del vivente ed il Ka del morto, così come il rimpianto e le manifestazioni d’affetto sono il colloquio tra il Ba del vivente ed il Ba del morto. Il latte di fichi, il pane, la birra e il grano (simbolo di risurrezione) alimentano il corpo dell’anima, mentre l’acqua, il salnitro e l’incenso alimentano il corpo spirituale.
    In questo modo si intende mantenere la famiglia unita a colui che viaggia sulla barca del Sole. Tale continuità è chiaramente rappresentata nei dipinti della “casa della vita” del defunto e della tomba.