Tag: locke

  • Kant: il criticismo

    Kant è un filosofo illuminista, nasce a Königsberg; la madre riveste per lui un ruolo molto importante che, a quanto sostiene, gli insegna il primo germe di bene. È il quarto di 11 figli, ma con i fratelli non ha un gran rapporto. Viene mandato al collegium Friedericianum, dove si dimostra subito critico nei confronti della religione, per quanto riguarda le forme esteriori ed esagerate del culto: ha un concetto intimistico della fede, le preghiere forzate sono, per lui, inutili. Diventa bibliotecario, poi docente di logica e metafisica all’università; i suoi interessi sono prevalentemente scientifici: pubblica molte opere sulla Terra, sul moto, sulla quiete e sulla teoria dei venti (scritti pre – critici). La sua prima opera importante, scritta nel 1781 è la “Critica della Ragion Pura”, dove fa il punto sulla conoscenza (2° edizione). Il 1788 è l’anno della pubblicazione della “Critica della Ragion Pratica”. Nel Critica della Ragion Pratica si chiede cosa si può conoscere, è uno scritto teoretico, nella Critica della Ragion Pratica si occupa di come si debba agire nella pratica. Nel 1790 scrive “Critica del giudizio”. 1793 – 1797: sono gli anni della censura prussiana e del terrore francese: perciò riceve un severo ammonimento soprattutto per le sue opere a tema religioso, dalle quali traspariva troppo l’ideale illuministico; scrive inoltre il libro “Per la pace perpetua”, intesa come pace fra gli stati e le nazioni. Muore malato nel 1804, di lui si parla come di una persona calma, mite, riflessiva.
    L’indirizzo filosofico di Kant si chiama criticismo, dal verbo Krino: Analizzare, scomporre un problema in parti elementari per studiarle meglio (Cartesio) e Giudicare, e cioè emanare sentenze.
    Il suo principio sta nel criticare e verificare la legittimità delle pretese avanzate dalla ragione umana nel campo delle conoscenza: critica della ragione con la ragione stessa; bisogna studiare la ragione per vedere qual è il suo limite. Il criticismo indica la dottrina di Kant nei capisaldi che possono essere così ricapitolati:

    1. Impostazione critica del problema filosofico, e pertanto, la condanna della metafisica come sfera di problemi che sono al di là della ragione umana.
    2. Determinazione del compito della filosofia come riflessione sulla scienza, e in generale, sulle attività umane, allo scopo di determinare le condizioni che ne garantiscono la validità.

    Criticismo: analisi della ragione umana, e fondazione della legittimità delle pretese che essa avanza nell’ambito variegato dell’esperienza umana. La domanda che segue questi ragionamenti è questa: cosa dobbiamo fare per dire che la conoscenza è scienza?
    È necessario che un concetto sia universalmente approvato; il nome è convenzionale, il concetto no. La ragione è una struttura a priori nata per unificare l’esperienza. Il criticismo è detto anche filosofia del limite, ermeneutica della finitudine o teoria dell’interpretazione.
    Lo scopo della filosofia di Kant è andare a individuare il limite all’interno del quale la conoscenza è valida. Mediatore tra empirismo e razionalismo, Kant vuol dare alla sua filosofia una visione finita dell’esistenza, delimitata all’interno di un ambito preciso, perciò nega la potenza e l’onniscienza umana e studia il problema della conoscenza come è stato affrontato in passato.
    Razionalismo (Cartesio): Per Cartesio si poteva giungere alla conoscenza del mondo sensibile, attraverso l’idea di Dio per mezzo del cogito, dell’autocoscienza. Secondo lui la ragione umana aveva il potere di conoscere tutto, nel campo della realtà sensibile e nel campo metafisico. Conoscenza = rappresentazione. Come si fa ad avere la certezza di qualcosa? Cogito, ergo sum, autocoscienza, sentire di sentire = avere delle idee. Punto debole: il pensiero corrspode all’essere?
    Empirismo: (Hobbes, Locke e Hume) Conoscenza, = avere sensazioni, percezioni, ma le idee che posso avere non sono certe. La certezza c’è solo nel momento attuale della percezione. Punto debole: scetticismo
    Sintesi Kantiana: Kant opera una vera e propria rivoluzione copernicana: come Copernico aveva invertito il rapporto tra Terra e Sole, così Kant inverte il rapporto tra oggetto e soggetto della conoscenza. Anziché pensare che le nostre strutture mentali umane si adattino alla natura, bisogna pensare che la natura si modella sulle strutture umane. La conoscenza parte dall’oggetto, ma al centro del sistema conoscitivo c’è un soggetto che organizza i dati dell’esperienza sensibile attraverso strutture a priori dunque tutto inizia dall’esperienza (empirismo), ma non tutto deriva dall’esperienza (razionalismo) la ragione è modellata con strutture a priori universali e necessarie. La conoscenza ha l’aspetto passivo (sensibilità, esperienza) e quello attivo: Unificazione degli elementi sensibili (razionalità).
    La conoscenza è fenomenica (posso conoscere solo quello che mi appare), non noumenica.
    Le nostre conoscenze senza la sensibilità sarebbero vuote: la sensibilità ci dà gli oggetti immediatamente con la conoscenza intuitiva (immediata): l’intelletto unifica i dati dell’esperienza in concetti: è già una facoltà mediata, è una forma di conoscenza discorsiva. Però questo meccanismo funziona solo se limito le mansioni dell’intelletto ad unificare l’esperienza; se pretende di arrivare alla conoscenza di Dio (di cui non si può avere esperienza), non va più bene. La ragione è la facoltà umana che tende a proseguire il processo di unificazione della realtà, ma commette l’errore di uscire dall’esperienza. La ragione unifica i concetti in teorie, il prodotto della ragione nelle idee.

    Le forme a priori sono spazio e tempo: ognuno di noi ha l’inevitabile attitudine a collocare ciò che conosce in ambito spazio – temporale spazio e tempo universali e necessari.

    La teoria di Kant è la riproposizione della fisica astronomica di Newton (scardinata dalle teoria della relatività di Einstein). C’è continuità tra Kant e Newton anche se ci sono comunque importanti differenze: Newton ritiene che l’ordine del mondo sia causato da una forza divina intelligente che ha deciso di creare il mondo, quindi la sua è una concezione teleologica o finalistica. La concezione di Kant invece è più meccanicistica o deterministica, dato che, secondo lui, a partire da un caos iniziale, grazie alle forze di attrazione e repulsione si genera il mondo che funziona secondo un principio di causa – effetto. Newton è pessimista: il cosmo tenderà ad autodistruggersi, mentre Kant è molto più ottimista, perché secondo lui la ragione umana tende all’ordine: non è detto che sia reale, ma è un’impostazione mentale. Kant si basa sulla geometria euclidea tridimensionale, ma quando questa viene superata le sue affermazioni non hanno più senso: per renderle nuovamente valide, però, basta eliminare l’assolutezza delle tre dimensioni.
    Kant vuole far capire come avviene la conoscenza e le condizioni secondo cui la conoscenza è valida. La condizione delle condizioni è che la conoscenza dipende dall’esperienza (critica alla metafisica che è puro pensiero). Kant si mette ad esaminare le singole sfere conoscitive per mettere in rilievo, se c’è ne sono, gli elementi a priori. Le sfere conoscitive, ossia gli aspetti diversi nei quali si presenta il nostro potere conoscitivo, sono di tre tipi: sensibilità, intelligenza e ragione, che Kant rispettivamente denomina estetica, analitica, dialettica.

    L’estetica trascendentale

    Il suo scopo è di studiare le forme a priori della sensibilità: alla base della sensibilità ci sono strutture uguali per tutti all’interno delle quali collochiamo l’oggetto percepito, che sono spazio e tempo. Lo spazio è la forma del senso esterno, il tempo è la forma del senso interno, in cui collochiamo il flusso delle nostre esperienze interne. Lo spazio e il tempo sono le strutture grazie alle quali sono possibili la matematica e la fisica. La matematica lavora sulla pura forma dello spazio, estrae dalla realtà; a questo si collega la questione dei giudizi: conoscere vuol dire anche giudicare.
    I giudizi possono essere:
    Analitici: il predicato è già contenuto nel soggetto
    Sintetici: c’è stata una sintesi: il predicato non è contenuto nel soggetto
    Si possono conciliare giudizi analitici e sintetici in giudizi che si chiamano sintetici a priori universali e necessari che ampliano la conoscenza: 7 + 5 = 12 è uguale per tutti (analitico), ma ci si può arrivare in altri modi: il 12 non è insito né nel 7 né nel 5, è nuovo (sintetico). La scienza è fatta da giudizi sintetici a priori.
    Spazio e tempo hanno due caratteristiche che sono ideali e reali : l’idealità trascendentale. Ideali perché sono funzioni logiche della mente, reali perché sono universali e necessari dato che valgono per tutti.

    L’analitica trascendentale

    È quella dottrina che studia le forme a priori dell’intelletto: studia il modo in cui l’intelletto unifica le sensazioni arrivate dall’esperienza, il cui prodotto è un concetto. C’è bisogno di strutture categoriche per classificare le singole sensazioni: le categorie derivano da Aristotele, per il quale sono i sommi generi dell’essere: ciò che si può predicare dell’essere. Le categorie per Kant sono divise in quattro tipi: quantità (unità pluralità, totalità), relazione (causa effetto, accidente), qualità (forma, colore, odore) e modalità (inerenza e sussistenza). Queste categorie devono essere universali e necessarie e derivano tutte dall’autocoscienza dell’individuo che Kant chiama l’io penso: il sentire di sentire o sintesi originaria dell’appercezione . Per Cartesio il cogito implicava la res cogitans, la sostanza; per Kant resta una funzione logica, un’ipotesi perché tutti coloro che hanno l’io penso, possiedono le categorie e le possiedono allo stesso modo: “deduzione trascendentale”: dimostrazione della validità delle categorie.

    Dialettica trascendentale

    La dialettica è logica dell’apparenza, un modo di ragionare vizioso che produce parvenza e non conoscenza. La dialettica studia il modo in cui la ragione unifica i concetti dell’intelletto: mentre l’intelletto procede con i giudizi e con le sentenze, la ragione procede con i sillogismi. Il problema della dialettica e della ragione è il fatto che non ha direttamente a che fare con l’esperienza: arriva a delle conclusioni che escono dall’ambito fenomenico. La ragione nel suo processo di unificazione dei concetti approda a tre totalità incondizionate (tre assoluti): l’idea di Anima, l’idea di Mondo, l’idea di Dio. La ricerca dell’incondizionato da parte della ragione è la prosecuzione inevitabile del nostro processo conoscitivo verso un’unità ultima che continuamente sfugge alla nostra conoscenza. L’unità suprema cui la ragione aspira può solo essere pensata ma non può essere conosciuta.
    Studio dell’anima: psicologia razionale; Studio del mondo: cosmologia razionale Studio di Dio: teologia razionale. La ragione, nella sua ricerca dell’incondizionato, cade in contraddizione di aporie , di antinomie. Si rientra nella metafisica che esula dell’ambito dell’esperienza.

    Psicologia razionale

    Il concetto di anima, con il progredire della scienza è diventato sinonimo di mente: la psicologia razionale pretende di giungere ad una conoscenza effettiva dell’Io, senza ricorrere all’esperienza, così, con il puro pensiero o ragionamento, attribuisce all’anima caratteristiche quali la sostanzialità, la semplicità, l’immutabilità, l’immortalità.
    Alla base di queste pretese c’è per Kant un errore logico che chiama paralogismo. Ovvero un sillogismo errato nella sua struttura, nella sua impostazione, perché il sillogismo è basato su due premesse: una premessa maggiore (a) e una premessa minore (b); dalla sintesi delle due deve derivare una conclusione. Il sillogismo funziona se le premesse sono vere, se i due termini a e b sono uniti da un termine intermedio c che è comune ad entrambi, se il termine intermedio non è univoco, non ha sempre lo stesso significato, ma è equivoco, o si presta a più interpretazioni, quindi a e b non sono più uniti, ma il sillogismo si scinde in due e più sillogismi, uno per ogni significato del termine, quindi il sillogismo non dimostra più nulla.
    Esempio di sillogismo:

    * Tutti gli uomini sono animali razionali
    * Socrate è un uomo
    * Uomo
    Conclusione: Socrate è un animale razionale

    Esempio di paralogismo:

    * Socrate è Ateniese
    * Socrate è brutto
    * Ateniese
    Conclusione errata: tutti gli Ateniesi sono brutti

    Per l’anima si viene a creare un paralogismo:

    * Ciò che può essere pensato solo come soggetto esiste come tutto ed è sostanza tangibile
    * Un essere pensante può essere pensato solo come soggetto
    Conclusione errata: l’essere pensante esiste come sostanza, cioè come anima
    errore: si attribuisce sostanzialità dunque esistenza reale a ciò che è solo formale.

    Cosmologia razionale

    Si occupa dell’idea di mondo, ovvero la totalità dei fenomeni esterni: la sua tesi è questa: se è dato un fenomeno condizionato (qualunque cosa che esista nella realtà di cui noi possiamo fare esperienza), è data anche la serie delle sue condizioni come un oggetto conoscibile. Si scambia per fenomeno ciò che non può essere un oggetto di esperienza, ovvero il mondo esterno inteso come insieme di tutti i fenomeni.
    La totalità dell’esperienza, non è mai un’esperienza, si conosce la verità solo sotto aspetti particolari, possiamo solo pensare ad un’idea che comprende in sé teoricamente tutti i fenomeni possibili, ma assolutamente non possiamo conoscerla. La cosmologia, dunque, cade nelle antinomie della ragione, ovvero conflitti della ragione con se stessa, contraddizioni insolubili, perché in esse, sia le tesi, sia le antitesi, sono sorrette da ragionamenti rigorosi, ma non si basano sull’esperienza. Tesi e antitesi potrebbero essere entrambe vere o entrambe false, ma non è possibile propendere per le une o per le altre perché manca il controllo empirico.

    Tesi: Il mondo ha un inizio nel tempo e un limite spaziale
    Antitesi: Il mondo è eterno e infinito

    Tesi: Nel mondo ogni sostanza consta di parti semplici e indivisibili
    Antitesi: Il mondo è composto da elementi divisibili all’infinito

    Tesi: Oltre alla causalità naturale, nel mondo esiste una causalità libera (possibilità di scegliere l’azione da compiere, il comportamento da tenere)
    Antitesi: Esiste solo un principio di Causa – effetto

    Tesi: esiste un essere assolutamente necessario
    Antitesi: Ogni realtà è solo contingente

    Kant dice che le prime antinomie sono false sia nella tesi sia nell’antitesi, perché non si più avere davanti l’oggetto mondo e individuarne le caratteristiche. Le altre due poterebbero essere vere, però il problema è che le tesi fanno riferimento al campo noumenico, mentre le antitesi si riferiscono al mondo fenomenico. Il conflitto deriva dall’applicare la categoria di totalità ai fenomeni che invece si danno solo individualmente. La soluzione è dire che il mondo nella sua totalità non è oggetto conoscibile.

    Teologia razionale

    Si occupa dell’idea di Dio: è un assoluto, una verità incondizionata a cui la ragione tende e non può non tendere: è un’idea della ragione. L’obiettivo è confutare l’idea che le prove dell’esistenza di Dio abbiano una validità scientifica. Dio è l’essere supremo, originario, l’essere degli esseri, e Kant esamina le prove che nella tradizione filosofica sono state date, non valide scientificamente.

    Kant dice: non si può non pensare a Dio, però di Dio non si può dimostrare né l’esistenza, né la non esistenza, ma allora queste idee della ragione, cosa servono? Per loro ci sono due usi:
    1) Uso costitutivo: usare le idee per conoscere: prendo un’idea e la applico agli oggetti (uso illegittimo)
    2) Uso regolativo: utilizzare le idee per regolare il nostro rapporto con la realtà, per dare sistematicità alle nostre conoscenze, e per guidare il nostro comportamento, allora io so che queste idee sono puramente pensate, ma faccio come se esistessero per poter regolare il mio rapporto con la realtà. Possiamo rifletter sull’esistenza ponendo a fondamento di essa e dandole un senso. Se questo serve a consolarmi, va bene, ma non devo crederci.
    Quando parliamo di natura utilizziamo il nesso causale, e per comodità di ragionamento possiamo ipotizzare l’esistenza di una causa prima. Le idee trascendentali ci ricordano costantemente la nostra limitatezza, la debolezza del nostro sapere, che si arresta inevitabilmente in un punto, ma contemporaneamente queste idee ci spingono ad andare oltre. Kant si accorge che non si vive di solo fenomeno, ma c’è bisogno di noumeno. Quello che non vale da un punto di vista scientifico, può avere un senso nell’ambito pratico. In quest’ambito pratico si può inserire l’idea di Anima, di Mondo e di Dio.

    CRITICA DELLA RAGION PRATICA

    Non ci si trova più nell’ambito teoretico, ma in quello pratico. La ragione, oltre ad avere un uso puro, dunque a valere in campo conoscitivo, possiede per Kant un uso pratico, cioè funge da motivo determinante della volontà: guida la volontà ed incita ad agire in un certo modo verso un fine positivo. Ma questo non significa, per l’uomo soddisfare tutti i suoi bisogni naturali: l’uomo possiede un fine più elevato che il semplice raggiungimento di una felicità naturale. Il fine della ragion pratica è il bene: è il produrre una volontà buona in sé. La Ragione deve dettare all’uomo le regole di comportamento. Per capire la morale kantiana, dobbiamo capire il concetto di dovere: se la ragion Pura era legata al mondo dell’essere , la critica della ragion pratica è legata a quella categoria filosofica che si chiama dover essere . Le azioni del Dover essere si dividono in:
    Legali: Azioni conformi al dovere per un motivazione estrinseca: rispettare la legge o per paura della pena o per desiderio di un premio
    Morali: Azioni conformi al dovere per una motivazione intrinseca, ovvero per il dovere stesso e per nessun altra ragione.
    Le caratteristiche della legge morale sono cinque:

    1. Razionalità: deve essere chiaramente comprensibile alla ragione umana
    2. Universalità: la legge morale deve valere non solo per il soggetto che se la pone, ma per tutti gli esseri razionali- Si è universali quando la massima della nostra azione può essere estesa a tutti senza alcun danno. es. la massima delle mie azioni è vivere arricchendosi: è razionale ma non universale, perché chi si vuole arricchire a tutti i costi lo farà a discapito di qualcun altro.
    3. Formalità: la legge morale deve prescindere da ogni contenuto empirico, e basarsi esclusivamente sulla pura forma della razionalità
    4. Imperatività: è un comando dovuto al fatto che l’Uomo non è spontaneamente morale, ma ha bisogno di un certo controllo: la moralità sta a metà tra la bestialità e la santità . L’uomo è tentato di comportarsi come gli animali, ma tende verso la santità. Ma nella moralità si realizza l’autonomia: dare leggi a se stessi. Non essere determinati da altri che da sé. Quanti tipi di imperativi esistono?
    * Imperativi ipotetici: regole dell’abilità, consigli della prudenza, regole di comportamento sociale che si sintetizzano nella formula: se vuoi x fai y. Questi imperativi ipotetici indicano solo quali mezzi adoperare per raggiungere un certo fine, ma non dicono se il fine sia bene o male.
    * Imperativi categorici: devo fare x perché devo, prima ancora di sapere se ho i mezzi per raggiungere x debbo attivare la mia volontà per raggiungere questo fine.

    Formulazione degli imperativi categorici
    o Agisci: come se la massima della tua azione dovesse essere elevata a legge universale di Natura. Qui si sottolinea il fatto che la legge deve valere per tutti incondizionatamente e che tutti devono mettere da parte i propri vantaggi e svantaggi personali.
    o Agisci in modo che la tua volontà valga per tutti come universalmente legislatrice.
    o Agisci in modo da trattare l’umanità nella propria e nell’altrui persona sempre come fine e mai semplicemente come mezzo. Questo presuppone il rispetto altrui: solo in questo modo si può realizzare il “regno dei fini”, l’obiettivo degli obiettivi dell’uomo, che è realizzare una comunità di esseri liberi e razionali, quindi autodeterminantisi, in cui ciascuno sia al tempo stesso legislatore e suddito. Non è una comunità corretta, non è uno stato. Il regno dei fini è un ideale utopico.
    o Intenzionalità della legge morale. Significa che l’etica di Kant guarda all’intenzione con cui è stata compiuta l’azione, piuttosto che il risultato. Dunque il valore di un’azione sta nel movente della volontà: posso fallire, ma se ho agito per il bene, l’azione ha una morale. Quindi l’uomo ha dentro di sé una componente empirica e naturale, è sottoposto alle leggi di causa – effetto e quindi non è libero, anche se ha un aspetto legato alla libertà: anche l’uomo è fenomeno, ma può valere anche come noumeno perché si dà delle leggi morali: l’uomo deve fondere dentro di sé l’aspetto fenomenico e noumenico.
    Pensiero di Kant: «Il cielo stellato sopra di me mi fa ricordare la fragilità della mia natura, ma mi fa sentire anche parte del tutto, mentre la legge morale che è in me mi fa ricordare che sono libero».

    Il rispetto della legge morale produce nell’uomo un duplice sentimento, ovvero uno stato di piacere e dispiacere contemporaneamente. Il dispiacere consiste nel fatto che l’uomo si rende conto della propria fragilità, della sua necessità fenomenica, cioè di esse un semplice meccanismo tra i meccanismi, essere la parte di un tutto, in questo senso l’uomo perde il suo amor proprio, viene mortificato il suo lato sensibile, perché non può abbandonarsi agli istinti. Il piacere, invece, consiste nel fatto che l’uomo è libero e può scegliere di elevarsi dalla bruta animalità e quindi agire disinteressatamente per il bene comune. In questa legge morale, affinché sia realizzabile, occorre ammettere tre postulati detti: postulati della ragion pratica, sono condizioni che si ammettono come vere in modo ipotetico:

    1. Libertà autonomia autodeterminazione
    2. Immortalità dell’anima
    3. Esistenza di Dio

    Non è obbligatorio crederci. Le ultime due condizioni, Kant le aveva espulse nella “Critica della ragion pura”, ma le riprende in ambito pratico. Kant intende la libertà come autonomia: capacità di dare leggi naturali a se stessi, di autodeterminarsi, quindi di decidere razionalmente il proprio destino. La libertà è necessaria, perché, se io devo, in qualche modo è perché posso, non sono il balia di qualche essere trascendentale che mi guida. La bontà dell’azione sta nel fatto che posso scegliere anche quella opposta. La libertà è la ratio essendi della ragione morale, cioè, agendo normalmente, l’uomo diventa libero, ma è anche vero che l’uomo agisce normalmente perché è libero; quindi è un rapporto biunivoco, di simbiosi. Kant dice anche che la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà. L’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio servono per realizzare il fine che Kant chiama SOMMO BENE, perché questo contiene due elementi al suo interno che sono la virtù e la felicità. La virtù è intesa come merito di essere felici; noi siamo buoni e meritiamo la felicità, ma non è detto che lo sia veramente: non è completo perché ha bisogno anche della felicità. Questa è la soddisfazione dei propri bisogni, sempre in connessione con la legge morale.
    Per realizzare la virtù c’è bisogno dell’immortalità dell’anima, e per la felicità dell’esistenza di Dio. La connessione tra virtù e immortalità è data dal fatto che, dovendo l’uomo diventare sempre migliore per tendere alla felicità, ha bisogno di pensarsi come essere infinitamente perfettibile; cioè che in un tempo e spazio non definiti si continui il processo di perfezionamento. Se così non fosse non servirebbe a niente agire bene perché non ne si avrebbe la motivazione. Questa è un’ipotesi che dà la forza di agire bene; l’altruismo può essere visto come una forma di egoismo mascherato, perché lo si fa anche per un bene personale. L’uomo è caratterizzato da un’insocievole socievolezza, in quanto, quando ha soddisfato il bene comune, si occupa del proprio. L’esistenza di Dio mi serve perché un Dio è garante della giusta distribuzione della felicità, quindi la moralità è una condizione necessaria ma non sufficiente (perché ha bisogno della religione). La morale conduce alla religione.
    Il concetto di moralità diviene molto importante dal punto di vista politico: Per Kant è importante mettersi sia dal punto di vista dei legislatori che dei sudditi. Kant condivide il presupposto jus naturalistico per cui lo Stato è il frutto di un accordo stipulato tra i suoi membri. Lo stato di natura è immorale, perché gli uomini perseguono i propri bisogni personali, quindi avviene la creazione del patto. Per uscire dallo stato di natura occorre il diritto: limitazione della libertà individuale alla condizione che questa si accordi con la libertà degli altri: la legge morale e quella giuridica devono funzionare allo stesso modo, quindi Kant ipotizza una costituzione repubblicana di Stato basato sulla divisione dei poteri e sui tre principi fondamentali della ragione: libertà, uguaglianza davanti alla legge, indipendenza dell’individuo, che nello Stato diventa partecipazione al potere politico mediante meccanismi di rappresentanza.
    Kant non è un democratico giacobino, anche se è d’accordo con gli ideali della rivoluzione, ma non ama nemmeno il dispotismo illuminato tipico del 700 (Maria Teresa d’Austria), poiché tutto dipende dalla bontà o meno del sovrano, ma può anche capitare un sovrano non buono. Se il sovrano non rispetta il diritto dell’individuo, il popolo può fare resistenza con la penna, ovvero, con l’opinione pubblica che faccia sentire il suo dissenso. Dov’è la moralità dello Stato? Il politico deve essere anche morale, ovvero la legge va fatta tenendo conto dell’interesse universale, e il politico deve rinunciare a interessi egoistici. Egli deve agire mirando alla pace, intesa come dovere universale. Kant nell’opera per la pace perpetua, parla della pace tra gli stati: se il politico non agisce mirando alla pace, l’unica pace ottenibile sarà quella eterna.

  • Locke

    Vita e opere

    Giovanni Locke nacque a Wrington, in Inghilterra, nel 1632.
    Studiò scienze naturali e medicina ad Oxford, e ciò influì molto sul suo pensiero filosofico.
    Partecipò alla vita politica del periodo della Restaurazione 8Stuart), dapprima come segretario dell’ambasciatore inglese presso la corte dell’Elettore di Brandeburgo, e più tardi come segretario ed amico di lord Ashley, divenuto poi Duca di Shaftesbury e Gran Cancelliere d’Inghilterra.
    Dal 1675 al 1679 soggiornò in Francia, facendo conoscenza a Parigi coi più illustri rappresentanti della cultura francese di quel tempo, e prendendo moltissime note per la composizione del suo Saggio sull’intelletto umano.
    Nel 1683, quando lord Ashley, caduto in disgrazia per essersi opposto al dispotismo degli Stuart, cercò rifugio in Olanda, anche Locke lasciò l’Inghilterra e soggiornò in Olanda, entrando in relazione con moltissime personalità culturali che allora si trovavano in questo paese.
    Nel 1689, dopo la rivoluzione liberale che portò sul trono inglese Guglielmo D’Orange, Locke ritornò anch’egli in Inghilterra, ove prese di nuovo ad interessarsi della cosa pubblica: ebbe un ufficio governativo, e si adoperò per il trionfo del principio di libertà di religione e di stampa, si occupò di questione economiche e finanziarie, ecc.
    Passò gli ultimi anni ad Oates, nella contea di Essex, presso una famiglia amica, dove morì nel 1704.

    OpereSaggio sull’intelletto umano (1690), in 4 libri; Pensieri sull’educazione; due Trattati sul governo; quattro Lettere sulla tolleranza religiosa, ect.

    Pensiero

    Locke è il più grande rappresentante dell’empirismo.
    Mentre Bacone si era limitato ad affermare la necessità del metodo induttivo-sperimentale nella filosofia e nelle scienze, Locke giustifica questo empirismo, ponendosi per primo esplicitamente il problema dell’origine e del valore della conoscenza.

    Critica all’innatismo Cartesiano
    Locke incomincia con la critica dell’innatismo cartesiano.
    Se le idee – che in Locke sono sinonimo di rappresentazione mentale nel senso più generico della parola – fossero innate, tutti gli uomini dovrebbero avere le medesime idee: invece i bimbi, i selvaggi, gli incolti mancano di parecchie idee (es. principio di contraddizione, idea di Dio, principi morali fondamentali, ect.), e ciò appunto perchè la loro esperienza è più limitata.
    Le idee derivano dunque dall’esperienza e lo spirito è una tabula rasa.

    L’esperienza, le idee e le qualità
    1. Le idee derivano dall’esperienza, e precisamente da due fonti:

    1. senso esterno o sensazione, mediante il quale lo spirito conosce le cose materiali;
    2. senso interno o riflessione, mediante il quale lo spirito, riflettendo (ossia ripiegandosi) sulle proprie operazioni, conosce i fatti di coscienza (percepire, pensare, volere, ect).

    2. Tutte le idee che si trovano nella nostra coscienza, derivino esse dal senso esterno o dal senso interno, si dividono in due classi: idee semplici e idee complesse.
    Le idee semplici sono quelle non decomponibili in idee più semplici, come ad es. le idee di coloro, di estensione, di movimento, di solidità, di percezione, di volizione, di piacere, di dolore, ect.
    Le idee complesse sono quelle che risultano dalla fusione di più idee semplici, come ad es. l’idea di sostanza materiale (che risulta dalla fusione delle idee semplici di peso, colore, forma, grandezza, ect).
    Tale fusione è opera dell’intelletto, il quale interviene ad elaborare le idee semplici mediante tre principali operazioni:

    • la sintesi, che consiste nel combinare parecchie idee semplici in modo da formarne una complessa (es. idea di triangolo, di corpo, di numero, ect.).
    • la comparazione, che consiste nel paragonare un’idea con se stessao con un’altra, in modo da stabilire delle relazioni tra di esse (es. idea di identità, di causalità, di posizione, di grandezza, ect.).
    • l’astrazione o analisi, che consiste nel separare un’idea da tutte quelle altre idee che l’accompagnano nella sua esistenza reale, in modo da dare origine all’idea generale (es. idea generale, o astratta, di uomo, di albero, ect.).

    In tal modo, mentre riguardo alle idee semplici la mente umana si trova ad essere passiva, riguardo alle idee complesse diventa attiva: per quanto tale attività si limiti ad essere qualcosa di puramente estrinseco e meccanico, riducendosi ad unire e a separare i dati.
    Il concetto di astrazione è dunque diverso da quello aristotelico.
    L’astrazione aristotelica da luogo ad un concetto astratto, qualitativamente diverso dalle immagini empiriche, particolari e contingenti; l’astrazione lockiana da luogo ad un’idea astratta che non è qualitativamente diversa dalle immagini empiriche, ma è piuttosto questa medesima immagine che resta più generale: infatti le astratte sono anch’esse individuali e determinate fin nei minimi particolari (omnimodo determinatae).

    3. Locke distingue poi dalle idee (semplici e complesse) le qualità dei corpi.
    Egli introduce qui la nota distinzione di qualità primarie (o oggettive) e qualità secondarie (o soggettive), già avanzata da Galilei e da Cartesio.
    Sono qualità primarie l’estensione, il moto, la solidità, il numero, ect.
    Sono qualità secondarie i colori, gli odori, i suoni e simili.
    Le qualità primarie, oltre ad essere idee, esistono realmente anche fuori di noi, in se medesime; le qualità secondarie esistono solo come idee.
    Si noti che questa distinzione è in contraddizione con la teoria generale di Locke, affermante che noi conosciamo solamente le nostre idee: perchè in base ad essa si conclude l’esistenza di realtà (le qualità primarie o oggettive), che non sono idee nostre, ma esistono fuori di noi, in se medesime.

    Critica all’idea di sostanza
    Molto importante è in Locke la critica dell’idea di sostanza, in cui egli precorre Kant e l’idealismo moderno.
    L’idea di sostanza è un’idea complessa, risultato di un processe di astrazione, per cui, separando una serie di qualità costantemente coesistenti (es. peso, colore, forma, grandezza), congetturiamo che esista un “sostrato”, in cui quelle qualità ineriscano; ma in realtà noi conosciamo soltanto le qualità, non la sostanza sottostante.
    L’idea di sostanza è quindi inconoscibile, e ogni metafisica (teologia, psicologia, cosmologia) è impossibile: la teologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza divina; la psicologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza spirituale; la cosmologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza materiale.
    Ciononostante Locke tenta in un secondo tempo di fondare una metafisica, dimostrando l’esistenza del mondo esterno e di Dio.
    Egli ricorre al concetto empiristico della passività dello spirito ed applica il principio di causalità: ci sono in noi sensazioni non prodotte da noi, dunque esistono fuori di noi i corpi che ne sono la causa: noi, che esistiamo, non abbiamo prodotto noi stessi, dunque esiste fuori di noi una causa che ci ha prodotti: tale causa è Dio.
    Si noti tuttavia che tale dimostrazione è in contraddizione con la dottrina generale di Locke, affermante che noi conosciamo solamente le nostre idee: perchè in base ad essa si conclude all’esistenza di realtà che non sono idee nostre, ma esistono fuori di noi, per se medesime.

    Politica
    Locke si può considerare il padre del liberalismo politico.
    Egli si propose di giustificare la rivoluzione liberale inglese del 1688 (Guglielmo D’Orange), e perciò concepisce lo Stato come governo della maggioranza e non di uno solo.
    Egli parte dal concetto di Hobbes di un contratto sociale che è all’origine dello Stato, ma nega che lo stato di natura sia una guerra contro tutti: il contratto non è perciò di rinuncia degli uomini alla propria libertà e ai propri diritti, ma anzi migliore garanzia di questa libertà e di questi diritti; ed ove questa garanzia venga meno per parte del potere esecutivo, la sovranità ritorna al popolo mediante la rivoluzione.
    Locke è inoltre importante perchè fissa per primo i capisaldi politici della distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), della tolleranza religiosa e della separazione della Chiesa dallo Stato.

  • Leibniz

    Vita e opere

    Goffredo Leibniz nacque a Lipsia nel 1646, da un professore di quella Università.
    Fu in gran parte un autodidatta: studiò nella ricchissima biblioteca paterna, rivelando tendenza in tutti i campi dello scibile (lettere, filosofia, scienze).
    Nel 1672 incominciò a viaggiare: fu in Francia, dove entrò in contatto con quei circoli cartesiani; in Inghilterra e in Olanda, dove lesse l’Etica ancor manoscritta di Spinoza.
    Nel 1676, ritornato in Germania, fu dal Duca di Brunswick nominato bibliotecario ad Hannover, e incaricato di scrivee la storia della propria casa.
    Riprese perciò a viaggiare, al fine di raccogliere il materiale necessario, e fu per parecchi anni in Germania e in Italia.
    Nel 1690, ritornato nuovamente in Germania, si dedicò completamente alla sua attività di pensatore e di scienziato; e da quell’epoca fino alla morte non cessò di produrre in modo prodigioso.
    Morì ad Hannover nel 1716.
    Leibniz fu di un’attività multiforme: scoprì, contemporaneamente a Newton, il calcolo infinitesimale; concepì il disegno di una lingua filosofica universale; fondò l’Accademia delle scienze di Berlino, e contribuì alla fondazione di quelle di Vienna, di Dresda, di Pietroburgo.

    Opere
    Nuovi saggi sull’intelletto umano (1704), composti per confutare i saggi di Locke; Teodicea (1710), composta per confutare Bayle un protestante e scettico, nemico dei dogmi e della teologia, sostenitore della tolleranza religiosa. Questa si può considerare la sua opera maggiore.
    Monadologia (1714), composta dietro l’invito del principe Eugenio di Savoia, che aveva chiesto a Leibniz una sintesi delle sue teorie.

    Pensiero

    Leibniz tenta di conciliare i due indirizzi fondamentali della filosofia moderna, il razionalismo con l’empirismo, mediante la sua teoria della monade.

    La monade
    1. LA MONADE COME REALTA’ INESTESA E ATTIVITA’
    La realtà, secondo Leibniz, non è formata da due sostanze, come voleva Cartesio; e neppure di una sostanza sola, come voleva Spinoza; ma da infinite sostanze di natura spirituale, cui egli da brunianamente il nome di monadi (dal greco monas, unità).
    Infatti, sempre secondo Leibniz, la materia come estensione (res extensa) non esiste: se noi consideriamo un corpo materiale, e procediamo su di esso per divisioni e suddivisioni, dovremo fermarci a degli elementi primi, indivisibili o semplici, e quindi inesistenti, immateriali, spirituali (monadi).
    Tali monadi, oltre ad essere inestese, sono non passive, ma attive: come è dimostrato dalla resistenza che oppongono i corpi, e che si manifesta sotto la duplice forma della resistenza come inerzia e resistenza come impenetrabilità.
    Si tratta di un’attività analoga a quella dell’anima umana, perchè l’anima umana è l’unica cosa che noi conosciamo inestesa ed attiva, e quindi nella sua essenza simile alle altre monadi: percezione, o potere che la monade ha di rappresentare e pensare le cose esterne (ogni monade è uno “specchio vivo” dell’universo); e appetizione, o tendenza di passare da percezioni confuse ed oscure a percezioni chiare e distinte (appercezioni).
    Concludendo: la materia e nella sua essenza una realtà inestesa ed attiva, mentre ai sensi appare come una realtà estesa e passiva.

    2. LA GERARCHIA DELLE MONADI: DIO
    Ogni monade differisce da tutte le altre a seconda del suo grado di perfezione, cioè a seconda del grado di chiarezza e distinzione delle sue percezioni.
    Si ottiene in tal modo una gerarchia delle monadi, che dalla materia inanimata sale fino a Dio, monade suprema.
    Abbiamo complessivamente tre grandi categorie di monadi:

    • monadi materiali, che compongono la materia bruta, in cui la percezione è ancora confusa ed oscura, e l’appetizione è semplice forza naturale.
    • monadi animali, che compongono gli animali, in cui la percezione è progredita fino a diventare memoria, e l’appetizione è diventata istinto.
    • monadi razionali, consistenti nelle anime umane ed angeliche, in cui la percezione è progredita fino a diventare appercezione o coscienza di percepire, e l’appetizione e diventata volontà o coscienza di appetire.

    Monade suprema è Dio, il quale, è assoluta appercezione e assoluta volontà, cioè sapienza, potenza e amore.
    Dell’esistenza di Dio, Leibniz fornisce tre prove:

    1. prova a contingentia mundi, fondata sul principio di ragione sufficiente, il quale ci riconduce a trovare la ragione sufficiente ed ultima di tutte le cose in una sostanza non contingente e necessaria.
    2. prova delle essenze, fondata sul motivo che senza Dio non soltanto non ci sarebbe nulla di esistente, ma non vi sarebbe neppure nulla di possibile.
    3. prova ontologica (cfr. già S. Anselmo d’Aosta), fondata sul motivo che l’essenza di Dio implica l’esistenza.

    Le monadi sono prodotte da Dio mediante “fulgurazioni” continue; e sono indistruttibili, perchè non vi è ragione che Dio abbia a distruggerle, quasi per un pentimento di ciò che prima ha creato.
    Le monadi sono quindi immortali; e immortale è il mondo che di esse consiste.

    3. LA LEGGE DI CONTINUITA’
    Fondamentale nel pensiero di Leibniz è la legge di continuità, cioè la legge del rapporto che esite:

    • tra le varie percezioni di una data monade;
    • tra le diverse monadi dell’universo.

    Secondo Leibniz in ogni monade vi è una continuità di percezione, per cui dalle percezioni oscure e confuse si passa gradatamente (attraverso gradazioni infinitesimali) alle percezioni chiare e distinte o appercezioni.
    Tale trapasso è constatabile soprattutto nelle monadi razionali, ove esiste una grande quantità di percezioni, che sono come il riflesso di tutta la vita dell’universo nel suo passato e nel suo presente: tali percezioni, che Leibniz chiama piccole percezioni, agiscono su di noi a nostra insaputa (cfr. teoria moderna del subcosciente), ma da esse si vanno gradatamente sviluppando le percezioni chiare e distinte o appercezioni; come, aggiunge Leibniz, dai rumori impercettibili che fanno le singole gocce del mare risulta il rumore del mare medesimo.
    Parimenti tra le varie monadi dell’universo vi è una continuità di monadi, per cui dalle monadi dotate di percezioni oscure e confuse si passa gradatamente (attraverso gradazioni infinitesimali) alle monadi dotate di percezioni chiare e distinte, cioè, come già si è visto, dalle monadi materiali alle monadi razionali e a Dio.
    In tal modo Leibniz applica alla psicologia e alla monadologia quel principio di continuità che è fondamento del calcolo infinitesimale da lui stesso scoperto.

    La monade e l’innatismo
    Da quanto è stato fin qui detto, risulta che ogni monade ha tutto l’universo innato in se stessa: ogni monade è “senza finestre” – dice Leibniz -, cioè non può entrare o uscire da essa qualcosa ( cr. innatismo).
    Ogni monade infatti è dotata di percezione o potere di rappresentare tutte le cose esterne, il che significa che in essa la rappresentazione di un oggetto particolare non suppone l’esistenza esterna di questo oggetto medesimo che impressioni la monade, ma è il prodotto di un’attività propria della monade stessa.
    Parimenti l’intelletto non è una semplice tabula rasa, che deriva passivamente le sue idee dall’esperienza (cfr. Locke), ma è attività che sa trarre dalle percezioni, o idee confuse ed oscure, le appercezioni o idee chiare e distinte.
    Questa dottrina Leibniz chiama appunto innatismo virtuale delle idee, e le da espressione conclusiva nella nota formula: nihil est intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse.

    La monade e l’empirismo
    Ma se la monade ha tutto innato e l’intelletto contiene virtualmente le idee, le idee a loro volta derivano dalle rappresentazioni, in base alla legge di continuità: dalle percezioni o idee confuse ed oscure, attraverso gradazioni infinitesimali, si sviluppano, mediante l’attività dell’intelletto, le appercezioni o idee chiare e distinte (cfr. empirismo).
    In tale modo Leibniz supera il dualismo gnoseologico cartesiano, che poneva una differenza qualitativa e un netto contrasto tra rappresentazione ed idea, e mediante, la sua legge della continuità, trova un vincolo unitivo tra l’esperienza e lo spirito.
    Le verità dell’intelletto si fondano a loro volta su due grandi principi: di contraddizione e di ragione sufficiente.
    Il primo governa le cosiddette verità di ragione, che hanno carattere universale e necessari, e di ci possiamo dire non solo che sono, ma perchè sono, come ad es. le verità matematiche.
    Il secondo (che si potrebbe definire anche criterio del meglio) governa le cosiddette verità di fatto, che hanno carattere apparentemente contingente, come ad es. le verità della fisica; ma di cui il principio di ragione sufficiente ci rende ragione non solo del fatto che sono, ma anche del perchè sono, cioè della loro sostanziale razionalità.
    In tal modo Leibniz elimina la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, a priori e a posteriori, dimostrando che tale distinzione è dovuta solo all’imperfezione del nostro intelletto.

    Armonia prestabilita e problema del male
    1. L’innatismo, proprio della monade, porta Leibniz a studiare il problema dell’armonia tra monade e monade.
    Se la monade è “senza finestre”, cioè tutta chiusa in se stessa, come spiegare l’apparente influsso che una monade esercita sopra un’altra?
    Così, ad es. quando la monade-anima intende muovere il braccio, le monadi dipendenti, che costituiscono il corpo, rispondono a quell’atto di volontà con il moto real e del braccio.
    Il problema è risolto da Leibniz con la dottrina dell’armonia prestabilita: è Dio, monade sprema, che nell’atto della creazione ha costituito le monadi in modo tale da far corrispondere ognuna con le altre, senza bisogno d’azione reciproca tra di loro.
    Leibniz, come è facile rilevare, si accosta in ciò all’occasionalismo; ma mentre l’occasionalismo ammetteva l’intervento continuo di Dio, Leibniz ritiene che questo intervento abbia avuto luogo soltanto all’atto della creazione.

    2. La dottrina dell’armonia prestabilita, o – che è lo stesso – di un ordine provvidenziale del mondo, ha i suoi riflessi anche nel problema del male.
    Leibniz distingue tre specie di male:

    • male metafisico, che dipende dalla finitezza delle creature;
    • male morale, o peccato, conseguenza del male metafisico;
    • male fisico, o dolore, conseguenza del male morale.

    Giustificare l’esistenza del male significa quindi trovare la ragione sufficiente del male metafisico.
    Orbene. Dio, in base al principio di ragione sufficiente (principio del meglio), non può avere creato che “il migliore dei mondi possibili” (ottimismo leibniziano).
    Ma la creazione di un mondo qualunque, e quindi anche di quella del migliore dei mondi possibili, non avrebbe potuto effettuarsi che alla condizione di creare degli esseri imperfetti e finiti, poichè – in caso contrario – degli esseri perfetti e infiniti si sarebbero confusi con lo stesso Creatore.
    Lo stesso è da dirsi per il male morale, il quale, oltre ad essere necessario perchè conseguenza del male metafisico, è pure necessario perchè senza di esso non vi sarebbe il bene morale: infatti il peccato non è che la percezione confusa ed oscura, come il bene morale consiste nella percezione chiara e distinta, per cui il primo è condizione indispensabile per l’affermazione del secondo.
    Lo stesso è a dirsi per il male fisico, il quale, oltre a essere necessario perchè conseguenza del male morale, è pure necessario perchè senza di esso non esisterebbe neppure il piacere, che consiste appunto nello sforzo per uscire dal dolore.
    D’altronde, a conclusione generale, Leibniz afferma che, se il male nella sua triplice forma è necessario, esso, esistendo nel migliore dei mondi possibili, è quasi trascurabile rispetto al bene: tutto sta a badare al tutto e non alle singole parti, poichè se Dio avesse voluto impedire l’atto infame di Sesto Tarquinio avrebbe dovuto dare origine ad un mondo peggiore di questo.