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  • Bergson Henri e lo slancio vitale

    Bergson è universalmente considerato il maggiore filosofo francese della prima metà dal XX secolo. Egli rappresenta il punto conclusivo del movimento spiritualista francese. Caratteristica fondamentale di questa corrente è la critica al positivismo per mettere in luce i tratti dello spirito umano. Il Positivismo si è interessato dello spirito come qualcosa di scientifico da poter analizzare ed è per questo che sono nate le varie scienze umane.
    Ma lo spirito vuole essere libero, non vincolato da regole fisse.
    Lo spirito ha come caratteristica l’asculatazione interiore cioè la riflessione interiore: riguarda il nostro stare con noi stessi. Lo Spiritualismo vuole mettere in luce questa riflessione interiore non soggetta a leggi universali. Esso prende spunto da filosofi quali S. Agostino e Cartesio i quali hanno basato la loro filosofia sulla riflessione interiore.
    Punto fondamentale di questo movimento è la superiorità dell’infinito rispetto al finito.
    Per Bergson essenza della vita, dell’universo e della realtà è lo slancio vitale (cioè l’eros di Platone), un’energia che dà la vita; Leibniz avrebbe parlato di monadi.
    Il mondo però resta mistero: si avverte nei rapporti con questo, uno slancio vitale per cui il dinamismo del mondo non è l’evoluzione tipica del Positivismo ma un evoluzione creatrice. (Evoluzione è un termine tipico di un interpretazione materialista della vita, mentre, evoluzione creatrice sembra quasi l’accostamento di due termini antitetici a cui Bergson da un’interpretazione mistica).
    Per Bergson l’uomo conosce attraverso due facoltà: l’istinto e l’intelletto. Qualsiasi espressione dello slancio vitale come evoluzione creatrice si presenta sempre con due biforcazioni che lui chiama istinto (parte materiale) e intelligenza (parte spirituale).
    L’aspetto dell’intelligenza si presenta per Spinosa come memoria, come ricordo. Bergson si sofferma molto sul ricordo che può essere puro o immagine.
    L’istinto si presenta più come percezione per sottolineare il nostro aspetto legato alla sensibilità. Quest’attività dell’uomo avviene nelle nostra coscienza, dato essenziale dell’uomo, dato fondamentale.
    La coscienza deve essere vista come fluire continuo in cui le immagini, i ricordi, l’istinto, appartengono alla coscienza che lui chiama durata reale (tempo della coscienza).
    Il tempo non esiste di per sé ma come tempo della coscienza, e lo spazio non è che il tempo spazializzato cioè un insieme di istanti messi vicini. Tempo e spazio non sono altro che l’essere della coscienza. S. Agostino diceva che il tempo è la distensione dell’anima. Il tempo non è oggettivo ma assolutamente soggettivo.
    Il momento finale in cui tutti e due gli aspetti si risolvono in un tutt’uno, è il momento dell’intuizione (aspetto del Decadentismo, non consente di conoscere ma rappresenta il tener presente tutta la persona).
    Intuere vuol dire comprendere se stessi immersi nella realtà. Questo si ritrova nelle “Due sorgenti della morale”.
    Bergson ci presenta due tipi di morale: la morale aperta e la morale chiusa.

    * La morale chiusa è quella basata su leggi e norme tradizionali seguite pedessiquamente.
    * La morale aperta è basata sull’evoluzione creatrice; è una morale che si mette in discussione, è critica (rivoluzionaria).

    Alle due morali corrispondono due tipi di religione:

    * La religione chiusa cioè quella del cerimoniale, del rito (la religione riesce ad incantare).
    * La religione aperta cioè quella dei grani mistici, di S, Francesco, di Santa Caterina, di S. Teresa, dei personaggi che sono stati eroi della religione e che hanno avuto una forza evolutiva, rivoluzionaria. I grandi santi rappresentano la morale aperta perché vanno avanti.

  • Leibniz

    Vita e opere

    Goffredo Leibniz nacque a Lipsia nel 1646, da un professore di quella Università.
    Fu in gran parte un autodidatta: studiò nella ricchissima biblioteca paterna, rivelando tendenza in tutti i campi dello scibile (lettere, filosofia, scienze).
    Nel 1672 incominciò a viaggiare: fu in Francia, dove entrò in contatto con quei circoli cartesiani; in Inghilterra e in Olanda, dove lesse l’Etica ancor manoscritta di Spinoza.
    Nel 1676, ritornato in Germania, fu dal Duca di Brunswick nominato bibliotecario ad Hannover, e incaricato di scrivee la storia della propria casa.
    Riprese perciò a viaggiare, al fine di raccogliere il materiale necessario, e fu per parecchi anni in Germania e in Italia.
    Nel 1690, ritornato nuovamente in Germania, si dedicò completamente alla sua attività di pensatore e di scienziato; e da quell’epoca fino alla morte non cessò di produrre in modo prodigioso.
    Morì ad Hannover nel 1716.
    Leibniz fu di un’attività multiforme: scoprì, contemporaneamente a Newton, il calcolo infinitesimale; concepì il disegno di una lingua filosofica universale; fondò l’Accademia delle scienze di Berlino, e contribuì alla fondazione di quelle di Vienna, di Dresda, di Pietroburgo.

    Opere
    Nuovi saggi sull’intelletto umano (1704), composti per confutare i saggi di Locke; Teodicea (1710), composta per confutare Bayle un protestante e scettico, nemico dei dogmi e della teologia, sostenitore della tolleranza religiosa. Questa si può considerare la sua opera maggiore.
    Monadologia (1714), composta dietro l’invito del principe Eugenio di Savoia, che aveva chiesto a Leibniz una sintesi delle sue teorie.

    Pensiero

    Leibniz tenta di conciliare i due indirizzi fondamentali della filosofia moderna, il razionalismo con l’empirismo, mediante la sua teoria della monade.

    La monade
    1. LA MONADE COME REALTA’ INESTESA E ATTIVITA’
    La realtà, secondo Leibniz, non è formata da due sostanze, come voleva Cartesio; e neppure di una sostanza sola, come voleva Spinoza; ma da infinite sostanze di natura spirituale, cui egli da brunianamente il nome di monadi (dal greco monas, unità).
    Infatti, sempre secondo Leibniz, la materia come estensione (res extensa) non esiste: se noi consideriamo un corpo materiale, e procediamo su di esso per divisioni e suddivisioni, dovremo fermarci a degli elementi primi, indivisibili o semplici, e quindi inesistenti, immateriali, spirituali (monadi).
    Tali monadi, oltre ad essere inestese, sono non passive, ma attive: come è dimostrato dalla resistenza che oppongono i corpi, e che si manifesta sotto la duplice forma della resistenza come inerzia e resistenza come impenetrabilità.
    Si tratta di un’attività analoga a quella dell’anima umana, perchè l’anima umana è l’unica cosa che noi conosciamo inestesa ed attiva, e quindi nella sua essenza simile alle altre monadi: percezione, o potere che la monade ha di rappresentare e pensare le cose esterne (ogni monade è uno “specchio vivo” dell’universo); e appetizione, o tendenza di passare da percezioni confuse ed oscure a percezioni chiare e distinte (appercezioni).
    Concludendo: la materia e nella sua essenza una realtà inestesa ed attiva, mentre ai sensi appare come una realtà estesa e passiva.

    2. LA GERARCHIA DELLE MONADI: DIO
    Ogni monade differisce da tutte le altre a seconda del suo grado di perfezione, cioè a seconda del grado di chiarezza e distinzione delle sue percezioni.
    Si ottiene in tal modo una gerarchia delle monadi, che dalla materia inanimata sale fino a Dio, monade suprema.
    Abbiamo complessivamente tre grandi categorie di monadi:

    • monadi materiali, che compongono la materia bruta, in cui la percezione è ancora confusa ed oscura, e l’appetizione è semplice forza naturale.
    • monadi animali, che compongono gli animali, in cui la percezione è progredita fino a diventare memoria, e l’appetizione è diventata istinto.
    • monadi razionali, consistenti nelle anime umane ed angeliche, in cui la percezione è progredita fino a diventare appercezione o coscienza di percepire, e l’appetizione e diventata volontà o coscienza di appetire.

    Monade suprema è Dio, il quale, è assoluta appercezione e assoluta volontà, cioè sapienza, potenza e amore.
    Dell’esistenza di Dio, Leibniz fornisce tre prove:

    1. prova a contingentia mundi, fondata sul principio di ragione sufficiente, il quale ci riconduce a trovare la ragione sufficiente ed ultima di tutte le cose in una sostanza non contingente e necessaria.
    2. prova delle essenze, fondata sul motivo che senza Dio non soltanto non ci sarebbe nulla di esistente, ma non vi sarebbe neppure nulla di possibile.
    3. prova ontologica (cfr. già S. Anselmo d’Aosta), fondata sul motivo che l’essenza di Dio implica l’esistenza.

    Le monadi sono prodotte da Dio mediante “fulgurazioni” continue; e sono indistruttibili, perchè non vi è ragione che Dio abbia a distruggerle, quasi per un pentimento di ciò che prima ha creato.
    Le monadi sono quindi immortali; e immortale è il mondo che di esse consiste.

    3. LA LEGGE DI CONTINUITA’
    Fondamentale nel pensiero di Leibniz è la legge di continuità, cioè la legge del rapporto che esite:

    • tra le varie percezioni di una data monade;
    • tra le diverse monadi dell’universo.

    Secondo Leibniz in ogni monade vi è una continuità di percezione, per cui dalle percezioni oscure e confuse si passa gradatamente (attraverso gradazioni infinitesimali) alle percezioni chiare e distinte o appercezioni.
    Tale trapasso è constatabile soprattutto nelle monadi razionali, ove esiste una grande quantità di percezioni, che sono come il riflesso di tutta la vita dell’universo nel suo passato e nel suo presente: tali percezioni, che Leibniz chiama piccole percezioni, agiscono su di noi a nostra insaputa (cfr. teoria moderna del subcosciente), ma da esse si vanno gradatamente sviluppando le percezioni chiare e distinte o appercezioni; come, aggiunge Leibniz, dai rumori impercettibili che fanno le singole gocce del mare risulta il rumore del mare medesimo.
    Parimenti tra le varie monadi dell’universo vi è una continuità di monadi, per cui dalle monadi dotate di percezioni oscure e confuse si passa gradatamente (attraverso gradazioni infinitesimali) alle monadi dotate di percezioni chiare e distinte, cioè, come già si è visto, dalle monadi materiali alle monadi razionali e a Dio.
    In tal modo Leibniz applica alla psicologia e alla monadologia quel principio di continuità che è fondamento del calcolo infinitesimale da lui stesso scoperto.

    La monade e l’innatismo
    Da quanto è stato fin qui detto, risulta che ogni monade ha tutto l’universo innato in se stessa: ogni monade è “senza finestre” – dice Leibniz -, cioè non può entrare o uscire da essa qualcosa ( cr. innatismo).
    Ogni monade infatti è dotata di percezione o potere di rappresentare tutte le cose esterne, il che significa che in essa la rappresentazione di un oggetto particolare non suppone l’esistenza esterna di questo oggetto medesimo che impressioni la monade, ma è il prodotto di un’attività propria della monade stessa.
    Parimenti l’intelletto non è una semplice tabula rasa, che deriva passivamente le sue idee dall’esperienza (cfr. Locke), ma è attività che sa trarre dalle percezioni, o idee confuse ed oscure, le appercezioni o idee chiare e distinte.
    Questa dottrina Leibniz chiama appunto innatismo virtuale delle idee, e le da espressione conclusiva nella nota formula: nihil est intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse.

    La monade e l’empirismo
    Ma se la monade ha tutto innato e l’intelletto contiene virtualmente le idee, le idee a loro volta derivano dalle rappresentazioni, in base alla legge di continuità: dalle percezioni o idee confuse ed oscure, attraverso gradazioni infinitesimali, si sviluppano, mediante l’attività dell’intelletto, le appercezioni o idee chiare e distinte (cfr. empirismo).
    In tale modo Leibniz supera il dualismo gnoseologico cartesiano, che poneva una differenza qualitativa e un netto contrasto tra rappresentazione ed idea, e mediante, la sua legge della continuità, trova un vincolo unitivo tra l’esperienza e lo spirito.
    Le verità dell’intelletto si fondano a loro volta su due grandi principi: di contraddizione e di ragione sufficiente.
    Il primo governa le cosiddette verità di ragione, che hanno carattere universale e necessari, e di ci possiamo dire non solo che sono, ma perchè sono, come ad es. le verità matematiche.
    Il secondo (che si potrebbe definire anche criterio del meglio) governa le cosiddette verità di fatto, che hanno carattere apparentemente contingente, come ad es. le verità della fisica; ma di cui il principio di ragione sufficiente ci rende ragione non solo del fatto che sono, ma anche del perchè sono, cioè della loro sostanziale razionalità.
    In tal modo Leibniz elimina la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, a priori e a posteriori, dimostrando che tale distinzione è dovuta solo all’imperfezione del nostro intelletto.

    Armonia prestabilita e problema del male
    1. L’innatismo, proprio della monade, porta Leibniz a studiare il problema dell’armonia tra monade e monade.
    Se la monade è “senza finestre”, cioè tutta chiusa in se stessa, come spiegare l’apparente influsso che una monade esercita sopra un’altra?
    Così, ad es. quando la monade-anima intende muovere il braccio, le monadi dipendenti, che costituiscono il corpo, rispondono a quell’atto di volontà con il moto real e del braccio.
    Il problema è risolto da Leibniz con la dottrina dell’armonia prestabilita: è Dio, monade sprema, che nell’atto della creazione ha costituito le monadi in modo tale da far corrispondere ognuna con le altre, senza bisogno d’azione reciproca tra di loro.
    Leibniz, come è facile rilevare, si accosta in ciò all’occasionalismo; ma mentre l’occasionalismo ammetteva l’intervento continuo di Dio, Leibniz ritiene che questo intervento abbia avuto luogo soltanto all’atto della creazione.

    2. La dottrina dell’armonia prestabilita, o – che è lo stesso – di un ordine provvidenziale del mondo, ha i suoi riflessi anche nel problema del male.
    Leibniz distingue tre specie di male:

    • male metafisico, che dipende dalla finitezza delle creature;
    • male morale, o peccato, conseguenza del male metafisico;
    • male fisico, o dolore, conseguenza del male morale.

    Giustificare l’esistenza del male significa quindi trovare la ragione sufficiente del male metafisico.
    Orbene. Dio, in base al principio di ragione sufficiente (principio del meglio), non può avere creato che “il migliore dei mondi possibili” (ottimismo leibniziano).
    Ma la creazione di un mondo qualunque, e quindi anche di quella del migliore dei mondi possibili, non avrebbe potuto effettuarsi che alla condizione di creare degli esseri imperfetti e finiti, poichè – in caso contrario – degli esseri perfetti e infiniti si sarebbero confusi con lo stesso Creatore.
    Lo stesso è da dirsi per il male morale, il quale, oltre ad essere necessario perchè conseguenza del male metafisico, è pure necessario perchè senza di esso non vi sarebbe il bene morale: infatti il peccato non è che la percezione confusa ed oscura, come il bene morale consiste nella percezione chiara e distinta, per cui il primo è condizione indispensabile per l’affermazione del secondo.
    Lo stesso è a dirsi per il male fisico, il quale, oltre a essere necessario perchè conseguenza del male morale, è pure necessario perchè senza di esso non esisterebbe neppure il piacere, che consiste appunto nello sforzo per uscire dal dolore.
    D’altronde, a conclusione generale, Leibniz afferma che, se il male nella sua triplice forma è necessario, esso, esistendo nel migliore dei mondi possibili, è quasi trascurabile rispetto al bene: tutto sta a badare al tutto e non alle singole parti, poichè se Dio avesse voluto impedire l’atto infame di Sesto Tarquinio avrebbe dovuto dare origine ad un mondo peggiore di questo.

  • Aristotele

    Vita e opere

    Nacque a Stagira (Tracia) nel 384 a.C. Da Nicomaco, medico di Aminta, re di Macedonia.

    Primo soggiorno ateniese (Platone) – A 18 anni andò ad Atene, ove entrò in relazione con Platone, alla cui scuola appartenne per circa venti anni, cioè fino alla morte del vecchio maestro (347 a.C.).

    Alla corte di Macedonia – Nel 343 fu chiamato da Filippo, re di macedonia, alla sua corte, come precettore del figlio Alessandro: e grande fu l’influenza esercitata da Aristotele sul futuro conquistatore di imperi; grandissimi gli aiuti che Aristotele si ebbe per i suoi studi e per la creazione di una ricca bibblioteca che egli, primo fra i Greci, potè radunare.
    La sua amichevole relazione con Alessandro fu troncata quando Callistene, nipote di Aristotele e fautore del partito greco, cadde in disgrazia dell’imperatore.

    Secondo soggiorno ateniese – Tornato ad Atene verso il 335, fondò una scuola presso il ginnasio, detta il Liceo (per la vicinanza del tempio di Apollo Licio); e poichè insegnava passegiando nei giardini, che colà servivano al pubblico passeggio, la scuola prese il nome di paripatetica.
    Essa coincide coi dodici anni (335-323), nei quali il grande Alessandro espandeva per il mondo con la forza della spada la civiltà e la cultura ellenica.

    Esilio di Calcide
    – Morto Alessandro, Aristotele, come tanti altri ateniesi che erano stati ligi al Macedone, fu preso di mira, e un certo Demofilo portò contro di lui la solità accusa di empietà. Ma il filosofo disse di non voler dare occasione agli ateniesi di rendersi un’altra volta colpevoli verso la filosofia, e, prevenendo il bando, si recò in volontario esilio a Calcide, nell’Eubea.
    Qui morì l’anno dopo, nell’estate del 322, di una malattia di stomaco, lasciando al discepolo Teofrasto la direzione della scuola e la ricchissima bibblioteca.

    Opere – Le opere di Aristotele vertono su un’infinità di argomenti, ma delle 146 opere a lui attribuite, solo 47, più o meno complete, sono giunte sino a noi.
    Importante per la storia dell’aristotelismo la storia di questi libri.
    Secondo un raconto di Strabone, ripetuto da Plutarco, i libri di Aristotele, dopo la morte di Teofrasto, passarono a Neleo da Scepsi, i cui eredi li tennero nascosti per circa un secolo in un sotterraneo.
    All’inizio del I sec. a.C. essi sarebbero stati scoperti da Apellicone di Teio, e portati ad Atene; e di qui, per ordine di Silla (86 a.C.), a Roma, ove trovarono un riordinatore in Andronico di Rodi.
    Secondo tale racconto, dunque, i paripatetici posteriori a Teocrasto avrebbero ignorato i libri di Aristotele; e quindi quelli che si servirono di essi dopo un secolo e più, così come furono trovati, guasti dall’umidità, non potevano neppure essere certi se l’ordinamento di Andronico corrispondesse al pensiero originale dell’autore.
    Ciò spiega il sorgere della questione aristotelica presso i moderni allo scopo di assecondare la genuinità dei libri aristotelici e di vagliare la verità del racconto di Strabone.
    Zeller, dopo erudite ricerche, giunse alla conclusione che è verosimile tutta la parte del racconto che si riferisce al destino dei libri ereditati da Neleo; ma che è inverosimile che questi libri fossero i soli esemplari esistenti delle opere aristoteliche, dal momento che essi si trovano citati nel tempo che corre tra il sotterramento fatto dagli eredi di Neleo e il disseppellimento per opera di Apellicone.
    Le opere di Aristotele erano divise in essoteriche, o destinate l pubblico; e in esoteriche o acroamatiche, destinate ai propri discepoli.
    Le prime appartengono in genere alla prima dimora in Atene, quando Aristotele era discepolo di Platone, e sono molto affini alle opere del maestro (forma dialogica, ect.); ma nessuna di esse è pervenuta sino a noi (fatta eccezione di qualche frammento dell’Eudemo, intitolato a nome di un amico e in cui si propugnava pure l’immortalità dell’anima).
    Le seconde, di gran lunga più importanti, si possono raccogliere in cinque gruppi: logica, metafisica, fisica, etica, retorica.

    Opere di logica
    Furono raccolte sotto il nome di Organon (titolo che non appartiene ad Aristotele, ma ai più tardi commentatori Bizantini), poichè per il loro carattere, si possono considerare come strumento della ricerca scientifica e introduzione a tutto il sistema.
    L’Organonsi compone di conque parti:

    • Categorie, sui concetti universali. Appartengono nella parte fondamentale ad Aristotele, ma furono accresciute, da mano posteriore, dei cosiddetti Postpredicamenti.
    • Interpretazione, sul giudizio.
    • Analitici primi (2 libri), sul sillogismo; e Analitici secondi (2 libri), sull’induzione, la definizione e i primi principi.
    • Topici (8 libri), sui sillogismi dialettici e verisimili.
    • Elenchi sofistici, ove sono esposte e confutate le conclusioni capziose usat dai sofisti.

    Opere di metafisica
    Furono anch’esse raccolte sotto il nome di Metafisica, titolo che non appartiene ad Aristotele (il quale soleva chiamarla filosofia prima), ma ad Andronico di Rodi, che nella sua raccolta dispose i libri relativi “dopo le opere fisiche” (“metà tà physikà”).
    La metafisica si compone di 14 libri: essa tratta dei principi supremi del reale, cioè ciò che è primo per natura, e che viene quindi, per noi, dopo le cose naturali.

    Opere di fisica
    Comprendono la maggior parte degli scritti di Aristotele, il quale molto si applicò alle ricerche empiriche e sperimentali, e si può considerare, tra l’altro, il padre della zoologia.
    Le principali opere fisiche sono:

    • Fisica (8 libri), in cui tratta dei principi naturali, del moto, ect.
    • Del Cielo (4 libri)
    • Della generazione e corruzione (degli esseri)
    • Meteorologia (4 libri).
    • Storia degli animali (10 libri), Delle parti degli animali, Della generazione degli animali, grandi trattati di zoologia, che contengono una vasta e ben fondata classificazione, degna di essere paragonata a quella di Linneo (sec. XVIII).
    • Dell’anima (3 libri), la più importante opera di fisica, prima grande trattazione di psicologia.

    Ai libri Dell’anima si rannodano quelle piccole dissertazioni, parte fisiologiche, parte psicologiche, che sono comprese sotto il titolo collettivo di Parva Naturalia, e che trattano del senso, della memoria, del sonno, della lunghezza e brevità della vita, della vita e della morte, ect.
    Alle opere fisiche invece si rannodano, quasi come appendice, trattatelli speciali di argomenti naturali vari, raccolti col titolo di Problemi, ma in gran parte di composizione postaristotelica, poichè Aristotele cita in 7 o 8 i Problemi, ma nessuna citazione si riscontra con quelli che noi abbiamo.

    Opere di etica
    Sono tre, che svolgono i medesimi motivi:

    • Etica Nicomachea (10 libri), il cui titolo deriva da Nicomaco, figlio di Aristotele, che forse la pubblicò. Essa rappresenta la redazione più antica, ed è sicuramente opera genuina di Aristotele.
    • Etica Eudemia (7 libri), che ha tre libri in comune con l’Etica Nicomachea, e fu forse redatta da Eudemo sopra i libri di Aristotele.
    • Magna Moralia (2 libri), che si possono considerare un riassunto delle due etiche precedenti, specialmente di quella di Eudemo, e che è opera di discepoli.

    Opere di politica

    • Politica (8 libri).
    • Costituzioni politiche, grande raccolta di più che cento costituzioni greche e barbare. Ci rimane soltanto la costituzione di Atene, scoperta nel 1890 in un papiro egiziano.
    • Economici, di cui non è forse genuino il secondo libro, attibuito a Teofrasto.

    Opere di retorica

    • Retorica (3 libri)
    • Poetica, largo frammento di una più ampia opera in 2 libri.

    Datazione delle opere
    L’ordine cronologico delle opere di Aristotele non è così essenziale alla comprensione del suo pensiero come nel caso di Platone, perchè pare che Aristotele abbia elaborato il suo pensiero tutto di getto, in modo che le singole parti risultino intimamente collegate.
    Secondo Zeller, primi ad ssere composti furono gli scritti logici, poi i fisici, poi l’Etica e la Politica, che presuppongono la trattazione dell’Anima; infine la Poetica, la Retorica, ed ultima la Metafisica, al quale sarebbe rimasta incompiuta e dedita solo dopo la morte di Aristotele.

    Pensiero

    L’ordine con cui si può distribuire la dottrina aristotelica è il seguente: logica, metafisica, fisica, morale, poetica, retorica.
    La Metafisica è in realtà la parte più importante, poichè senza di essa sarebbe impossibile intendere le altre parti della filosofia aristotelica: ma alla metafisica è indispensabile propedeutica la logica, per cui è bene far da essa aprire la serie delle dottrine di Aristotele.

    Logica
    Aristotele è il sistematore della logica induttiva, già intravista da Socrate e da Platone, e il padre della logica deduttiva, o sillogistica, o ragionamento.
    Aristotele ritiene infatti che il pensare si compie mediante due essenziali processi: quello dell’induzione, che procede dal particolare all’universale; e quello della deduzione, che consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione).

    INDUZIONE o EPAGOGHE’
    1. L’induzione (o epagoghe), di cui Aristotele parla nei Secondi Analitici, consiste nel procedere per via astrattiva dal particolare all’universale (o concetto), cioè nell’astrare dal particolare le note contingenti e individuali e cogliere quelle comuni ed universali.
    In tal modo Aristotele si oppone all’innatismo platonico, e diventa un fervido assertore dell’empirismo: le nostre conoscenze derivano dall’esperienza mediante l’attività di astrazione esercitata su di essa dall’intelletto.

    2. Il concetto coglie l’essenza delle cose, ma è semplicemente significante, in quanto ancor fuori da ogni rapporto di vero e di falso, della vera affermazione e della vera negazione.
    Un nesso di concetti costituisce il giudizio, sia sotto la forma di definizione o giudizio universale (es. l’uomo è mortale); sia sotto quello di proposizione o giudizio del particolare (ed. Socrate è mortale).
    E’ proprio del giudizio l’affermare o il negare, cioè stabilire dei rapporti di vero o di falso: la verità non è infatti che un perfetto accordo tra il nesso dei concetti e il nesso delle cose (cfr. adaequatio rei et intellectus di S. Tommaso).

    3. Tra i concetti ve ne sono alcuni che possiamo considerare come i predicati più universali del reale, forme supreme dell’intelletto: essi sono le categorie, così denominate perchè mediante esse noi “accusiamo” (cioè predichiamo, qualifichiamo) gli oggetti tutti dell’esperienza.
    Le categorie sono dieci: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il luogo o spazio, il quando o tempo, il giacere o posizione, l’avere o inerenza, il fare o attività, il patire o passività.
    Le categorie, di cui parla Aristotele, si possono considerare sotto un duplice aspetto: logico o soggettivo; ontologico o oggettivo, metafisico.
    Esse infatti, in quanto predicati universali del reale, corrispondono alle forme universali del reale stesso: sono categorie del pensiero e categorie del reale, dell’essere.

    4. Aristotele studiò a fondo i concetti nei loro rapporti di specie e di genere, e nella loro estensione e comprensione.
    Quanto alla specie e al genere, i concetti si possono disporre secondo una gerarchia che in basso ha l’individuo e in alto le categorie, occupando in tale gerarchia il grado risultante dal genere prossimo e dalla differenza specifica.
    Definire un concetto – dice Aristotele – equivale a indicare del medesimo il genere prossimo e la differenza specifica. Così ad es., nella definizione del concetto uomo, “uomo è un animale ragionevole”, animale indica il genere prossimo, cioè il genere a cui il concetto appartiene; e ragionevole indica la differenza specifica, perchè distingue l’uomo dalle altre specie di animali. Genere è quindi il concetto più generale, in cui è incluso il concetto da definire. Specie è il concetto da definire, incluso nel genere.
    Quato all’estensione e alla comprensione, man mano che si procede dalle specie ai generi, si vanno formando concetti sempre più univrsali per l’estensione, ma sempre più poveri di comprensione, cioè dotati di una minor quantità di note essenziali: estensione e comprensione stanno in ragione inversa.

    LOGICA DEDUTTIVA
    1. La logica deduttiva di cui Aristotele parla specialmente negli Analitici Primi, presuppone la logica induttiva.
    L’induzione infatti, elaborando i concetti ed i giudizi, prepara la premessa al sillogismo o deduzione o ragionamento.

    2. il sillogismo consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione): esso è definito da Aristotele quel discorso “nel quale, stabilite alcune cose (verità), un’altra ne deriva necessariamente, per il fatto che quelle sono tali verità”.
    Il sillogismo si compone di una premessa maggiore (l’uomo è mortale) e di una premessa minore (Socrate è uomo), aventi in comune un termine medio (uomo) e di una conclusione (Socrate è mortale).
    Le figure del sillogismo sono quattro:

    1. sub-prae, in cui il termine medio fa da soggetto (subiectum) nella premessa maggiore, e da predicato (praedicatum) nella minore.
    2. sub-sub, in cui il termine medio fa da soggetto sia nella premessa maggiore che nella minore.
    3. prae-prae, in cui il termine medio fa da predicato sia nella premessa maggiore che nella minore.
    4. prae-sub, in cui il termine medio fa da predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella minore.

    3. Il sillogismo nella sua concatenazione e sviluppo è dominato dai cosiddetti assiomi, o principi supremi di ragione, che possono addirittura definirsi leggi del pensiero. Essi sono anapodittici, cioè indimostrabili perchè evidenti di per se stessi.
    Tali principi sono:

    • quello di identità, per cui si afferma che ciò che è, è; e ciò che non è, non è (A è A, Non A è Non A).
    • quello di contraddizione, che Aristotele stesso ha enunciato così: “è impossibile pensare che ad una stessa cosa convenga e non convenga lo stesso carattere (A non è Non A).
    • quello del terzo escluso, per il quale si afferma che fra i contraddittori non vi può essere alcun giudizio intermedio.

    Aristotele dona la massima importanza al principio di contraddizione, che egli dice essere principio anche degli altri tutti, sia per sè, come principio veramente essenziale del pensiero, sia per l’importanza che esso ha contro la concezione eraclitea, che affermava l’essere e insieme il non-essere delle cose nel perenne fluire del reale.

    4. Il sillogismo, di cui sonora si è parlato, è il sillogismo dimostrativo o apodittico, che, partendo da premesse certe e reali, conduce alla scienza.
    Accanto ad esso vi è il sillogismo dialettico (di cui Aristotele parla nei Topici), in cui le premesse sono soltanto verisimili, e che conduce all’opinione: e il sillogismo sofistico (di cui Aristotele parla negli Elenchi Sofistici), in cui le premesse sono semplicemente presunte per verisimili.

    5. Con questo complesso imponente di indagini Aristotele fonda la scienza del pensiero.
    Essa sarà modificata e integrata in questa e in quella parte dagli Stoici a Bacone a Galileo a Leibniz a Kant; con Hegel e coi suoi successori sorgeranno nuovi sviluppi e nuove logiche; ma in sostanza la logica aristotelica restò per circa 24 secoli a sorreggere il nostro pensiero.

    Metafisica
    La metafisica, o “filosofia prima“, è la scienza dell’Essere in quanto tale, cioè prescindendo dalle sue qualità sensibili.

    1. CRITICA DELLA DOTTRINA PLATONICA DELLE IDEE
    Aristotele inizia il proprio sistema con una profonda e serrata critica alla dottrina platonica delle Idee.
    Platone aveva detto che le Idee sono fuori dalle cose, Aristotele oppone a tale trascendenza tre obbiezioni fondamentali:

    • se le idee sono le essenze individuali, in che modo l’essenza può stare fuori di ciò di cui è l’essenza?
    • dato l’individuo sensibile da una parte e l’Idea dall’altra, ci vorrà un tipo, un’idea comune ad entrambi: ne nascerà una terza cosa. Questo argomento è detto del terzo uomo, perchè dalla dottrina platonica si inserisce la necessità di un terzo uomo, che sta sull’uomo individuo e sull’uomo-Idea, comune ad entrambi.
    • esiste l’universale, ma non fuori dell’individuale, bensì dentro di esso. Se avesse un’esistenza separata, sarebbe un duplicato inutile: l’idea fuori dalla cosa non spiega la cosa.

    2. TEORIA DELLA SOSTANZA
    La teoria della sostanza costituisce il centro di tutta la dottrina aristotelica.
    Sostanza è ciò che è, l’individuo. Es. Quest’uomo, questo tavolo.

    • La sostanza è sintesi (“sinolo”) di “materia” e di “forma”: la forma non è che l’Idea di Platone, strappata dal mondo iperuranio; resa da statica, dinamica; e immessa nella materia per organizzarla, per ordinarla. La forma è dunque l’attività organizzatrice della materia. Aristotele distingue la sostanza in sostanza prima , l’individuo; e sostanza seconda, la forma o essenza dell’individuo medesimo.
    • Ma la forma, in quanto organizza la materia, la muove, cioè fa passare dalla “potenza” all’“atto”, o, in altre parole, da uno stato di imperfezione e di indeterminazione a uno stato di sempre maggiore perfezione e determinazione. Es. da statua in potenza del marmo, a statua in atto o attuazione del medesimo. Potenza e atto sono dunque i due termini del moto, del divenire: potenza è la sostanza in quanto può assumere, attraverso il moto, una determinata forma; atto è la sostanza che ha assunto, sempre attraverso il moto, questa determinata forma. Aristotele distingue l’atto dall’entelechia: l’atto è tale in quanto realee concreta attività; l’entelechia è l’atto in quanto stato di perfezione a cui la sostanza aspira: mai la sostanza riesce ad attuare perfettamente la propria forma, eccetto Dio.
    • Ma per passare dalla potenza all’atto occorre uno stimolo, una causa efficiente, la quale operi in vista di un fine, di una causa finale. Lo sviluppo di una sostanza presuppone quindi 4 cause:
    1. materiale;
    2. formale;
    3. efficiente o motrice;
    4. finale.

    Es. nella sostanza statua possiamo distinguere:

    1. causa materiale: marmo;
    2. causa formale: idea della statua;
    3. causa efficiente: scultore;
    4. causa finale: idea della statua, ma in quanto si pone come fine dello scultore.

    Le ultime due cause si risolvono nella causa formale quando si tratta si sostanze naturali (le quali hanno in sè stesse la causa e il fine del moto); ma rimangono distinte quando si tratta di sostanze artificiali (le quali hanno fuori di sè la causa del moto e il fine), come è appunto il caso di una statua di marmo.

    3. TEOLOGIA
    La teoria sopra accennata porta di conseguenza ad ammettere l’esistenza di un Dio: è anzi ad Aristotele che si deve far risalire la prima dimostrazione filosofica dell’esistenza di Dio.
    Infatti il moto delle cose implica l’esistenza di un motore che giustifichi il moto medesimo, cioè il Motore immobile, Dio.
    In quanto motore immobile:

    • Dio non è causa efficiente, creativa del mondo, ma puramente finale, teleologica. Egli, come causa finale del mondo, attrae le cose, che si muovono verso di lui immobile.
    • Dio non può passare dalla potenza all’atto, ma è atto puro, pura forma, puro spirito, o – come si esprime Aristotele – “pensiero dei pensieri”.

    Egli, “come pensiero dei pensieri”, è assolutamente indifferente al mondo, puro pensiero teoretico, pura autocoscienza, privo di volontà e di personalità.

    Fisica
    La Fisica è in Aristotele non meno importante della Metafisica, poichè, a differenza di Platone (che, nonostante il disprezzo per i poeti, era dominato dalla fantasia), egli sapeva unire alla potenza sinteica del filosofo una grande attitudine all’analisi e all’osservazione scientifica.

    1. NATURA
    La natura è l’insieme delle sostanze che hanno in se stesse il principio del proprio moto, a differenza delle sostanze a cui il moto vien da fuori, per cui essa comprende non solo i corpi propriamente detti, ma anche l’uomo e l’anima umana.
    Anche Aristotele, come Platone, possiede un concetto finalistico della natura: questa non è per lui inerte, passiva, meccanica, ma intimamente viva, organica, animata.
    Tuttavia, a differenza di Platone, che aveva personificato questa finalità in un’Anima del mondo, Aristotele parla di una finalità inconscia ed intuitiva (panpsichismo?), e che chiama la noatura demoniaca, ma non divina.
    La natura, sospinta dalla sua immanente finalità, tende a svilupparsi in forme sempre più alte e perfette, determinando una gerarchia finalistica di sostanze, che va da quelle inorganiche a quelle organiche e all’anima umana, e che ha al proprio vertice il motore immobile, Dio.

    2. LA MATERIA
    La materia, come già per Platone, è principio oscuro ed amorfo, causa di imperfezione e di male.
    Essa resiste spesso all’attività e alla forma, ed è perciò causa dei caratteri accidentali delle sostanze.
    La materia, in quanto potenza che tende recarsi in atto, si muove: donde l’importanza che ha il moto nella fisica aristotelica.

    3. RELIGIONE CELESTE E RELIGIONE TERRENA
    L’universo aristotelico si divide in due regioni: regione celeste, dalla luna in su; e regione terrena, o sublunare.
    La regione celeste è perfetta e incorruttibile: sua materia è l’etere, detto anche quintessenza; il suo moto è circolare, cioè perfetto.
    La regione terrena è imperfetta e corruttibile: sua materia sono i quattro elementi tradizionali della filosofia greca, terra, acqua, aria, fuoco; il suo moto è rettilineo, cioè imperfetto.
    Da queste premesse si sviluppa l’astronomia aristotelica, che è un sistema geocentrico delle sfere omocentriche ideato dall’astronomo Eudosso, e che permetteva di collocare esteriormente il principio motore dell’universo, in opposizione ai pitagorici che lo collocavano al centro.
    La Terra, di forma sferica, sta immobile al centro dell’universo, e attorno ad essa si muovono le sfere dei pianeti e quella delle stelle fisse o firmamento: quest’ultimo è mosso da Dio, Motore immobile, e trasmette a sua volta il movimento alle sfere sottostanti.
    Perciò l’universo aristotelico è limitato nella sua forma sferica, cinto dal vuoto infinito; e in esso le posizioni (alto e basso) hanno un significato assoluto.

    4. L’ANIMA
    L’anima, che nela gerarchia degli esseri fisici occupa il posto supremo, si può definire la forma (“entelechia”) di un corpo organico, cioè di un corpo che è come organo o strumento di cui l’anima si serve per recare in atto il suo fine.
    Le piante possiedono solo l’anima vegetativa, che presiede alle funzioni di nutrizione e della riproduzione; gli animali, oltre la vegetativa, possiedono l’anima sensitiva, che presiede al moto e alla sensibilità; l’uomo, oltre alle sopracitate, possiede l’anima razionale.
    Aristotele, a differenza di Platone, non ammette nell’uomo anome separate, ma anime distinte nell’unità di una medesima anima: si tratta di funzioni diversedi una medesima anima.
    L’anima vegetativa presiede – si è detto – alle funzioni della nutrizione e della riproduzione.
    L’anima sensitiva presiede al moto e alla sensibilità; ma i sensi sono passivi, cioè hanno bisogno, per agire, di uno stimolo, di un oggetto sensibile in atto.
    Accanto ai sensi esterni ve ne sono altri interni, come il senso comune (o coscienza sensibile), che unifica in certo modo i sensi esterni; la fantasia, che riceve le immagini; e la memoria, che conserva le immagini, riconoscendo in esse una percezione già avuta.
    L’anima intellettiva presiede alla vera conoscenza, cogliendo le essenze o concetti delle cose.
    Essa si distingue in intelletto passivo (“nous patheticos”) e in intelletto attivo (“nous poieticos”).
    L’intelletto passivo (cosiddetto perchè ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in quanto può intendere l’universale contenuto nel particolare sensibile; ma, in quanto semplice possibilità d’intendere, non può passare all’atto se non sotto lo stimolo di un oggetto intelligibile in atto.
    L’intelletto attivo (cosidetto perchè non ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in wuanto rende intellegibile (per astrazione) l’universale contenuto nel particolare sensibile, e, resolo in tal modo intellegibile, lo presenta all’intelletto passivo, che, sotto tale stimolo, passa all’azione.
    Esso è come la luce che agisce sui colori, i quali nell’oscurità esistono soltanto in potenza, facendoli passare dalla potenza all’atto.
    Aristotele considera l’intelletto passivo come parte essenziale dell’anima umana, mentre definisce l’intelletto attivo come “separato” e “di natura divina”: esso proviene dall’alto entrando misteriosamente “per le porte dell’anima”, e ad esso soltanto sembra attribuisca l’immortalità.
    In realtà l’anima, in quanto forma di corpo organico, dovrebbe essere inseparabile dal corpo e, come questo, mortale. Di qui la varietà delle interpretazioni e dei commenti, che si contesero il pensiero aristotelico fino al Rinascimento, specie per quanto riguarda l’intelletto attivo nei suoi rapporti con l’intelletto passivo e col corpo.

    Etica
    1. Aristotele, a differenza di Platone e coerentemente alla critica mossa alla teoria delle Idee, non ammette che il fine delle cose il il Bene universale, che per la sua astrattezza non può essere realmente efficace, ma il bene particolare di ogni singola cosa.
    Tale bene particolare consiste a sua volta nell’attuazione dell’essenza propria della cosa medesima, come il fiore per la pianta, la bellezza per la gioventu, ect.

    2. La felicità dell’uomo (“eudemonia”) consiste perciò nell’attuazione del bene particolare dell’uomo medesimo, che è la ragione, cioè nel vivere secondo ragione.

    3. La virtù si identifica con la felicità, cioè consiste anch’essa nel vivere secondo ragione.
    Aristotele distingue due virtù:

    • virtù etiche, o virtù della parte affettiva dell’anima. Esse perfezionano la parte affettiva dell’anima, sottoponendola alla ragione; e poichè la ragione aspira a portare negli affetti dell’anima la medietà, il giusto mezzo fra gli estremi, la virtù etica consiste, più particolarmente, nel sottoporre gli affetti alla ragione in modo da importare in essi la medietà, il giusto mezzo, ed evitare ogni eccesso. Giusto mezzo, che non è la rigida media aritmetica, “perchè – osserva Aristotele – se, per uno, spendere dieci è troppo e spedere due è poco, ciò non vuol dire che il giusto mezzo sia sei”. Il giusto mezzo è, in altre parole, relativo agli individui: non potendo, ad es., la temperanza (virtù etica) richiedere la stessa quantità di cibo per un gigante e per un bambino. Le virtù etiche si acquistano con l’abitudine, o – in altre parole – con una volontà ben educata: concetto notevole, con cui Aristotele, opponendosi all’intellettualismo etico di Socrate e di Platone, afferma per la prima volta, nella storia del pensiero, che non basta la conoscenza per conseguire la virtù, ma occorre un altro importante elemento: la volontà. Virtù etiche sono, ad es., la fortezza, che è il giusto mezzo tra il timore e la fiducia; la temperanza, che è il giusto mezzo tra i piaceri; la liberalità, che è il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità; la giustizia, virtù etica suprema, ordine della società.
    • virtù dianoetiche, o virtù della parte razionale dell’anima. Esse perfezionano la parte razionale dell’anima, rendendola atta a ben conoscere ciò che si deve operare. Anche le virtù dianoetiche si acquistano con l’abitudine. Tali, ad es., la prudenza, intenta a discernere quelli che per l’uomo sono beni morali; e soprattutto la sapienza, virtù dianoetica suprema, perchè attività razionale pura, la più prossima al pensiero divino: essa è contemplazione della suprema verità, vita perfetta, “theoria”. In tal modo l’etica di Aristotele diventa l’espressione più compiuta dell’etica greca, e, con il più alto posto assegnato alla virtù teoretica per eccellenza, fissa il principio (che sarà accolto anche dal pensiero cristiano e sarà direttivo di tutta la filosofia sino all’epoca moderna) intellettualistico, per cui si celebrano nella virtù contemplativa l’essenza e il valore dell’etica umana.

    Politica
    1. Anche per Aristotele, come per Platone l’etica individuale si completa con l’etica sociale: l’individuo isolato non può raggiungere il suo fine perchè non basta a se stesso, e soltanto riunendosi in società può attuare il suo fine, la felicità.

    2. L’uomo è per natura un animale politico, cioè socievole: “fuori dalla società può esistere solo la belva o il Dio”.
    La famiglia è la prima società: essa ha come carattere essenziale la proprietà, di cui fan parte anche gli schiavi, perchè non è bene che gli uomini liberi si avviliscano nei lavori manuali.
    Lo Stato, benchè in ordine di tempo succeda alla famiglia, nel concetto le va innanzi, allo stesso modo che nell’organismo il tutto precede le parti, e il fine i mezzi destinati ad attuarlo: infatti lo Stato rappresenta la condizione di vita e di attività delle parti o individui che lo compongono.
    Il fine dello Stato è identico a quello degli individui: esso mira infatti alla falicità, o – che è lo stesso – al raggiungimento delle virtù etiche e dianoetiche degli individui medesimi.

    3. Le forme di Stato sono tre, come le loro degenerazioni, che si hanno quando chi governa, invece di mirare al vantaggio comune, mira al proprio vantaggio.
    Le forme sono la monarchia, che può degenerare in tirannide; l’aristocrazia, che può degenerare in oligarchia; la politia (moderna democrazia) che può degenerare in democrazia (moderna demagogia).
    Di tali forme è migliore quella che meglio risponde al carattere e ai bisogni del popolo, quantunque in astratto Aristotele preferisca una forma mista.

    4. Lo Stato di Aristotele, per quanto sia in esso evidente l’influenza platonica (Stato etico), è diverso da quello di Platone.
    Platone parte da una premessa idealistica: basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, basterà conoscere lo Stato politicamente perfetto, per poterlo attuare.
    Aristotele parte da una premessa realistica: non basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, è meglio costruire sul fondo dell’esperienza.
    Ne consegue che mentre Platone aveva concluso allo Stato ideale della Repubblica, proponendo la comunione delle donne, dei figli e dei beni, e concependo lo Stato come vuota e astratta unità; Aristotele conclude alla famiglia, alla proprietà, ai divrsi tipi di costituzione, concependo lo Stato come un organismo dove l’unità viva è raggiunta per via della molteplicità.

    Estetica
    Per Aristotele, come per Platone, l’arte è imitazione della natura (“mimesi”); ma a differenza di ùplatone, che condannava l’arte perchè imitazione dell’individuale sensibile, e perciò lontana tre gradi dal vero, Aristotele riabilita l’arte, perchè imitazione non dell’individuo quale è, ma come dovrebbe essere; non dell’individuale, ma dell’universale.
    Perciò l’arte differisce dalla storia (che ritrae solo i fatti particolari), in quanto “più filosofica e solenne della storia”.
    Certi generi, come la tragedia e la musica, determinano poi una speciale purificazione degli effetti, che prende il nome di catarsi: teoria oscura, in cui pare adombrato il moderno principio della spiritualità dell’arte.

    Giudizio sulla filosofia di Aristotele

    Aristotele si propone di eliminare il dualismo esagerato di Platone in nome di un maggiore realismo: riconciliazione dell’universale col particolare, dell’essere col divenire, dell’unità con la molteplicità, del divino con l’umano.
    Ma il tentativo, nonostante l’acutezza della polemica contro il Maestro, andò fallito.
    Nella Metafisica egli lasciò il dualismo di materia e di forma: disse che la prima non si può trovare senza l’altra, e poi concluse che la realtà somma (Dio, Motore immobile) era forma scevra di materia, cioè le ridivise di nuovo.
    Del resto, se la materia tende alla forma; perciò stesso è altro dalla forma; per di più resiste alla forma, sino al punto di apparire dominata dall’accidente e dal caso, e perciò è estranea e opposta alla forma medesima.
    Nella Fisica il dualismo di celeste e di terreno, di materia corruttibile o sublunare, e di materia incorruttibile o sopralunare: donde quel dualismo cosmologico, che è quasi il segno visibile del dualismo metafisico insuperato.
    Nella Psicologia lasciò il dualismo di nous passivo e nous attivo: quest’ultimo viene dal di fuori, e, pur trovandosi congiunto con le altre facoltà, non ha intima connessione con esse.
    Nell’Etica lasciò il dualismo di virtù etica e di virtù dianoetica: la virtù veramente umana è ora la prima, che consiste nella vita in comune; ora la seconda, che consiste nella contemplazione solitaria dell’uomo individuo.
    Sarà compito della filosofia posteriore, specialmente degli stoici e degli epicurei, cercar di eliminare tali dualismi, sulla base di un concetto più immanente della realtà.