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  • Husserl Edmund e il soggettivismo husserliano

    Edmund Husserl nasce in Moravia e precisamente a Friburgo nel 1859 (morirà nel 1938). I suoi interessi iniziali sono matematici, comincia i suoi studi con Frege, uno dei più grandi matematici del ‘900. Nel 1891 pubblicò anche un compendio matematico: “Filosofia dell’aritmetica”.
    Dallo studio dell’analisi matematica Husserl elabora la sua analisi della realtà che chiama Fenomenologia.
    Mentre per Hegel il termine fenomenologia aveva significato tracciare il cammino della coscienza, per Husserl e Brentano significherà proprio lo studio della coscienza. Quindi punto chiave della filosofia di Husserl sarà la coscienza.
    Per lo spiritualismo la coscienza era una sostanza, un ente ma Husserl si vorrà differenziare anche in questo prendendo le distanze da Cartesio.
    Husserl dice che la coscienza non è un essenza, un ente, ma è attività (erlebniz = fluire incessante; un continuo avere coscienza).
    La coscienza però è pure intenzionalità (dal termine della scolastica “intentio” che significa dirigersi verso; avere coscienza di). Noi parliamo di coscienza solo perché abbiamo coscienza di qualche cosa. Ma di che cosa? Husserl dice che la coscienza è sempre coscienza di noesis e noema [noesis = soggetto che conosce (il sogg. ricorda); noema = oggetto conosciuto (noema è il ricordato)]. Da ciò deriva che la coscienza è sempre una coscienza soggettiva (protagonista sarà sempre il soggetto).

    Per Husserl la filosofia è:
    * TEORETICA
    * EDETICA
    * NON OGGETTIVA

    Teoretica in quanto è una filosofia di riflessione, di contemplazione perché riguarda sempre il soggetto conoscente.
    Edetica poiché la filosofia si occupa delle essenze. La filosofia non ha un rapporto con la realtà come essa è, ma come alla coscienza appare. Ogni coscienza ha una percezione Analogica = non è la realtà vera e propria che vede (quella oggettiva), ma è la propria realtà (quella soggettiva).
    In questo modo la coscienza si organizza le cosi dette Analogie regionali = delimitare la conoscenza a ciò che ci pare, noi ci facciamo degli schemi (appare qui una ripresa di Liebniz).
    Husserl, nei rapporti con le altre persone, dice che si può avere solo Empatia cioè delle corrispondenze: noi giudichiamo l’altro con la nostra coscienza, attraverso ciò che corrisponde in noi, cioè attraverso ciò che io nell’altro voglio vedere.
    Non oggettiva, in quanto la filosofia sarà sempre più soggettiva. Per questo lui scrive “Le crisi delle coscienze europee” in cui lui vuole vedere la crisi delle scienze. Husserl prende le masse da Spengler con il suo libro “Il tramonto dell’occidente” e da Nietzsche che già aveva parlato di crisi delle coscienze e delle certezze.

    Il ‘900, in effetti, presenta una crisi un po’ generale, si ci ritrova in un mondo in decadenza, di tenebre, dove i valori tradizionali perdono tutta la loro importanza.
    “Il sonno della ragione genera mostri” aveva detto Gramsci. E’ quindi il periodo della crisi della coscienza della scienza. Per Husserl questa crisi è dovuta al fatto che si è dato troppo valore alla Natura. Le varie scienze non hanno avuto altro oggetto che la natura. Ma l’oggetto della ricerca di ognuno di noi deve essere la coscienza.
    Non esiste una realtà oggettiva per tutti, ma la natura è solo ciò che noi vogliamo vedere in essa.
    Quindi la scienza si deve occupare solo della coscienza perché tutta la realtà è in essa.
    Il suo riferimento è quindi l’ascultazione interiore. Quello che lui sta smantellando è la rappresentazione reale. Potremmo parlare quindi pure di soggettivismo Husserliano.
    La filosofia di Husserl si presenta come Apofantica: la coscienza è solo la manifestazione dell’essere. Solo la coscienza può rivelare l’essere: essere è solo ciò che è per la coscienza: ognuno quindi ha una sua interpretazione della realtà.
    Riguardo al momento della maturità, Husserl riprenderà il termine Epochè, ma mentre inizialmente questo termine indicava una totale sospensione dei giudizi, lui lo interpreterà come il mettere tra parentesi: per Husserl quindi il mondo della natura sarà tra parentesi (cioè sarà messo in secondo piano, come qualcosa di meno importante).
    Husserl fa riferimento anche a Kant; per Kant il soggetto conosceva a priori e la conoscenza era sintesi a priori. Husserl invece per la sua concezione di conoscenza userà il termine trascendentale.
    Per lui base e condizione per fare conoscenza non è basarsi sulla realtà. Infatti la sua filosofia non si basa sulla realtà oggettiva ma sulla realtà soggettiva di ogni singola coscienza: siamo noi a dare le leggi alla realtà.
    L’esistenzialismo prenderà spunto da Husserl ma vedrà la coscienza soprattutto come angoscia. Husserl non farà parte di nessun gruppo, la sua filosofia rimarrà isolata, chiusa.
    Edet Starlen, israelita, una sua alunna, dallo studio della coscienza arriverà a San Tommaso e quindi alla religione cattolica, diventando pure suora carmelitana.
    Lo stesso faranno altri suoi alunni: faranno un salto arrivando alla religione cattolica. Ad Husserl però non interessa la religione. La coscienza è solo il nostro essere presente nella realtà. Quindi Husserl ha dato della coscienza un’interpretazione personale.

  • Schopenhauer Arthur: tra irrazionalismo e pessimismo

    Alcuni caratteri del pensiero Hegeliano saranno criticati:

    • L’identità di reale e razionale. Come si spiega dunque il male? Il negativo? Non lascia spazio alla caducità, all’incidente.
    • La mancanza dell’individualità, ciascuno di noi è inserito nell’assoluto razionale.

    Schopenhauer è stato il primo ad esaminare questi aspetti. Egli ebbe contrasti con Hegel accusandolo di avere prostituito la filosofia. Considerava infatti, quella di Hegel, la più vuota chiacchierata che potevano fare delle teste di legno.
    Schopenhauer nasce a Danzica nel 1778, i suoi ideali sono Platone e Kant, la sua filosofia sarà irrazionalismo e pessimismo. Egli ha conosciuto la filosofia orientale, ciò è anche riscontrabile nel suo pensiero.
    La sua opera più grande fu “Il mondo come volontà e rappresentazione”, la tesi di laurea “Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente” cioè la causalità.
    La causa si esprime nell’essere, nel divenire, nel conoscere e nell’agire. Studia la causa e ritorna alla distinzione di fenomeno e noumeno.

    Il noumeno è la volontà, essa è l’unica vera realtà, è cieca, irrazionale e non sa nemmeno lei quello che vuole. Essa si estrinseca prima in un mondo di idee platonico, poi nel nostro mondo (spazio, tempo, causalità) e poi in ciascuno di noi, perché noi vogliamo in ogni momento, è un bisogno muscolare. Abbiamo un pensiero fisso, fino a quando non lo soddisfiamo. Dopo averlo soddisfatto, viviamo nella noia, e cerchiamo un altro bisogno, un altro dolore: la vita è un pendolino dalla noia al dolore.

    Sentirsi vivi per Schopenhauer è sentire la volontà.

    Ma non si può vivere così, dobbiamo tentare di non sentire più la volontà di vivere: potrebbe essere una soluzione il suicidio, ma non è così, perché facciamo ciò che vogliamo, cioè liberarsi dalla vita. Liberarsi significa squarciare il velo di Maya. Maya è la verità: ma noi non possiamo mai vedere la verità nuda, il noumeno.

    Ma Schopenhauer dice che possiamo liberarci dalla volontà di vivere in 4 gradi:

    • L’arte: è un modo per non pensare a noi stessi. In particolare la musica di Wagner. La musica ci fa dimenticare noi stessi.
    • La Compassione: patire insieme, rendersi partecipi ai problemi degli altri.
    • La giustizia: è una compassione legalizzata infatti la legge prevede il rispetto per tutti.
    • Nirvana: equivale alla beatitudine, non avvertire nessun dolore, cioè l’annullamento della volontà, il non sentire. Questo è la noluntas (negativo di voluntas).
  • Hegel: l’idealismo logico

    Hegel nasce a Stoccarda nel 1770 e studia in scuole religiose. Una volta laureato, viene chiamato a Berna a fare il precettore privato. Nelle famiglie ricche dove lavora ha la possibilità di frequentare grandi biblioteche dove si può accingere alla lettura dei classici. Egli studiò molto la cultura greca e soprattutto Platone. Voleva diventare un grande filosofo come Platone e non come il “genio” (Schelling) che solo in sogno conobbe la filosofia. Proprio mentre era a Berna scrisse le sue prime opere di natura religiosa: “La vita di Gesù”, “La positività della religione cristiana”. Le opere di questo periodo non ebbero grande successo anche se oggi sono state riscoperte e studiate.
    Successivamente pubblica: “Differenza fra il sistema filosofico di Fiche e quello di Schelling”, “Fenomenologia dello spirito”.
    Trasferitosi a Norimberga scrive “Scienza della logica” dove, partendo dall’idea prima di essere cerca di raggiungere la realtà determinata e quindi anche la coscienza.
    A Berlino divenne professore universitario facendo, con le sue lezioni, grande successo. Hegel divenne filosofo dello Stato Prussiano, con le “Lezioni Berlinesi”, libro contenente gli appunti delle sue lezioni, raccolti dai suoi alunni, esaltava le doti dello Stato tedesco e lo poneva come guida per gli altri.
    Egli sviluppa il suo pensiero tenendo presente il pensiero greco. Per Hegel il principio di ogni cosa è l’ Assoluto = distinzione di natura e spirito. L’assoluto (unità distinzione) ha un punto finale. “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale e reale” tutto ciò che si realizza ha una sua razionalità; ciò vuol dire credere alla provvidenza (ottimismo). Tutto ciò che è razionale si deve realizzare.
    Per Hegel l’assoluto si sviluppa secondo una struttura dialettica. Di dialettica ne hanno parlato i sofisti, ma era di natura bipolare; ne ha parlato Kant, ma rappresentava la pretesa della ragione di dimostrare le sue idee. Per Hegel invece, la dialettica rappresenta il movimento stesso dell’ Assoluto.

    STRUTTURA DELL’ASSOLUTO

    TESI: momento astratto intellettuale, Momento di posizione
    ANTITESI: opposizione, momento negativo della ragione
    SINTESI: momento positivo razionale, Movimento circolare
    L’antitesi si basa sul principio di opposizione che determina il movimento. La sintesi rappresenta il superamento dei limiti posti nella tesi e nell’antitesi.(SINTESI=AUFHBEN tagliare e conservare).

    Esempio:
    TESI: vita
    ANTITESI: morte
    SINTESI: specie (figli) (con i figli si può vivere oltre la morte).

    Quindi la tesi e l’antitesi vengono superati per affrontare un momento nuovo di ottimismo.

    Nelle opere giovanili già si può intuire questo metodo dialettico:
    TESI: momento rappresentato dalla religione greca; c’era armonia con la natura, la religione rispondeva ai bisogni dell’uomo.
    ANTITESI: rappresentata dalla religione ebraica; si rompe l’ equilibrio tra uomo e divinità mostrando l’uomo come schiavo, servo della divinità punitrice. Si ha quindi una scissione (separazione tra uomo e divinità).
    SINTESI: rappresentata dalla religione cristiana; la religione dell’amore. L’amore unisce l’uomo a Dio; come dice Platone: “nell’amore non c’è chi domina e chi è dominato, c’è unità. L’uomo della religione cristiana sa che è unito a Dio attraverso l’amore. Con l’amore si supera qualsiasi scissione (Fedro).

    Quindi l’assoluto rappresenta il momento culminante della filosofia. “La filosofia è come l’uccello di Minerva che vola al tramonto”.
    Minerva: Dea della sapienza
    Tramonto:momento di riflessione; (l’assoluto riflette su se stesso).

    L’idealismo di Hegel è un idealismo logico [sarà accusato di Panlogismo (tutto è razionalità)].

    FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

    La fenomenologia dello spirito rappresenta la storia romanzata dello spirito che si racconta attraverso la storia. Lo spirito si presenta come:

    COSCIENZA: Spirito
    AUTOCOSCIENZA: Religione
    RAGIONE: Sapere Assoluto

    Lo spirito cerca di presentarsi:

    COSCIENZA:
    * Certezza sensibile
    * Percezione
    * Intelletto

    AUTOCOSCIENZA:
    * Servo – padrone
    * Libertà (Stoicismo, scetticismo, cristianesimo)
    * Coscienza infelice

    RAGIONE:
    * Osservativa (Rinascimento)
    * Attiva (piacere, virtù, cuore)
    * Etica

    La coscienza è il momento in cui inizia tutto. Lo spirito prende coscienza di se (certezza sensibile). Quando capisce la differenza tra uno e molti, si passa alla percezione.
    Con l’intelletto si fa il concetto che permette di cogliere l’universale concreto.
    Concetto reale (concreto) – razionale (universale).
    La coscienza diviene autocoscienza nel rapporto con gli altri. Noi siamo delle coscienze, tra l’una e l’altra si crea un rapporto di “servo – padrone”.
    C’è chi ha paura della morte, dell’incognito. allora non affronta la vita e si affida a qualcun altro. Chi non ha paura sarà sempre padrone nella vita, chi invece ha paura avrà sempre un atteggiamento di servo.
    Il padrone che si serve del servo, non si rende conto però che è lui stesso servo del suo servo poiché ha bisogno di lui. Allora il servo prende coscienza della sua importanza per il padrone, che non potrebbe essere tale senza il suo servo.
    Da questa opposizione scaturisce la libertà spirituale. Il Cristianesimo del Medioevo ha portato la coscienza infelice: durante quel periodo infatti, si diceva ai cristiani di vivere in questo mondo pensando sempre che il vero mondo è quello dell’aldilà. Allora il cristiano nel Medioevo, era scisso, lacerato, perché viveva in questo mondo sapendo che non era il suo mondo.
    Nel Rinascimento ci cogliamo come ragione (universale concreto). Ragione osservativa: l’uomo nel Rinascimento vuole fare scienza. Poi da osservativa diventa attiva (la ragione può agire per piacere, come Faust); o per ragioni di cuore (come Rousseau) o per virtù (come Don Chisciotte). Il momento culminate vede la ragione come etica.

    Percorso speculativo

    * SPIRITO
    La bella vita etica “Antigone”
    La cultura (Illuminismo, Robespierre, Terrore)
    L’anima bella (Romanticismo, Novalis)
    * RELIGIONE
    * SAPERE ASSOLUTO

    La bella vita etica è il mondo greco. Si rifà alla tragedia di Antigone. Lei era una fanciulla che ha disubbidito a Creonte seppellendo il fratello. Si viene a formare un conflitto tra legge umana e legge del cuore. Ciascuno di noi ha simpatia per Antigone, ma se ciascuno di noi la pensasse come lei, non ci sarebbe Stato. Le leggi vanno rispettate anche se non condivise per mantenere il giusto rapporto individuo-stato.
    Da questo conflitto si giunge al poter vivere in società. E’ il caso dell’impero romano. La cultura rappresenta la presenza della legge dello Stato. Ma questo ha comportato il momento del Terrore. Siamo tutti uguali, ma nello stesso tempo nessuno lo era. Il rapporto tra individuo e Stato nell’Illuminismo era di paura.
    E’ un’anima bella che rischia di impazzire o intisichire. E’ individualistica.

    ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO

    ASSOLUTO O IDEA
    * Idea in se o Logica
    Essere (qualità, quantità, misura)
    Essenza [contenuto dell’essere]
    Concetto
    * Idea fuori di se o Natura
    Meccanica
    Fisica (magnetismo, elettricità, chimismo)
    Organica (geologico, vegetale, animale[sensibilità, irritabilità, riproduzione{vita, morte, specie}])
    * Idea in sè e per sé o Spirito
    Soggettivo (antropologia[anima], fenomenologia[coscienza], psicologia[libertà]);
    Oggettivo (Diritto, moralità, eticità [famiglia, società civile, stato]);
    Assoluto (arte[idealità, intuizione, forma]{l’assoluto è intuito}, religione[orientale, personale, cristiana]{l’assoluto è rappresentato}, filosofia{l’assoluto è pensato come concetto}).

    Idea in se o LOGICA
    Per Hegel tutto è logica, tutto è razionalità. “Le mie categorie hanno mani e piedi”; le categorie, forme della logica non sono astratte, ma concrete. Il momento vero è la sintesi, il concetto. Il vero concetto è l’idea, il momento in cui l’idea, partita da essere diviene concetto.

    Idea fuori di sé o NATURA
    Nella filosofia della natura, l’idea si estranea da sé. Essa rappresenta il momento negativo razionale, quello dell’antitesi. E’ un momento importante, necessario ma che Hegel non ritiene interessante poiché qualunque suo spettacolo, anche se stupendo, è inferiore ad ogni azione dell’uomo, anche se malvagia; perché nell’uomo c’è lo spirito libero.
    Non è come Schelling che la studia approfonditamente attraverso la fisica speculativa.
    Hegel dice: “io non credo alla natura come ce l’ha presentata il Romanticismo, (“Deus sive natura” Spinoza). Egli la suddivide in meccanica, fisica ed organica.
    La natura meccanica studia la natura nello spazio e nel tempo (esteriormente).
    La natura fisica analizza le leggi della natura. Le leggi sono quelle di Schelling(elettricità, magnetismo, chimismo).
    La natura organica ci presenta l’organismo geologico (il fossile).
    Hegel studia l’organismo secondo la concezione di Aristotele di funzione vegetativa e sensitiva. L’organismo vegetale ha la funzione vegetativa cioè di crescere, nutrirsi e morire. L’organismo animale ha invece la funzione sensitiva, quindi ha anche la capacità di sentire gli stimoli. L’animale sente; è sensibile; quando sente degli stimoli reagisce ad essi, di qualsiasi natura essi siano, secondo la legge di stimolo e risposta. La riproduzione rappresenta la continuazione della vita (vita, morte, specie).
    La specie è il punto culminante della riproduzione. Con la specie vengono superate le barriere della morte con la vita stessa. Ciò determina la Storia dell’umanità.

    Idea in sé e per sé o SPIRITO
    * Lo spirito soggettivo
    Nell’Antropologia Hegel ci presenta lo spirito soggettivo come anima biologica cioè come funzionalità, come vita (alla maniera di Aristotele). Un’anima primordiale a contatto con l’ambiente (teoria dell’evoluzione).
    Nella Fenomenologia dello spirito, si parla di coscienza (certezza sensibile, percezione, intelletto).
    La Psicologia ci studia dal punto di vista della libertà. La psicologia non viene studiata come scienza; lo diventerà solo nel 1879. Per il momento viene studiata solo come espressione della nostra libertà.
    * Lo spirito oggettivo
    Lo spirito oggettivo riguarda i rapporti che si concretizzano tramite la libertà. La libertà individuale si esplica nelle istituzioni.
    Il primo momento è il contratto; si riferisce alla proprietà che è la prima libertà individuale. Quindi il diritto si presenta come un momento esteriore, come rapporto visibile. Il primo rapporto visibile è il contratto, ciascuno di noi si realizza come possesso, e quindi con tutto ciò che comporta avere il contratto e la conservazione della proprietà privata.
    Se il diritto è l’aspetto esteriore, quello interiore è la moralità. Per Hegel è sempre un aspetto individuale.
    Per superare gli aspetti limitativi l’unico momento vero è la sintesi: individualità in riferimento alla comunità (eticità, organismi etici). La sintesi ci presenta dunque l’eticità, il significato dell’individuo in relazione alla società.
    Gli organismi etici sono:
    La famiglia. Essa è l’unione che nasce con un contratto quando fra due individui c’è sentimento (si nota quindi l’unione tra tesi ed antitesi).
    La famiglia dà l’idea che la moralità individuale è già in rapporto alla moralità del coniuge. Hegel vede questo rapporto come un nucleo chiuso ed armonico al suo interno. Però, questo nucleo chiuso, per necessità si deve rompere, scindere, lacerare (antitesi) quando i figli, diventati grandi, escono dalla famiglia. Quando questi escono rompono l’armonia che c’era all’interno della loro famiglia.
    Hegel esamina questa lacerazione e la chiama società civile.
    Questa indica una comunità di famiglie aperte. Si crea così un rapporto continuo, dinamico tra i vari individui; questa comunità ha bisogno però di una ricongiunzione armonica e questa si raggiunge solo con lo Stato.
    Lo Stato rappresenta il momento della sintesi e lo si può considerare come una grande famiglia. Questo rappresenta la “realtà etica consapevole si sé” di un popolo, ossia la consapevolezza del fine cui va indirizzata la vita comune. In questo senso esso è per Hegel Dio in Terra.
    Lo Stato quindi rappresenta la sintesi, la realizzazione dell’assoluto dal punto di vista storico.
    Lo Stato è vita perché è ragione (“Il Dio che si fa realtà”). La sua vivacità si nota nella guerra. Proprio questa viene vista da Hegel come vento che non permette alle acque di stagnare. “lo capisco che nelle guerre si corrono molti rischi però bisogna affrontarli per permettere agli Stati giovani di affermarsi”.
    La guerra quindi è necessaria e come tale è razionalità. Tramite la guerra si affermano le nazioni. La guerra si serve dell’astuzia della ragione degli uomini per fomentare la battaglia, lo scontro. La ragione quando ha suscitato la guerra si serve anche degli eroi (individui cosmico storici).
    Gli eroi per Hegel sono l’assoluto. L’assoluto si è realizzato in un individuo che ha sentito lo spirito dell’assoluto e lo ha realizzato nella storia e nello spazio. Es: “Cesare distrutto due Repubbliche fantasma e ha realizzato lo spirito nuovo”.
    Una volta che questi eroi compiono il loro compito di mostrare l’assoluto, vengono messi da parte.
    Per Hegel l’unica realtà vera è lo Stato che sviluppa la razionalità. Noi possiamo studiare la storia attraverso la libertà, attraverso la realizzazione della libertà.
    “Negli Stati orientali la libertà è di uno solo, poi negli Stati greco – romani la libertà appartiene a pochi (il Senato, l’aristocrazia), è solo nello Stato tedesco che da Lutero in poi la libertà appartiene a tutti”. Quindi è solo nello Stato tedesco che tutti sono liberi e quindi è lo Stato tedesco che deve essere lo Stato guida di tutti gli altri Stati, perché è l’unico che ha realizzato l’assoluto. (idea PANGERMANICA – la Germania ha il diritto di guidare gli altri popoli).
    Questo fu un discorso pericoloso più dei “discorsi alla nazione tedesca” di Fiche. Mentre questi ultimi furono scritti per necessità, per stimolare i tedeschi contro l’oppressione dello straniero, i discorsi di Hegel sono rivolti allo Stato che viene giustificato attraverso la razionalità.
    Naturalmente questo discorso venne ripreso durante la I guerra mondiale.
    Hegel tratteggia questo grande scenario (storia – realizzazione dell’assoluto). Nella storia nulla è fatto per caso, ma tutto ha un suo fine, uno scopo ben determinato. Tutto è razionale, tutto compie un movimento razionale.
    * Lo spirito assoluto
    Lo spirito fin’ora è stato soggettivo, oggettivo, ed adesso lo si può cogliere nella sua pienezza. Tutte e tre le funzioni dello spirito hanno per oggetto l’assoluto (lo spirito che si coglie in sé e per sé). Questo è il momento in cui si prende coscienza del giorno cioè rappresenta lo svolgimento dell’assoluto.
    L’assoluto può essere intuito nell’arte, rappresentato nella religione e pensato come concetto nella filosofia.
    L’arte è il momento di intuizione soggettiva di chi ha una natura sensibile. Schelling ha visto l’arte come momento di intuizione dell’assoluto, per lui l’arte è il momento culminante (unione indifferenziata di natura e spirito). Per Hegel invece, l’arte è un momento particolare che deve essere superato. L’arte si sviluppa attraverso tre momenti particolari dell’artista: idealità, intuizione, forma.
    In queste tre fasi si può trovare delineata la storia dell’arte. All’inizio della storia, nell’arte è stata predominante la materia (arte simbolica). L’arte orientale poi, si è manifestata nell’architettura dei templi (uso del marmo, della pietra).
    Nell’arte greco – romana, c’è stato invece un equilibrio tra materia e idealità e questa forma di arte si è manifestata nella scultura (armonia tra intuizione dell’artista e forma).
    Infine si giunge all’età moderna, all’età tedesca con l’arte Romantica.
    In questo tipo di arte predomina la soggettività dell’artista, infatti le espressioni d’arte di questo periodo sono la pittura, la musica e la poesia.
    In questo senso, l’arte tedesca è quella superiore a tutte le altre. Nell’arte noi cogliamo in un momento soggettivo l’intuizione dell’assoluto. Hegel, comunque, pur affrontando la distinzione tra bello naturale e bello artistico, ritiene che il soggetto da cui si trae l’ispirazione è sempre superiore.
    Ma l’arte in sé è un momento affidato al soggetto. Ma l’assoluto ha bisogno di avere un momento di oggettività.
    Questo momento lo si ha con la religione. In essa, l’assoluto è colto da tutti tramite la fede che fa avvertire oggettivamente la presenza dell’assoluto. Anche la religione si può studiare attraverso tre momenti: religione orientale; religione personale; religione cristiana.
    La religione orientale, rappresenta il primo momento in cui l’assoluto è visto in un feticcio (in questa religione c’è il culto del Dio Sole, della metempsicosi), al massimo si può avere un certo animalismo (pensare che tutta la natura sia divinizzata).
    Ma questa rappresenta l’infanzia dell’umanità, poi si passa alla religione personale (la divinità è vista come persona). Questa religione, di natura personale è tipico della religione ebraica.
    Ma anche questo momento, non è quello culminate.
    Infatti il momento culminante è dato solo dalla religione cristiana che presenta Dio come trinità: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo.
    Nemmeno la religione è un momento conclusivo, perché oggettivo. L’assolto è colto nella sua pienezza come natura concettuale (concetto).
    Il concetto è visto come complemento, coglie l’assoluto nella sua essenza. L’assoluto si può cogliere solo nella filosofia (panlogismo).
    Questo momento è il momento finale “E’ come l’uccello di Minerva che vola al tramonto”. C’è solo da riflettere, di prendere coscienza di ciò che è accaduto. Quindi la filosofia è anche storia.
    Attraverso i vari filosofi che hanno criticato le filosofie precedenti e le hanno superate si è potuto avere uno svolgimento nella storia, nella ricerca della filosofia finale.
    In questo svolgimento, l’assoluto cerca se stesso, cerca di farsi capire, di realizzarsi. La filosofia quindi risponde al tempo in cui si realizza e coglie quel momento storico in cui si sviluppa.
    Hegel dice che la sua filosofia è la massima filosofia, e come tale non potrà essere mai superata. Questa sua idea rappresenta il limite della filosofia hegeliana, perché la filosofia procede, come procede lo sviluppo dell’umanità.
    E’importante che la filosofia abbia un rapporto sociale con la storia e che instauri anche un rapporto con la religione.
    Però, pur considerando la filosofia come momento speculativo (sintesi), ritiene che la religione e la filosofia stiano sullo stesso piano.
    Per lui la filosofia non è superiore alla religione perché entrambe hanno lo stesso soggetto, l’assoluto.
    Un gruppo di suoi discepoli riterrà questa affermazione corretta (destra hegeliana), mentre un altro gruppo di studenti dirà che la religione e l’arte, non stanno sullo stesso piano della filosofia perché hanno lo stesso oggetto.

  • Fichte: l’idealismo etico

    Noi intendiamo io puro, principio di ogni cosa, pensiero ed attività spirituale. Con Fichte abbiamo la metafisica del pensiero ciò vuol dire che la ricerca della sostanza di una cosa non è nella realtà ma nel pensiero soggettivo.
    Fichte considera la filosofia dogmatica degna di persone passive. L’idealismo è per lui la filosofia dei giovani perché l’io è creatore.
    Secondo lui, la vera natura umana è quella morale, possiamo definire il suo un idealismo etico.
    Dopo la lettura della critica alla ragion pratica, pubblicò un libro anonimo che come stile si avvicinava molto a quello di Kant. Viene riconosciuto ed invitato ad insegnare all’università. Qui un suo assistente aveva proposto nei suoi testi che noi dobbiamo parlare di Dio come ordine morale dell’Universo. Il senato accademico richiamò Fichte il quale disse “se non siamo liberi di scrivere quello che vogliamo, io do le dimissioni”. Vennero cacciati dall’università. Fichte cercò lavoro ma ben presto sua moglie che era infermiera si ammalò e lo contagiò di un male che in breve tempo lo portò alla morte.
    Importantissimi da ricordare sono i discorsi alla nazione tedesca che egli scrisse per suscitare uno spirito nazionalistico.
    Secondo Fichte l’io penso di Kant non può essere solo legislatore della natura, ma deve essere anche creatore.

    Esso si struttura in:

    1. TESI (realtà*) L’io pone se stesso
    2. ANTITESI< (negazione*) L'io pone il non io 1 3. SINTESI (limitazione*) L'io pone il non io per farsi io 2 1 vengono sistemate come le categorie di Kant 2 il rapporto tra realtà e negazione è limitazione L'io pone se stesso secondo il principio logico di identità a=a io=io Esso ha una natura morale Se io sono messo alla prova è vero che sono moralità? La vita va vissuta. Bisogna cercare di superare il non io, che rappresenta gli ostacoli e ci allontana dalla moralità. Il non io non è autonomo ma è creato per controbattere l'io. Il non io viene quindi creato da noi. L'io per realizzarsi come moralità si è trasformato in non io. Finché viviamo ci limitiamo sempre ad essere morali sapendo comunque che la moralità assoluta non la raggiungeremo mai.

  • Kant: il criticismo

    Kant è un filosofo illuminista, nasce a Königsberg; la madre riveste per lui un ruolo molto importante che, a quanto sostiene, gli insegna il primo germe di bene. È il quarto di 11 figli, ma con i fratelli non ha un gran rapporto. Viene mandato al collegium Friedericianum, dove si dimostra subito critico nei confronti della religione, per quanto riguarda le forme esteriori ed esagerate del culto: ha un concetto intimistico della fede, le preghiere forzate sono, per lui, inutili. Diventa bibliotecario, poi docente di logica e metafisica all’università; i suoi interessi sono prevalentemente scientifici: pubblica molte opere sulla Terra, sul moto, sulla quiete e sulla teoria dei venti (scritti pre – critici). La sua prima opera importante, scritta nel 1781 è la “Critica della Ragion Pura”, dove fa il punto sulla conoscenza (2° edizione). Il 1788 è l’anno della pubblicazione della “Critica della Ragion Pratica”. Nel Critica della Ragion Pratica si chiede cosa si può conoscere, è uno scritto teoretico, nella Critica della Ragion Pratica si occupa di come si debba agire nella pratica. Nel 1790 scrive “Critica del giudizio”. 1793 – 1797: sono gli anni della censura prussiana e del terrore francese: perciò riceve un severo ammonimento soprattutto per le sue opere a tema religioso, dalle quali traspariva troppo l’ideale illuministico; scrive inoltre il libro “Per la pace perpetua”, intesa come pace fra gli stati e le nazioni. Muore malato nel 1804, di lui si parla come di una persona calma, mite, riflessiva.
    L’indirizzo filosofico di Kant si chiama criticismo, dal verbo Krino: Analizzare, scomporre un problema in parti elementari per studiarle meglio (Cartesio) e Giudicare, e cioè emanare sentenze.
    Il suo principio sta nel criticare e verificare la legittimità delle pretese avanzate dalla ragione umana nel campo delle conoscenza: critica della ragione con la ragione stessa; bisogna studiare la ragione per vedere qual è il suo limite. Il criticismo indica la dottrina di Kant nei capisaldi che possono essere così ricapitolati:

    1. Impostazione critica del problema filosofico, e pertanto, la condanna della metafisica come sfera di problemi che sono al di là della ragione umana.
    2. Determinazione del compito della filosofia come riflessione sulla scienza, e in generale, sulle attività umane, allo scopo di determinare le condizioni che ne garantiscono la validità.

    Criticismo: analisi della ragione umana, e fondazione della legittimità delle pretese che essa avanza nell’ambito variegato dell’esperienza umana. La domanda che segue questi ragionamenti è questa: cosa dobbiamo fare per dire che la conoscenza è scienza?
    È necessario che un concetto sia universalmente approvato; il nome è convenzionale, il concetto no. La ragione è una struttura a priori nata per unificare l’esperienza. Il criticismo è detto anche filosofia del limite, ermeneutica della finitudine o teoria dell’interpretazione.
    Lo scopo della filosofia di Kant è andare a individuare il limite all’interno del quale la conoscenza è valida. Mediatore tra empirismo e razionalismo, Kant vuol dare alla sua filosofia una visione finita dell’esistenza, delimitata all’interno di un ambito preciso, perciò nega la potenza e l’onniscienza umana e studia il problema della conoscenza come è stato affrontato in passato.
    Razionalismo (Cartesio): Per Cartesio si poteva giungere alla conoscenza del mondo sensibile, attraverso l’idea di Dio per mezzo del cogito, dell’autocoscienza. Secondo lui la ragione umana aveva il potere di conoscere tutto, nel campo della realtà sensibile e nel campo metafisico. Conoscenza = rappresentazione. Come si fa ad avere la certezza di qualcosa? Cogito, ergo sum, autocoscienza, sentire di sentire = avere delle idee. Punto debole: il pensiero corrspode all’essere?
    Empirismo: (Hobbes, Locke e Hume) Conoscenza, = avere sensazioni, percezioni, ma le idee che posso avere non sono certe. La certezza c’è solo nel momento attuale della percezione. Punto debole: scetticismo
    Sintesi Kantiana: Kant opera una vera e propria rivoluzione copernicana: come Copernico aveva invertito il rapporto tra Terra e Sole, così Kant inverte il rapporto tra oggetto e soggetto della conoscenza. Anziché pensare che le nostre strutture mentali umane si adattino alla natura, bisogna pensare che la natura si modella sulle strutture umane. La conoscenza parte dall’oggetto, ma al centro del sistema conoscitivo c’è un soggetto che organizza i dati dell’esperienza sensibile attraverso strutture a priori dunque tutto inizia dall’esperienza (empirismo), ma non tutto deriva dall’esperienza (razionalismo) la ragione è modellata con strutture a priori universali e necessarie. La conoscenza ha l’aspetto passivo (sensibilità, esperienza) e quello attivo: Unificazione degli elementi sensibili (razionalità).
    La conoscenza è fenomenica (posso conoscere solo quello che mi appare), non noumenica.
    Le nostre conoscenze senza la sensibilità sarebbero vuote: la sensibilità ci dà gli oggetti immediatamente con la conoscenza intuitiva (immediata): l’intelletto unifica i dati dell’esperienza in concetti: è già una facoltà mediata, è una forma di conoscenza discorsiva. Però questo meccanismo funziona solo se limito le mansioni dell’intelletto ad unificare l’esperienza; se pretende di arrivare alla conoscenza di Dio (di cui non si può avere esperienza), non va più bene. La ragione è la facoltà umana che tende a proseguire il processo di unificazione della realtà, ma commette l’errore di uscire dall’esperienza. La ragione unifica i concetti in teorie, il prodotto della ragione nelle idee.

    Le forme a priori sono spazio e tempo: ognuno di noi ha l’inevitabile attitudine a collocare ciò che conosce in ambito spazio – temporale spazio e tempo universali e necessari.

    La teoria di Kant è la riproposizione della fisica astronomica di Newton (scardinata dalle teoria della relatività di Einstein). C’è continuità tra Kant e Newton anche se ci sono comunque importanti differenze: Newton ritiene che l’ordine del mondo sia causato da una forza divina intelligente che ha deciso di creare il mondo, quindi la sua è una concezione teleologica o finalistica. La concezione di Kant invece è più meccanicistica o deterministica, dato che, secondo lui, a partire da un caos iniziale, grazie alle forze di attrazione e repulsione si genera il mondo che funziona secondo un principio di causa – effetto. Newton è pessimista: il cosmo tenderà ad autodistruggersi, mentre Kant è molto più ottimista, perché secondo lui la ragione umana tende all’ordine: non è detto che sia reale, ma è un’impostazione mentale. Kant si basa sulla geometria euclidea tridimensionale, ma quando questa viene superata le sue affermazioni non hanno più senso: per renderle nuovamente valide, però, basta eliminare l’assolutezza delle tre dimensioni.
    Kant vuole far capire come avviene la conoscenza e le condizioni secondo cui la conoscenza è valida. La condizione delle condizioni è che la conoscenza dipende dall’esperienza (critica alla metafisica che è puro pensiero). Kant si mette ad esaminare le singole sfere conoscitive per mettere in rilievo, se c’è ne sono, gli elementi a priori. Le sfere conoscitive, ossia gli aspetti diversi nei quali si presenta il nostro potere conoscitivo, sono di tre tipi: sensibilità, intelligenza e ragione, che Kant rispettivamente denomina estetica, analitica, dialettica.

    L’estetica trascendentale

    Il suo scopo è di studiare le forme a priori della sensibilità: alla base della sensibilità ci sono strutture uguali per tutti all’interno delle quali collochiamo l’oggetto percepito, che sono spazio e tempo. Lo spazio è la forma del senso esterno, il tempo è la forma del senso interno, in cui collochiamo il flusso delle nostre esperienze interne. Lo spazio e il tempo sono le strutture grazie alle quali sono possibili la matematica e la fisica. La matematica lavora sulla pura forma dello spazio, estrae dalla realtà; a questo si collega la questione dei giudizi: conoscere vuol dire anche giudicare.
    I giudizi possono essere:
    Analitici: il predicato è già contenuto nel soggetto
    Sintetici: c’è stata una sintesi: il predicato non è contenuto nel soggetto
    Si possono conciliare giudizi analitici e sintetici in giudizi che si chiamano sintetici a priori universali e necessari che ampliano la conoscenza: 7 + 5 = 12 è uguale per tutti (analitico), ma ci si può arrivare in altri modi: il 12 non è insito né nel 7 né nel 5, è nuovo (sintetico). La scienza è fatta da giudizi sintetici a priori.
    Spazio e tempo hanno due caratteristiche che sono ideali e reali : l’idealità trascendentale. Ideali perché sono funzioni logiche della mente, reali perché sono universali e necessari dato che valgono per tutti.

    L’analitica trascendentale

    È quella dottrina che studia le forme a priori dell’intelletto: studia il modo in cui l’intelletto unifica le sensazioni arrivate dall’esperienza, il cui prodotto è un concetto. C’è bisogno di strutture categoriche per classificare le singole sensazioni: le categorie derivano da Aristotele, per il quale sono i sommi generi dell’essere: ciò che si può predicare dell’essere. Le categorie per Kant sono divise in quattro tipi: quantità (unità pluralità, totalità), relazione (causa effetto, accidente), qualità (forma, colore, odore) e modalità (inerenza e sussistenza). Queste categorie devono essere universali e necessarie e derivano tutte dall’autocoscienza dell’individuo che Kant chiama l’io penso: il sentire di sentire o sintesi originaria dell’appercezione . Per Cartesio il cogito implicava la res cogitans, la sostanza; per Kant resta una funzione logica, un’ipotesi perché tutti coloro che hanno l’io penso, possiedono le categorie e le possiedono allo stesso modo: “deduzione trascendentale”: dimostrazione della validità delle categorie.

    Dialettica trascendentale

    La dialettica è logica dell’apparenza, un modo di ragionare vizioso che produce parvenza e non conoscenza. La dialettica studia il modo in cui la ragione unifica i concetti dell’intelletto: mentre l’intelletto procede con i giudizi e con le sentenze, la ragione procede con i sillogismi. Il problema della dialettica e della ragione è il fatto che non ha direttamente a che fare con l’esperienza: arriva a delle conclusioni che escono dall’ambito fenomenico. La ragione nel suo processo di unificazione dei concetti approda a tre totalità incondizionate (tre assoluti): l’idea di Anima, l’idea di Mondo, l’idea di Dio. La ricerca dell’incondizionato da parte della ragione è la prosecuzione inevitabile del nostro processo conoscitivo verso un’unità ultima che continuamente sfugge alla nostra conoscenza. L’unità suprema cui la ragione aspira può solo essere pensata ma non può essere conosciuta.
    Studio dell’anima: psicologia razionale; Studio del mondo: cosmologia razionale Studio di Dio: teologia razionale. La ragione, nella sua ricerca dell’incondizionato, cade in contraddizione di aporie , di antinomie. Si rientra nella metafisica che esula dell’ambito dell’esperienza.

    Psicologia razionale

    Il concetto di anima, con il progredire della scienza è diventato sinonimo di mente: la psicologia razionale pretende di giungere ad una conoscenza effettiva dell’Io, senza ricorrere all’esperienza, così, con il puro pensiero o ragionamento, attribuisce all’anima caratteristiche quali la sostanzialità, la semplicità, l’immutabilità, l’immortalità.
    Alla base di queste pretese c’è per Kant un errore logico che chiama paralogismo. Ovvero un sillogismo errato nella sua struttura, nella sua impostazione, perché il sillogismo è basato su due premesse: una premessa maggiore (a) e una premessa minore (b); dalla sintesi delle due deve derivare una conclusione. Il sillogismo funziona se le premesse sono vere, se i due termini a e b sono uniti da un termine intermedio c che è comune ad entrambi, se il termine intermedio non è univoco, non ha sempre lo stesso significato, ma è equivoco, o si presta a più interpretazioni, quindi a e b non sono più uniti, ma il sillogismo si scinde in due e più sillogismi, uno per ogni significato del termine, quindi il sillogismo non dimostra più nulla.
    Esempio di sillogismo:

    * Tutti gli uomini sono animali razionali
    * Socrate è un uomo
    * Uomo
    Conclusione: Socrate è un animale razionale

    Esempio di paralogismo:

    * Socrate è Ateniese
    * Socrate è brutto
    * Ateniese
    Conclusione errata: tutti gli Ateniesi sono brutti

    Per l’anima si viene a creare un paralogismo:

    * Ciò che può essere pensato solo come soggetto esiste come tutto ed è sostanza tangibile
    * Un essere pensante può essere pensato solo come soggetto
    Conclusione errata: l’essere pensante esiste come sostanza, cioè come anima
    errore: si attribuisce sostanzialità dunque esistenza reale a ciò che è solo formale.

    Cosmologia razionale

    Si occupa dell’idea di mondo, ovvero la totalità dei fenomeni esterni: la sua tesi è questa: se è dato un fenomeno condizionato (qualunque cosa che esista nella realtà di cui noi possiamo fare esperienza), è data anche la serie delle sue condizioni come un oggetto conoscibile. Si scambia per fenomeno ciò che non può essere un oggetto di esperienza, ovvero il mondo esterno inteso come insieme di tutti i fenomeni.
    La totalità dell’esperienza, non è mai un’esperienza, si conosce la verità solo sotto aspetti particolari, possiamo solo pensare ad un’idea che comprende in sé teoricamente tutti i fenomeni possibili, ma assolutamente non possiamo conoscerla. La cosmologia, dunque, cade nelle antinomie della ragione, ovvero conflitti della ragione con se stessa, contraddizioni insolubili, perché in esse, sia le tesi, sia le antitesi, sono sorrette da ragionamenti rigorosi, ma non si basano sull’esperienza. Tesi e antitesi potrebbero essere entrambe vere o entrambe false, ma non è possibile propendere per le une o per le altre perché manca il controllo empirico.

    Tesi: Il mondo ha un inizio nel tempo e un limite spaziale
    Antitesi: Il mondo è eterno e infinito

    Tesi: Nel mondo ogni sostanza consta di parti semplici e indivisibili
    Antitesi: Il mondo è composto da elementi divisibili all’infinito

    Tesi: Oltre alla causalità naturale, nel mondo esiste una causalità libera (possibilità di scegliere l’azione da compiere, il comportamento da tenere)
    Antitesi: Esiste solo un principio di Causa – effetto

    Tesi: esiste un essere assolutamente necessario
    Antitesi: Ogni realtà è solo contingente

    Kant dice che le prime antinomie sono false sia nella tesi sia nell’antitesi, perché non si più avere davanti l’oggetto mondo e individuarne le caratteristiche. Le altre due poterebbero essere vere, però il problema è che le tesi fanno riferimento al campo noumenico, mentre le antitesi si riferiscono al mondo fenomenico. Il conflitto deriva dall’applicare la categoria di totalità ai fenomeni che invece si danno solo individualmente. La soluzione è dire che il mondo nella sua totalità non è oggetto conoscibile.

    Teologia razionale

    Si occupa dell’idea di Dio: è un assoluto, una verità incondizionata a cui la ragione tende e non può non tendere: è un’idea della ragione. L’obiettivo è confutare l’idea che le prove dell’esistenza di Dio abbiano una validità scientifica. Dio è l’essere supremo, originario, l’essere degli esseri, e Kant esamina le prove che nella tradizione filosofica sono state date, non valide scientificamente.

    Kant dice: non si può non pensare a Dio, però di Dio non si può dimostrare né l’esistenza, né la non esistenza, ma allora queste idee della ragione, cosa servono? Per loro ci sono due usi:
    1) Uso costitutivo: usare le idee per conoscere: prendo un’idea e la applico agli oggetti (uso illegittimo)
    2) Uso regolativo: utilizzare le idee per regolare il nostro rapporto con la realtà, per dare sistematicità alle nostre conoscenze, e per guidare il nostro comportamento, allora io so che queste idee sono puramente pensate, ma faccio come se esistessero per poter regolare il mio rapporto con la realtà. Possiamo rifletter sull’esistenza ponendo a fondamento di essa e dandole un senso. Se questo serve a consolarmi, va bene, ma non devo crederci.
    Quando parliamo di natura utilizziamo il nesso causale, e per comodità di ragionamento possiamo ipotizzare l’esistenza di una causa prima. Le idee trascendentali ci ricordano costantemente la nostra limitatezza, la debolezza del nostro sapere, che si arresta inevitabilmente in un punto, ma contemporaneamente queste idee ci spingono ad andare oltre. Kant si accorge che non si vive di solo fenomeno, ma c’è bisogno di noumeno. Quello che non vale da un punto di vista scientifico, può avere un senso nell’ambito pratico. In quest’ambito pratico si può inserire l’idea di Anima, di Mondo e di Dio.

    CRITICA DELLA RAGION PRATICA

    Non ci si trova più nell’ambito teoretico, ma in quello pratico. La ragione, oltre ad avere un uso puro, dunque a valere in campo conoscitivo, possiede per Kant un uso pratico, cioè funge da motivo determinante della volontà: guida la volontà ed incita ad agire in un certo modo verso un fine positivo. Ma questo non significa, per l’uomo soddisfare tutti i suoi bisogni naturali: l’uomo possiede un fine più elevato che il semplice raggiungimento di una felicità naturale. Il fine della ragion pratica è il bene: è il produrre una volontà buona in sé. La Ragione deve dettare all’uomo le regole di comportamento. Per capire la morale kantiana, dobbiamo capire il concetto di dovere: se la ragion Pura era legata al mondo dell’essere , la critica della ragion pratica è legata a quella categoria filosofica che si chiama dover essere . Le azioni del Dover essere si dividono in:
    Legali: Azioni conformi al dovere per un motivazione estrinseca: rispettare la legge o per paura della pena o per desiderio di un premio
    Morali: Azioni conformi al dovere per una motivazione intrinseca, ovvero per il dovere stesso e per nessun altra ragione.
    Le caratteristiche della legge morale sono cinque:

    1. Razionalità: deve essere chiaramente comprensibile alla ragione umana
    2. Universalità: la legge morale deve valere non solo per il soggetto che se la pone, ma per tutti gli esseri razionali- Si è universali quando la massima della nostra azione può essere estesa a tutti senza alcun danno. es. la massima delle mie azioni è vivere arricchendosi: è razionale ma non universale, perché chi si vuole arricchire a tutti i costi lo farà a discapito di qualcun altro.
    3. Formalità: la legge morale deve prescindere da ogni contenuto empirico, e basarsi esclusivamente sulla pura forma della razionalità
    4. Imperatività: è un comando dovuto al fatto che l’Uomo non è spontaneamente morale, ma ha bisogno di un certo controllo: la moralità sta a metà tra la bestialità e la santità . L’uomo è tentato di comportarsi come gli animali, ma tende verso la santità. Ma nella moralità si realizza l’autonomia: dare leggi a se stessi. Non essere determinati da altri che da sé. Quanti tipi di imperativi esistono?
    * Imperativi ipotetici: regole dell’abilità, consigli della prudenza, regole di comportamento sociale che si sintetizzano nella formula: se vuoi x fai y. Questi imperativi ipotetici indicano solo quali mezzi adoperare per raggiungere un certo fine, ma non dicono se il fine sia bene o male.
    * Imperativi categorici: devo fare x perché devo, prima ancora di sapere se ho i mezzi per raggiungere x debbo attivare la mia volontà per raggiungere questo fine.

    Formulazione degli imperativi categorici
    o Agisci: come se la massima della tua azione dovesse essere elevata a legge universale di Natura. Qui si sottolinea il fatto che la legge deve valere per tutti incondizionatamente e che tutti devono mettere da parte i propri vantaggi e svantaggi personali.
    o Agisci in modo che la tua volontà valga per tutti come universalmente legislatrice.
    o Agisci in modo da trattare l’umanità nella propria e nell’altrui persona sempre come fine e mai semplicemente come mezzo. Questo presuppone il rispetto altrui: solo in questo modo si può realizzare il “regno dei fini”, l’obiettivo degli obiettivi dell’uomo, che è realizzare una comunità di esseri liberi e razionali, quindi autodeterminantisi, in cui ciascuno sia al tempo stesso legislatore e suddito. Non è una comunità corretta, non è uno stato. Il regno dei fini è un ideale utopico.
    o Intenzionalità della legge morale. Significa che l’etica di Kant guarda all’intenzione con cui è stata compiuta l’azione, piuttosto che il risultato. Dunque il valore di un’azione sta nel movente della volontà: posso fallire, ma se ho agito per il bene, l’azione ha una morale. Quindi l’uomo ha dentro di sé una componente empirica e naturale, è sottoposto alle leggi di causa – effetto e quindi non è libero, anche se ha un aspetto legato alla libertà: anche l’uomo è fenomeno, ma può valere anche come noumeno perché si dà delle leggi morali: l’uomo deve fondere dentro di sé l’aspetto fenomenico e noumenico.
    Pensiero di Kant: «Il cielo stellato sopra di me mi fa ricordare la fragilità della mia natura, ma mi fa sentire anche parte del tutto, mentre la legge morale che è in me mi fa ricordare che sono libero».

    Il rispetto della legge morale produce nell’uomo un duplice sentimento, ovvero uno stato di piacere e dispiacere contemporaneamente. Il dispiacere consiste nel fatto che l’uomo si rende conto della propria fragilità, della sua necessità fenomenica, cioè di esse un semplice meccanismo tra i meccanismi, essere la parte di un tutto, in questo senso l’uomo perde il suo amor proprio, viene mortificato il suo lato sensibile, perché non può abbandonarsi agli istinti. Il piacere, invece, consiste nel fatto che l’uomo è libero e può scegliere di elevarsi dalla bruta animalità e quindi agire disinteressatamente per il bene comune. In questa legge morale, affinché sia realizzabile, occorre ammettere tre postulati detti: postulati della ragion pratica, sono condizioni che si ammettono come vere in modo ipotetico:

    1. Libertà autonomia autodeterminazione
    2. Immortalità dell’anima
    3. Esistenza di Dio

    Non è obbligatorio crederci. Le ultime due condizioni, Kant le aveva espulse nella “Critica della ragion pura”, ma le riprende in ambito pratico. Kant intende la libertà come autonomia: capacità di dare leggi naturali a se stessi, di autodeterminarsi, quindi di decidere razionalmente il proprio destino. La libertà è necessaria, perché, se io devo, in qualche modo è perché posso, non sono il balia di qualche essere trascendentale che mi guida. La bontà dell’azione sta nel fatto che posso scegliere anche quella opposta. La libertà è la ratio essendi della ragione morale, cioè, agendo normalmente, l’uomo diventa libero, ma è anche vero che l’uomo agisce normalmente perché è libero; quindi è un rapporto biunivoco, di simbiosi. Kant dice anche che la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà. L’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio servono per realizzare il fine che Kant chiama SOMMO BENE, perché questo contiene due elementi al suo interno che sono la virtù e la felicità. La virtù è intesa come merito di essere felici; noi siamo buoni e meritiamo la felicità, ma non è detto che lo sia veramente: non è completo perché ha bisogno anche della felicità. Questa è la soddisfazione dei propri bisogni, sempre in connessione con la legge morale.
    Per realizzare la virtù c’è bisogno dell’immortalità dell’anima, e per la felicità dell’esistenza di Dio. La connessione tra virtù e immortalità è data dal fatto che, dovendo l’uomo diventare sempre migliore per tendere alla felicità, ha bisogno di pensarsi come essere infinitamente perfettibile; cioè che in un tempo e spazio non definiti si continui il processo di perfezionamento. Se così non fosse non servirebbe a niente agire bene perché non ne si avrebbe la motivazione. Questa è un’ipotesi che dà la forza di agire bene; l’altruismo può essere visto come una forma di egoismo mascherato, perché lo si fa anche per un bene personale. L’uomo è caratterizzato da un’insocievole socievolezza, in quanto, quando ha soddisfato il bene comune, si occupa del proprio. L’esistenza di Dio mi serve perché un Dio è garante della giusta distribuzione della felicità, quindi la moralità è una condizione necessaria ma non sufficiente (perché ha bisogno della religione). La morale conduce alla religione.
    Il concetto di moralità diviene molto importante dal punto di vista politico: Per Kant è importante mettersi sia dal punto di vista dei legislatori che dei sudditi. Kant condivide il presupposto jus naturalistico per cui lo Stato è il frutto di un accordo stipulato tra i suoi membri. Lo stato di natura è immorale, perché gli uomini perseguono i propri bisogni personali, quindi avviene la creazione del patto. Per uscire dallo stato di natura occorre il diritto: limitazione della libertà individuale alla condizione che questa si accordi con la libertà degli altri: la legge morale e quella giuridica devono funzionare allo stesso modo, quindi Kant ipotizza una costituzione repubblicana di Stato basato sulla divisione dei poteri e sui tre principi fondamentali della ragione: libertà, uguaglianza davanti alla legge, indipendenza dell’individuo, che nello Stato diventa partecipazione al potere politico mediante meccanismi di rappresentanza.
    Kant non è un democratico giacobino, anche se è d’accordo con gli ideali della rivoluzione, ma non ama nemmeno il dispotismo illuminato tipico del 700 (Maria Teresa d’Austria), poiché tutto dipende dalla bontà o meno del sovrano, ma può anche capitare un sovrano non buono. Se il sovrano non rispetta il diritto dell’individuo, il popolo può fare resistenza con la penna, ovvero, con l’opinione pubblica che faccia sentire il suo dissenso. Dov’è la moralità dello Stato? Il politico deve essere anche morale, ovvero la legge va fatta tenendo conto dell’interesse universale, e il politico deve rinunciare a interessi egoistici. Egli deve agire mirando alla pace, intesa come dovere universale. Kant nell’opera per la pace perpetua, parla della pace tra gli stati: se il politico non agisce mirando alla pace, l’unica pace ottenibile sarà quella eterna.

  • Platone

    Vita

    Nacque nel demo antico di Collito, nel 427 a.C., da nobile famiglia, che per parte di padre discendeva da Codro, e per parte di madre da Solone.
    Il suo vero nome fu Aristocle; il soprannome di Platone pare gli fosse dato dal maestro di ginnastica per la larghezza delle spalle (“platus”).

    Primo soggiorno ateniese (Socrate).
    Platone ebbe un’educazione accuratissima, e, giovane, si segnalò nella poesia; ma a vent’anni, entrato in relazione con Socrate, bruciò le sue composizioni e si diede tutto alla speculazione filosofica.
    Appartenne alla scuola di Socrate per circa otto anni, cioè fino alla morte del maestro (399).

    Viaggi (Dionigi il Vecchio)
    Dopo la morte del maestro, intraprese lunghi viaggi, a Megara, dove visitò la scuola megarica diretta da Euclide; in Egitto, a Cirene, e specialmente nella Magna Grecia e in Sicilia, ove prese conoscenza con la filosofia pitagorica.
    Fu anche alla corte di Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa, ove volle partecipare all’attività politica e tentare con l’amico Dione, cognato del tiranno e capo del partito aristocratico, di indurre Dionigi alla fondazione di uno Stato ideale; ma fu da questi consegnato all’ambasciatore spartano come prgioniero di guerra, e solo per intercessione di amici potè sfuggire al pericolo di essere venduto come schiavo, e ritornare in Atene.

    Secondo soggiorno ateniese (Accademia)
    Ad Atene, sulle sponde del Cefiso, fondò una scuola, che dal nome dei giardini di Accademo (eroe attico), dove aveva sede, prese il nome di Accademia (387); e qui raccolse intorno a sè i migliori spiriti del tempo, tra cui lo stesso Aristotele.

    Nuovi viaggi (Dionigi il Giovane)
    Più tardi, essendo successo a Dionigi il Vecchio nel governo di Siracusa il figlio Dionigi il Giovane, accolse nuovamente l’invito di Dione, e si recò per ben due volte in Sicilia con la speranza di poter influire politicamente sull’animo del tiranno; ma corse gravissimo pericolo, e solo per l’intercessione dell’amico Archita di Taranto ebbe salva la vita.

    Terzo soggiorno ateniese
    Tornato ad Atene, dedicò gli ultimi anni all’insegnamento nell’Accademia; e morì a ottant’anni, nel 347, mentre stava correggendo la sua Repubblica

    Opere

    Ci rimangono, sotto il nome di Platone, 34 Dialoghi, l’Apologia di Socrate e 13 Lettere.

    1. Nei Dialoghi appare generalmente come protagonista Socrate; ma in essi l’espressione è piuttosto artistica che sistematica, perchè nessun rigore è nella distinzione dei problemi e nella ricerca metodica.
    Dove poi l’esposizione astratta non è possibileo inopportuna, Platone ricorre ai cosiddetti miti: specie di conoscenza analogica, che gli serve per varcare i limiti dell’esperienza sensibile e dare un’immagine approssimativa di ciò che la trascende (metafisica), come ad es. i miti dell’immortalità dell’anima e della vita d’oltretomba nel Gorgia, nel fedro, nel Fedone, nella Repubblica.

    2. I dialoghi platonici furono distribuiti in trilogie dal grammatico alessandrino Aristofane di Bisanzio (200 circa a.C.), e in tetralogie dal neopitagorico Trasillo (epoca di Tiberio), a seconda della materia trattata; ma oggi si preferisce distribuirli con un criterio storico-cronologico, a seconda della differenza di pensiero e di stile.
    Tuttavia, nonostante il contributo di valenti studiosi, la questione non è ancora definitivamente risolta.
    Riguardo all’autenticità di alcuni dialoghi non sono da ritenersi autentici: Alcibiade II, Ipparco, Anterasti, Teagete, Clitofonte, Minosse, Epinomide, ect.

    Riguardo alla cronologia si possono distribuire in tre gruppi:

    • dialoghi giovanili o socratici, nei quali Platone non sorpassa ancora il punto di vista socratico (concetto). Es. Critone (sul dovere dell’obbedienza alle leggi), Lachete (sul coraggio), Carmide (sulla conoscenza di sè), eutifrone (sulla santità), Liside (sull’amicizia), Ione (sull’ispirazione poetica), Protagora (sulla virtù), Eutidemo (contro l’eristica), Ippia Maggiore (sulla bellezza), Ippia Minore (sulla tesi paradossale che chi pecca volontariamente è meno colpevole di chi pecca involontariamente), Cratilo (sul linguaggio), Menesseno (sulle orazioni politiche).
    • dialoghi sistematici, in cui appare in piena luce la teoria delle Idee. Es. Simposio (sull’amore), Fedro (sulla retorica), Fedone (sull’immortalità dell’anima), Repubblica (sullo Stato ideale)
    • dialoghi della vecchiaia, nei quali Platone sottopone a revisione critica la sua teoria delle idee per renderla più atta a spiegare il mondo della natura e della storia. Es. teeteto (sulla conoscenza), Parmenide (sul rapporto tra l’uno e i molti), Sofista (sul rapporto tra l’essere e il non-essere), Politico (sull’ideale dell’uomo politico), Filebo (sul piacere), Timeo (sulla natura), Leggi (sulla legislazione dello Stato Ideale).

    Pensiero

    Platone si propose nella sua attività imo scopo non solamente filosofic, ma etico, sociale, pragmatico (“filosofia per la vita”): egli reagendo all’individualismo materialisticco, in cui era precipitata la vita greca del suo tempo (demagogismo, ect), mirò ad affermare un idealismo spiritualistico, rappresentato dalla sua teoria delle Idee.

    Teoria delle idee
    1. E’ il fondamento di tutta la filosofia di Platone.
    Platone, proseguendo il pensiero socratico, ammetta un dualismo metafisico: vi sono realtà materiali, contingenti e mutevoli (cfr. divenire di Eraclito); e realtà immateriali, eterne, immutevoli, o Idee (cfr. Essere di Parmenide): le prime sono come una copia delle Idee, e le Idee sono come un modello o archetipo delle cose materiali.
    Le Idee non hanno più solo una realtà logica o mentale, come i concetti di Socrate, ma una realtà ontologica, metafisica: esistono cioè realmente, al di fuori della nostra mente, nel mondo iperuranio: così, ad es., al di fuori di questo o quell’uomo esiste realmente l’Idea universale di Uomo, al di fuori di tutte le cose buone l’Idea universale di Bene, e così via.
    Queste Idee, inoltre, non sono più distribuite confusamente come i concetti di Socrate, ma sono ordinate gerarchicamente per generi e specie, con a capo l’Idea del Bene: idea suprema (forse lo stesso Dio di Platone), dalla quale tutte le Idee ricevono la luce “come l’universo dal sole” (dialettica delle Idee).
    Tale dialettica, o distribuzione gerarchica delle Idee, non è tuttavia ben chiara.
    Platone non fa altro che accennare alle due vie della definizione e della divisione: la definizione che, riducendo la molteplicità ad unità, sottopone la specie al genere; la divisione che, al contrario, scindendo l’unità nella molteplicità ricava a specie dal genere.
    Ma se tali rapporti tra le Idee non presentano alcuna difficoltà quando sono pensieri della nostra mente che li unifica e li distingue, diventano assai oscuri quando vengono proiettati fuori dalla nostra mente, cioè quando non v’è più una mente concreta che li unisce pensandoli insieme.
    A tale difficoltà cercheranno di ovviare Aristotele e S. Agostino, ammetendo l’esistenza delle Idee in una mente oggettiva, e più precisamente nella mente di Dio.

    2. Tra il mondo delle Idee e mondo delle cose vi è – si è detto – dualismo e separazione, ma anche una certa somiglianza.
    Come spiegare questa somiglianza?
    In un primo tempo Platone ricorre ai concetti di mimesi (le cose imitano le Idee), metessi (le cose partecipano in piccola parte all’essenza delle Idee), coinonia (le cose sono in comune con le Idee), ect.
    In un secondo tempo, che coincide con la composizione della Repubblica, egli comprende che le Idee, chiuse rigidamente in se stesse ed escludenti ogni principio di moto, non possono spiegare – come già la dottrina eleatica dell’essere – le cose, il divenire, e perciò, opera in esse una riforma radicale, concependole come causa finale del divenire medesimo: le cose desiderano divenire simili alle Idee, e perciò si muovono finalisticamente verso di esse.
    Nel Timeo si parla perfino di un Demiurgo (= Artefice), specie di divinità intermedia tra le Idee e le cose, che, mirando l’Idea del Bene, plasma ed ordina la materia, ispirando in essa un’Anima del mondo, cioè un principio di vita e di movimento verso le pure Idee.
    Bene, Demiurgo e Anima del mondo formano come una triade, che avrà grandissima importanza nella storia del pensiero: essa informa il neoplatonismo, e da taluni fu anche paragonata alla Trinità cristiana.

    3. Negli ultimi anni Platone, sempre al fine di rimuovere le difficoltà nascenti dal suo dualismo esagerato, andò accentuando il suo pitagorismo, interponendo tra le idee e le cose sensibili, come enti intermedi, i numeri eterni, realtà misteriose che accrescono e non tolgono le difficoltà stesse.

    Filosofia della natura
    1. Platone inaugura con il Timeo un concetto decisamente finalistico della natura: essa non è governata da leggi cieche e meccaniche (cfr. Democrito), ma è dotata di una immanente finalità, che si appunta verso il regno delle pure Idee (cfr. Demiurgo e Anima del mondo).

    2. Ma nella natura vi è n principio oscuro ed amorfo, causa di imperfezione e di male, la materia.
    Essa resiste spesso all’attività del Demiurgo, in modo che le cose riescono un’imitazione perfetta delle Idee: ed ecco perchè, ad un unico modello ideale eterno, corrisponde la molteplicità delle cose.
    Platone chiama la materia Non-essere, Indeterminato, necessità, Caos, Potenza, Selva.

    Teoria della conoscenza
    Platone ammette anche un dualismo gnoseologico: vi sono le rappresentazioni che conoscono ciò che diviene, le cose, e ci danno la conoscenza sensibile o opinione (“doxa”); e i concetti o idee, che conoscono ciò che è l’essenza delle cose, e ci danno la conoscenza razionale o verità (“aletheia”): ma le idee hanno caratteri tali di universalità, per cui non possono derivare dalle sensazioni particolari e contingenti, e quindi sono innate.
    Questo innatismo è poi da Platone connesso al mito orfico-pitagorico della preesistenza e della trasmigrazione delle anime (metempsicosi).
    L’anima umana – afferma Platone nel Fedone e nel Fedro -, prima di entrare nel corpo, ha vissuto nel mondo iperuranio, dove ha contemplato le Idee; quando poi, non sappiamo se per colpa o no, è precipitata nel corpo, ne ha oscurato il ricordo, che nell’atto della percezione, a contatto degli oggetti sensibili, si ridesta, per cui conoscere è ricordare (cfr. Menone, in cui uno schiavo ignorante, opportunamente interrogato da Socrate, riesce a risolvere da sè un difficile teorema di Pitagora).
    di qui l’amore (“eros”), o dialettica dell’anima, per elevarsi dalla conoscenza sensibile all’intuito originario della suprema verità; dialettica che si compone di quattro gradi, sensazione, percezione, ragione, intelletto (cfr. mito della caverna in Rep. VII, 1, 3).
    Più particolarmente la sensazione e la percezione appartengono alla sfera della conoscenza sensibile:

    • sensazione, o conoscenza delle immagini. Es. immagini di una statua;
    • percezione (“doxa”), o conoscenza delle cose sensibili. Es. la statua.

    La ragione e l’intelletto appartengono alla sfera della conoscenza razionale:

    • ragione (“dianoia”), o conoscenza (riflessa) dei rapporti matematici
    • intelletto (“noesis”), o conoscenza (intuitiva) delle Idee, che da luogo alla dialettica o pensiero puro.

    Questa dottrina del conoscere è molto importante, non solo perche sviluppa il procedimento dialettico iniziato da Socrate e prepara l’ulteriore sviluppo di Aristotele, ma anche perchè fissa i tre gradi o forme di conoscere, che saranno d’ora in poi ammesse fino a Spinoza, Kant, ect.: senso (sensazione e percezione), ragione, intelletto.
    Si noti infine come in Platone si possono propriamente distinguere tre significati della parola dialettica strettamente connessi tra di loro:
    – dialettica (oggettiva): distribuzione logica delle idee in generi e specie.
    – dialettica (soggettiva): attività dell’anima in quanto tende alla verità.
    – il grado supremo del conoscere (scienza del puro intelligibile), distinto dai gradi inferiori.

    Psicologia
    Platone è il primo che, a diferenza dei filosofi precedenti, riconosce all’anima una natura spirituale, e quindi immortale (Fedone)
    Egli ammette nell’uomo tre anime separate, che risiedono in diverse parti del corpo:

    1. a) anima razionale (“loghistikon, logos, nous”, ect.) che risiede nel cervello – cfr. nostra ragione;
    2. anima irascibile (“thymos”, o coraggio), che risiede nel petto, e tende a sottomettersi alla ragione e a rintuzzare gli appetiti – cfr. nostro volontà;
    3. anima concupiscibile (“epithymetikon”, o appetito), che risiede nel ventre e tende a ribellarsi alla ragione – cfr. nostro istinto.

    Nel Fedro (XXV-XXVI) l’anima umana è paragonata ad una biga, che un auriga (anima razionale) conduce verso il mondo iperuranio, spingendo innanzi il cavallo docile (anima iracibile) e quello indocile (anima concupiscibile).

    Etica
    1. Platone accogliendo l’intellettualismo etico di Socrate, afferma che sapienza e moralità coincidono, e che il fine non solo della conoscenza ma anche delal moralità, è il Bene universale, cioè il Bene in quanto Idea del mondo iperuranio.

    2. La felicità dell’uomo (“eudomonia”) consiste perciò nel fuggire il mondo sensibile, la “prigione corporea”, e nell’elevarsi con l’amore (“eros”) al mondo delle Idee.

    3. La virtù è il mezzo per raggiungere la felicità.
    Le principali virtù (che più tardi furono dette cardinali) sono quattro, secondo la partizione dell’anima:

    • saggezza (“sophia”), virtù propria dell’anima razionale;
    • fortezza (“andria”), virtù propria dell’anima irascibile;
    • temperanza (“sophrosyne”), virtù propria dell’anima appetitiva;
    • giustizia (“dikaiosyne”), virtù comune e più comprensiva, che non si riferisce all’una o all’altra delle tre parti dell’anima, ma a tutte insieme.

    Essa consistein quell’armonia interiore dell’anima, per cui ogni parte adempie ordinatamente l’ufficio che ad essa è proprio.

    Politica
    1. Ma l’etica individuale si completa nell’etica sociale, l’individuo si completa veramente nello Stato.
    E poichè Platone ebbe a vivere ebbe a vivere in un periodo di profonda decadenza politica (individualismo, materialismo, demagogia, ect.) egli eleva alla massima altezza il concetto dello Stato.

    2. Lo Stato ideale deve essere realizzato in modo da educare il cittadino alla virtù, specie a quell’unica virtù che comprende in sè tutte le altre, cioè la giustizia.
    Esso rappresenta in grande l’anima dell’uomo, e perciò le classi sociali sono tre, secondo le partizioni dell’anima:

    • i filosofi (“razza d’oro”), che corrispondono al’anima razionale e che devono praticare la saggezza. Essi conoscendo che cosa sia la virtù (cfr. intellettualismo etico di Socrate), devono essere i supremi reggitori dello Stato.
    • i guerrieri (“razza d’argento”), che corrispondono all’anima irascibile e devono praticare la fortezza.
    • i lavoratori (“razza di ferro”), che corrispondono all’anima appetitiva e che deovno praticare la temperanza.

    Lo Stato cura l’educazione dei cittadini delle prime due classi: e affinchè costoro non siano turbati, in quanto organo del tutto, da alcun interesse indivisibile, viene ad essi vietata la famiglia e la proprietà (comunismo).
    Platone non si cura dell’ultima classe, che deve soltanto soddisfare i bisogni materiali della comunità, e che deve ubbidire alle classi superiori.

    3. Più tardi, la lunga esperienza della vita e i disinganni dei viaggi in Sicilia dovettero persuadere il vechio filosofo che il suo Stato ideale era piuttosto un’utopia, e nelle Leggi introdusse qualche temperamento, attribuendo tra l’altro il governo non più ai filosofi, ma ai sacerdoti.
    Tuttavia la Repubblica di Platone, per quanto sia stata nella storia fonte di tutte le utopie politiche, ha il merito di aver saputo incarnare la profonda aspirazione dello spirito umano verso la giustizia e la moralità come norme supreme della vita politica: verso uno Stato non più solamente burocratico ed amministrativo, ma essenzialmente etico.
    E’ curioso notare che nel III sec d.C. Plotino cercò di realizzare l’utopia platonica, progettando una città di filosofi che doveva chiamarsi Platonopoli, e per la cui fondazione l’imperatore Gallieno aveva promesso il suo aiuto; ma il progetto andò a vuoto.

    Estetica
    1. L’arte è imitazione (“mimesi”) della natura: e poichè la natura è una imitazione del mondo delle Idee, l’arte si trova ad essere tre gradi lontana dalla suprema realtà.
    Perciò essa è allontanata dallo Stato ideale della Repubblica.
    2. Più tardi, nelle Leggi, il vecchio filosofo si avvide dell’assurdità della sua condanna, e giustificò l’arte come passatempo o riposo dopo la lunga fatica.
    Ma ad una giustificazione integrale del fatto artistico, inteso nei suoi valori di alta idealità spirituale, Platone non giunse mai; ed è questo forse uno degli aspetti più sconcertanti di tutto il suo pensiero.

    Giudizio sulla filosofia di Platone

    La filosofia platonica, per quanto sia dotata di un’enorme importanza nella storia del pensiero di tutti i tempi per la sua vigorosa affermazione idealistica, presenta una difficoltà fondamentale: il suo dualismo esagerato, che non solo distingue ma separa i due mondi della realtà sensibile e della realtà intellegibile, l’unità dalla molteplicità l’essere dal divenire, il divino dall’umano.
    Platone stesso avverte questa difficoltà, e va alla ricerca di un rapporto tra le Idee e le cose (mimesi, metessi, ect.); ma l’incertezza del linguaggio tradisce l’incertezza del pensiero.
    Contro questa difficoltà si rivolgerà la critica di Aristotele.

  • Locke

    Vita e opere

    Giovanni Locke nacque a Wrington, in Inghilterra, nel 1632.
    Studiò scienze naturali e medicina ad Oxford, e ciò influì molto sul suo pensiero filosofico.
    Partecipò alla vita politica del periodo della Restaurazione 8Stuart), dapprima come segretario dell’ambasciatore inglese presso la corte dell’Elettore di Brandeburgo, e più tardi come segretario ed amico di lord Ashley, divenuto poi Duca di Shaftesbury e Gran Cancelliere d’Inghilterra.
    Dal 1675 al 1679 soggiornò in Francia, facendo conoscenza a Parigi coi più illustri rappresentanti della cultura francese di quel tempo, e prendendo moltissime note per la composizione del suo Saggio sull’intelletto umano.
    Nel 1683, quando lord Ashley, caduto in disgrazia per essersi opposto al dispotismo degli Stuart, cercò rifugio in Olanda, anche Locke lasciò l’Inghilterra e soggiornò in Olanda, entrando in relazione con moltissime personalità culturali che allora si trovavano in questo paese.
    Nel 1689, dopo la rivoluzione liberale che portò sul trono inglese Guglielmo D’Orange, Locke ritornò anch’egli in Inghilterra, ove prese di nuovo ad interessarsi della cosa pubblica: ebbe un ufficio governativo, e si adoperò per il trionfo del principio di libertà di religione e di stampa, si occupò di questione economiche e finanziarie, ecc.
    Passò gli ultimi anni ad Oates, nella contea di Essex, presso una famiglia amica, dove morì nel 1704.

    OpereSaggio sull’intelletto umano (1690), in 4 libri; Pensieri sull’educazione; due Trattati sul governo; quattro Lettere sulla tolleranza religiosa, ect.

    Pensiero

    Locke è il più grande rappresentante dell’empirismo.
    Mentre Bacone si era limitato ad affermare la necessità del metodo induttivo-sperimentale nella filosofia e nelle scienze, Locke giustifica questo empirismo, ponendosi per primo esplicitamente il problema dell’origine e del valore della conoscenza.

    Critica all’innatismo Cartesiano
    Locke incomincia con la critica dell’innatismo cartesiano.
    Se le idee – che in Locke sono sinonimo di rappresentazione mentale nel senso più generico della parola – fossero innate, tutti gli uomini dovrebbero avere le medesime idee: invece i bimbi, i selvaggi, gli incolti mancano di parecchie idee (es. principio di contraddizione, idea di Dio, principi morali fondamentali, ect.), e ciò appunto perchè la loro esperienza è più limitata.
    Le idee derivano dunque dall’esperienza e lo spirito è una tabula rasa.

    L’esperienza, le idee e le qualità
    1. Le idee derivano dall’esperienza, e precisamente da due fonti:

    1. senso esterno o sensazione, mediante il quale lo spirito conosce le cose materiali;
    2. senso interno o riflessione, mediante il quale lo spirito, riflettendo (ossia ripiegandosi) sulle proprie operazioni, conosce i fatti di coscienza (percepire, pensare, volere, ect).

    2. Tutte le idee che si trovano nella nostra coscienza, derivino esse dal senso esterno o dal senso interno, si dividono in due classi: idee semplici e idee complesse.
    Le idee semplici sono quelle non decomponibili in idee più semplici, come ad es. le idee di coloro, di estensione, di movimento, di solidità, di percezione, di volizione, di piacere, di dolore, ect.
    Le idee complesse sono quelle che risultano dalla fusione di più idee semplici, come ad es. l’idea di sostanza materiale (che risulta dalla fusione delle idee semplici di peso, colore, forma, grandezza, ect).
    Tale fusione è opera dell’intelletto, il quale interviene ad elaborare le idee semplici mediante tre principali operazioni:

    • la sintesi, che consiste nel combinare parecchie idee semplici in modo da formarne una complessa (es. idea di triangolo, di corpo, di numero, ect.).
    • la comparazione, che consiste nel paragonare un’idea con se stessao con un’altra, in modo da stabilire delle relazioni tra di esse (es. idea di identità, di causalità, di posizione, di grandezza, ect.).
    • l’astrazione o analisi, che consiste nel separare un’idea da tutte quelle altre idee che l’accompagnano nella sua esistenza reale, in modo da dare origine all’idea generale (es. idea generale, o astratta, di uomo, di albero, ect.).

    In tal modo, mentre riguardo alle idee semplici la mente umana si trova ad essere passiva, riguardo alle idee complesse diventa attiva: per quanto tale attività si limiti ad essere qualcosa di puramente estrinseco e meccanico, riducendosi ad unire e a separare i dati.
    Il concetto di astrazione è dunque diverso da quello aristotelico.
    L’astrazione aristotelica da luogo ad un concetto astratto, qualitativamente diverso dalle immagini empiriche, particolari e contingenti; l’astrazione lockiana da luogo ad un’idea astratta che non è qualitativamente diversa dalle immagini empiriche, ma è piuttosto questa medesima immagine che resta più generale: infatti le astratte sono anch’esse individuali e determinate fin nei minimi particolari (omnimodo determinatae).

    3. Locke distingue poi dalle idee (semplici e complesse) le qualità dei corpi.
    Egli introduce qui la nota distinzione di qualità primarie (o oggettive) e qualità secondarie (o soggettive), già avanzata da Galilei e da Cartesio.
    Sono qualità primarie l’estensione, il moto, la solidità, il numero, ect.
    Sono qualità secondarie i colori, gli odori, i suoni e simili.
    Le qualità primarie, oltre ad essere idee, esistono realmente anche fuori di noi, in se medesime; le qualità secondarie esistono solo come idee.
    Si noti che questa distinzione è in contraddizione con la teoria generale di Locke, affermante che noi conosciamo solamente le nostre idee: perchè in base ad essa si conclude l’esistenza di realtà (le qualità primarie o oggettive), che non sono idee nostre, ma esistono fuori di noi, in se medesime.

    Critica all’idea di sostanza
    Molto importante è in Locke la critica dell’idea di sostanza, in cui egli precorre Kant e l’idealismo moderno.
    L’idea di sostanza è un’idea complessa, risultato di un processe di astrazione, per cui, separando una serie di qualità costantemente coesistenti (es. peso, colore, forma, grandezza), congetturiamo che esista un “sostrato”, in cui quelle qualità ineriscano; ma in realtà noi conosciamo soltanto le qualità, non la sostanza sottostante.
    L’idea di sostanza è quindi inconoscibile, e ogni metafisica (teologia, psicologia, cosmologia) è impossibile: la teologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza divina; la psicologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza spirituale; la cosmologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza materiale.
    Ciononostante Locke tenta in un secondo tempo di fondare una metafisica, dimostrando l’esistenza del mondo esterno e di Dio.
    Egli ricorre al concetto empiristico della passività dello spirito ed applica il principio di causalità: ci sono in noi sensazioni non prodotte da noi, dunque esistono fuori di noi i corpi che ne sono la causa: noi, che esistiamo, non abbiamo prodotto noi stessi, dunque esiste fuori di noi una causa che ci ha prodotti: tale causa è Dio.
    Si noti tuttavia che tale dimostrazione è in contraddizione con la dottrina generale di Locke, affermante che noi conosciamo solamente le nostre idee: perchè in base ad essa si conclude all’esistenza di realtà che non sono idee nostre, ma esistono fuori di noi, per se medesime.

    Politica
    Locke si può considerare il padre del liberalismo politico.
    Egli si propose di giustificare la rivoluzione liberale inglese del 1688 (Guglielmo D’Orange), e perciò concepisce lo Stato come governo della maggioranza e non di uno solo.
    Egli parte dal concetto di Hobbes di un contratto sociale che è all’origine dello Stato, ma nega che lo stato di natura sia una guerra contro tutti: il contratto non è perciò di rinuncia degli uomini alla propria libertà e ai propri diritti, ma anzi migliore garanzia di questa libertà e di questi diritti; ed ove questa garanzia venga meno per parte del potere esecutivo, la sovranità ritorna al popolo mediante la rivoluzione.
    Locke è inoltre importante perchè fissa per primo i capisaldi politici della distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), della tolleranza religiosa e della separazione della Chiesa dallo Stato.

  • Cartesio

    Vita e opere

    Renato Descartes (latinamente Cartesio) nacque a La Haye (nella Touraine), da nobile famiglia, nel 1596.
    Fu educato in una delle migliori scuole del tempo, il Collegio di La Fleche, tenuto dai gesuiti; ma, fatta eccezione per le materie matematiche, ne uscì con una profonda inclinazione verso lo scetticismo.
    Sfiduciato e scontento, si prpose di non cercar più altra scienza fuori di quella che si può trovare “dentro di noi stessie nel gran libro del mondo”, e, perciò, si arruolò volontario in diversi eserciti durante la guera dei Trent’anni.
    Nell’inverno del 1619, all’età di 24 anni, mentre stava in riposo nei quartieri d’inverno dell’esercito imperiale in Baviera, ebbe come “in un mistico rapimento” l’intuizione del metodo; ne fece immediata applicazione alle matematiche, e, sentendosi ancora impari a un’impresa tanto grande, decise di estenderne più tardi l’applicazione ad ogni scienza i genere e al sapere filosofico in ispecie.
    Intanto, munito di una “morale provvisoria”, intraprese una serie di viaggi per l’Europa (fu anche in Italia per sciogliere un voto al santuario di Loreto); e al ritorno, dopo aver partecipato all’assedio della fortezza ugonotta di La Rochelle, decise di consacrarsi tutto agli studi.
    Nel 1629, a 33 anni, si ritirò in Olanda, dove, lontano dalle distrazioni della società aristocratica francese e dalla sorveglianza del Sant’Uffizio (l’Olanda era terra protestante), poteva più liberamente attendere al proprio pensiero: qui rimase per circa vent’anni attendendo alla compilazione delle sue opere.
    Nel 1649 si recò a Stoccolma, cedendo agli insistenti inviti della regina Cristina di Svezia, desiderosa di ricevere da lui lezioni di filosofia; ma i rigori del clima gli riuscirono fatali.
    Colto da bronchite, un pò per non aver fiducia nella scienza medica del tempo, un pò perchè il medico di corte era tedesco, volle curarsi da se, e nel 1650 morì.
    La sua salma fu qualche anno più tardi trasportata a Parigi.

    Opere – Discorso sul metodo, pubblicato a Leyda nel 1637, come introduzione ad una serie di saggi scientifici; Meditationes de prima philosophia (1641); Principia philosophiae (1644); Les passions de l’ame (1649); una raccolta di Lettere, ect.

    Pensiero

    Cartesio è il padre del razionalismo moderno, come Bacone lo è dell’empirismo.

    Il metodo deduttivo o matematico
    Mentre Bacone, per risolvere il problema del metodo, si era fondato sull’esperienza e sul metodo induttivo, Cartesio si fonda sulla ragione e sul metodo deduttivo: deduzione non sillogistica (di cui tanto aveva abusato la scolastica e che gli appariva, come a Bacone, sostanzialemnte infeconda), ma matematica, consistente cioè nel dedurre da un principio per se stesso evidente, non mediante sillogismo, ma mediante il criterio dell’evidenza (o delle idee chiare e distinte), tutte le altre verità.
    Cfr. Discorso del metodo, parte II, in cui è esposto il metodo cartesiano con le sue quattro regole:

    • evidenza: non accettare come vera una cosa se non appare evidentemente come tale, cioè se non presenta le caratteristiche della chiarezza e della distinzione.
    • analisi: dividere ogni difficoltà in tante parti, quanto è possiibile e necessario, per meglio risolverla.
    • sintesi: procedere col pensiero ordinatamente dagli ogetti più semplici e facili a conoscersi a quelli più complessi.
    • riprova: fare rassegne così complete da essere sicuro di non omettere nulla.

    In tal modo Cartesio, identificando il metodo della matematica, che è scienza dell’astratto, col metodo della filosofia, che è anche scienza del concreto (poesia, religione, storia, ect.), diventa iniziatore di quella mentalità razionalista, astrattista ed antistorica, che prevarrà nel diciottesimo secolo in Francia e in Europa (Illuminismo, Rivoluzione) fino al Romanticismo.

    Il dubbio metodico e il “cogito ergo sum”
    Rintracciato il metodo, Cartesio si propone di trovare quel principio, per se stesso evidente, da cui derivare altre verità.
    Egli parte dal dubbio metodico, cioè dal dubbio inteso non come fine a se stesso (dubbio scettico), ma come mezzo per giungere alla verità, e – come tale – mirante ad abbattere una volta per sempre lo scetticismo.
    Bisogna dubitare di tutto: dei sensi (che ingannano), della ragione (che può sbagliare), dell’esistenza della materia (come dimostrato dal sogno, in cui crediamo che quello che vediamo e sentiamo sia reale), e perfino delle stesse verità matematiche: un demone maligno e potentissimo avrebbe potuto circondarci di inganni. (E’ tuttavia da rilevare che Cartesio limita il dubbio al solo dominio speculativo, “poichè per quanto riguarda la vita pratica, se noi volessimo, prima di agire, aver risolto tutti i nostri dubbi, bene spesso lasceremmo pasare l’occasione dell’azione”).
    Ma pur dubitando di tutto, non si può dubitare di pensare, cioè di esistere: cogito, ergo sum.
    E’ questo il famoso principio, di per se stesso evidente, da cui cartesio deduca – sempe mediante il metodo matematico o dell’evidenza – tutte le altre verità.
    In tal modo Cartesio, identificando l’essere col pensare, diventa il precursore di quel soggettivismo gnoseologico, per cui la verità non è più in una realtà (o essere) opposta e presupposta al pensiero, ma nella realtà o essere del pensiero medesimo (identità di essere e di pensare).

    Psicologia, teologia, cosmologia
    Dal principio del cogito, ergo sum, Cartesio deduce, come si è detto, tutte le altre verità:

    a) la psicologia, attorno a cui vengono fatte tre principali affermazioni:

    • l’anima è una realtà insopprimibile, cioè una sostanza.
    • l’anima, in quanto pensiero, non occupa spazio alcuno ed è quindi distinta dal corpo.
    • l’anima è immortale.

    b) la teologia, cioè l’esistenza di Dio, di cui vengono date due principali dimostrazioni:

    • nel mio pensiero vi è l’idea di un essere perfettissimo, il quale, per essere veramente tale, implica l’esistenza, non soltanto possibile, ma necessaria ed eterna. E’ questa una prova analoga a quella di S. Anselmo, e come la prova di S. Anselmo, dotata del medesimo difetto, che consiste nel passare dall’ordine logico all’ordine ontologico, dal pensiero all’essere.
    • nel mio pensiero vi è l’idea di un essere perfettissim, che deve avere una causa adeguata: questa causa non posso essere io, essere imperfetto (tanto è vero che vado soggetto al dubbio), ma un essere perfettissimo, Dio.

    c) la cosmologia, cioè l’esistenza della materia e dei corpi.
    Dio, in quanto essere perfettissimo, non può ingannarci: dunque quel mondo, di cui in principio dubitavamo, esiste realmente, non è mera illusione.
    Riguardo alle cose materiali Cartesio ammette poi la distinzione tra qualità primarie (od oggettive), che noi concepiamo in modo chiaro e distinto (estensione, moto, ect.) e qualità secondarie (o soggettive), che noi concepiamo in modo oscuro e confuso (colori, odori, suoni, ect.), passando dal realismo ingenuo al cosiddetto realismo critico (cfr. Galileo, Lockr, ect.).

    Il duplice dualismo e le sue conseguenze
    1. Cartesio ha fin qui dimostrato l’esistenza, al di là dell’io, di Dio e del mondo; ma ciò lo porta ad affermare un duplice dualismo sul terreno delle sostanze:

    • sostanza infinita (Dio) e sostanza finita (mondo, creature).

    Sostanza infinita e sostanza finita, o, che è lo stesso, Dio e il mondo, sono due sostanze nel senso tradizionale della parola (res quae ita exsistit, ut nulla alia re indigeat ad exsistendum), ma mentre la prima è dotata di un’autosufficienza assoluta, la seconda è dotata di un’autosufficienza relativa, poichè per esistere ha bisogno del soccorso di Dio.

    • res cogitans (spirito) e res extensa (materia).

    Res cogitans (in quanto attributo essenziale dello spirito è il pensiero) e res extensa (in quanto attributo essenziale della materia è l’estensione) sono due sostanze irriducibili, due mondi separati, chiusi e impenetrabili l’uno all’altro.
    Essi si trovano tuttavia uniti nell’uomo, che è a un tempo anima e corpo: unione che ha luogo attraverso la cosiddetta glandola pineale, l’unico elemento spaiato del cervello, in cui lo spirito prenderebbe contatto col corpo.

    2. Il dualismo tra res cogitans e res extensa porta a sua volta a due notevoli conseguenze:

    • in gnoseologia all’innatismo (cfr. Platone).

    Se la res cogitans è separata dalla res extensa, le idee non possono derivare dall’esperienza sensibili, ma sono innate.
    Più propriamente si possono distinguere tre categorie di idee:
    idee innate, che troviamo in no;
    idee facticiae, che produciamo con la nostra attività mentale;
    idee adventiciae, che nè troviamo nè produciamo, e che quindi devono derivare dai sensi.

    • in cosmologia al meccanicismo.

    Se la res cogitans è pensiero e attività, la res extensa è estensione ed inerzia, cioè sottoposta alle leggi meccaniche del movimento.
    Con le leggi del movimento Cartesio tenta di spiegare non solo i fenomeni fisici, ma anche quelli della vita vegetale e animale: piante ed animali non sono che automi più o meno complicati; e l’uomo stesso è una macchina, che – a differenza degli altri animali – è solo dotata di anima razionale.
    Risale anche a Cartesio una spiegazione meccanica dell’origine dell’universo, che precorre le ipotesi evoluzionistiche di Kant e di Laplace.

  • Aristotele

    Vita e opere

    Nacque a Stagira (Tracia) nel 384 a.C. Da Nicomaco, medico di Aminta, re di Macedonia.

    Primo soggiorno ateniese (Platone) – A 18 anni andò ad Atene, ove entrò in relazione con Platone, alla cui scuola appartenne per circa venti anni, cioè fino alla morte del vecchio maestro (347 a.C.).

    Alla corte di Macedonia – Nel 343 fu chiamato da Filippo, re di macedonia, alla sua corte, come precettore del figlio Alessandro: e grande fu l’influenza esercitata da Aristotele sul futuro conquistatore di imperi; grandissimi gli aiuti che Aristotele si ebbe per i suoi studi e per la creazione di una ricca bibblioteca che egli, primo fra i Greci, potè radunare.
    La sua amichevole relazione con Alessandro fu troncata quando Callistene, nipote di Aristotele e fautore del partito greco, cadde in disgrazia dell’imperatore.

    Secondo soggiorno ateniese – Tornato ad Atene verso il 335, fondò una scuola presso il ginnasio, detta il Liceo (per la vicinanza del tempio di Apollo Licio); e poichè insegnava passegiando nei giardini, che colà servivano al pubblico passeggio, la scuola prese il nome di paripatetica.
    Essa coincide coi dodici anni (335-323), nei quali il grande Alessandro espandeva per il mondo con la forza della spada la civiltà e la cultura ellenica.

    Esilio di Calcide
    – Morto Alessandro, Aristotele, come tanti altri ateniesi che erano stati ligi al Macedone, fu preso di mira, e un certo Demofilo portò contro di lui la solità accusa di empietà. Ma il filosofo disse di non voler dare occasione agli ateniesi di rendersi un’altra volta colpevoli verso la filosofia, e, prevenendo il bando, si recò in volontario esilio a Calcide, nell’Eubea.
    Qui morì l’anno dopo, nell’estate del 322, di una malattia di stomaco, lasciando al discepolo Teofrasto la direzione della scuola e la ricchissima bibblioteca.

    Opere – Le opere di Aristotele vertono su un’infinità di argomenti, ma delle 146 opere a lui attribuite, solo 47, più o meno complete, sono giunte sino a noi.
    Importante per la storia dell’aristotelismo la storia di questi libri.
    Secondo un raconto di Strabone, ripetuto da Plutarco, i libri di Aristotele, dopo la morte di Teofrasto, passarono a Neleo da Scepsi, i cui eredi li tennero nascosti per circa un secolo in un sotterraneo.
    All’inizio del I sec. a.C. essi sarebbero stati scoperti da Apellicone di Teio, e portati ad Atene; e di qui, per ordine di Silla (86 a.C.), a Roma, ove trovarono un riordinatore in Andronico di Rodi.
    Secondo tale racconto, dunque, i paripatetici posteriori a Teocrasto avrebbero ignorato i libri di Aristotele; e quindi quelli che si servirono di essi dopo un secolo e più, così come furono trovati, guasti dall’umidità, non potevano neppure essere certi se l’ordinamento di Andronico corrispondesse al pensiero originale dell’autore.
    Ciò spiega il sorgere della questione aristotelica presso i moderni allo scopo di assecondare la genuinità dei libri aristotelici e di vagliare la verità del racconto di Strabone.
    Zeller, dopo erudite ricerche, giunse alla conclusione che è verosimile tutta la parte del racconto che si riferisce al destino dei libri ereditati da Neleo; ma che è inverosimile che questi libri fossero i soli esemplari esistenti delle opere aristoteliche, dal momento che essi si trovano citati nel tempo che corre tra il sotterramento fatto dagli eredi di Neleo e il disseppellimento per opera di Apellicone.
    Le opere di Aristotele erano divise in essoteriche, o destinate l pubblico; e in esoteriche o acroamatiche, destinate ai propri discepoli.
    Le prime appartengono in genere alla prima dimora in Atene, quando Aristotele era discepolo di Platone, e sono molto affini alle opere del maestro (forma dialogica, ect.); ma nessuna di esse è pervenuta sino a noi (fatta eccezione di qualche frammento dell’Eudemo, intitolato a nome di un amico e in cui si propugnava pure l’immortalità dell’anima).
    Le seconde, di gran lunga più importanti, si possono raccogliere in cinque gruppi: logica, metafisica, fisica, etica, retorica.

    Opere di logica
    Furono raccolte sotto il nome di Organon (titolo che non appartiene ad Aristotele, ma ai più tardi commentatori Bizantini), poichè per il loro carattere, si possono considerare come strumento della ricerca scientifica e introduzione a tutto il sistema.
    L’Organonsi compone di conque parti:

    • Categorie, sui concetti universali. Appartengono nella parte fondamentale ad Aristotele, ma furono accresciute, da mano posteriore, dei cosiddetti Postpredicamenti.
    • Interpretazione, sul giudizio.
    • Analitici primi (2 libri), sul sillogismo; e Analitici secondi (2 libri), sull’induzione, la definizione e i primi principi.
    • Topici (8 libri), sui sillogismi dialettici e verisimili.
    • Elenchi sofistici, ove sono esposte e confutate le conclusioni capziose usat dai sofisti.

    Opere di metafisica
    Furono anch’esse raccolte sotto il nome di Metafisica, titolo che non appartiene ad Aristotele (il quale soleva chiamarla filosofia prima), ma ad Andronico di Rodi, che nella sua raccolta dispose i libri relativi “dopo le opere fisiche” (“metà tà physikà”).
    La metafisica si compone di 14 libri: essa tratta dei principi supremi del reale, cioè ciò che è primo per natura, e che viene quindi, per noi, dopo le cose naturali.

    Opere di fisica
    Comprendono la maggior parte degli scritti di Aristotele, il quale molto si applicò alle ricerche empiriche e sperimentali, e si può considerare, tra l’altro, il padre della zoologia.
    Le principali opere fisiche sono:

    • Fisica (8 libri), in cui tratta dei principi naturali, del moto, ect.
    • Del Cielo (4 libri)
    • Della generazione e corruzione (degli esseri)
    • Meteorologia (4 libri).
    • Storia degli animali (10 libri), Delle parti degli animali, Della generazione degli animali, grandi trattati di zoologia, che contengono una vasta e ben fondata classificazione, degna di essere paragonata a quella di Linneo (sec. XVIII).
    • Dell’anima (3 libri), la più importante opera di fisica, prima grande trattazione di psicologia.

    Ai libri Dell’anima si rannodano quelle piccole dissertazioni, parte fisiologiche, parte psicologiche, che sono comprese sotto il titolo collettivo di Parva Naturalia, e che trattano del senso, della memoria, del sonno, della lunghezza e brevità della vita, della vita e della morte, ect.
    Alle opere fisiche invece si rannodano, quasi come appendice, trattatelli speciali di argomenti naturali vari, raccolti col titolo di Problemi, ma in gran parte di composizione postaristotelica, poichè Aristotele cita in 7 o 8 i Problemi, ma nessuna citazione si riscontra con quelli che noi abbiamo.

    Opere di etica
    Sono tre, che svolgono i medesimi motivi:

    • Etica Nicomachea (10 libri), il cui titolo deriva da Nicomaco, figlio di Aristotele, che forse la pubblicò. Essa rappresenta la redazione più antica, ed è sicuramente opera genuina di Aristotele.
    • Etica Eudemia (7 libri), che ha tre libri in comune con l’Etica Nicomachea, e fu forse redatta da Eudemo sopra i libri di Aristotele.
    • Magna Moralia (2 libri), che si possono considerare un riassunto delle due etiche precedenti, specialmente di quella di Eudemo, e che è opera di discepoli.

    Opere di politica

    • Politica (8 libri).
    • Costituzioni politiche, grande raccolta di più che cento costituzioni greche e barbare. Ci rimane soltanto la costituzione di Atene, scoperta nel 1890 in un papiro egiziano.
    • Economici, di cui non è forse genuino il secondo libro, attibuito a Teofrasto.

    Opere di retorica

    • Retorica (3 libri)
    • Poetica, largo frammento di una più ampia opera in 2 libri.

    Datazione delle opere
    L’ordine cronologico delle opere di Aristotele non è così essenziale alla comprensione del suo pensiero come nel caso di Platone, perchè pare che Aristotele abbia elaborato il suo pensiero tutto di getto, in modo che le singole parti risultino intimamente collegate.
    Secondo Zeller, primi ad ssere composti furono gli scritti logici, poi i fisici, poi l’Etica e la Politica, che presuppongono la trattazione dell’Anima; infine la Poetica, la Retorica, ed ultima la Metafisica, al quale sarebbe rimasta incompiuta e dedita solo dopo la morte di Aristotele.

    Pensiero

    L’ordine con cui si può distribuire la dottrina aristotelica è il seguente: logica, metafisica, fisica, morale, poetica, retorica.
    La Metafisica è in realtà la parte più importante, poichè senza di essa sarebbe impossibile intendere le altre parti della filosofia aristotelica: ma alla metafisica è indispensabile propedeutica la logica, per cui è bene far da essa aprire la serie delle dottrine di Aristotele.

    Logica
    Aristotele è il sistematore della logica induttiva, già intravista da Socrate e da Platone, e il padre della logica deduttiva, o sillogistica, o ragionamento.
    Aristotele ritiene infatti che il pensare si compie mediante due essenziali processi: quello dell’induzione, che procede dal particolare all’universale; e quello della deduzione, che consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione).

    INDUZIONE o EPAGOGHE’
    1. L’induzione (o epagoghe), di cui Aristotele parla nei Secondi Analitici, consiste nel procedere per via astrattiva dal particolare all’universale (o concetto), cioè nell’astrare dal particolare le note contingenti e individuali e cogliere quelle comuni ed universali.
    In tal modo Aristotele si oppone all’innatismo platonico, e diventa un fervido assertore dell’empirismo: le nostre conoscenze derivano dall’esperienza mediante l’attività di astrazione esercitata su di essa dall’intelletto.

    2. Il concetto coglie l’essenza delle cose, ma è semplicemente significante, in quanto ancor fuori da ogni rapporto di vero e di falso, della vera affermazione e della vera negazione.
    Un nesso di concetti costituisce il giudizio, sia sotto la forma di definizione o giudizio universale (es. l’uomo è mortale); sia sotto quello di proposizione o giudizio del particolare (ed. Socrate è mortale).
    E’ proprio del giudizio l’affermare o il negare, cioè stabilire dei rapporti di vero o di falso: la verità non è infatti che un perfetto accordo tra il nesso dei concetti e il nesso delle cose (cfr. adaequatio rei et intellectus di S. Tommaso).

    3. Tra i concetti ve ne sono alcuni che possiamo considerare come i predicati più universali del reale, forme supreme dell’intelletto: essi sono le categorie, così denominate perchè mediante esse noi “accusiamo” (cioè predichiamo, qualifichiamo) gli oggetti tutti dell’esperienza.
    Le categorie sono dieci: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il luogo o spazio, il quando o tempo, il giacere o posizione, l’avere o inerenza, il fare o attività, il patire o passività.
    Le categorie, di cui parla Aristotele, si possono considerare sotto un duplice aspetto: logico o soggettivo; ontologico o oggettivo, metafisico.
    Esse infatti, in quanto predicati universali del reale, corrispondono alle forme universali del reale stesso: sono categorie del pensiero e categorie del reale, dell’essere.

    4. Aristotele studiò a fondo i concetti nei loro rapporti di specie e di genere, e nella loro estensione e comprensione.
    Quanto alla specie e al genere, i concetti si possono disporre secondo una gerarchia che in basso ha l’individuo e in alto le categorie, occupando in tale gerarchia il grado risultante dal genere prossimo e dalla differenza specifica.
    Definire un concetto – dice Aristotele – equivale a indicare del medesimo il genere prossimo e la differenza specifica. Così ad es., nella definizione del concetto uomo, “uomo è un animale ragionevole”, animale indica il genere prossimo, cioè il genere a cui il concetto appartiene; e ragionevole indica la differenza specifica, perchè distingue l’uomo dalle altre specie di animali. Genere è quindi il concetto più generale, in cui è incluso il concetto da definire. Specie è il concetto da definire, incluso nel genere.
    Quato all’estensione e alla comprensione, man mano che si procede dalle specie ai generi, si vanno formando concetti sempre più univrsali per l’estensione, ma sempre più poveri di comprensione, cioè dotati di una minor quantità di note essenziali: estensione e comprensione stanno in ragione inversa.

    LOGICA DEDUTTIVA
    1. La logica deduttiva di cui Aristotele parla specialmente negli Analitici Primi, presuppone la logica induttiva.
    L’induzione infatti, elaborando i concetti ed i giudizi, prepara la premessa al sillogismo o deduzione o ragionamento.

    2. il sillogismo consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione): esso è definito da Aristotele quel discorso “nel quale, stabilite alcune cose (verità), un’altra ne deriva necessariamente, per il fatto che quelle sono tali verità”.
    Il sillogismo si compone di una premessa maggiore (l’uomo è mortale) e di una premessa minore (Socrate è uomo), aventi in comune un termine medio (uomo) e di una conclusione (Socrate è mortale).
    Le figure del sillogismo sono quattro:

    1. sub-prae, in cui il termine medio fa da soggetto (subiectum) nella premessa maggiore, e da predicato (praedicatum) nella minore.
    2. sub-sub, in cui il termine medio fa da soggetto sia nella premessa maggiore che nella minore.
    3. prae-prae, in cui il termine medio fa da predicato sia nella premessa maggiore che nella minore.
    4. prae-sub, in cui il termine medio fa da predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella minore.

    3. Il sillogismo nella sua concatenazione e sviluppo è dominato dai cosiddetti assiomi, o principi supremi di ragione, che possono addirittura definirsi leggi del pensiero. Essi sono anapodittici, cioè indimostrabili perchè evidenti di per se stessi.
    Tali principi sono:

    • quello di identità, per cui si afferma che ciò che è, è; e ciò che non è, non è (A è A, Non A è Non A).
    • quello di contraddizione, che Aristotele stesso ha enunciato così: “è impossibile pensare che ad una stessa cosa convenga e non convenga lo stesso carattere (A non è Non A).
    • quello del terzo escluso, per il quale si afferma che fra i contraddittori non vi può essere alcun giudizio intermedio.

    Aristotele dona la massima importanza al principio di contraddizione, che egli dice essere principio anche degli altri tutti, sia per sè, come principio veramente essenziale del pensiero, sia per l’importanza che esso ha contro la concezione eraclitea, che affermava l’essere e insieme il non-essere delle cose nel perenne fluire del reale.

    4. Il sillogismo, di cui sonora si è parlato, è il sillogismo dimostrativo o apodittico, che, partendo da premesse certe e reali, conduce alla scienza.
    Accanto ad esso vi è il sillogismo dialettico (di cui Aristotele parla nei Topici), in cui le premesse sono soltanto verisimili, e che conduce all’opinione: e il sillogismo sofistico (di cui Aristotele parla negli Elenchi Sofistici), in cui le premesse sono semplicemente presunte per verisimili.

    5. Con questo complesso imponente di indagini Aristotele fonda la scienza del pensiero.
    Essa sarà modificata e integrata in questa e in quella parte dagli Stoici a Bacone a Galileo a Leibniz a Kant; con Hegel e coi suoi successori sorgeranno nuovi sviluppi e nuove logiche; ma in sostanza la logica aristotelica restò per circa 24 secoli a sorreggere il nostro pensiero.

    Metafisica
    La metafisica, o “filosofia prima“, è la scienza dell’Essere in quanto tale, cioè prescindendo dalle sue qualità sensibili.

    1. CRITICA DELLA DOTTRINA PLATONICA DELLE IDEE
    Aristotele inizia il proprio sistema con una profonda e serrata critica alla dottrina platonica delle Idee.
    Platone aveva detto che le Idee sono fuori dalle cose, Aristotele oppone a tale trascendenza tre obbiezioni fondamentali:

    • se le idee sono le essenze individuali, in che modo l’essenza può stare fuori di ciò di cui è l’essenza?
    • dato l’individuo sensibile da una parte e l’Idea dall’altra, ci vorrà un tipo, un’idea comune ad entrambi: ne nascerà una terza cosa. Questo argomento è detto del terzo uomo, perchè dalla dottrina platonica si inserisce la necessità di un terzo uomo, che sta sull’uomo individuo e sull’uomo-Idea, comune ad entrambi.
    • esiste l’universale, ma non fuori dell’individuale, bensì dentro di esso. Se avesse un’esistenza separata, sarebbe un duplicato inutile: l’idea fuori dalla cosa non spiega la cosa.

    2. TEORIA DELLA SOSTANZA
    La teoria della sostanza costituisce il centro di tutta la dottrina aristotelica.
    Sostanza è ciò che è, l’individuo. Es. Quest’uomo, questo tavolo.

    • La sostanza è sintesi (“sinolo”) di “materia” e di “forma”: la forma non è che l’Idea di Platone, strappata dal mondo iperuranio; resa da statica, dinamica; e immessa nella materia per organizzarla, per ordinarla. La forma è dunque l’attività organizzatrice della materia. Aristotele distingue la sostanza in sostanza prima , l’individuo; e sostanza seconda, la forma o essenza dell’individuo medesimo.
    • Ma la forma, in quanto organizza la materia, la muove, cioè fa passare dalla “potenza” all’“atto”, o, in altre parole, da uno stato di imperfezione e di indeterminazione a uno stato di sempre maggiore perfezione e determinazione. Es. da statua in potenza del marmo, a statua in atto o attuazione del medesimo. Potenza e atto sono dunque i due termini del moto, del divenire: potenza è la sostanza in quanto può assumere, attraverso il moto, una determinata forma; atto è la sostanza che ha assunto, sempre attraverso il moto, questa determinata forma. Aristotele distingue l’atto dall’entelechia: l’atto è tale in quanto realee concreta attività; l’entelechia è l’atto in quanto stato di perfezione a cui la sostanza aspira: mai la sostanza riesce ad attuare perfettamente la propria forma, eccetto Dio.
    • Ma per passare dalla potenza all’atto occorre uno stimolo, una causa efficiente, la quale operi in vista di un fine, di una causa finale. Lo sviluppo di una sostanza presuppone quindi 4 cause:
    1. materiale;
    2. formale;
    3. efficiente o motrice;
    4. finale.

    Es. nella sostanza statua possiamo distinguere:

    1. causa materiale: marmo;
    2. causa formale: idea della statua;
    3. causa efficiente: scultore;
    4. causa finale: idea della statua, ma in quanto si pone come fine dello scultore.

    Le ultime due cause si risolvono nella causa formale quando si tratta si sostanze naturali (le quali hanno in sè stesse la causa e il fine del moto); ma rimangono distinte quando si tratta di sostanze artificiali (le quali hanno fuori di sè la causa del moto e il fine), come è appunto il caso di una statua di marmo.

    3. TEOLOGIA
    La teoria sopra accennata porta di conseguenza ad ammettere l’esistenza di un Dio: è anzi ad Aristotele che si deve far risalire la prima dimostrazione filosofica dell’esistenza di Dio.
    Infatti il moto delle cose implica l’esistenza di un motore che giustifichi il moto medesimo, cioè il Motore immobile, Dio.
    In quanto motore immobile:

    • Dio non è causa efficiente, creativa del mondo, ma puramente finale, teleologica. Egli, come causa finale del mondo, attrae le cose, che si muovono verso di lui immobile.
    • Dio non può passare dalla potenza all’atto, ma è atto puro, pura forma, puro spirito, o – come si esprime Aristotele – “pensiero dei pensieri”.

    Egli, “come pensiero dei pensieri”, è assolutamente indifferente al mondo, puro pensiero teoretico, pura autocoscienza, privo di volontà e di personalità.

    Fisica
    La Fisica è in Aristotele non meno importante della Metafisica, poichè, a differenza di Platone (che, nonostante il disprezzo per i poeti, era dominato dalla fantasia), egli sapeva unire alla potenza sinteica del filosofo una grande attitudine all’analisi e all’osservazione scientifica.

    1. NATURA
    La natura è l’insieme delle sostanze che hanno in se stesse il principio del proprio moto, a differenza delle sostanze a cui il moto vien da fuori, per cui essa comprende non solo i corpi propriamente detti, ma anche l’uomo e l’anima umana.
    Anche Aristotele, come Platone, possiede un concetto finalistico della natura: questa non è per lui inerte, passiva, meccanica, ma intimamente viva, organica, animata.
    Tuttavia, a differenza di Platone, che aveva personificato questa finalità in un’Anima del mondo, Aristotele parla di una finalità inconscia ed intuitiva (panpsichismo?), e che chiama la noatura demoniaca, ma non divina.
    La natura, sospinta dalla sua immanente finalità, tende a svilupparsi in forme sempre più alte e perfette, determinando una gerarchia finalistica di sostanze, che va da quelle inorganiche a quelle organiche e all’anima umana, e che ha al proprio vertice il motore immobile, Dio.

    2. LA MATERIA
    La materia, come già per Platone, è principio oscuro ed amorfo, causa di imperfezione e di male.
    Essa resiste spesso all’attività e alla forma, ed è perciò causa dei caratteri accidentali delle sostanze.
    La materia, in quanto potenza che tende recarsi in atto, si muove: donde l’importanza che ha il moto nella fisica aristotelica.

    3. RELIGIONE CELESTE E RELIGIONE TERRENA
    L’universo aristotelico si divide in due regioni: regione celeste, dalla luna in su; e regione terrena, o sublunare.
    La regione celeste è perfetta e incorruttibile: sua materia è l’etere, detto anche quintessenza; il suo moto è circolare, cioè perfetto.
    La regione terrena è imperfetta e corruttibile: sua materia sono i quattro elementi tradizionali della filosofia greca, terra, acqua, aria, fuoco; il suo moto è rettilineo, cioè imperfetto.
    Da queste premesse si sviluppa l’astronomia aristotelica, che è un sistema geocentrico delle sfere omocentriche ideato dall’astronomo Eudosso, e che permetteva di collocare esteriormente il principio motore dell’universo, in opposizione ai pitagorici che lo collocavano al centro.
    La Terra, di forma sferica, sta immobile al centro dell’universo, e attorno ad essa si muovono le sfere dei pianeti e quella delle stelle fisse o firmamento: quest’ultimo è mosso da Dio, Motore immobile, e trasmette a sua volta il movimento alle sfere sottostanti.
    Perciò l’universo aristotelico è limitato nella sua forma sferica, cinto dal vuoto infinito; e in esso le posizioni (alto e basso) hanno un significato assoluto.

    4. L’ANIMA
    L’anima, che nela gerarchia degli esseri fisici occupa il posto supremo, si può definire la forma (“entelechia”) di un corpo organico, cioè di un corpo che è come organo o strumento di cui l’anima si serve per recare in atto il suo fine.
    Le piante possiedono solo l’anima vegetativa, che presiede alle funzioni di nutrizione e della riproduzione; gli animali, oltre la vegetativa, possiedono l’anima sensitiva, che presiede al moto e alla sensibilità; l’uomo, oltre alle sopracitate, possiede l’anima razionale.
    Aristotele, a differenza di Platone, non ammette nell’uomo anome separate, ma anime distinte nell’unità di una medesima anima: si tratta di funzioni diversedi una medesima anima.
    L’anima vegetativa presiede – si è detto – alle funzioni della nutrizione e della riproduzione.
    L’anima sensitiva presiede al moto e alla sensibilità; ma i sensi sono passivi, cioè hanno bisogno, per agire, di uno stimolo, di un oggetto sensibile in atto.
    Accanto ai sensi esterni ve ne sono altri interni, come il senso comune (o coscienza sensibile), che unifica in certo modo i sensi esterni; la fantasia, che riceve le immagini; e la memoria, che conserva le immagini, riconoscendo in esse una percezione già avuta.
    L’anima intellettiva presiede alla vera conoscenza, cogliendo le essenze o concetti delle cose.
    Essa si distingue in intelletto passivo (“nous patheticos”) e in intelletto attivo (“nous poieticos”).
    L’intelletto passivo (cosiddetto perchè ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in quanto può intendere l’universale contenuto nel particolare sensibile; ma, in quanto semplice possibilità d’intendere, non può passare all’atto se non sotto lo stimolo di un oggetto intelligibile in atto.
    L’intelletto attivo (cosidetto perchè non ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in wuanto rende intellegibile (per astrazione) l’universale contenuto nel particolare sensibile, e, resolo in tal modo intellegibile, lo presenta all’intelletto passivo, che, sotto tale stimolo, passa all’azione.
    Esso è come la luce che agisce sui colori, i quali nell’oscurità esistono soltanto in potenza, facendoli passare dalla potenza all’atto.
    Aristotele considera l’intelletto passivo come parte essenziale dell’anima umana, mentre definisce l’intelletto attivo come “separato” e “di natura divina”: esso proviene dall’alto entrando misteriosamente “per le porte dell’anima”, e ad esso soltanto sembra attribuisca l’immortalità.
    In realtà l’anima, in quanto forma di corpo organico, dovrebbe essere inseparabile dal corpo e, come questo, mortale. Di qui la varietà delle interpretazioni e dei commenti, che si contesero il pensiero aristotelico fino al Rinascimento, specie per quanto riguarda l’intelletto attivo nei suoi rapporti con l’intelletto passivo e col corpo.

    Etica
    1. Aristotele, a differenza di Platone e coerentemente alla critica mossa alla teoria delle Idee, non ammette che il fine delle cose il il Bene universale, che per la sua astrattezza non può essere realmente efficace, ma il bene particolare di ogni singola cosa.
    Tale bene particolare consiste a sua volta nell’attuazione dell’essenza propria della cosa medesima, come il fiore per la pianta, la bellezza per la gioventu, ect.

    2. La felicità dell’uomo (“eudemonia”) consiste perciò nell’attuazione del bene particolare dell’uomo medesimo, che è la ragione, cioè nel vivere secondo ragione.

    3. La virtù si identifica con la felicità, cioè consiste anch’essa nel vivere secondo ragione.
    Aristotele distingue due virtù:

    • virtù etiche, o virtù della parte affettiva dell’anima. Esse perfezionano la parte affettiva dell’anima, sottoponendola alla ragione; e poichè la ragione aspira a portare negli affetti dell’anima la medietà, il giusto mezzo fra gli estremi, la virtù etica consiste, più particolarmente, nel sottoporre gli affetti alla ragione in modo da importare in essi la medietà, il giusto mezzo, ed evitare ogni eccesso. Giusto mezzo, che non è la rigida media aritmetica, “perchè – osserva Aristotele – se, per uno, spendere dieci è troppo e spedere due è poco, ciò non vuol dire che il giusto mezzo sia sei”. Il giusto mezzo è, in altre parole, relativo agli individui: non potendo, ad es., la temperanza (virtù etica) richiedere la stessa quantità di cibo per un gigante e per un bambino. Le virtù etiche si acquistano con l’abitudine, o – in altre parole – con una volontà ben educata: concetto notevole, con cui Aristotele, opponendosi all’intellettualismo etico di Socrate e di Platone, afferma per la prima volta, nella storia del pensiero, che non basta la conoscenza per conseguire la virtù, ma occorre un altro importante elemento: la volontà. Virtù etiche sono, ad es., la fortezza, che è il giusto mezzo tra il timore e la fiducia; la temperanza, che è il giusto mezzo tra i piaceri; la liberalità, che è il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità; la giustizia, virtù etica suprema, ordine della società.
    • virtù dianoetiche, o virtù della parte razionale dell’anima. Esse perfezionano la parte razionale dell’anima, rendendola atta a ben conoscere ciò che si deve operare. Anche le virtù dianoetiche si acquistano con l’abitudine. Tali, ad es., la prudenza, intenta a discernere quelli che per l’uomo sono beni morali; e soprattutto la sapienza, virtù dianoetica suprema, perchè attività razionale pura, la più prossima al pensiero divino: essa è contemplazione della suprema verità, vita perfetta, “theoria”. In tal modo l’etica di Aristotele diventa l’espressione più compiuta dell’etica greca, e, con il più alto posto assegnato alla virtù teoretica per eccellenza, fissa il principio (che sarà accolto anche dal pensiero cristiano e sarà direttivo di tutta la filosofia sino all’epoca moderna) intellettualistico, per cui si celebrano nella virtù contemplativa l’essenza e il valore dell’etica umana.

    Politica
    1. Anche per Aristotele, come per Platone l’etica individuale si completa con l’etica sociale: l’individuo isolato non può raggiungere il suo fine perchè non basta a se stesso, e soltanto riunendosi in società può attuare il suo fine, la felicità.

    2. L’uomo è per natura un animale politico, cioè socievole: “fuori dalla società può esistere solo la belva o il Dio”.
    La famiglia è la prima società: essa ha come carattere essenziale la proprietà, di cui fan parte anche gli schiavi, perchè non è bene che gli uomini liberi si avviliscano nei lavori manuali.
    Lo Stato, benchè in ordine di tempo succeda alla famiglia, nel concetto le va innanzi, allo stesso modo che nell’organismo il tutto precede le parti, e il fine i mezzi destinati ad attuarlo: infatti lo Stato rappresenta la condizione di vita e di attività delle parti o individui che lo compongono.
    Il fine dello Stato è identico a quello degli individui: esso mira infatti alla falicità, o – che è lo stesso – al raggiungimento delle virtù etiche e dianoetiche degli individui medesimi.

    3. Le forme di Stato sono tre, come le loro degenerazioni, che si hanno quando chi governa, invece di mirare al vantaggio comune, mira al proprio vantaggio.
    Le forme sono la monarchia, che può degenerare in tirannide; l’aristocrazia, che può degenerare in oligarchia; la politia (moderna democrazia) che può degenerare in democrazia (moderna demagogia).
    Di tali forme è migliore quella che meglio risponde al carattere e ai bisogni del popolo, quantunque in astratto Aristotele preferisca una forma mista.

    4. Lo Stato di Aristotele, per quanto sia in esso evidente l’influenza platonica (Stato etico), è diverso da quello di Platone.
    Platone parte da una premessa idealistica: basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, basterà conoscere lo Stato politicamente perfetto, per poterlo attuare.
    Aristotele parte da una premessa realistica: non basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, è meglio costruire sul fondo dell’esperienza.
    Ne consegue che mentre Platone aveva concluso allo Stato ideale della Repubblica, proponendo la comunione delle donne, dei figli e dei beni, e concependo lo Stato come vuota e astratta unità; Aristotele conclude alla famiglia, alla proprietà, ai divrsi tipi di costituzione, concependo lo Stato come un organismo dove l’unità viva è raggiunta per via della molteplicità.

    Estetica
    Per Aristotele, come per Platone, l’arte è imitazione della natura (“mimesi”); ma a differenza di ùplatone, che condannava l’arte perchè imitazione dell’individuale sensibile, e perciò lontana tre gradi dal vero, Aristotele riabilita l’arte, perchè imitazione non dell’individuo quale è, ma come dovrebbe essere; non dell’individuale, ma dell’universale.
    Perciò l’arte differisce dalla storia (che ritrae solo i fatti particolari), in quanto “più filosofica e solenne della storia”.
    Certi generi, come la tragedia e la musica, determinano poi una speciale purificazione degli effetti, che prende il nome di catarsi: teoria oscura, in cui pare adombrato il moderno principio della spiritualità dell’arte.

    Giudizio sulla filosofia di Aristotele

    Aristotele si propone di eliminare il dualismo esagerato di Platone in nome di un maggiore realismo: riconciliazione dell’universale col particolare, dell’essere col divenire, dell’unità con la molteplicità, del divino con l’umano.
    Ma il tentativo, nonostante l’acutezza della polemica contro il Maestro, andò fallito.
    Nella Metafisica egli lasciò il dualismo di materia e di forma: disse che la prima non si può trovare senza l’altra, e poi concluse che la realtà somma (Dio, Motore immobile) era forma scevra di materia, cioè le ridivise di nuovo.
    Del resto, se la materia tende alla forma; perciò stesso è altro dalla forma; per di più resiste alla forma, sino al punto di apparire dominata dall’accidente e dal caso, e perciò è estranea e opposta alla forma medesima.
    Nella Fisica il dualismo di celeste e di terreno, di materia corruttibile o sublunare, e di materia incorruttibile o sopralunare: donde quel dualismo cosmologico, che è quasi il segno visibile del dualismo metafisico insuperato.
    Nella Psicologia lasciò il dualismo di nous passivo e nous attivo: quest’ultimo viene dal di fuori, e, pur trovandosi congiunto con le altre facoltà, non ha intima connessione con esse.
    Nell’Etica lasciò il dualismo di virtù etica e di virtù dianoetica: la virtù veramente umana è ora la prima, che consiste nella vita in comune; ora la seconda, che consiste nella contemplazione solitaria dell’uomo individuo.
    Sarà compito della filosofia posteriore, specialmente degli stoici e degli epicurei, cercar di eliminare tali dualismi, sulla base di un concetto più immanente della realtà.