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  • Socrate

    Vita e opere

    Socrate nacque ad Atene prima del 469 a.C.,dallo scultore Sofronisco e dalla levatrice Fenarete.
    Ebbe per moglie Santippe, tipo proverbiale di donna isbetica, che si dice abia sposato per provare continuamente la propria pazienza.
    Compì il suo dovere di cittadino, combattendo valorosamente nella guerra del Peloponneso, a Potidea, a Delo, ad Anfipoli.
    Nella sua missione si diceva assistito da un demone (forse la testimonianza della coscienza, che lo avvertiva di quello che doveva evitare.
    Già avanzato negli anni, fu accusato di ateismo e di corruzione dei giovani da Meleto, un oscuro poeta, dal mercante Anito e dal retore Licone; ma a tale accusa non dovettero essere estranei motivi politici, per essere stati suoi discepoli Crizia e Carmide aristocratici, detestati dal partito democratico, da poco ritornato in Atene.
    Comparso in giudizio parlò non da accusato, ma da maestro; ed invitato a proporre un’ammenda pecuniaria di trenta mine (che quattro dei suoi discepoli, tra cui Platone, avrebbero pagata per lui), propose invece di essere nutrito a spese pubbliche nel Pritaneo.
    Fu condannato con scarsa maggioranza a bere la cicuta, e, rinunciando ad ogni tentativo di fuga, morì imperturbato nel 399 a.C.

    Socrate non lasciò alcuno scritto, “la scrittura ha questo di grave, che se la interroghi, tace maestosamente”; ma il suo pensiero ci è noto dalle opere di due discepoli, Platone (Dialoghi) e Senofonte (Memorabili di Socrate).

    Pensiero

    Socrate si pone due problemi principali: il problema della scienza e il problema del bene.

    Problema della scienza.
    Socrate pur partecipando ancora della tendenza soggettivistica dei sofisti, reagisce vigorosamente allo scetticismo sofista, ponendo le condizioni della vera scienza.
    Egli afferma infatti che nel mondo della coscienza umana (cfr. il suo motto: “conosci te stesso”), sotto la varietà delle opinioni particolar, fondate sulle sensazioni mutevoli (“doxa”), esiste una verità necessaria ed universale (“aletheia”), in cui tutti devono credere: tale verità è il concetto (es. concetto di bene, sanità, giustizia, ect), che si fissa mediamente una definizione.
    Socrate perviene al concetto mediante il suo famoso metodo, che prese appunto il nome di “socratico”, e che si compone di due momenti successivi:

    • ironia, che consiste nel fingere di approvare le opinioni dell’interlocutore, per poi dimostrarne a poco per volta, con abili interrogazioni, l’ineguatezza e l’incongruenza.
    • maieutica (o arte della levatrice), che consiste nell’aiutare l’interlocutore, con opportune interrogazioni, a trovare in se stesso la verità.

    Problema del bene
    1. Socrate si occupò soprattutto del problema morale, tanto che fu definito, a ragione, “il fondatore della scienza morale”.
    Egli distingue le cose in due categorie:

    • le cose divine o metafisiche (“ta deimonia”), che sono negate alla coscienza umana: es. Dio, immortalità dell’anima, ect.
    • le cose umane (“ta anthropina”), che è possibile conoscere: es. concetto di bene, sanità giustizia, ect.

    2. Principio fondamentale dell’etica socratica è l’identificazione della scienza con la virtù (intellettualismo etico): non può essere virtuoso se non chi vive secondo scienza o ragione, il vizio è frutto di ignoranza.
    Tale intellettualismo, se da un lato è notevole perchè afferma per la prima volta nella storia del pensiero l’universalità o categoricità dei valori morali, dall’altro non va esente da gravi difficoltà, come quella di trascurare i fattori volitivi dell’azione.

    3. Altro principio dell’etica socratica è l’identificazione della virtù con la felicità (eudemonismo etico).
    Ma Socrate lascia indeterminato il concetto di felicità il cui contenuto può essere vario a seconda degli individui che vi aspirano (piacere, utile, ect.)
    Egli afferma che la felicità consiste nella virtù, e la virtù nella scienza; ma la scienza è a sua volta conoscenza della virtù e della felicità vera, per cui ci troviamo in un circolo chiuso.
    Sarà compito dei discepoli di Socrate, ispirandosi soprattutto alla vita del maestro, dare a questo eudemonismo etico un contenuto più concreto.

    Giudizio su Socrate

    Socrate è di un’enorme importanza nella storia della filosofia: egli è lo scopritore del concetto, fondamento di ogni speculazione filosofica, e bene meritò il titolo di “padre della scienza”.
    Anche tutta la filosofia greca posteriore (Platone, Aristotele, ect.) seguirà le sue orme, e assumerà d’ora innanzi un’impronta idealistica.

  • Platone

    Vita

    Nacque nel demo antico di Collito, nel 427 a.C., da nobile famiglia, che per parte di padre discendeva da Codro, e per parte di madre da Solone.
    Il suo vero nome fu Aristocle; il soprannome di Platone pare gli fosse dato dal maestro di ginnastica per la larghezza delle spalle (“platus”).

    Primo soggiorno ateniese (Socrate).
    Platone ebbe un’educazione accuratissima, e, giovane, si segnalò nella poesia; ma a vent’anni, entrato in relazione con Socrate, bruciò le sue composizioni e si diede tutto alla speculazione filosofica.
    Appartenne alla scuola di Socrate per circa otto anni, cioè fino alla morte del maestro (399).

    Viaggi (Dionigi il Vecchio)
    Dopo la morte del maestro, intraprese lunghi viaggi, a Megara, dove visitò la scuola megarica diretta da Euclide; in Egitto, a Cirene, e specialmente nella Magna Grecia e in Sicilia, ove prese conoscenza con la filosofia pitagorica.
    Fu anche alla corte di Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa, ove volle partecipare all’attività politica e tentare con l’amico Dione, cognato del tiranno e capo del partito aristocratico, di indurre Dionigi alla fondazione di uno Stato ideale; ma fu da questi consegnato all’ambasciatore spartano come prgioniero di guerra, e solo per intercessione di amici potè sfuggire al pericolo di essere venduto come schiavo, e ritornare in Atene.

    Secondo soggiorno ateniese (Accademia)
    Ad Atene, sulle sponde del Cefiso, fondò una scuola, che dal nome dei giardini di Accademo (eroe attico), dove aveva sede, prese il nome di Accademia (387); e qui raccolse intorno a sè i migliori spiriti del tempo, tra cui lo stesso Aristotele.

    Nuovi viaggi (Dionigi il Giovane)
    Più tardi, essendo successo a Dionigi il Vecchio nel governo di Siracusa il figlio Dionigi il Giovane, accolse nuovamente l’invito di Dione, e si recò per ben due volte in Sicilia con la speranza di poter influire politicamente sull’animo del tiranno; ma corse gravissimo pericolo, e solo per l’intercessione dell’amico Archita di Taranto ebbe salva la vita.

    Terzo soggiorno ateniese
    Tornato ad Atene, dedicò gli ultimi anni all’insegnamento nell’Accademia; e morì a ottant’anni, nel 347, mentre stava correggendo la sua Repubblica

    Opere

    Ci rimangono, sotto il nome di Platone, 34 Dialoghi, l’Apologia di Socrate e 13 Lettere.

    1. Nei Dialoghi appare generalmente come protagonista Socrate; ma in essi l’espressione è piuttosto artistica che sistematica, perchè nessun rigore è nella distinzione dei problemi e nella ricerca metodica.
    Dove poi l’esposizione astratta non è possibileo inopportuna, Platone ricorre ai cosiddetti miti: specie di conoscenza analogica, che gli serve per varcare i limiti dell’esperienza sensibile e dare un’immagine approssimativa di ciò che la trascende (metafisica), come ad es. i miti dell’immortalità dell’anima e della vita d’oltretomba nel Gorgia, nel fedro, nel Fedone, nella Repubblica.

    2. I dialoghi platonici furono distribuiti in trilogie dal grammatico alessandrino Aristofane di Bisanzio (200 circa a.C.), e in tetralogie dal neopitagorico Trasillo (epoca di Tiberio), a seconda della materia trattata; ma oggi si preferisce distribuirli con un criterio storico-cronologico, a seconda della differenza di pensiero e di stile.
    Tuttavia, nonostante il contributo di valenti studiosi, la questione non è ancora definitivamente risolta.
    Riguardo all’autenticità di alcuni dialoghi non sono da ritenersi autentici: Alcibiade II, Ipparco, Anterasti, Teagete, Clitofonte, Minosse, Epinomide, ect.

    Riguardo alla cronologia si possono distribuire in tre gruppi:

    • dialoghi giovanili o socratici, nei quali Platone non sorpassa ancora il punto di vista socratico (concetto). Es. Critone (sul dovere dell’obbedienza alle leggi), Lachete (sul coraggio), Carmide (sulla conoscenza di sè), eutifrone (sulla santità), Liside (sull’amicizia), Ione (sull’ispirazione poetica), Protagora (sulla virtù), Eutidemo (contro l’eristica), Ippia Maggiore (sulla bellezza), Ippia Minore (sulla tesi paradossale che chi pecca volontariamente è meno colpevole di chi pecca involontariamente), Cratilo (sul linguaggio), Menesseno (sulle orazioni politiche).
    • dialoghi sistematici, in cui appare in piena luce la teoria delle Idee. Es. Simposio (sull’amore), Fedro (sulla retorica), Fedone (sull’immortalità dell’anima), Repubblica (sullo Stato ideale)
    • dialoghi della vecchiaia, nei quali Platone sottopone a revisione critica la sua teoria delle idee per renderla più atta a spiegare il mondo della natura e della storia. Es. teeteto (sulla conoscenza), Parmenide (sul rapporto tra l’uno e i molti), Sofista (sul rapporto tra l’essere e il non-essere), Politico (sull’ideale dell’uomo politico), Filebo (sul piacere), Timeo (sulla natura), Leggi (sulla legislazione dello Stato Ideale).

    Pensiero

    Platone si propose nella sua attività imo scopo non solamente filosofic, ma etico, sociale, pragmatico (“filosofia per la vita”): egli reagendo all’individualismo materialisticco, in cui era precipitata la vita greca del suo tempo (demagogismo, ect), mirò ad affermare un idealismo spiritualistico, rappresentato dalla sua teoria delle Idee.

    Teoria delle idee
    1. E’ il fondamento di tutta la filosofia di Platone.
    Platone, proseguendo il pensiero socratico, ammetta un dualismo metafisico: vi sono realtà materiali, contingenti e mutevoli (cfr. divenire di Eraclito); e realtà immateriali, eterne, immutevoli, o Idee (cfr. Essere di Parmenide): le prime sono come una copia delle Idee, e le Idee sono come un modello o archetipo delle cose materiali.
    Le Idee non hanno più solo una realtà logica o mentale, come i concetti di Socrate, ma una realtà ontologica, metafisica: esistono cioè realmente, al di fuori della nostra mente, nel mondo iperuranio: così, ad es., al di fuori di questo o quell’uomo esiste realmente l’Idea universale di Uomo, al di fuori di tutte le cose buone l’Idea universale di Bene, e così via.
    Queste Idee, inoltre, non sono più distribuite confusamente come i concetti di Socrate, ma sono ordinate gerarchicamente per generi e specie, con a capo l’Idea del Bene: idea suprema (forse lo stesso Dio di Platone), dalla quale tutte le Idee ricevono la luce “come l’universo dal sole” (dialettica delle Idee).
    Tale dialettica, o distribuzione gerarchica delle Idee, non è tuttavia ben chiara.
    Platone non fa altro che accennare alle due vie della definizione e della divisione: la definizione che, riducendo la molteplicità ad unità, sottopone la specie al genere; la divisione che, al contrario, scindendo l’unità nella molteplicità ricava a specie dal genere.
    Ma se tali rapporti tra le Idee non presentano alcuna difficoltà quando sono pensieri della nostra mente che li unifica e li distingue, diventano assai oscuri quando vengono proiettati fuori dalla nostra mente, cioè quando non v’è più una mente concreta che li unisce pensandoli insieme.
    A tale difficoltà cercheranno di ovviare Aristotele e S. Agostino, ammetendo l’esistenza delle Idee in una mente oggettiva, e più precisamente nella mente di Dio.

    2. Tra il mondo delle Idee e mondo delle cose vi è – si è detto – dualismo e separazione, ma anche una certa somiglianza.
    Come spiegare questa somiglianza?
    In un primo tempo Platone ricorre ai concetti di mimesi (le cose imitano le Idee), metessi (le cose partecipano in piccola parte all’essenza delle Idee), coinonia (le cose sono in comune con le Idee), ect.
    In un secondo tempo, che coincide con la composizione della Repubblica, egli comprende che le Idee, chiuse rigidamente in se stesse ed escludenti ogni principio di moto, non possono spiegare – come già la dottrina eleatica dell’essere – le cose, il divenire, e perciò, opera in esse una riforma radicale, concependole come causa finale del divenire medesimo: le cose desiderano divenire simili alle Idee, e perciò si muovono finalisticamente verso di esse.
    Nel Timeo si parla perfino di un Demiurgo (= Artefice), specie di divinità intermedia tra le Idee e le cose, che, mirando l’Idea del Bene, plasma ed ordina la materia, ispirando in essa un’Anima del mondo, cioè un principio di vita e di movimento verso le pure Idee.
    Bene, Demiurgo e Anima del mondo formano come una triade, che avrà grandissima importanza nella storia del pensiero: essa informa il neoplatonismo, e da taluni fu anche paragonata alla Trinità cristiana.

    3. Negli ultimi anni Platone, sempre al fine di rimuovere le difficoltà nascenti dal suo dualismo esagerato, andò accentuando il suo pitagorismo, interponendo tra le idee e le cose sensibili, come enti intermedi, i numeri eterni, realtà misteriose che accrescono e non tolgono le difficoltà stesse.

    Filosofia della natura
    1. Platone inaugura con il Timeo un concetto decisamente finalistico della natura: essa non è governata da leggi cieche e meccaniche (cfr. Democrito), ma è dotata di una immanente finalità, che si appunta verso il regno delle pure Idee (cfr. Demiurgo e Anima del mondo).

    2. Ma nella natura vi è n principio oscuro ed amorfo, causa di imperfezione e di male, la materia.
    Essa resiste spesso all’attività del Demiurgo, in modo che le cose riescono un’imitazione perfetta delle Idee: ed ecco perchè, ad un unico modello ideale eterno, corrisponde la molteplicità delle cose.
    Platone chiama la materia Non-essere, Indeterminato, necessità, Caos, Potenza, Selva.

    Teoria della conoscenza
    Platone ammette anche un dualismo gnoseologico: vi sono le rappresentazioni che conoscono ciò che diviene, le cose, e ci danno la conoscenza sensibile o opinione (“doxa”); e i concetti o idee, che conoscono ciò che è l’essenza delle cose, e ci danno la conoscenza razionale o verità (“aletheia”): ma le idee hanno caratteri tali di universalità, per cui non possono derivare dalle sensazioni particolari e contingenti, e quindi sono innate.
    Questo innatismo è poi da Platone connesso al mito orfico-pitagorico della preesistenza e della trasmigrazione delle anime (metempsicosi).
    L’anima umana – afferma Platone nel Fedone e nel Fedro -, prima di entrare nel corpo, ha vissuto nel mondo iperuranio, dove ha contemplato le Idee; quando poi, non sappiamo se per colpa o no, è precipitata nel corpo, ne ha oscurato il ricordo, che nell’atto della percezione, a contatto degli oggetti sensibili, si ridesta, per cui conoscere è ricordare (cfr. Menone, in cui uno schiavo ignorante, opportunamente interrogato da Socrate, riesce a risolvere da sè un difficile teorema di Pitagora).
    di qui l’amore (“eros”), o dialettica dell’anima, per elevarsi dalla conoscenza sensibile all’intuito originario della suprema verità; dialettica che si compone di quattro gradi, sensazione, percezione, ragione, intelletto (cfr. mito della caverna in Rep. VII, 1, 3).
    Più particolarmente la sensazione e la percezione appartengono alla sfera della conoscenza sensibile:

    • sensazione, o conoscenza delle immagini. Es. immagini di una statua;
    • percezione (“doxa”), o conoscenza delle cose sensibili. Es. la statua.

    La ragione e l’intelletto appartengono alla sfera della conoscenza razionale:

    • ragione (“dianoia”), o conoscenza (riflessa) dei rapporti matematici
    • intelletto (“noesis”), o conoscenza (intuitiva) delle Idee, che da luogo alla dialettica o pensiero puro.

    Questa dottrina del conoscere è molto importante, non solo perche sviluppa il procedimento dialettico iniziato da Socrate e prepara l’ulteriore sviluppo di Aristotele, ma anche perchè fissa i tre gradi o forme di conoscere, che saranno d’ora in poi ammesse fino a Spinoza, Kant, ect.: senso (sensazione e percezione), ragione, intelletto.
    Si noti infine come in Platone si possono propriamente distinguere tre significati della parola dialettica strettamente connessi tra di loro:
    – dialettica (oggettiva): distribuzione logica delle idee in generi e specie.
    – dialettica (soggettiva): attività dell’anima in quanto tende alla verità.
    – il grado supremo del conoscere (scienza del puro intelligibile), distinto dai gradi inferiori.

    Psicologia
    Platone è il primo che, a diferenza dei filosofi precedenti, riconosce all’anima una natura spirituale, e quindi immortale (Fedone)
    Egli ammette nell’uomo tre anime separate, che risiedono in diverse parti del corpo:

    1. a) anima razionale (“loghistikon, logos, nous”, ect.) che risiede nel cervello – cfr. nostra ragione;
    2. anima irascibile (“thymos”, o coraggio), che risiede nel petto, e tende a sottomettersi alla ragione e a rintuzzare gli appetiti – cfr. nostro volontà;
    3. anima concupiscibile (“epithymetikon”, o appetito), che risiede nel ventre e tende a ribellarsi alla ragione – cfr. nostro istinto.

    Nel Fedro (XXV-XXVI) l’anima umana è paragonata ad una biga, che un auriga (anima razionale) conduce verso il mondo iperuranio, spingendo innanzi il cavallo docile (anima iracibile) e quello indocile (anima concupiscibile).

    Etica
    1. Platone accogliendo l’intellettualismo etico di Socrate, afferma che sapienza e moralità coincidono, e che il fine non solo della conoscenza ma anche delal moralità, è il Bene universale, cioè il Bene in quanto Idea del mondo iperuranio.

    2. La felicità dell’uomo (“eudomonia”) consiste perciò nel fuggire il mondo sensibile, la “prigione corporea”, e nell’elevarsi con l’amore (“eros”) al mondo delle Idee.

    3. La virtù è il mezzo per raggiungere la felicità.
    Le principali virtù (che più tardi furono dette cardinali) sono quattro, secondo la partizione dell’anima:

    • saggezza (“sophia”), virtù propria dell’anima razionale;
    • fortezza (“andria”), virtù propria dell’anima irascibile;
    • temperanza (“sophrosyne”), virtù propria dell’anima appetitiva;
    • giustizia (“dikaiosyne”), virtù comune e più comprensiva, che non si riferisce all’una o all’altra delle tre parti dell’anima, ma a tutte insieme.

    Essa consistein quell’armonia interiore dell’anima, per cui ogni parte adempie ordinatamente l’ufficio che ad essa è proprio.

    Politica
    1. Ma l’etica individuale si completa nell’etica sociale, l’individuo si completa veramente nello Stato.
    E poichè Platone ebbe a vivere ebbe a vivere in un periodo di profonda decadenza politica (individualismo, materialismo, demagogia, ect.) egli eleva alla massima altezza il concetto dello Stato.

    2. Lo Stato ideale deve essere realizzato in modo da educare il cittadino alla virtù, specie a quell’unica virtù che comprende in sè tutte le altre, cioè la giustizia.
    Esso rappresenta in grande l’anima dell’uomo, e perciò le classi sociali sono tre, secondo le partizioni dell’anima:

    • i filosofi (“razza d’oro”), che corrispondono al’anima razionale e che devono praticare la saggezza. Essi conoscendo che cosa sia la virtù (cfr. intellettualismo etico di Socrate), devono essere i supremi reggitori dello Stato.
    • i guerrieri (“razza d’argento”), che corrispondono all’anima irascibile e devono praticare la fortezza.
    • i lavoratori (“razza di ferro”), che corrispondono all’anima appetitiva e che deovno praticare la temperanza.

    Lo Stato cura l’educazione dei cittadini delle prime due classi: e affinchè costoro non siano turbati, in quanto organo del tutto, da alcun interesse indivisibile, viene ad essi vietata la famiglia e la proprietà (comunismo).
    Platone non si cura dell’ultima classe, che deve soltanto soddisfare i bisogni materiali della comunità, e che deve ubbidire alle classi superiori.

    3. Più tardi, la lunga esperienza della vita e i disinganni dei viaggi in Sicilia dovettero persuadere il vechio filosofo che il suo Stato ideale era piuttosto un’utopia, e nelle Leggi introdusse qualche temperamento, attribuendo tra l’altro il governo non più ai filosofi, ma ai sacerdoti.
    Tuttavia la Repubblica di Platone, per quanto sia stata nella storia fonte di tutte le utopie politiche, ha il merito di aver saputo incarnare la profonda aspirazione dello spirito umano verso la giustizia e la moralità come norme supreme della vita politica: verso uno Stato non più solamente burocratico ed amministrativo, ma essenzialmente etico.
    E’ curioso notare che nel III sec d.C. Plotino cercò di realizzare l’utopia platonica, progettando una città di filosofi che doveva chiamarsi Platonopoli, e per la cui fondazione l’imperatore Gallieno aveva promesso il suo aiuto; ma il progetto andò a vuoto.

    Estetica
    1. L’arte è imitazione (“mimesi”) della natura: e poichè la natura è una imitazione del mondo delle Idee, l’arte si trova ad essere tre gradi lontana dalla suprema realtà.
    Perciò essa è allontanata dallo Stato ideale della Repubblica.
    2. Più tardi, nelle Leggi, il vecchio filosofo si avvide dell’assurdità della sua condanna, e giustificò l’arte come passatempo o riposo dopo la lunga fatica.
    Ma ad una giustificazione integrale del fatto artistico, inteso nei suoi valori di alta idealità spirituale, Platone non giunse mai; ed è questo forse uno degli aspetti più sconcertanti di tutto il suo pensiero.

    Giudizio sulla filosofia di Platone

    La filosofia platonica, per quanto sia dotata di un’enorme importanza nella storia del pensiero di tutti i tempi per la sua vigorosa affermazione idealistica, presenta una difficoltà fondamentale: il suo dualismo esagerato, che non solo distingue ma separa i due mondi della realtà sensibile e della realtà intellegibile, l’unità dalla molteplicità l’essere dal divenire, il divino dall’umano.
    Platone stesso avverte questa difficoltà, e va alla ricerca di un rapporto tra le Idee e le cose (mimesi, metessi, ect.); ma l’incertezza del linguaggio tradisce l’incertezza del pensiero.
    Contro questa difficoltà si rivolgerà la critica di Aristotele.

  • Locke

    Vita e opere

    Giovanni Locke nacque a Wrington, in Inghilterra, nel 1632.
    Studiò scienze naturali e medicina ad Oxford, e ciò influì molto sul suo pensiero filosofico.
    Partecipò alla vita politica del periodo della Restaurazione 8Stuart), dapprima come segretario dell’ambasciatore inglese presso la corte dell’Elettore di Brandeburgo, e più tardi come segretario ed amico di lord Ashley, divenuto poi Duca di Shaftesbury e Gran Cancelliere d’Inghilterra.
    Dal 1675 al 1679 soggiornò in Francia, facendo conoscenza a Parigi coi più illustri rappresentanti della cultura francese di quel tempo, e prendendo moltissime note per la composizione del suo Saggio sull’intelletto umano.
    Nel 1683, quando lord Ashley, caduto in disgrazia per essersi opposto al dispotismo degli Stuart, cercò rifugio in Olanda, anche Locke lasciò l’Inghilterra e soggiornò in Olanda, entrando in relazione con moltissime personalità culturali che allora si trovavano in questo paese.
    Nel 1689, dopo la rivoluzione liberale che portò sul trono inglese Guglielmo D’Orange, Locke ritornò anch’egli in Inghilterra, ove prese di nuovo ad interessarsi della cosa pubblica: ebbe un ufficio governativo, e si adoperò per il trionfo del principio di libertà di religione e di stampa, si occupò di questione economiche e finanziarie, ecc.
    Passò gli ultimi anni ad Oates, nella contea di Essex, presso una famiglia amica, dove morì nel 1704.

    OpereSaggio sull’intelletto umano (1690), in 4 libri; Pensieri sull’educazione; due Trattati sul governo; quattro Lettere sulla tolleranza religiosa, ect.

    Pensiero

    Locke è il più grande rappresentante dell’empirismo.
    Mentre Bacone si era limitato ad affermare la necessità del metodo induttivo-sperimentale nella filosofia e nelle scienze, Locke giustifica questo empirismo, ponendosi per primo esplicitamente il problema dell’origine e del valore della conoscenza.

    Critica all’innatismo Cartesiano
    Locke incomincia con la critica dell’innatismo cartesiano.
    Se le idee – che in Locke sono sinonimo di rappresentazione mentale nel senso più generico della parola – fossero innate, tutti gli uomini dovrebbero avere le medesime idee: invece i bimbi, i selvaggi, gli incolti mancano di parecchie idee (es. principio di contraddizione, idea di Dio, principi morali fondamentali, ect.), e ciò appunto perchè la loro esperienza è più limitata.
    Le idee derivano dunque dall’esperienza e lo spirito è una tabula rasa.

    L’esperienza, le idee e le qualità
    1. Le idee derivano dall’esperienza, e precisamente da due fonti:

    1. senso esterno o sensazione, mediante il quale lo spirito conosce le cose materiali;
    2. senso interno o riflessione, mediante il quale lo spirito, riflettendo (ossia ripiegandosi) sulle proprie operazioni, conosce i fatti di coscienza (percepire, pensare, volere, ect).

    2. Tutte le idee che si trovano nella nostra coscienza, derivino esse dal senso esterno o dal senso interno, si dividono in due classi: idee semplici e idee complesse.
    Le idee semplici sono quelle non decomponibili in idee più semplici, come ad es. le idee di coloro, di estensione, di movimento, di solidità, di percezione, di volizione, di piacere, di dolore, ect.
    Le idee complesse sono quelle che risultano dalla fusione di più idee semplici, come ad es. l’idea di sostanza materiale (che risulta dalla fusione delle idee semplici di peso, colore, forma, grandezza, ect).
    Tale fusione è opera dell’intelletto, il quale interviene ad elaborare le idee semplici mediante tre principali operazioni:

    • la sintesi, che consiste nel combinare parecchie idee semplici in modo da formarne una complessa (es. idea di triangolo, di corpo, di numero, ect.).
    • la comparazione, che consiste nel paragonare un’idea con se stessao con un’altra, in modo da stabilire delle relazioni tra di esse (es. idea di identità, di causalità, di posizione, di grandezza, ect.).
    • l’astrazione o analisi, che consiste nel separare un’idea da tutte quelle altre idee che l’accompagnano nella sua esistenza reale, in modo da dare origine all’idea generale (es. idea generale, o astratta, di uomo, di albero, ect.).

    In tal modo, mentre riguardo alle idee semplici la mente umana si trova ad essere passiva, riguardo alle idee complesse diventa attiva: per quanto tale attività si limiti ad essere qualcosa di puramente estrinseco e meccanico, riducendosi ad unire e a separare i dati.
    Il concetto di astrazione è dunque diverso da quello aristotelico.
    L’astrazione aristotelica da luogo ad un concetto astratto, qualitativamente diverso dalle immagini empiriche, particolari e contingenti; l’astrazione lockiana da luogo ad un’idea astratta che non è qualitativamente diversa dalle immagini empiriche, ma è piuttosto questa medesima immagine che resta più generale: infatti le astratte sono anch’esse individuali e determinate fin nei minimi particolari (omnimodo determinatae).

    3. Locke distingue poi dalle idee (semplici e complesse) le qualità dei corpi.
    Egli introduce qui la nota distinzione di qualità primarie (o oggettive) e qualità secondarie (o soggettive), già avanzata da Galilei e da Cartesio.
    Sono qualità primarie l’estensione, il moto, la solidità, il numero, ect.
    Sono qualità secondarie i colori, gli odori, i suoni e simili.
    Le qualità primarie, oltre ad essere idee, esistono realmente anche fuori di noi, in se medesime; le qualità secondarie esistono solo come idee.
    Si noti che questa distinzione è in contraddizione con la teoria generale di Locke, affermante che noi conosciamo solamente le nostre idee: perchè in base ad essa si conclude l’esistenza di realtà (le qualità primarie o oggettive), che non sono idee nostre, ma esistono fuori di noi, in se medesime.

    Critica all’idea di sostanza
    Molto importante è in Locke la critica dell’idea di sostanza, in cui egli precorre Kant e l’idealismo moderno.
    L’idea di sostanza è un’idea complessa, risultato di un processe di astrazione, per cui, separando una serie di qualità costantemente coesistenti (es. peso, colore, forma, grandezza), congetturiamo che esista un “sostrato”, in cui quelle qualità ineriscano; ma in realtà noi conosciamo soltanto le qualità, non la sostanza sottostante.
    L’idea di sostanza è quindi inconoscibile, e ogni metafisica (teologia, psicologia, cosmologia) è impossibile: la teologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza divina; la psicologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza spirituale; la cosmologia, in quanto si fonda sull’idea di sostanza materiale.
    Ciononostante Locke tenta in un secondo tempo di fondare una metafisica, dimostrando l’esistenza del mondo esterno e di Dio.
    Egli ricorre al concetto empiristico della passività dello spirito ed applica il principio di causalità: ci sono in noi sensazioni non prodotte da noi, dunque esistono fuori di noi i corpi che ne sono la causa: noi, che esistiamo, non abbiamo prodotto noi stessi, dunque esiste fuori di noi una causa che ci ha prodotti: tale causa è Dio.
    Si noti tuttavia che tale dimostrazione è in contraddizione con la dottrina generale di Locke, affermante che noi conosciamo solamente le nostre idee: perchè in base ad essa si conclude all’esistenza di realtà che non sono idee nostre, ma esistono fuori di noi, per se medesime.

    Politica
    Locke si può considerare il padre del liberalismo politico.
    Egli si propose di giustificare la rivoluzione liberale inglese del 1688 (Guglielmo D’Orange), e perciò concepisce lo Stato come governo della maggioranza e non di uno solo.
    Egli parte dal concetto di Hobbes di un contratto sociale che è all’origine dello Stato, ma nega che lo stato di natura sia una guerra contro tutti: il contratto non è perciò di rinuncia degli uomini alla propria libertà e ai propri diritti, ma anzi migliore garanzia di questa libertà e di questi diritti; ed ove questa garanzia venga meno per parte del potere esecutivo, la sovranità ritorna al popolo mediante la rivoluzione.
    Locke è inoltre importante perchè fissa per primo i capisaldi politici della distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), della tolleranza religiosa e della separazione della Chiesa dallo Stato.

  • Leibniz

    Vita e opere

    Goffredo Leibniz nacque a Lipsia nel 1646, da un professore di quella Università.
    Fu in gran parte un autodidatta: studiò nella ricchissima biblioteca paterna, rivelando tendenza in tutti i campi dello scibile (lettere, filosofia, scienze).
    Nel 1672 incominciò a viaggiare: fu in Francia, dove entrò in contatto con quei circoli cartesiani; in Inghilterra e in Olanda, dove lesse l’Etica ancor manoscritta di Spinoza.
    Nel 1676, ritornato in Germania, fu dal Duca di Brunswick nominato bibliotecario ad Hannover, e incaricato di scrivee la storia della propria casa.
    Riprese perciò a viaggiare, al fine di raccogliere il materiale necessario, e fu per parecchi anni in Germania e in Italia.
    Nel 1690, ritornato nuovamente in Germania, si dedicò completamente alla sua attività di pensatore e di scienziato; e da quell’epoca fino alla morte non cessò di produrre in modo prodigioso.
    Morì ad Hannover nel 1716.
    Leibniz fu di un’attività multiforme: scoprì, contemporaneamente a Newton, il calcolo infinitesimale; concepì il disegno di una lingua filosofica universale; fondò l’Accademia delle scienze di Berlino, e contribuì alla fondazione di quelle di Vienna, di Dresda, di Pietroburgo.

    Opere
    Nuovi saggi sull’intelletto umano (1704), composti per confutare i saggi di Locke; Teodicea (1710), composta per confutare Bayle un protestante e scettico, nemico dei dogmi e della teologia, sostenitore della tolleranza religiosa. Questa si può considerare la sua opera maggiore.
    Monadologia (1714), composta dietro l’invito del principe Eugenio di Savoia, che aveva chiesto a Leibniz una sintesi delle sue teorie.

    Pensiero

    Leibniz tenta di conciliare i due indirizzi fondamentali della filosofia moderna, il razionalismo con l’empirismo, mediante la sua teoria della monade.

    La monade
    1. LA MONADE COME REALTA’ INESTESA E ATTIVITA’
    La realtà, secondo Leibniz, non è formata da due sostanze, come voleva Cartesio; e neppure di una sostanza sola, come voleva Spinoza; ma da infinite sostanze di natura spirituale, cui egli da brunianamente il nome di monadi (dal greco monas, unità).
    Infatti, sempre secondo Leibniz, la materia come estensione (res extensa) non esiste: se noi consideriamo un corpo materiale, e procediamo su di esso per divisioni e suddivisioni, dovremo fermarci a degli elementi primi, indivisibili o semplici, e quindi inesistenti, immateriali, spirituali (monadi).
    Tali monadi, oltre ad essere inestese, sono non passive, ma attive: come è dimostrato dalla resistenza che oppongono i corpi, e che si manifesta sotto la duplice forma della resistenza come inerzia e resistenza come impenetrabilità.
    Si tratta di un’attività analoga a quella dell’anima umana, perchè l’anima umana è l’unica cosa che noi conosciamo inestesa ed attiva, e quindi nella sua essenza simile alle altre monadi: percezione, o potere che la monade ha di rappresentare e pensare le cose esterne (ogni monade è uno “specchio vivo” dell’universo); e appetizione, o tendenza di passare da percezioni confuse ed oscure a percezioni chiare e distinte (appercezioni).
    Concludendo: la materia e nella sua essenza una realtà inestesa ed attiva, mentre ai sensi appare come una realtà estesa e passiva.

    2. LA GERARCHIA DELLE MONADI: DIO
    Ogni monade differisce da tutte le altre a seconda del suo grado di perfezione, cioè a seconda del grado di chiarezza e distinzione delle sue percezioni.
    Si ottiene in tal modo una gerarchia delle monadi, che dalla materia inanimata sale fino a Dio, monade suprema.
    Abbiamo complessivamente tre grandi categorie di monadi:

    • monadi materiali, che compongono la materia bruta, in cui la percezione è ancora confusa ed oscura, e l’appetizione è semplice forza naturale.
    • monadi animali, che compongono gli animali, in cui la percezione è progredita fino a diventare memoria, e l’appetizione è diventata istinto.
    • monadi razionali, consistenti nelle anime umane ed angeliche, in cui la percezione è progredita fino a diventare appercezione o coscienza di percepire, e l’appetizione e diventata volontà o coscienza di appetire.

    Monade suprema è Dio, il quale, è assoluta appercezione e assoluta volontà, cioè sapienza, potenza e amore.
    Dell’esistenza di Dio, Leibniz fornisce tre prove:

    1. prova a contingentia mundi, fondata sul principio di ragione sufficiente, il quale ci riconduce a trovare la ragione sufficiente ed ultima di tutte le cose in una sostanza non contingente e necessaria.
    2. prova delle essenze, fondata sul motivo che senza Dio non soltanto non ci sarebbe nulla di esistente, ma non vi sarebbe neppure nulla di possibile.
    3. prova ontologica (cfr. già S. Anselmo d’Aosta), fondata sul motivo che l’essenza di Dio implica l’esistenza.

    Le monadi sono prodotte da Dio mediante “fulgurazioni” continue; e sono indistruttibili, perchè non vi è ragione che Dio abbia a distruggerle, quasi per un pentimento di ciò che prima ha creato.
    Le monadi sono quindi immortali; e immortale è il mondo che di esse consiste.

    3. LA LEGGE DI CONTINUITA’
    Fondamentale nel pensiero di Leibniz è la legge di continuità, cioè la legge del rapporto che esite:

    • tra le varie percezioni di una data monade;
    • tra le diverse monadi dell’universo.

    Secondo Leibniz in ogni monade vi è una continuità di percezione, per cui dalle percezioni oscure e confuse si passa gradatamente (attraverso gradazioni infinitesimali) alle percezioni chiare e distinte o appercezioni.
    Tale trapasso è constatabile soprattutto nelle monadi razionali, ove esiste una grande quantità di percezioni, che sono come il riflesso di tutta la vita dell’universo nel suo passato e nel suo presente: tali percezioni, che Leibniz chiama piccole percezioni, agiscono su di noi a nostra insaputa (cfr. teoria moderna del subcosciente), ma da esse si vanno gradatamente sviluppando le percezioni chiare e distinte o appercezioni; come, aggiunge Leibniz, dai rumori impercettibili che fanno le singole gocce del mare risulta il rumore del mare medesimo.
    Parimenti tra le varie monadi dell’universo vi è una continuità di monadi, per cui dalle monadi dotate di percezioni oscure e confuse si passa gradatamente (attraverso gradazioni infinitesimali) alle monadi dotate di percezioni chiare e distinte, cioè, come già si è visto, dalle monadi materiali alle monadi razionali e a Dio.
    In tal modo Leibniz applica alla psicologia e alla monadologia quel principio di continuità che è fondamento del calcolo infinitesimale da lui stesso scoperto.

    La monade e l’innatismo
    Da quanto è stato fin qui detto, risulta che ogni monade ha tutto l’universo innato in se stessa: ogni monade è “senza finestre” – dice Leibniz -, cioè non può entrare o uscire da essa qualcosa ( cr. innatismo).
    Ogni monade infatti è dotata di percezione o potere di rappresentare tutte le cose esterne, il che significa che in essa la rappresentazione di un oggetto particolare non suppone l’esistenza esterna di questo oggetto medesimo che impressioni la monade, ma è il prodotto di un’attività propria della monade stessa.
    Parimenti l’intelletto non è una semplice tabula rasa, che deriva passivamente le sue idee dall’esperienza (cfr. Locke), ma è attività che sa trarre dalle percezioni, o idee confuse ed oscure, le appercezioni o idee chiare e distinte.
    Questa dottrina Leibniz chiama appunto innatismo virtuale delle idee, e le da espressione conclusiva nella nota formula: nihil est intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi intellectus ipse.

    La monade e l’empirismo
    Ma se la monade ha tutto innato e l’intelletto contiene virtualmente le idee, le idee a loro volta derivano dalle rappresentazioni, in base alla legge di continuità: dalle percezioni o idee confuse ed oscure, attraverso gradazioni infinitesimali, si sviluppano, mediante l’attività dell’intelletto, le appercezioni o idee chiare e distinte (cfr. empirismo).
    In tale modo Leibniz supera il dualismo gnoseologico cartesiano, che poneva una differenza qualitativa e un netto contrasto tra rappresentazione ed idea, e mediante, la sua legge della continuità, trova un vincolo unitivo tra l’esperienza e lo spirito.
    Le verità dell’intelletto si fondano a loro volta su due grandi principi: di contraddizione e di ragione sufficiente.
    Il primo governa le cosiddette verità di ragione, che hanno carattere universale e necessari, e di ci possiamo dire non solo che sono, ma perchè sono, come ad es. le verità matematiche.
    Il secondo (che si potrebbe definire anche criterio del meglio) governa le cosiddette verità di fatto, che hanno carattere apparentemente contingente, come ad es. le verità della fisica; ma di cui il principio di ragione sufficiente ci rende ragione non solo del fatto che sono, ma anche del perchè sono, cioè della loro sostanziale razionalità.
    In tal modo Leibniz elimina la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, a priori e a posteriori, dimostrando che tale distinzione è dovuta solo all’imperfezione del nostro intelletto.

    Armonia prestabilita e problema del male
    1. L’innatismo, proprio della monade, porta Leibniz a studiare il problema dell’armonia tra monade e monade.
    Se la monade è “senza finestre”, cioè tutta chiusa in se stessa, come spiegare l’apparente influsso che una monade esercita sopra un’altra?
    Così, ad es. quando la monade-anima intende muovere il braccio, le monadi dipendenti, che costituiscono il corpo, rispondono a quell’atto di volontà con il moto real e del braccio.
    Il problema è risolto da Leibniz con la dottrina dell’armonia prestabilita: è Dio, monade sprema, che nell’atto della creazione ha costituito le monadi in modo tale da far corrispondere ognuna con le altre, senza bisogno d’azione reciproca tra di loro.
    Leibniz, come è facile rilevare, si accosta in ciò all’occasionalismo; ma mentre l’occasionalismo ammetteva l’intervento continuo di Dio, Leibniz ritiene che questo intervento abbia avuto luogo soltanto all’atto della creazione.

    2. La dottrina dell’armonia prestabilita, o – che è lo stesso – di un ordine provvidenziale del mondo, ha i suoi riflessi anche nel problema del male.
    Leibniz distingue tre specie di male:

    • male metafisico, che dipende dalla finitezza delle creature;
    • male morale, o peccato, conseguenza del male metafisico;
    • male fisico, o dolore, conseguenza del male morale.

    Giustificare l’esistenza del male significa quindi trovare la ragione sufficiente del male metafisico.
    Orbene. Dio, in base al principio di ragione sufficiente (principio del meglio), non può avere creato che “il migliore dei mondi possibili” (ottimismo leibniziano).
    Ma la creazione di un mondo qualunque, e quindi anche di quella del migliore dei mondi possibili, non avrebbe potuto effettuarsi che alla condizione di creare degli esseri imperfetti e finiti, poichè – in caso contrario – degli esseri perfetti e infiniti si sarebbero confusi con lo stesso Creatore.
    Lo stesso è da dirsi per il male morale, il quale, oltre ad essere necessario perchè conseguenza del male metafisico, è pure necessario perchè senza di esso non vi sarebbe il bene morale: infatti il peccato non è che la percezione confusa ed oscura, come il bene morale consiste nella percezione chiara e distinta, per cui il primo è condizione indispensabile per l’affermazione del secondo.
    Lo stesso è a dirsi per il male fisico, il quale, oltre a essere necessario perchè conseguenza del male morale, è pure necessario perchè senza di esso non esisterebbe neppure il piacere, che consiste appunto nello sforzo per uscire dal dolore.
    D’altronde, a conclusione generale, Leibniz afferma che, se il male nella sua triplice forma è necessario, esso, esistendo nel migliore dei mondi possibili, è quasi trascurabile rispetto al bene: tutto sta a badare al tutto e non alle singole parti, poichè se Dio avesse voluto impedire l’atto infame di Sesto Tarquinio avrebbe dovuto dare origine ad un mondo peggiore di questo.

  • Hobbes

    Vita e opere

    Tommaso hobbes nacque a Malmesbury nel 1588.
    Egli visse durante il periodo della prima rivoluzione inglese (Cromwell) e della Restaurazione (Stuart), ciò molto influì sul suo pensiero politico.
    Durante la rivoluzione, resosi inviso per le sue dottrine favorevoli al dispotismo, fu costretto ad esulare in Francia, ove fu precettore di Carlo II Stuart, ma dovette lasciare anche questo ufficio per l’empietà dei suoi scritti.
    Viaggiò in Italia e in Francia, ove ebbe modo di conoscere Galilei e le dottrine di Cartesio, ciò molto influì sul suo pensiero filosofico.
    Tra le sue opere ricordiamo: Della Natura umana, Elementa philosophiae, trattati filosofici; De corpore politico, De cive, e specialmente Leviathan (1651), trattato politico.

    Pensiero

    Hobbes è l’immediato continuatore di Bacone, del quale fu discepolo ed amico: egli estende l’applicazione del metodo induttivo-sperimentale di Bacone, dal campo scientifico a quello morale e politico.

    Filosofia e morale
    Nel trattato Della natura umana egli spinge alle estreme conseguenze la dottrina di Bacone, risolvendo l’empirismo in schietto materialismo.
    Non esistono che corpi materiali in continuo movimento; e tutti i fenomeni che si producono nei corpi si spiegano col movimento (meccanicismo).
    Le nostre conoscenze si riducono a sensazioni o a sensazioni trasformate: le sensazioni non sono che movimenti dei corpi, che si ripercuotono sui nostri sensi (sensismo, nominalismo).
    Se questi movimenti sono favorevoli alla vita, producono il piacere; se sfavorevoli, il dolore: il piacere è perciò il bene, il dolore è il male.
    La volontà non è altro che un movimento prodotto da una sensazione piacevole, e la libertà è il potere di eseguire questo movimento, cioè l’assenza di movimenti contrari (determinismo).
    Ne consegue che l’istinto fondamentale dell’uomo è quello del piacere, cioè l’egoismo; anche l’altruismo è un modo di manifestarsi dell’egoismo.

    Politica
    Nel trattato Leviathan, Hobbes si fa uno dei più importanti sostenitori dell’assolutismo.
    Contro il principio aristotelico-scolastico che l’uomo è per natura un animale socievole, egli afferma che l’uomo è per natura egoista, e quindi in guerra con tutti: “bellum omnium contra omnes“, “homo homini lupus“.
    Ma tale stato di natura è insostenibile, perchè è un caos dove manca la sicurezza della propria conservazione: donde la necessità di porvi fine per mezzo di un contratto sociale, con cui gli uomini convengono di rinunciare alla loro libertà e ad ogni loro diritto per assoggettarsi ad uno Stato, che, per essere efficace, deve essere assoluto.
    Nulla, neppure la morale e la religione, è sottratto all’arbitrio dello Stato: Hobbes vuole tutti i poteri in una mano sola, il temporale e lo spirituale; e rifiuta i parlamenti e il diritto del popolo alla rivoluzione (cfr. monarchia assoluta degli Stuart e la Chiesa di Stato anglicana).
    Perciò egli da il nome di Leviathan allo Stato assoluto e onnipotente, a somiglianza del mostro terribile, di cui parla il libro di Giobbe.

  • Epicuro

    Scuola epicurea

    1. Anche l’epicureismo ebbe origine in Grecia per opera di Epicuro di Samo (342-270 circa a.C.), il quale nel 306, soltanto due anni dopo la venuta di Zenone, venne in Atene, e, acquistati i celebri giardini, vi piantò la sua scuola.
    Molte furono le opere scritte da Epicuro, tra cui Massime capitali e un opera Sulla Natura, di cui conserviamo frammenti.

    2. In Roma l’epicureismo fu introdotto prima della metà del sec. II a.C.: suo rappresentante più famoso fu T. Lucrezio Caro (se. I a.C.), che scrisse il De rerum Natura.

    Pensero

    L’epicureismo, a differenza dello stoicismo, non sente il bisogno di un imponente sistema speculativo per giungere a determinare l’ideale del saggio, poichè mira più generalmente al fine, evitando le complicate teorie.
    Perciò, pur accettando la tripartizione stoica della filosofia in Logica, Fisica ed Etica, la logica serve di semplice introduzione alla fisica, e la fisica a sua volta di introduzione all’etica.

    Logica o canonica,
    così detta perchè suo scopo è quello di dare le regole della verità.

    1. Nel problema della conoscenza anche l’epicureismo è sensista: ogni conoscenza deriva dalla sensazione.
    Anche gli epicurei, come gli stoici, chiamano i concetti anticipazioni o prolessi, per le ragioni già viste.

    2. Dato negli epicurei, come presso gli stoici, il carattere sensistico, e quindi soggettivo e mutevole della conoscenza, è naturale che anche preso di essi dovesse avere una grande importanza la ricerca di un sicuro criterio della verità: tale criterio venne posto nell’evidenza (“energheia”) della sensazione.

    Fisica
    La fisica epicurea ripete sostanzialmente l’atomismo materialistico di Democrito.
    Essa si diparte da Democrito solo in un punto, cioè nell’ammettere la parenclisi, cioè una piccola deviazione (clinamen di lucrezio), nella caduta degli atomi.
    Democrito aveva detto che gli atomi cadono tutti all’ingiù in linea retta, e intanto si urtano dando origine alle doverse realtà.
    Epicuro osserva che ciò non è possibile, se ogni atomo cade in linea retta: occorre ammettere nell’atomo un potere di deviazione dalla linea retta: potere spontaneo, specie di libero arbitrio dell’atomo.
    In tal modo Epicuro viene a spezzare il caratteredi perfetta scientificità dell’atomismo meccanico di Democrito, ma rende possibile il salvataggio del libero arbitrio, essendo l’anima pur essa composta di atomi: libero arbitrio che egli riteneva necessario all’ideale di quell’uomo che era proprio dell’epoca, e che non erano riusciti a giustificare neppure gli stoici.

    Etica
    L’etica epicurea riprende, almeno in parte, l’edonismo della scuola cirenaica.

    1. L’uomo – secondo Epicuro – è infelice a causa di alcune false opinioni che la filosofia ha il compito di distruggere, come il timore degli dei e della morte.
    Orbene. Gli dei esistono e sono anch’essi fatti di atomi, ma se ne stanno negli intermundii, o spazi vuoti tra mondo e mondo (Epicuro ammette infiniti mondi), completamente calmi e felici, indifferenti alle cose di questo mondo: che se ad esse si interessassero, non potrebbero più essere calmi e falici, cioè non avrebbero più queste loro qualità essenziali.
    A riconoscere l’esistenza degli dei, Epicuro fu indotto dal fatto che la fede popolare deve spiegarsi, secondo la sua teoria della conoscenza, con esperienze precedenti.
    Quanto alla morte, non è anch’essa da temere, perchè – essendo l’anima composta da atomi, e quindi mortale – finchè siamo noi, non esiste, e quando essa sarà, noi non saremo più.
    Distrutti questi pregiudizi, la filosofia prepara l’anima al raggiungimento della felicità.

    2. La felicità consiste nell’atarassia, cioè in una soave calma dell’anima.
    L’atarassia si raggiunge col vivere secondo piacere, o (poichè al piacere tende la natura degli uomini e degli animali) col vivere secondo natura.
    L’etica di Epicuro richiama perciò l’etica di Aristippo; ma l’edonismo ingenuo di quest’ultimo si risolve in Epicuro in un edonismo critico.
    Mentre per Aristippo il piacere era un movimento (piacere passeggero, perchè immediato ed attuale); per Epicuro il piacere è una stasi, un riposo (piacere durevole, anche se futuro)donde la necessità di ricorrere alla ragione per una scelta opportuna.
    Piaceri durevoli sono innanzi tutto i piaceri spirituali, provenienti dalla cultura, dall’arte, dall’amicizia; e, in secondo luogo, i piaceri fisici e corporei.
    Di qui il quadrifarmaco della morale epicurea:
    – prendersi quei piaceri che non saranno seguiti da nessuna pena;
    – fuggire le pene che non portano con se alcun piacere;
    – fuggire i piaceri che possono privarci di un piacere più grande;
    – sopportare le pene che ci liberano da pene più grandi, o ci procurano un più grande piacere.

    3. In politica l’epicureo, come lo stoico, giunge all’indifferentismo.
    Il saggio epicureo è alieno dalla famiglia e dallo Stato (“vivi nascostamente”): dalla famiglia, per la difficoltà di incontrarsi bne con la moglie e per le brighe che procura l’educazione dei figli; dallo Stato per le agitazioni che porta con se la vita politica.
    Ma se alieno dalla famiglia e dallo Stato, l’epicureo non è indifferente di fronte l’umanità: egli cerca anzi l’amicizia degli uomini, amicizia che, sorta prima per l’utile reciproco, può finire nell’amore disinteressato dell’amico per l’amico.
    In tal modo l’epicureismo, come già lo stoicismo, si libera dell’eccessivo individualismo etico e riesce a raggiungere un principio di universalità.

  • Cartesio

    Vita e opere

    Renato Descartes (latinamente Cartesio) nacque a La Haye (nella Touraine), da nobile famiglia, nel 1596.
    Fu educato in una delle migliori scuole del tempo, il Collegio di La Fleche, tenuto dai gesuiti; ma, fatta eccezione per le materie matematiche, ne uscì con una profonda inclinazione verso lo scetticismo.
    Sfiduciato e scontento, si prpose di non cercar più altra scienza fuori di quella che si può trovare “dentro di noi stessie nel gran libro del mondo”, e, perciò, si arruolò volontario in diversi eserciti durante la guera dei Trent’anni.
    Nell’inverno del 1619, all’età di 24 anni, mentre stava in riposo nei quartieri d’inverno dell’esercito imperiale in Baviera, ebbe come “in un mistico rapimento” l’intuizione del metodo; ne fece immediata applicazione alle matematiche, e, sentendosi ancora impari a un’impresa tanto grande, decise di estenderne più tardi l’applicazione ad ogni scienza i genere e al sapere filosofico in ispecie.
    Intanto, munito di una “morale provvisoria”, intraprese una serie di viaggi per l’Europa (fu anche in Italia per sciogliere un voto al santuario di Loreto); e al ritorno, dopo aver partecipato all’assedio della fortezza ugonotta di La Rochelle, decise di consacrarsi tutto agli studi.
    Nel 1629, a 33 anni, si ritirò in Olanda, dove, lontano dalle distrazioni della società aristocratica francese e dalla sorveglianza del Sant’Uffizio (l’Olanda era terra protestante), poteva più liberamente attendere al proprio pensiero: qui rimase per circa vent’anni attendendo alla compilazione delle sue opere.
    Nel 1649 si recò a Stoccolma, cedendo agli insistenti inviti della regina Cristina di Svezia, desiderosa di ricevere da lui lezioni di filosofia; ma i rigori del clima gli riuscirono fatali.
    Colto da bronchite, un pò per non aver fiducia nella scienza medica del tempo, un pò perchè il medico di corte era tedesco, volle curarsi da se, e nel 1650 morì.
    La sua salma fu qualche anno più tardi trasportata a Parigi.

    Opere – Discorso sul metodo, pubblicato a Leyda nel 1637, come introduzione ad una serie di saggi scientifici; Meditationes de prima philosophia (1641); Principia philosophiae (1644); Les passions de l’ame (1649); una raccolta di Lettere, ect.

    Pensiero

    Cartesio è il padre del razionalismo moderno, come Bacone lo è dell’empirismo.

    Il metodo deduttivo o matematico
    Mentre Bacone, per risolvere il problema del metodo, si era fondato sull’esperienza e sul metodo induttivo, Cartesio si fonda sulla ragione e sul metodo deduttivo: deduzione non sillogistica (di cui tanto aveva abusato la scolastica e che gli appariva, come a Bacone, sostanzialemnte infeconda), ma matematica, consistente cioè nel dedurre da un principio per se stesso evidente, non mediante sillogismo, ma mediante il criterio dell’evidenza (o delle idee chiare e distinte), tutte le altre verità.
    Cfr. Discorso del metodo, parte II, in cui è esposto il metodo cartesiano con le sue quattro regole:

    • evidenza: non accettare come vera una cosa se non appare evidentemente come tale, cioè se non presenta le caratteristiche della chiarezza e della distinzione.
    • analisi: dividere ogni difficoltà in tante parti, quanto è possiibile e necessario, per meglio risolverla.
    • sintesi: procedere col pensiero ordinatamente dagli ogetti più semplici e facili a conoscersi a quelli più complessi.
    • riprova: fare rassegne così complete da essere sicuro di non omettere nulla.

    In tal modo Cartesio, identificando il metodo della matematica, che è scienza dell’astratto, col metodo della filosofia, che è anche scienza del concreto (poesia, religione, storia, ect.), diventa iniziatore di quella mentalità razionalista, astrattista ed antistorica, che prevarrà nel diciottesimo secolo in Francia e in Europa (Illuminismo, Rivoluzione) fino al Romanticismo.

    Il dubbio metodico e il “cogito ergo sum”
    Rintracciato il metodo, Cartesio si propone di trovare quel principio, per se stesso evidente, da cui derivare altre verità.
    Egli parte dal dubbio metodico, cioè dal dubbio inteso non come fine a se stesso (dubbio scettico), ma come mezzo per giungere alla verità, e – come tale – mirante ad abbattere una volta per sempre lo scetticismo.
    Bisogna dubitare di tutto: dei sensi (che ingannano), della ragione (che può sbagliare), dell’esistenza della materia (come dimostrato dal sogno, in cui crediamo che quello che vediamo e sentiamo sia reale), e perfino delle stesse verità matematiche: un demone maligno e potentissimo avrebbe potuto circondarci di inganni. (E’ tuttavia da rilevare che Cartesio limita il dubbio al solo dominio speculativo, “poichè per quanto riguarda la vita pratica, se noi volessimo, prima di agire, aver risolto tutti i nostri dubbi, bene spesso lasceremmo pasare l’occasione dell’azione”).
    Ma pur dubitando di tutto, non si può dubitare di pensare, cioè di esistere: cogito, ergo sum.
    E’ questo il famoso principio, di per se stesso evidente, da cui cartesio deduca – sempe mediante il metodo matematico o dell’evidenza – tutte le altre verità.
    In tal modo Cartesio, identificando l’essere col pensare, diventa il precursore di quel soggettivismo gnoseologico, per cui la verità non è più in una realtà (o essere) opposta e presupposta al pensiero, ma nella realtà o essere del pensiero medesimo (identità di essere e di pensare).

    Psicologia, teologia, cosmologia
    Dal principio del cogito, ergo sum, Cartesio deduce, come si è detto, tutte le altre verità:

    a) la psicologia, attorno a cui vengono fatte tre principali affermazioni:

    • l’anima è una realtà insopprimibile, cioè una sostanza.
    • l’anima, in quanto pensiero, non occupa spazio alcuno ed è quindi distinta dal corpo.
    • l’anima è immortale.

    b) la teologia, cioè l’esistenza di Dio, di cui vengono date due principali dimostrazioni:

    • nel mio pensiero vi è l’idea di un essere perfettissimo, il quale, per essere veramente tale, implica l’esistenza, non soltanto possibile, ma necessaria ed eterna. E’ questa una prova analoga a quella di S. Anselmo, e come la prova di S. Anselmo, dotata del medesimo difetto, che consiste nel passare dall’ordine logico all’ordine ontologico, dal pensiero all’essere.
    • nel mio pensiero vi è l’idea di un essere perfettissim, che deve avere una causa adeguata: questa causa non posso essere io, essere imperfetto (tanto è vero che vado soggetto al dubbio), ma un essere perfettissimo, Dio.

    c) la cosmologia, cioè l’esistenza della materia e dei corpi.
    Dio, in quanto essere perfettissimo, non può ingannarci: dunque quel mondo, di cui in principio dubitavamo, esiste realmente, non è mera illusione.
    Riguardo alle cose materiali Cartesio ammette poi la distinzione tra qualità primarie (od oggettive), che noi concepiamo in modo chiaro e distinto (estensione, moto, ect.) e qualità secondarie (o soggettive), che noi concepiamo in modo oscuro e confuso (colori, odori, suoni, ect.), passando dal realismo ingenuo al cosiddetto realismo critico (cfr. Galileo, Lockr, ect.).

    Il duplice dualismo e le sue conseguenze
    1. Cartesio ha fin qui dimostrato l’esistenza, al di là dell’io, di Dio e del mondo; ma ciò lo porta ad affermare un duplice dualismo sul terreno delle sostanze:

    • sostanza infinita (Dio) e sostanza finita (mondo, creature).

    Sostanza infinita e sostanza finita, o, che è lo stesso, Dio e il mondo, sono due sostanze nel senso tradizionale della parola (res quae ita exsistit, ut nulla alia re indigeat ad exsistendum), ma mentre la prima è dotata di un’autosufficienza assoluta, la seconda è dotata di un’autosufficienza relativa, poichè per esistere ha bisogno del soccorso di Dio.

    • res cogitans (spirito) e res extensa (materia).

    Res cogitans (in quanto attributo essenziale dello spirito è il pensiero) e res extensa (in quanto attributo essenziale della materia è l’estensione) sono due sostanze irriducibili, due mondi separati, chiusi e impenetrabili l’uno all’altro.
    Essi si trovano tuttavia uniti nell’uomo, che è a un tempo anima e corpo: unione che ha luogo attraverso la cosiddetta glandola pineale, l’unico elemento spaiato del cervello, in cui lo spirito prenderebbe contatto col corpo.

    2. Il dualismo tra res cogitans e res extensa porta a sua volta a due notevoli conseguenze:

    • in gnoseologia all’innatismo (cfr. Platone).

    Se la res cogitans è separata dalla res extensa, le idee non possono derivare dall’esperienza sensibili, ma sono innate.
    Più propriamente si possono distinguere tre categorie di idee:
    idee innate, che troviamo in no;
    idee facticiae, che produciamo con la nostra attività mentale;
    idee adventiciae, che nè troviamo nè produciamo, e che quindi devono derivare dai sensi.

    • in cosmologia al meccanicismo.

    Se la res cogitans è pensiero e attività, la res extensa è estensione ed inerzia, cioè sottoposta alle leggi meccaniche del movimento.
    Con le leggi del movimento Cartesio tenta di spiegare non solo i fenomeni fisici, ma anche quelli della vita vegetale e animale: piante ed animali non sono che automi più o meno complicati; e l’uomo stesso è una macchina, che – a differenza degli altri animali – è solo dotata di anima razionale.
    Risale anche a Cartesio una spiegazione meccanica dell’origine dell’universo, che precorre le ipotesi evoluzionistiche di Kant e di Laplace.

  • Giordano Bruno

    Vita e opere

    Giordano Bruno (1548-1600), nato a Nola, fu il più grande filosofo del Rinascimento, che, mentre assomma e compendia il lavoro dei predecessori (Talesio, Copernico, Cusano, Lullo, ect., oltre vaste tracce di neoplatonismo, stoicismo, eraclitismo), contiene i motivi principali della filosofia moderna (cfr. Spinoza, Shelling, Hegel, ect.).
    Entrò assai giovane nell’Ordine domenicano, ma ne uscì presto per l’incompatibilità delle sue dottrine.
    Andò peregrinando per la Svizzera, la Francia, l’Inghilterra, la Germania, finchè fu arrestato a Venezia dall’Inquisizione, e dopo qualche anno di prigione condannato al rogo.
    Scrisse De la Causa Principio et uno, l’infinito Universo e Mondi, Degli eroici furori, De Monade, De immenso, La Cena delle Ceneri, ect.

    Pensiero

    Bruno supera il modesto e cauto naturalismo di Telesio, elaborando un organico e compiuto sistema metafisico.
    1. Il centro della sua dottrina è l’infinità della natura, contrapposta alla finalità propugnata da Aristotele e dalla Scolastica.
    A questa idea egli giunse sia attraverso i dati che gli venivano offerti dal progresso della scienza, specialmente dal sistema copernicano, che già aveva spostato e allargato lo sguardo dell’uomo dalla terra al sole (ma il Bruno proede oltre Copernico, col negare la finitàdel mondo e l’immobilità delle stelle fisse, sia con speculazioni proprie, miranti a dimostrare che all’infinita Causa (Dio) deve corrispondere un effetto egualmente infinito (gli “infiniti mondi”).
    Se l’universo è infinito, cessa per questo fatto dall’avere un solo centro, ma come centro può esssere considerato ogni suo punto: nè la terra, nè il sole possono essere considerati il centro del mondo.
    La speculazione bruniana è tutta pervasa da questo sentimento dell’infinito, che, dopo la navigazione di Colombo, che aveva osato infrangere le Colonne d’Ercole, sembra interpretare fedelmente la nuova mentalità del Rinascimento.

    2. La dottrina dell’infinità della natura porta naturalmente Bruno al più rigoroso panteismo.
    Egli distingue nella natura una materia (Natura Naturata) e una forma o Anima del Mondo o unità o Monade assoluta e perfetta (Natura Naturans): la prima non può stare senza la seconda e viceversa, e non è che l’apparenza molteplice, mutevole, relativa, imperfetta della seconda (cfr. neoplatonismo).
    Tutto nel mondo è teofania, rivelazione di Dio: la Natura naturata ci conduce continuamente a una Natura naturante, che è la realtà in sommo grado; la molteplicità delle cose ad una Unità immobile ed eterna.
    In tale Unità tutte le opposizioni coincidono (cfr. Cusano), ed anche quello che noi riteniamo sia male è “nell’occhio dell’eternitade” bene.
    Bruno elimina in tal modo il dualismo aristotelico-scolastico di natura e di Dio, divinizzando la Natura e dichiarandola un complemento necessario di Dio, senza cui Dio stesso non sarebbe.

    3. La morale bruniana, che si trova specialmente nell’opera Degli eroici furori, concorda con questo naturalismo panteistico.
    Essa pone, al posto della quieta estasi medievale, l’eroico furore, cioè l’esigenza di un continuo autosuperamento dell’uomo verso il raggiungimento di fini sempre più elevati, per quanto sempre irraggiungibili.
    Anche Bruno, come Telesio, adotta il principio della doppia verità.
    Egli considera la fede come necessaria “per l’instituzione di rozzi popoli che denno esser governati”, mentre la verità di ragione spetta solo agli uomini che possono intendere e ai quali spetta di governare sè e gli altri: perciò i filosofi mai si sono opposti alla religione, anzi l’hanno favorita.
    Partendo da questo principio, egli si dichiara pronto, davanti all’Inquisizione, a ritirare le sue idee e ad ammettere i dogmi della Chiesa cattolica, come già a Ginevra quelli del calvinismo.

  • Aristotele

    Vita e opere

    Nacque a Stagira (Tracia) nel 384 a.C. Da Nicomaco, medico di Aminta, re di Macedonia.

    Primo soggiorno ateniese (Platone) – A 18 anni andò ad Atene, ove entrò in relazione con Platone, alla cui scuola appartenne per circa venti anni, cioè fino alla morte del vecchio maestro (347 a.C.).

    Alla corte di Macedonia – Nel 343 fu chiamato da Filippo, re di macedonia, alla sua corte, come precettore del figlio Alessandro: e grande fu l’influenza esercitata da Aristotele sul futuro conquistatore di imperi; grandissimi gli aiuti che Aristotele si ebbe per i suoi studi e per la creazione di una ricca bibblioteca che egli, primo fra i Greci, potè radunare.
    La sua amichevole relazione con Alessandro fu troncata quando Callistene, nipote di Aristotele e fautore del partito greco, cadde in disgrazia dell’imperatore.

    Secondo soggiorno ateniese – Tornato ad Atene verso il 335, fondò una scuola presso il ginnasio, detta il Liceo (per la vicinanza del tempio di Apollo Licio); e poichè insegnava passegiando nei giardini, che colà servivano al pubblico passeggio, la scuola prese il nome di paripatetica.
    Essa coincide coi dodici anni (335-323), nei quali il grande Alessandro espandeva per il mondo con la forza della spada la civiltà e la cultura ellenica.

    Esilio di Calcide
    – Morto Alessandro, Aristotele, come tanti altri ateniesi che erano stati ligi al Macedone, fu preso di mira, e un certo Demofilo portò contro di lui la solità accusa di empietà. Ma il filosofo disse di non voler dare occasione agli ateniesi di rendersi un’altra volta colpevoli verso la filosofia, e, prevenendo il bando, si recò in volontario esilio a Calcide, nell’Eubea.
    Qui morì l’anno dopo, nell’estate del 322, di una malattia di stomaco, lasciando al discepolo Teofrasto la direzione della scuola e la ricchissima bibblioteca.

    Opere – Le opere di Aristotele vertono su un’infinità di argomenti, ma delle 146 opere a lui attribuite, solo 47, più o meno complete, sono giunte sino a noi.
    Importante per la storia dell’aristotelismo la storia di questi libri.
    Secondo un raconto di Strabone, ripetuto da Plutarco, i libri di Aristotele, dopo la morte di Teofrasto, passarono a Neleo da Scepsi, i cui eredi li tennero nascosti per circa un secolo in un sotterraneo.
    All’inizio del I sec. a.C. essi sarebbero stati scoperti da Apellicone di Teio, e portati ad Atene; e di qui, per ordine di Silla (86 a.C.), a Roma, ove trovarono un riordinatore in Andronico di Rodi.
    Secondo tale racconto, dunque, i paripatetici posteriori a Teocrasto avrebbero ignorato i libri di Aristotele; e quindi quelli che si servirono di essi dopo un secolo e più, così come furono trovati, guasti dall’umidità, non potevano neppure essere certi se l’ordinamento di Andronico corrispondesse al pensiero originale dell’autore.
    Ciò spiega il sorgere della questione aristotelica presso i moderni allo scopo di assecondare la genuinità dei libri aristotelici e di vagliare la verità del racconto di Strabone.
    Zeller, dopo erudite ricerche, giunse alla conclusione che è verosimile tutta la parte del racconto che si riferisce al destino dei libri ereditati da Neleo; ma che è inverosimile che questi libri fossero i soli esemplari esistenti delle opere aristoteliche, dal momento che essi si trovano citati nel tempo che corre tra il sotterramento fatto dagli eredi di Neleo e il disseppellimento per opera di Apellicone.
    Le opere di Aristotele erano divise in essoteriche, o destinate l pubblico; e in esoteriche o acroamatiche, destinate ai propri discepoli.
    Le prime appartengono in genere alla prima dimora in Atene, quando Aristotele era discepolo di Platone, e sono molto affini alle opere del maestro (forma dialogica, ect.); ma nessuna di esse è pervenuta sino a noi (fatta eccezione di qualche frammento dell’Eudemo, intitolato a nome di un amico e in cui si propugnava pure l’immortalità dell’anima).
    Le seconde, di gran lunga più importanti, si possono raccogliere in cinque gruppi: logica, metafisica, fisica, etica, retorica.

    Opere di logica
    Furono raccolte sotto il nome di Organon (titolo che non appartiene ad Aristotele, ma ai più tardi commentatori Bizantini), poichè per il loro carattere, si possono considerare come strumento della ricerca scientifica e introduzione a tutto il sistema.
    L’Organonsi compone di conque parti:

    • Categorie, sui concetti universali. Appartengono nella parte fondamentale ad Aristotele, ma furono accresciute, da mano posteriore, dei cosiddetti Postpredicamenti.
    • Interpretazione, sul giudizio.
    • Analitici primi (2 libri), sul sillogismo; e Analitici secondi (2 libri), sull’induzione, la definizione e i primi principi.
    • Topici (8 libri), sui sillogismi dialettici e verisimili.
    • Elenchi sofistici, ove sono esposte e confutate le conclusioni capziose usat dai sofisti.

    Opere di metafisica
    Furono anch’esse raccolte sotto il nome di Metafisica, titolo che non appartiene ad Aristotele (il quale soleva chiamarla filosofia prima), ma ad Andronico di Rodi, che nella sua raccolta dispose i libri relativi “dopo le opere fisiche” (“metà tà physikà”).
    La metafisica si compone di 14 libri: essa tratta dei principi supremi del reale, cioè ciò che è primo per natura, e che viene quindi, per noi, dopo le cose naturali.

    Opere di fisica
    Comprendono la maggior parte degli scritti di Aristotele, il quale molto si applicò alle ricerche empiriche e sperimentali, e si può considerare, tra l’altro, il padre della zoologia.
    Le principali opere fisiche sono:

    • Fisica (8 libri), in cui tratta dei principi naturali, del moto, ect.
    • Del Cielo (4 libri)
    • Della generazione e corruzione (degli esseri)
    • Meteorologia (4 libri).
    • Storia degli animali (10 libri), Delle parti degli animali, Della generazione degli animali, grandi trattati di zoologia, che contengono una vasta e ben fondata classificazione, degna di essere paragonata a quella di Linneo (sec. XVIII).
    • Dell’anima (3 libri), la più importante opera di fisica, prima grande trattazione di psicologia.

    Ai libri Dell’anima si rannodano quelle piccole dissertazioni, parte fisiologiche, parte psicologiche, che sono comprese sotto il titolo collettivo di Parva Naturalia, e che trattano del senso, della memoria, del sonno, della lunghezza e brevità della vita, della vita e della morte, ect.
    Alle opere fisiche invece si rannodano, quasi come appendice, trattatelli speciali di argomenti naturali vari, raccolti col titolo di Problemi, ma in gran parte di composizione postaristotelica, poichè Aristotele cita in 7 o 8 i Problemi, ma nessuna citazione si riscontra con quelli che noi abbiamo.

    Opere di etica
    Sono tre, che svolgono i medesimi motivi:

    • Etica Nicomachea (10 libri), il cui titolo deriva da Nicomaco, figlio di Aristotele, che forse la pubblicò. Essa rappresenta la redazione più antica, ed è sicuramente opera genuina di Aristotele.
    • Etica Eudemia (7 libri), che ha tre libri in comune con l’Etica Nicomachea, e fu forse redatta da Eudemo sopra i libri di Aristotele.
    • Magna Moralia (2 libri), che si possono considerare un riassunto delle due etiche precedenti, specialmente di quella di Eudemo, e che è opera di discepoli.

    Opere di politica

    • Politica (8 libri).
    • Costituzioni politiche, grande raccolta di più che cento costituzioni greche e barbare. Ci rimane soltanto la costituzione di Atene, scoperta nel 1890 in un papiro egiziano.
    • Economici, di cui non è forse genuino il secondo libro, attibuito a Teofrasto.

    Opere di retorica

    • Retorica (3 libri)
    • Poetica, largo frammento di una più ampia opera in 2 libri.

    Datazione delle opere
    L’ordine cronologico delle opere di Aristotele non è così essenziale alla comprensione del suo pensiero come nel caso di Platone, perchè pare che Aristotele abbia elaborato il suo pensiero tutto di getto, in modo che le singole parti risultino intimamente collegate.
    Secondo Zeller, primi ad ssere composti furono gli scritti logici, poi i fisici, poi l’Etica e la Politica, che presuppongono la trattazione dell’Anima; infine la Poetica, la Retorica, ed ultima la Metafisica, al quale sarebbe rimasta incompiuta e dedita solo dopo la morte di Aristotele.

    Pensiero

    L’ordine con cui si può distribuire la dottrina aristotelica è il seguente: logica, metafisica, fisica, morale, poetica, retorica.
    La Metafisica è in realtà la parte più importante, poichè senza di essa sarebbe impossibile intendere le altre parti della filosofia aristotelica: ma alla metafisica è indispensabile propedeutica la logica, per cui è bene far da essa aprire la serie delle dottrine di Aristotele.

    Logica
    Aristotele è il sistematore della logica induttiva, già intravista da Socrate e da Platone, e il padre della logica deduttiva, o sillogistica, o ragionamento.
    Aristotele ritiene infatti che il pensare si compie mediante due essenziali processi: quello dell’induzione, che procede dal particolare all’universale; e quello della deduzione, che consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione).

    INDUZIONE o EPAGOGHE’
    1. L’induzione (o epagoghe), di cui Aristotele parla nei Secondi Analitici, consiste nel procedere per via astrattiva dal particolare all’universale (o concetto), cioè nell’astrare dal particolare le note contingenti e individuali e cogliere quelle comuni ed universali.
    In tal modo Aristotele si oppone all’innatismo platonico, e diventa un fervido assertore dell’empirismo: le nostre conoscenze derivano dall’esperienza mediante l’attività di astrazione esercitata su di essa dall’intelletto.

    2. Il concetto coglie l’essenza delle cose, ma è semplicemente significante, in quanto ancor fuori da ogni rapporto di vero e di falso, della vera affermazione e della vera negazione.
    Un nesso di concetti costituisce il giudizio, sia sotto la forma di definizione o giudizio universale (es. l’uomo è mortale); sia sotto quello di proposizione o giudizio del particolare (ed. Socrate è mortale).
    E’ proprio del giudizio l’affermare o il negare, cioè stabilire dei rapporti di vero o di falso: la verità non è infatti che un perfetto accordo tra il nesso dei concetti e il nesso delle cose (cfr. adaequatio rei et intellectus di S. Tommaso).

    3. Tra i concetti ve ne sono alcuni che possiamo considerare come i predicati più universali del reale, forme supreme dell’intelletto: essi sono le categorie, così denominate perchè mediante esse noi “accusiamo” (cioè predichiamo, qualifichiamo) gli oggetti tutti dell’esperienza.
    Le categorie sono dieci: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il luogo o spazio, il quando o tempo, il giacere o posizione, l’avere o inerenza, il fare o attività, il patire o passività.
    Le categorie, di cui parla Aristotele, si possono considerare sotto un duplice aspetto: logico o soggettivo; ontologico o oggettivo, metafisico.
    Esse infatti, in quanto predicati universali del reale, corrispondono alle forme universali del reale stesso: sono categorie del pensiero e categorie del reale, dell’essere.

    4. Aristotele studiò a fondo i concetti nei loro rapporti di specie e di genere, e nella loro estensione e comprensione.
    Quanto alla specie e al genere, i concetti si possono disporre secondo una gerarchia che in basso ha l’individuo e in alto le categorie, occupando in tale gerarchia il grado risultante dal genere prossimo e dalla differenza specifica.
    Definire un concetto – dice Aristotele – equivale a indicare del medesimo il genere prossimo e la differenza specifica. Così ad es., nella definizione del concetto uomo, “uomo è un animale ragionevole”, animale indica il genere prossimo, cioè il genere a cui il concetto appartiene; e ragionevole indica la differenza specifica, perchè distingue l’uomo dalle altre specie di animali. Genere è quindi il concetto più generale, in cui è incluso il concetto da definire. Specie è il concetto da definire, incluso nel genere.
    Quato all’estensione e alla comprensione, man mano che si procede dalle specie ai generi, si vanno formando concetti sempre più univrsali per l’estensione, ma sempre più poveri di comprensione, cioè dotati di una minor quantità di note essenziali: estensione e comprensione stanno in ragione inversa.

    LOGICA DEDUTTIVA
    1. La logica deduttiva di cui Aristotele parla specialmente negli Analitici Primi, presuppone la logica induttiva.
    L’induzione infatti, elaborando i concetti ed i giudizi, prepara la premessa al sillogismo o deduzione o ragionamento.

    2. il sillogismo consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione): esso è definito da Aristotele quel discorso “nel quale, stabilite alcune cose (verità), un’altra ne deriva necessariamente, per il fatto che quelle sono tali verità”.
    Il sillogismo si compone di una premessa maggiore (l’uomo è mortale) e di una premessa minore (Socrate è uomo), aventi in comune un termine medio (uomo) e di una conclusione (Socrate è mortale).
    Le figure del sillogismo sono quattro:

    1. sub-prae, in cui il termine medio fa da soggetto (subiectum) nella premessa maggiore, e da predicato (praedicatum) nella minore.
    2. sub-sub, in cui il termine medio fa da soggetto sia nella premessa maggiore che nella minore.
    3. prae-prae, in cui il termine medio fa da predicato sia nella premessa maggiore che nella minore.
    4. prae-sub, in cui il termine medio fa da predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella minore.

    3. Il sillogismo nella sua concatenazione e sviluppo è dominato dai cosiddetti assiomi, o principi supremi di ragione, che possono addirittura definirsi leggi del pensiero. Essi sono anapodittici, cioè indimostrabili perchè evidenti di per se stessi.
    Tali principi sono:

    • quello di identità, per cui si afferma che ciò che è, è; e ciò che non è, non è (A è A, Non A è Non A).
    • quello di contraddizione, che Aristotele stesso ha enunciato così: “è impossibile pensare che ad una stessa cosa convenga e non convenga lo stesso carattere (A non è Non A).
    • quello del terzo escluso, per il quale si afferma che fra i contraddittori non vi può essere alcun giudizio intermedio.

    Aristotele dona la massima importanza al principio di contraddizione, che egli dice essere principio anche degli altri tutti, sia per sè, come principio veramente essenziale del pensiero, sia per l’importanza che esso ha contro la concezione eraclitea, che affermava l’essere e insieme il non-essere delle cose nel perenne fluire del reale.

    4. Il sillogismo, di cui sonora si è parlato, è il sillogismo dimostrativo o apodittico, che, partendo da premesse certe e reali, conduce alla scienza.
    Accanto ad esso vi è il sillogismo dialettico (di cui Aristotele parla nei Topici), in cui le premesse sono soltanto verisimili, e che conduce all’opinione: e il sillogismo sofistico (di cui Aristotele parla negli Elenchi Sofistici), in cui le premesse sono semplicemente presunte per verisimili.

    5. Con questo complesso imponente di indagini Aristotele fonda la scienza del pensiero.
    Essa sarà modificata e integrata in questa e in quella parte dagli Stoici a Bacone a Galileo a Leibniz a Kant; con Hegel e coi suoi successori sorgeranno nuovi sviluppi e nuove logiche; ma in sostanza la logica aristotelica restò per circa 24 secoli a sorreggere il nostro pensiero.

    Metafisica
    La metafisica, o “filosofia prima“, è la scienza dell’Essere in quanto tale, cioè prescindendo dalle sue qualità sensibili.

    1. CRITICA DELLA DOTTRINA PLATONICA DELLE IDEE
    Aristotele inizia il proprio sistema con una profonda e serrata critica alla dottrina platonica delle Idee.
    Platone aveva detto che le Idee sono fuori dalle cose, Aristotele oppone a tale trascendenza tre obbiezioni fondamentali:

    • se le idee sono le essenze individuali, in che modo l’essenza può stare fuori di ciò di cui è l’essenza?
    • dato l’individuo sensibile da una parte e l’Idea dall’altra, ci vorrà un tipo, un’idea comune ad entrambi: ne nascerà una terza cosa. Questo argomento è detto del terzo uomo, perchè dalla dottrina platonica si inserisce la necessità di un terzo uomo, che sta sull’uomo individuo e sull’uomo-Idea, comune ad entrambi.
    • esiste l’universale, ma non fuori dell’individuale, bensì dentro di esso. Se avesse un’esistenza separata, sarebbe un duplicato inutile: l’idea fuori dalla cosa non spiega la cosa.

    2. TEORIA DELLA SOSTANZA
    La teoria della sostanza costituisce il centro di tutta la dottrina aristotelica.
    Sostanza è ciò che è, l’individuo. Es. Quest’uomo, questo tavolo.

    • La sostanza è sintesi (“sinolo”) di “materia” e di “forma”: la forma non è che l’Idea di Platone, strappata dal mondo iperuranio; resa da statica, dinamica; e immessa nella materia per organizzarla, per ordinarla. La forma è dunque l’attività organizzatrice della materia. Aristotele distingue la sostanza in sostanza prima , l’individuo; e sostanza seconda, la forma o essenza dell’individuo medesimo.
    • Ma la forma, in quanto organizza la materia, la muove, cioè fa passare dalla “potenza” all’“atto”, o, in altre parole, da uno stato di imperfezione e di indeterminazione a uno stato di sempre maggiore perfezione e determinazione. Es. da statua in potenza del marmo, a statua in atto o attuazione del medesimo. Potenza e atto sono dunque i due termini del moto, del divenire: potenza è la sostanza in quanto può assumere, attraverso il moto, una determinata forma; atto è la sostanza che ha assunto, sempre attraverso il moto, questa determinata forma. Aristotele distingue l’atto dall’entelechia: l’atto è tale in quanto realee concreta attività; l’entelechia è l’atto in quanto stato di perfezione a cui la sostanza aspira: mai la sostanza riesce ad attuare perfettamente la propria forma, eccetto Dio.
    • Ma per passare dalla potenza all’atto occorre uno stimolo, una causa efficiente, la quale operi in vista di un fine, di una causa finale. Lo sviluppo di una sostanza presuppone quindi 4 cause:
    1. materiale;
    2. formale;
    3. efficiente o motrice;
    4. finale.

    Es. nella sostanza statua possiamo distinguere:

    1. causa materiale: marmo;
    2. causa formale: idea della statua;
    3. causa efficiente: scultore;
    4. causa finale: idea della statua, ma in quanto si pone come fine dello scultore.

    Le ultime due cause si risolvono nella causa formale quando si tratta si sostanze naturali (le quali hanno in sè stesse la causa e il fine del moto); ma rimangono distinte quando si tratta di sostanze artificiali (le quali hanno fuori di sè la causa del moto e il fine), come è appunto il caso di una statua di marmo.

    3. TEOLOGIA
    La teoria sopra accennata porta di conseguenza ad ammettere l’esistenza di un Dio: è anzi ad Aristotele che si deve far risalire la prima dimostrazione filosofica dell’esistenza di Dio.
    Infatti il moto delle cose implica l’esistenza di un motore che giustifichi il moto medesimo, cioè il Motore immobile, Dio.
    In quanto motore immobile:

    • Dio non è causa efficiente, creativa del mondo, ma puramente finale, teleologica. Egli, come causa finale del mondo, attrae le cose, che si muovono verso di lui immobile.
    • Dio non può passare dalla potenza all’atto, ma è atto puro, pura forma, puro spirito, o – come si esprime Aristotele – “pensiero dei pensieri”.

    Egli, “come pensiero dei pensieri”, è assolutamente indifferente al mondo, puro pensiero teoretico, pura autocoscienza, privo di volontà e di personalità.

    Fisica
    La Fisica è in Aristotele non meno importante della Metafisica, poichè, a differenza di Platone (che, nonostante il disprezzo per i poeti, era dominato dalla fantasia), egli sapeva unire alla potenza sinteica del filosofo una grande attitudine all’analisi e all’osservazione scientifica.

    1. NATURA
    La natura è l’insieme delle sostanze che hanno in se stesse il principio del proprio moto, a differenza delle sostanze a cui il moto vien da fuori, per cui essa comprende non solo i corpi propriamente detti, ma anche l’uomo e l’anima umana.
    Anche Aristotele, come Platone, possiede un concetto finalistico della natura: questa non è per lui inerte, passiva, meccanica, ma intimamente viva, organica, animata.
    Tuttavia, a differenza di Platone, che aveva personificato questa finalità in un’Anima del mondo, Aristotele parla di una finalità inconscia ed intuitiva (panpsichismo?), e che chiama la noatura demoniaca, ma non divina.
    La natura, sospinta dalla sua immanente finalità, tende a svilupparsi in forme sempre più alte e perfette, determinando una gerarchia finalistica di sostanze, che va da quelle inorganiche a quelle organiche e all’anima umana, e che ha al proprio vertice il motore immobile, Dio.

    2. LA MATERIA
    La materia, come già per Platone, è principio oscuro ed amorfo, causa di imperfezione e di male.
    Essa resiste spesso all’attività e alla forma, ed è perciò causa dei caratteri accidentali delle sostanze.
    La materia, in quanto potenza che tende recarsi in atto, si muove: donde l’importanza che ha il moto nella fisica aristotelica.

    3. RELIGIONE CELESTE E RELIGIONE TERRENA
    L’universo aristotelico si divide in due regioni: regione celeste, dalla luna in su; e regione terrena, o sublunare.
    La regione celeste è perfetta e incorruttibile: sua materia è l’etere, detto anche quintessenza; il suo moto è circolare, cioè perfetto.
    La regione terrena è imperfetta e corruttibile: sua materia sono i quattro elementi tradizionali della filosofia greca, terra, acqua, aria, fuoco; il suo moto è rettilineo, cioè imperfetto.
    Da queste premesse si sviluppa l’astronomia aristotelica, che è un sistema geocentrico delle sfere omocentriche ideato dall’astronomo Eudosso, e che permetteva di collocare esteriormente il principio motore dell’universo, in opposizione ai pitagorici che lo collocavano al centro.
    La Terra, di forma sferica, sta immobile al centro dell’universo, e attorno ad essa si muovono le sfere dei pianeti e quella delle stelle fisse o firmamento: quest’ultimo è mosso da Dio, Motore immobile, e trasmette a sua volta il movimento alle sfere sottostanti.
    Perciò l’universo aristotelico è limitato nella sua forma sferica, cinto dal vuoto infinito; e in esso le posizioni (alto e basso) hanno un significato assoluto.

    4. L’ANIMA
    L’anima, che nela gerarchia degli esseri fisici occupa il posto supremo, si può definire la forma (“entelechia”) di un corpo organico, cioè di un corpo che è come organo o strumento di cui l’anima si serve per recare in atto il suo fine.
    Le piante possiedono solo l’anima vegetativa, che presiede alle funzioni di nutrizione e della riproduzione; gli animali, oltre la vegetativa, possiedono l’anima sensitiva, che presiede al moto e alla sensibilità; l’uomo, oltre alle sopracitate, possiede l’anima razionale.
    Aristotele, a differenza di Platone, non ammette nell’uomo anome separate, ma anime distinte nell’unità di una medesima anima: si tratta di funzioni diversedi una medesima anima.
    L’anima vegetativa presiede – si è detto – alle funzioni della nutrizione e della riproduzione.
    L’anima sensitiva presiede al moto e alla sensibilità; ma i sensi sono passivi, cioè hanno bisogno, per agire, di uno stimolo, di un oggetto sensibile in atto.
    Accanto ai sensi esterni ve ne sono altri interni, come il senso comune (o coscienza sensibile), che unifica in certo modo i sensi esterni; la fantasia, che riceve le immagini; e la memoria, che conserva le immagini, riconoscendo in esse una percezione già avuta.
    L’anima intellettiva presiede alla vera conoscenza, cogliendo le essenze o concetti delle cose.
    Essa si distingue in intelletto passivo (“nous patheticos”) e in intelletto attivo (“nous poieticos”).
    L’intelletto passivo (cosiddetto perchè ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in quanto può intendere l’universale contenuto nel particolare sensibile; ma, in quanto semplice possibilità d’intendere, non può passare all’atto se non sotto lo stimolo di un oggetto intelligibile in atto.
    L’intelletto attivo (cosidetto perchè non ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in wuanto rende intellegibile (per astrazione) l’universale contenuto nel particolare sensibile, e, resolo in tal modo intellegibile, lo presenta all’intelletto passivo, che, sotto tale stimolo, passa all’azione.
    Esso è come la luce che agisce sui colori, i quali nell’oscurità esistono soltanto in potenza, facendoli passare dalla potenza all’atto.
    Aristotele considera l’intelletto passivo come parte essenziale dell’anima umana, mentre definisce l’intelletto attivo come “separato” e “di natura divina”: esso proviene dall’alto entrando misteriosamente “per le porte dell’anima”, e ad esso soltanto sembra attribuisca l’immortalità.
    In realtà l’anima, in quanto forma di corpo organico, dovrebbe essere inseparabile dal corpo e, come questo, mortale. Di qui la varietà delle interpretazioni e dei commenti, che si contesero il pensiero aristotelico fino al Rinascimento, specie per quanto riguarda l’intelletto attivo nei suoi rapporti con l’intelletto passivo e col corpo.

    Etica
    1. Aristotele, a differenza di Platone e coerentemente alla critica mossa alla teoria delle Idee, non ammette che il fine delle cose il il Bene universale, che per la sua astrattezza non può essere realmente efficace, ma il bene particolare di ogni singola cosa.
    Tale bene particolare consiste a sua volta nell’attuazione dell’essenza propria della cosa medesima, come il fiore per la pianta, la bellezza per la gioventu, ect.

    2. La felicità dell’uomo (“eudemonia”) consiste perciò nell’attuazione del bene particolare dell’uomo medesimo, che è la ragione, cioè nel vivere secondo ragione.

    3. La virtù si identifica con la felicità, cioè consiste anch’essa nel vivere secondo ragione.
    Aristotele distingue due virtù:

    • virtù etiche, o virtù della parte affettiva dell’anima. Esse perfezionano la parte affettiva dell’anima, sottoponendola alla ragione; e poichè la ragione aspira a portare negli affetti dell’anima la medietà, il giusto mezzo fra gli estremi, la virtù etica consiste, più particolarmente, nel sottoporre gli affetti alla ragione in modo da importare in essi la medietà, il giusto mezzo, ed evitare ogni eccesso. Giusto mezzo, che non è la rigida media aritmetica, “perchè – osserva Aristotele – se, per uno, spendere dieci è troppo e spedere due è poco, ciò non vuol dire che il giusto mezzo sia sei”. Il giusto mezzo è, in altre parole, relativo agli individui: non potendo, ad es., la temperanza (virtù etica) richiedere la stessa quantità di cibo per un gigante e per un bambino. Le virtù etiche si acquistano con l’abitudine, o – in altre parole – con una volontà ben educata: concetto notevole, con cui Aristotele, opponendosi all’intellettualismo etico di Socrate e di Platone, afferma per la prima volta, nella storia del pensiero, che non basta la conoscenza per conseguire la virtù, ma occorre un altro importante elemento: la volontà. Virtù etiche sono, ad es., la fortezza, che è il giusto mezzo tra il timore e la fiducia; la temperanza, che è il giusto mezzo tra i piaceri; la liberalità, che è il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità; la giustizia, virtù etica suprema, ordine della società.
    • virtù dianoetiche, o virtù della parte razionale dell’anima. Esse perfezionano la parte razionale dell’anima, rendendola atta a ben conoscere ciò che si deve operare. Anche le virtù dianoetiche si acquistano con l’abitudine. Tali, ad es., la prudenza, intenta a discernere quelli che per l’uomo sono beni morali; e soprattutto la sapienza, virtù dianoetica suprema, perchè attività razionale pura, la più prossima al pensiero divino: essa è contemplazione della suprema verità, vita perfetta, “theoria”. In tal modo l’etica di Aristotele diventa l’espressione più compiuta dell’etica greca, e, con il più alto posto assegnato alla virtù teoretica per eccellenza, fissa il principio (che sarà accolto anche dal pensiero cristiano e sarà direttivo di tutta la filosofia sino all’epoca moderna) intellettualistico, per cui si celebrano nella virtù contemplativa l’essenza e il valore dell’etica umana.

    Politica
    1. Anche per Aristotele, come per Platone l’etica individuale si completa con l’etica sociale: l’individuo isolato non può raggiungere il suo fine perchè non basta a se stesso, e soltanto riunendosi in società può attuare il suo fine, la felicità.

    2. L’uomo è per natura un animale politico, cioè socievole: “fuori dalla società può esistere solo la belva o il Dio”.
    La famiglia è la prima società: essa ha come carattere essenziale la proprietà, di cui fan parte anche gli schiavi, perchè non è bene che gli uomini liberi si avviliscano nei lavori manuali.
    Lo Stato, benchè in ordine di tempo succeda alla famiglia, nel concetto le va innanzi, allo stesso modo che nell’organismo il tutto precede le parti, e il fine i mezzi destinati ad attuarlo: infatti lo Stato rappresenta la condizione di vita e di attività delle parti o individui che lo compongono.
    Il fine dello Stato è identico a quello degli individui: esso mira infatti alla falicità, o – che è lo stesso – al raggiungimento delle virtù etiche e dianoetiche degli individui medesimi.

    3. Le forme di Stato sono tre, come le loro degenerazioni, che si hanno quando chi governa, invece di mirare al vantaggio comune, mira al proprio vantaggio.
    Le forme sono la monarchia, che può degenerare in tirannide; l’aristocrazia, che può degenerare in oligarchia; la politia (moderna democrazia) che può degenerare in democrazia (moderna demagogia).
    Di tali forme è migliore quella che meglio risponde al carattere e ai bisogni del popolo, quantunque in astratto Aristotele preferisca una forma mista.

    4. Lo Stato di Aristotele, per quanto sia in esso evidente l’influenza platonica (Stato etico), è diverso da quello di Platone.
    Platone parte da una premessa idealistica: basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, basterà conoscere lo Stato politicamente perfetto, per poterlo attuare.
    Aristotele parte da una premessa realistica: non basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, è meglio costruire sul fondo dell’esperienza.
    Ne consegue che mentre Platone aveva concluso allo Stato ideale della Repubblica, proponendo la comunione delle donne, dei figli e dei beni, e concependo lo Stato come vuota e astratta unità; Aristotele conclude alla famiglia, alla proprietà, ai divrsi tipi di costituzione, concependo lo Stato come un organismo dove l’unità viva è raggiunta per via della molteplicità.

    Estetica
    Per Aristotele, come per Platone, l’arte è imitazione della natura (“mimesi”); ma a differenza di ùplatone, che condannava l’arte perchè imitazione dell’individuale sensibile, e perciò lontana tre gradi dal vero, Aristotele riabilita l’arte, perchè imitazione non dell’individuo quale è, ma come dovrebbe essere; non dell’individuale, ma dell’universale.
    Perciò l’arte differisce dalla storia (che ritrae solo i fatti particolari), in quanto “più filosofica e solenne della storia”.
    Certi generi, come la tragedia e la musica, determinano poi una speciale purificazione degli effetti, che prende il nome di catarsi: teoria oscura, in cui pare adombrato il moderno principio della spiritualità dell’arte.

    Giudizio sulla filosofia di Aristotele

    Aristotele si propone di eliminare il dualismo esagerato di Platone in nome di un maggiore realismo: riconciliazione dell’universale col particolare, dell’essere col divenire, dell’unità con la molteplicità, del divino con l’umano.
    Ma il tentativo, nonostante l’acutezza della polemica contro il Maestro, andò fallito.
    Nella Metafisica egli lasciò il dualismo di materia e di forma: disse che la prima non si può trovare senza l’altra, e poi concluse che la realtà somma (Dio, Motore immobile) era forma scevra di materia, cioè le ridivise di nuovo.
    Del resto, se la materia tende alla forma; perciò stesso è altro dalla forma; per di più resiste alla forma, sino al punto di apparire dominata dall’accidente e dal caso, e perciò è estranea e opposta alla forma medesima.
    Nella Fisica il dualismo di celeste e di terreno, di materia corruttibile o sublunare, e di materia incorruttibile o sopralunare: donde quel dualismo cosmologico, che è quasi il segno visibile del dualismo metafisico insuperato.
    Nella Psicologia lasciò il dualismo di nous passivo e nous attivo: quest’ultimo viene dal di fuori, e, pur trovandosi congiunto con le altre facoltà, non ha intima connessione con esse.
    Nell’Etica lasciò il dualismo di virtù etica e di virtù dianoetica: la virtù veramente umana è ora la prima, che consiste nella vita in comune; ora la seconda, che consiste nella contemplazione solitaria dell’uomo individuo.
    Sarà compito della filosofia posteriore, specialmente degli stoici e degli epicurei, cercar di eliminare tali dualismi, sulla base di un concetto più immanente della realtà.

  • Sant’ Agostino d’Ippona

    LA VITA E LE OPERE

    S. Agostino fu il più grande filosofo della patristica.
    Egli nacque a Tagaste, in Africa, nel 354, da Patrizio pagano, che si convertì al Cristianesimo su letto di morte, e da Monica cristiana, poi santificata dalla chiesa.
    Studiò retorica a Madaura e a Cartagine, e insegnò la medesima disciplina a Roma e Milano.
    Temperamento profondamente passionale, condusse una giovinezza piuttosto dissipata; ma poi, dopo laboriose peripezie di pensiero e di cuore, che si possono distinguere in quattro tappe (lettura dell’Ortensio di Cicerone, contenente un’appassionata apostrofe alla filosofia – Manicheismo – Scetticismo accademico – Neoplatonismo), fu commosso dalle prediche di S. Ambrogio a Milano, e, ritiratosi a Cassago in Brianza, si convertì al Cristianesimo (386).
    Ritornato a Tagaste, fu creato prete, e quindi vescovo di Ipponia; come tale badò a difendere l’unità della dottrina e della Chiesa cristiana contro le eresie dei pelagiani e dei donatisti, tanto che nel primo trentennio del sec. V tutto il mondo cristiano d’Occidente sembr far capo a lui come centro di irradiazione delle idee ortodosse.
    Morì nel 430, mentre Genserico, a capo di un esercito di Vandali, dopo aver invaso la Numidia, poneva l’assedio a Ipponia.

    Opere
    Contra Academicos, De vita beata, Soliloquia, ecc., che appartengono al periodo cosiddetto di Cassiciacum (soggiorno di Cassago); De libero arbitrio, De vera religione, De trinitate, Confessiones, De civitate Dei, ecc., che appartengono al periodo posteriore alla conversione; Retractiones, scritte poco prima di morire, specie di recensione di tutte le opere precedenti con l’intento di ridurle nei limiti dell’ortodossia.
    Numerosissimi inoltre gli scritti antipelagiani, in forma di opuscoli e di missive pastorali; e molto importanti le Lettere.

    Pensiero

    La filosofia di S. Agostino non è esposta sistematicaemnte in nessuna delle sue opere, ma si sviluppa occasionalmente nella trattazione di argomenti diversi, soprattutto teologici.
    S. Agostino si ispira nella sua filosofia principalmente a Platone.
    Egli, a differenza di quanto farà poi S. Tommaso, non distingue nettamente le verità dalla ragione delle verità di fede, perchè – in base alla teoria dell’illuminazione – le prime si identificano con le seconde, venendoci insegnate direttamente da Dio.
    Di qui il suo motto: intellige ut credas, crede ut intelligas.

    Problema gnoseologico
    E’ il punto di partenza della filosofia agostiniana.

    1. S. Agostino muove dal dubbio sistematico della Nuova Accademia (probabilismo), e giunge a dimostrare l’esistenza dell’anima e della verità. Si fallor sum – egli afferma; o in altre parole, chi dubita, in quanto dubita, deve ammettere l’esistenza del pensiero che dubita: cioè l’esistenza dell’anima e della verità. S. Agostino si da quindi a considerare i caratteri della verità, e trova che essa è dotata di tali caratteri di universalità e necessità, per cui non può derivare dalle sensazioni particolari e contingenti, ma è innata, interiore all’uomo (cfr. Platone). Per trovare la verità – afferma S. Agostino – bisogna ritirarsi dall’esteriorità delle cose materiali, che, in quanto oggetto di pensiero, sono oggetto di dubbio; e concentrarsi nell’interiorità della propria coscienza, intesa come attività pensante, indipendente da ogni oggetto di pensiero: Noli foras exire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.
    2. Ma il concetto di una interiorità della verità allo spirito dell’uomo (con cui S.Agostino sembra precorrere certe posizioni della filosofia moderna), non significa immanenza della verità allo spirito stesso. S. Agostino ammette, al di là della verità sogettiva ed umana, una verità oggettiva e trascendentale, principio e norma di tutte le verità particolari: la verità è in noi, ma noi non siamo gli artefici della verità. La verità è infatti dotata di caratteri dell’universalità e della necessità, ma tali caratteri non possono derivare dal pensiero soggettivo, il quale – in quanto tale – è sottoposto a cangiamento (è questo un dogma del pensiero greco): dunque essa insiste in un pensiero oggettivo e trascendentale, in una Verità assoluta ed eterna, Dio. Il quale Dio è – platonicamente – Logos, Mente, sede delle idee archetipe delle cose esistenti; ma a differenza di Platone, che poneva queste idee come sussistenti in sè, cadendo nell’assurdo di idee che esistono senza essere pensate da nessuno, S. Agostino corregge la teoria platonica ponendo le Idee nella mente di Dio.
    3. Il concetto di verita trascendentale in cui insistono le inferiori verità, interiori allo spirito dell’uomo, trascina con se la famosa teoria agostiniana dell’illuminazione, in cui taluni vollero vedere tracce di ontologismo. La verità è innata; ma a differenza di Platone, che ammetteva la preesistenza delle anime al corpo e quindi faceva del conoscere un ricordare, Agostino ammette una speciale illuminazione dell’intelligenza da parte di Dio, che, all’occasione delle percezioni sensibili, produce nella nostra intelligenza le idee. In tal modo, le verità di ragione si riducono ad essere delle verità rivelate: non il lume naturale della ragione ma il soccorso divino ci rende capaci di verità, e Dio è ilo nostro Maestro.

    Problema morale
    E’ un problema capitale dell’agostinismo.

    1. Come nel problema gnoseologico S. Agostino era partito in polemica contro il dubbio sistematico degli Accademici, qui egli parte in polemica contro la negazione del libero arbitrio e la sostanzialità del male affermate dal Manicheismo. Egli si appella in parte alla teoria di Origene e in parte alla propria esperienza personale (cfr. Confess.: “quando volevo o non volevo qualche cosa, ero certissimo che ero proprio io a volere o non volere; così in qualche modo avvertivo che lì era la causa del mio peccare”). Il male non è creato da Dio, perchè Dio, che è sommo bene, non può ceare se non cose buone; e neppure dalla materia che è creata da Dio, e quindi in se stessa buona: ma dalla libera volontà dell’uomo. La volontà dell’uomo, come tutte le cose create da Dio, è in se perfetta, e  perciò dotata di libero arbitrio; ma appunto perchè volontà libera, è volontà peccabile, capace di generare il male. Il quale male, inerendo ad una realtà perfetta e buona come la volontà, non può esistere come realtà positiva ed autonoma, ma come realtà negativa (non sostanzialità del male): esso consiste in un “pervertimento della volontà che si torce da Dio (aversio a Deo) verso le cose inferiori”, o – in altre parole – in un difetto o privazione o non-essere, che la volontà buona fa in se per propria libera determinazione.
    2. Ma il concetto di una libertà dello spirito (con cui S.Agostino sembra precorrere anche qui certe posizioni della filosofia moderna), non significa libertà assoluta dello spirito stesso, in modo che questo si renda capace di liberarsi dal male e di diventare principio di spiritualità e di progresso. S. Agostino ammette al di là della libertà dello spirito le tristi conseguenze della Caduta di Adamo su di esso, e la necessità della Grazia Divina perche si possa riscattare dal male: ciò specialmente all’epoca della polemica pelegiana (Pelagio, monaco della Gran Bretagna del V sec., e il suo discepolo Celestio, in nome della Giustizia divina, che non può punire nei posteri il peccato dei progenitori, affermavano che la libertà era rimasta integra in ogni uomo, anche dopo il peccato di Adamo; il che veniva a negare la necessità della Grazia e dell’Incarnazione per la nostra redenzione. Egli vedeva nell’incarnazione un esempio, non una redenzione).mIl libero arbitrio in altre parole è una condizione necessaria, ma non sufficiente per operare il bene. E poichè l’uomo, dopo il peccato di Adamo, non ha diritto alcuno alla Grazia, Dio dona la propria Grazia a chi vuole (predestinazione). Nonostante le implicite difficoltà, S. Agostino ottenne il riconoscimento della sua dottrina della Grazia (onde il titolo di Dottore della Grazia) e la condanna della dottrina pelagica. In seguito la chiesa cercò di attenuare le conseguenze estreme della dottrina agostiniana, dandone, con S. Tommaso, un’interpretazione più mite (la volontà è veramente libera e Dio concede a tutti la sua Grazia), onde invalse la regola: Augustinus eget, Thoma interprete.

    Problema del divenire e di Dio
    Sono, anche questi, problemi di singolare importanza nella speculazione agostiniana.

    1. Tutta la filosofia greca aveva posto il dualismo di Essere e di Divenire, concependo quest’ultimo, eleaticamente e platonicamente, come illusione ed apparenza. S. Agostino, uniformandosi allo spirito del Cristianesimo, che nella sua più intima sostanza rappresenta un accostamento del Divino all’umano, dell’Unità alla molteplicità riabilita il divenire sensibile mediante il concetto di Provvidenza. Il divenire, l’apparenza, viene rivalutato come espressione dell’Essere, come opera dell’attività incessante del Creatore: la creazione non è soltanto un atto iniziale, col quale Dio ha dato origine al mondo, abbandonandolo poscia a se stesso; ma è atto incessante, forza produttrice che sostiene il mondo che essa ha prodotto; e la natura svanirebbe se non fosse sostenuta dall’attività incessante di Dio. Di qui il nuovo concetto non più materialistico e meccanico, ma spirituale e finalistico, della natura e della storia. Interessante, da tale punto di vista, l’opera De civitate Dei, scritta dopo il saccheggio di Roma fatto da Alarico, in cui è contenuta tutta un’originale filosofia della storia. Prendendo occasione dall’accusa, che i pagani muovevano ai cristiani, di essere la causa della rovina dell’impero romano, S. Agostino mostra i disegni della Provvidenza che, dirigendo le vicende dei popoli, sa ricavare dalle contese dei buoni (Civitas Dei) coi malvagi (Civitas terrena) il miglior bene. Naturalemnte la città terrena, in quanto serve ai fini della città divina, è implicitamente subordinata a quest’ultima: concetto notevole, per cui Agostino si può considerare come l’ispiratore di tutta la posteriore politica di rivendicazione della Chiesa di fronte all’Impero.
    2. Ma anche qui il concetto di un divenire cui è immanente il divino, non significa immanenza e panteismo. Agostino ammette, al di là del divenire sensibile, un Dio trascendentale e creatore, che, pertanto, non è la creazione, pur essendo nella creazione. Ecco i principali caratteri della natura di Dio:
      • trascendenza – Dio, pure essendo, in quanto Verità, presente in qualche modo nella nostra anima, non è nella nostra anima: pur essendo, in quanto attività creatrice, presente nella natura: non è nella natura: egli è in se stesso, al di sopra di noi e della natura, fuori del tempo e dello spazio.
      • Amore, Provvidenza, Felicità, Bene – Dio non è solo fredda contemplazione, come in Aristotele, ma è amore provvidente, che la nostra anima può sentire in sè, per essere sorretta nei suoi smarimenti.
      • ineffabilità – Dio, in quanto puro spirito, trascende di gran lunga le possibilità conoscitive del nostro pensiero (cfr. Uno di Plotino).

      Tuttavia, in quanto Verità assoluta, Dio non può essere conosciuto in via analogica dal nostro pensiero, che è pur verità: è come la coscienza umana, pur nella sua unità, si spiega in una tripartizione fondamentale di rappresentazione (memoria), giudizio (intellectus) e volontà (voluntas), analogamente l’unità di Dio si spiega in una Trinità di Essere (Padre), Sapienza (Figlio) e Volontà (Spirito Santo).
      Il Padre ha dato a tutte le cose l’essere, il Figlio la razionalità, lo Spirito Santo l’amore; perciò Essere, Sapienza e Volontà sono determinazioni fondamentali di tutte le cose.