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  • Etruschi: le origini etrusche

    Le origini

    Il fondatore della questione etrusca è Dionisio D’Alicarnasso, storico greco di età augustea, che dedica cinque capitoli (26 -30) del primo libro delle sue Antichità romane all’esame di questo argomento, confutando – con i mezzi critici a sua disposizione – le teorie che identificavano gli Etruschi con i Pelasgi o i Lidi e dichiarandosi favorevole all’ipotesi che fossero un popolo «non venuto di fuori ma autoctono», il cui nome indigeno sarebbe stato Rasenna. Scrive lo storico: Dopo che i pelasgi ebbero lasciato la regione, le loro città furono occupate dai popoli che vivevano nelle immediate vicinanze, ma principalmente dai tirreni, che si impadronirono della maggior parte di esse, e delle migliori.Sono convinto che i pelasgi fossero un popolo diverso dai tirreni.
    E non credo nemmeno che i tirreni fossero coloni lidii, poiché non parlano la lingua dei primi..Perciò sono probabilmente più vicini al vero coloro che affermano che la nazione etrusca non proviene da nessun luogo, ma che è invece originaria del paese.(Dionisio di Alicarnasso (Antichità Romane) I sec. a.C.).

    Prima di lui le opinioni sulle origini etrusche non avevano avuto, a quanto sembra, carattere di meditata discussione; ma, come la maggior parte delle notizie antiche sulle origini di popoli e città del mondo greco ed italico, erano ai confini tra la storia e il mito, giovandosi al più – nel senso di una giustificazione critica – di accostamenti etimologici ed onomastici.
    Come le origini di Roma e dei Latini erano riportate ai Troiani attraverso le migrazioni di Enea, così per i Tirreni, cioè per gli Etruschi, si era parlato di una provenienza orientale, dalla Lidia in Asia Minore, attraverso una migrazione transmarina, guidata da Tirreno figlio di Ati re di Lidia, nel territorio italico degli Umbri (racconto di Erodoto, l, 94) o di una loro identificazione con il misterioso popolo nomade dei Pelasgi (Ellanico di Lesbo in Dionisio, I, 28), ovvero anche di una immigrazione di Tirreno con i Pelasgi che avevano già colonizzato le isole egee di Lemno e di Imbro (Anticlide in Strabone, V, 2, 4); si aggiungano minori varianti o rielaborazioni di questi racconti su cui non vale la pena di soffermarci.
    Scrive Erotodo: Sotto il regno di Atis, figlio di Manes, tutta la Lidia sarebbe stata afflitta da una grave carestia. Per diciotto anni vissero in questo modo. Ma il male, lungi dal cessare, si aggravava sempre più. Allora il re divise il suo popolo in due gruppi: quello estratto a sorte sarebbe rimasto, l’altro avrebbe cercato fortuna altrove.
    Alla testa dei partenti pose suo figlio, chiamato Tirreno. Dopo aver costeggiato molte coste e aver visitato molti popoli giunsero nel paese degli umbri e vi costruirono varie città in cui tuttora abitano. Ma mutarono il nome di lidii in un altro, tratto dal figlio del re che li aveva guidati: prendendo il suo stesso nome si chiamarono tirreni. (Erodoto (Storie I, 94) V sec. a .C.).

    L’origine lidia degli Etruschi entrò senza difficoltà tra i luoghi comuni della letteratura classica: Virgilio dice indifferentemente Lidi per Etruschi. Ne mancava, a detta dello stesso Dionisio d’ Alicarnasso, chi sospettasse una loro origine indigena d’Italia. Ma soltanto Dionisio raccolse le diverse opinioni, le discusse e cercò di dimostrare la propria – cioè quella dell’autoctonia – sulla base dell’estrema antichità del popolo etrusco e del suo isolamento culturale e linguistico tra le varie genti a lui note.
    In epoca moderna il problema è stato ripreso dapprima soltanto sulla base dei testi classici, più tardi anche con il concorso dei dati archeologici e linguistici. La prima fase della discussione fu condotta, tra l’inizio del XVIII e la prima metà del XIX secolo, da N. Freret , B.G. Niebuhr e K.O. Moller, i quali, richiamandosi alla posizione «critica» di Dionisio d’ Alicarnasso, si pronunciarono, sia pure con diversa accentuazione, contro la tradizione erodotea della provenienza degli Etruschi dall’Asia Minore (si arrivò perfino ad accostare il nome Rasenna con quello dei Raeti delle Alpi).
    Di fatto noi riconosciamo l’esistenza di una civiltà etrusca -etnicamente definita dalle iscrizioni in lingua etrusca che cominciano ad apparire nel VII secolo a.C. e durano fino al principio dell’età imperiale romana – diffusa nell’Etruria propria (Lazio settentrionale e Toscana), in Campania e nella parte orientale della valle del Po. La fase più antica di questa civiltà storica (e sicuramente etrusca), caratterizzata da un intenso afflusso di elementi orientali e detta perciò orientalezzante, si riattacca immediatamente alla cultura del ferro villanoviana.
    Dal punto di vista del rito funebre si osserva in Etruria un predominio esclusivo dell’inumazione di età preistorica (con le culture eneolitica e del bronzo); poi l’apparire della incinerazione con i sepolcreti «protovillanoviani» ed una sua netta prevalenza nel villanoviano più antico; un riaffermarsi dell’inumazione nell’Etruria meridionale e marittima durante il villanoviano evoluto e l’orientalizzante; infine un uso promiscuo dei due riti – con prevalenza dell’inumazione nel sud, dell’incinerazione nel nord – per tutta la successiva durata della civiltà etrusca.
    Giova ricordare che anche in Roma repubblicana i due riti funebri erano paralleli e legati a tradizioni familiari (ma alla forte prevalenza dell’incinerazione sul finire della repubblica e nel primo secolo dell’Impero succederà il generalizzarsi dell’inumazione a partire dal II secolo d.C., senza che ciò corrisponda a trasformazioni di carattere etnico).
    Sulla base dei dati offerti dalle tradizioni letterarie, dai confronti linguistici e dall’interpretazione dei fatti archeologici sono state formulate, dall’ultimo secolo, varie teorie relative alle origini del popolo etrusco. Esse possono tuttavia riportarsi sostanzialmente a tre sistemi, di cui uno riprende e sviluppa la tesi tradizionale antica della provenienza degli Etruschi dall’oriente, l’altro continua la scuola di Niebuhr e del Moller nel senso di una provenienza da settentrione, il terzo infine -più recente – tenta di aderire in modo meno generico all’opinione di Dionisio d’Alicarnasso sull’autoctonia degli Etruschi, ricercando le loro origini etniche nel substrato antichissimo delle popolazioni preistoriche d’Italia, anteriori alla diffusione delle lingue indoeuropee. Di queste tre tesi la più nota ed universalmente accettata è quella dell’origine orientale.
    Essa è stata particolarmente cara agli archeologi, italiani e stranieri, che in densa schiera hanno dedicato i loro appassionati studi alle antichità dell’Italia protostorica. Ad essi apparve soprattutto perspicua la coincidenza tra le notizie delle fonti e il fenomeno culturale orientalizzante, manifestatosi a partire dalle coste tirreniche tra l’VIII e il VI secolo a.C., come un improvviso avvento di progresso esotico in contrasto con le forme apparentemente arretrate della precedente cultura villanoviana; si sottolineò anche il capovolgimento del rito funebre dall’incinerazione all’inumazione. Edoardo Brizio (nel 1885) fu il primo ad impostare scientificamente questa tesi, identificando gli invasori etruschi con i portatori della civiltà orientalizzante (poi ellenizzante) in Toscana e in Emilia, e identificando gli Umbri della tradizione erodotea – intesi come ltalici indoeuropei – nei preesistenti incineratori villanoviani.
    Dopo di lui sono stati tenaci assertori dello stesso punto di vista, tra gli altri, A. Piganiol, R. Bloch. La tesi orientale ha trovato e trova larghissimo credito non soltanto fra gli etruscologi, ma anche in generale fra i classicisti e studiosi delle civiltà antiche non strettamente specializzati negli studi etruscologici, attratti dall’autorità della tradizione, dalla facile spiegazione di alcune caratteristiche «orientali» della civiltà etrusca, dalle notevoli concordanze onomastiche tra l’etrusco e le lingue dell’ Asia Minore (rilevate da O. Herbigs) e dall’ancor più evidente rapporto linguistico dell’etrusco con l’idioma preellenico di Lemno. Tuttavia non sono mancate varianti ed attenuazioni della classica impostazione del Brizio, specialmente in conseguenza di una più approfondita considerazione delle fonti antiche e dei dati archeologici: così vi fu chi suppose un arrivo degli Etruschi dal mare, ma attraverso l’Adriatico e non il Tirreno, sulla scia della tradizione dei Pelasgi (E. Pottier); chi immaginò un’invasione in più ondate, a partire dal 1000 a.C..
    Ancora più di recente, l’origine stessa delle culture del ferro dette «tirreno-arcaiche» sia con inumazione sia con cremazione (praticamente il villanoviano) è stata attribuita ad un’ondata egea, entro la quale si collocherebbe l’avvento degli antenati degli Etruschi storici da Lemno e da Imbro; o addirittura si è fatta risalire l’immigrazione dei Tirreno- Pelasgi in Italia alla tarda età del bronzo. Queste connessioni preistoriche e protostoriche con l’oriente sarebbero confermate dalla più volte proposta identificazione dei Tyrsenoi con i Trs. nominati dai geroglifici egiziani: vale a dire con uno dei «popoli del mare» che tentarono l’invasione dell’Egitto sotto i faraoni Merneptah e Ramses III (tra il 1230 e il 1170 a.C.).
    Infine, di fronte all’affermarsi del concetto di una formazione storica degli Etruschi da più elementi (come si dirà più avanti), l’apporto orientale è stato ultimamente riproposto in forma più cauta e limitata, come un fattore di sollecitazione dovuto all’avvento di nuclei di navigatori asiatici od egei, simili ai Normanni del medioevo, ma pur sempre determinante in quanto esso avrebbe imposto la lingua etrusca in Italia. Su questa linea di ipotesi si muovono le idee di H. Hencken circa successive penetrazioni all’inizio del villanoviano e dell’orientalizzante, come l’attuale tendenza a collocare le connessioni orientali in età più remota, cioè nella fase micenea o immediatamente postmicenea secondo la tesi del Berard. La teoria dell’origine da settentrione ebbe però il suo principale fondamento critico nelle scoperte e nelle ipotesi archeologiche del secolo scorso, con particolare riguardo alla ricostruzione pigoriniana, che già conosciamo, sulla discesa degli incineratori delle terremare verso l’Italia peninsulare. Tra questi sarebbero stati non soltanto gli Italici, ma anche gli Etruschi, tanto più che diversi linguisti ritenevano che l’etrusco fosse una lingua indoeuropea e italica. La teoria settentrionale sedusse alcuni archeologi – che però passarono poi alla tesi della provenienza orientale – ma fu soprattutto sostenuta da studiosi di storia antica. Tuttavia, dovendosi riconoscere una profonda differenza etnica e linguistica fra Etruschi ed Italici, O. De Sanctis giunse a rovesciare la teoria pigoriniana identificando gli Etruschi con i crematori discesi dal nord e gl’Italici con le genti eneolitiche già stanziate nella penisola. L. Pareti ha voluto riconoscere una più antica ondata indoeuropea (quella dei «Protolatini») negli eneolitici; un’ondata indoeuropea più recente (quella degli Italici orientali) nei crematori «proto- villanoviani»; e infine il nucleo etnico del popolo etrusco nei possessori della cultura villanoviana, derivata dalle terremare e dalle palafitte dell’Italia settentrionale. Alla teoria della provenienza settentrionale si ricollega, in sede linguistica, la ipotesi di P. Kretschmer sulla pertinenza degli Etruschi ad un gruppo etnico-linguistico «retotirrenico» o «reto-pelasgico» disceso dall’area balcanico-danubiana verso la Grecia e verso l’Italia.

    La terza tesi, o dell’autoctonia fu quindi elaborata nel campo archeologico da U. Antonielli, ma soprattutto sviluppata dalla scuola dei linguisti italiani tra cui O. Devoto, il quale ultimo ne dette una formulazione organica già nella prima edizione del suo libro Gli antichi ltalici (1931).
    Considerati i legami intercorrenti tra l’etrusco e le lingue preindoeuropee del Mediterraneo, il popolo etrusco non sarebbe giunto in Italia dopo gli Indoeuropei, ma rappresenterebbe invece un relitto delle più antiche popolazioni preindoeuropee, una specie di «isola» etnica, così come i Baschi dell’area dei Pirenei rappresentano tuttora l’avanzo di primitive popolazioni ispaniche rispetto alle attuali nazioni neolatine che li circondano.
    La toponomastica sembra dimostrare infatti, come abbiamo visto nel precedente capitolo, l’esistenza nella penisola di uno strato linguistico più antico dei dialetti italici e piuttosto affine all’etrusco stesso e agli idiomi dell’ Egeo pre ellenico e dell’ Asia Minore. Gli Etruschi sarebbero un concentrarsi verso occidente – sotto la spinta degli invasori ltalici – di elementi etnici appartenenti a questo strato: naturalmente con notevoli commistioni ed influssi linguistici indoeuropei.
    Dal punto di vista archeologico, cioè culturale, lo strato etnico più antico sarebbe da riconoscere negli inumatori di età neoeneolitica e dell’età del bronzo ai quali si sarebbero sovrapposti gli Italici o Protoitalici incineratori (rappresentati in Etruria dalla cultura villanoviana), dando luogo alla nazione etrusca storica come un riaffermarsi degli elementi originari della stirpe sotto gl’impulsi culturali provenienti dall’ oriente. Questa tesi, sia pure con formulazione diversa nei particolari, fu cara anche a paletnologi «occidentalisti».

    Analisi della teoria della provenienza orientale
    Le teorie sin qui esposte tentano di spiegare ciascuna a suo modo i dati della tradizione, delle ricerche linguistiche, delle scoperte archeologiche, per ricostruire lo svolgersi degli eventi che hanno portato all’insediamento e allo sviluppo del popolo etrusco.
    Si tratta in realtà di ingegnose combinazioni dei diversi elementi conosciuti; ma esse soddisfano soltanto una parte delle esigenze che derivano da una piena valutazione critica di tali elementi.
    Ciascuno dei tre sistemi e delle loro varianti lascia qualcosa di inesplicato, urta contro fatti assodati: senza tuttavia che questo torni a vantaggio delle altre ricostruzioni. Se ciò non fosse, la discussione sarebbe stata da lungo tempo superata con un accordo di massima tra gli studiosi, e la polemica tradizionale non sarebbe giunta ad un punto morto.
    Consideriamo in primo luogo criticamente la tesi orientale. Essa riposa sopra una presunta concordanza tra dati della tradizione – per quanto essi convergono sulla provenienza degli Etruschi dall’oriente egeo-anatolico, siano stati essi Lidi o Pelasgi o abitanti di Lemno – e dati archeologici, cioè la constatazione di una fase culturale orientalizzante nell’Italia centrale.
    Si aggiungano sul piano linguistico, come già detto, la forti somiglianze tra l’etrusco e il lemnio, nonchè le supposte connessioni dell’etrusco con idiomi dell’Asia Minore e perfino del Caucaso. Ma innanzi tutto quale è il valore effettivo di ciascuno di questi elementi posti a confronto, preso isolatamente? Sulle tradizioni relative a migrazioni e a parentele etniche derivate dai poeti e dai logografi greci la critica moderna è generalmente scettica o almeno estremamente prudente.
    Ciò vale in primo luogo per i Pelasgi, popolo leggendario che i Greci ritenevano originario della Tessaglia ed emigrato in età eroica per via di mare in varie regioni dell’Egeo e perfino dell’ltalia, sulla base di concordanze formali tra nomi di località tessale e località esistenti nei paesi che si ritennero meta delle loro migrazioni.
    Così furono dette pelasgiche tutte le zone nelle quali appariva il nome di città Laris(s)a (dalla Larissa di Tessaglia) e cioè l’Attica, l’Argolide, l’Acaia, Creta, Lesbo, la Troade, l’Eolide, l’Italia meridionale. Lo stesso si dica per i nomi affini a quello della città di Gyrton nella Tessaglia, come Gortyna in Macedonia, in Arcadia e in Creta, Kyrton in Beozia, Crotone nell’ltalia meridionale, Cortona in Etruria.
    Va però tenuto presente che in età storica si consideravano di origine pelasgica popolazioni non greche effettivamente esistenti al margine del mondo greco, quasi avanzi di quella antica emigrazione, come gli abitatori delle isole di Lemno e di 1mbro e dell’Ellesponto nell’Egeo settentrionale; e ciò fu immaginato probabilmente – in direzione opposta, cioè in occidente – anche per gli Etruschi fin dai primi contatti dei navigatori greci con l’Etruria, dato che proprio alcuni centri etruschi costieri più aperti ad una intensa frequentazione ellenica e perciò meglio conosciuti, come Caere (detta dai Greci Agylla, con i porti di Alsio, Pyrgi, ecc.) e sull’Adriatico Spina, si consideravano originarie fondazioni dei Pelasgi.
    È senza dubbio a questo filone di tradizioni che s’ispira l’ipotesi erudita di un’identificazione dei Tirreni d’ltalia, cioè degli Etruschi, con i Pelasgi, attribuita da Dionisio d’Alicarnasso allo storico Ellanico, del tutto indipendente dalla versione di Erodoto sull’origine lidia e palesemente contrastante con le opinioni degli autori antichi posterodotei che parlano sì di un’occupazione pelasgica dell’Etruria, ma anteriore e comunque distinta da quella dei Tirreni.
    Quanto al famoso racconto di Erodoto sull’immigrazione dei Tirreni dalla Lidia (o meglio dei Lidi chiamati poi Tirreni dal loro eponimo Tirreno), prescindendo dalla fortuna che esso ebbe nell’antichità, difficilmente sfuggiremmo oggi – dopo le argomentazioni critiche del Pareti – all’impressione che si tratti, così come è formulato, di un’invenzione dei logografi ionici nella fase di più stretti rapporti commerciali e culturali del mondo greco-orientale con l’Etruria e di probabili presenze di navigatori etruschi nell’Egeo, di cui si dirà più avanti, cioè essenzialmente nel VI secolo.
    È possibile che questa storia abbia avuto spunti ispiratori concreti, oltreche in talune apparenti somiglianze tra l’Etruria e il mondo anatolico, anche in accostamenti onomastici con la città lidia di Tyrrha o con il popolo dei Torebi e nella stessa esistenza di Tirreni nell’Egeo, ricordati dagli scrittori greci a partire dal V secolo, ma spesso confusi con i Pelasgi ( cosicchè non è neppure esclusa l’ipotesi che si tratti di un nome diffuso secondariamente in sede di erudizione etnografica come conseguenza dell’identificazione dei Pelasgi con i Tirreni d’Italia, i quali sarebbero dunque i soli Tirreni conosciuti dalla tradizione greca più antica).
    Ancora ai Pelasgi ci riporta la notizia di Anticlide che, per quanto tarda e contaminata favolisticamente con la versione di Erodoto, presenta un’interessante precisazione geografica in quanto parla di un’immigrazione dalla sfera nord-egea delle isole di Lemno e Imbro conosciuta storicamente dai Greci come «pelasgica» (e alla quale richiamano i rapporti linguistici fra etrusco e lemnio).
    In conclusione i dati delle fonti letterarie classiche, leggendari e contraddittorii, non offrono alcuna prova a favore di una provenienza del «popolo etrusco» dall’oriente; tuttavia non escludono possibili echi di singole più o meno remote connessioni del mondo etrusco con l’area egea.
    Passando a considerare l’aspetto archeologico del problema, va notato subito che il fenomeno del manifestarsi della civiltà orientalizzante in Etruria non è tale da giustificare l’ipotesi di un popolo straniero che approdi recando le sue strutture e le sue forme di vita, come invece è evidentissimo in Sicilia e nell’Italia meridionale all’arrivo dei coloni greci.
    Durante la fase del villanoviano evoluto cominciano ad avvenire trasformazioni notevoli che preludono allo splendore della successiva fase orientalizzante: si diffonde il rito funebre dell’inumazione, appaiono le prime tombe a camera, l’uso del ferro si generalizza, aumentala frequenza degli oggetti di bronzo decorato e dei metalli preziosi (oro, argento), e nello stesso tempo s’incontrano sempre più numerosi oggetti e motivi d’importazione straniera (scarabei e amuleti di tipo egizio, ceramica dipinta d’imitazione greca).
    II passaggio alla civiltà orientalizzante non è dunque radicale ed istantaneo. Molti degli aspetti di questa civiltà, come le stesse grandi tombe architettoniche o di imitazione architettonica, la ceramica d’impasto e di bucchero, arredi, gioielli, ecc., rientrano in pieno nello sviluppo della cultura indigena, sia pure sollecitata da influenze esterne, orientali e greche, e soprattutto eccitata dal rigoglio economico. Singoli oggetti importati e motivi provengono dall’Egitto, dalla Siria, da Cipro, da Rodi e in genere dalla Grecia; altri hanno la loro patria d’origine anche più lontano, in Mesopotamia o in Armenia (Urartu).
    Caratteristico è il genere di decorazione che mescola motivi egiziani, mesopotamici, siriaci, egeo-asianici, talvolta in composizioni ibride, o sviluppa i repertori di fregi con animali reali e fantastici, presenti negli oggetti di lusso di origine fenicio-cipriota, ma rielaborati e diffusi in parte notevole dai Greci stessi soprattutto nel corso del VII secolo a .C..
    In sostanza l’impressione che si prova di fronte alle tombe etrusche orientalizzanti e ai loro sontuosi corredi è che l’ossatura, le forme essenziali della civiltà affondino le loro radici nelle tradizioni locali; mentre lo spirito e le caratteristiche degli elementi decorativi, esterni, acquisiti, si riportino alla «moda» orientale.
    E quando appunto si voglia prescindere da questo carattere composito – indigeno ed esotico – della civiltà orientalizzante di Etruria’ e ci si voglia limitare all’esame dei soli elementi importati; allora appare chiaro che essi non sono presenti soltanto in Etruria, ma appaiono più o meno con gli stessi aspetti in altri paesi mediterranei nello stesso periodo, a cominciare dalla Grecia stessa, là dove certo non si suppone un’immigrazione asianica.
    Allo stile orientalizzante succederà in Etruria un preponderante influsso di elementi culturali ed artistici propriamente greci, dapprima peloponnesiaci e ionici e poi attici, nel corso del VI e del V secolo a.C.
    Ad essi è dovuta una ben più decisiva trasformazione della vecchia cultura indigena in nuove forme di vita, anche nel campo più intimo della religione e delle costumanze: basti pensare alle divinità e ai miti ellenici penetrati in Etruria.
    Nessuno naturalmente oserebbe immaginare l’assurdo storico di una colonizzazione etnica greca dell’Etruria nel VI secolo (anche se abbiamo prove convincenti dell’esistenza di nuclei di commercianti greci nei porti etruschi). Non si comprende dunque la necessità di attribuire la civiltà orientalizzante ad un’invasione di stranieri, piuttosto che a un rinnovamento di civiltà. Anche per quel che concerne il rito funebre non esiste alcun brusco trapasso dalla cremazione del villanoviano all’inumazione dell’orientalizzante.
    Già il villanoviano più antico dell’Etruria meridionale mostra tombe a fossa commiste con tombe a pozzo di cremati. L’affermazione dell’inumazione è progressiva nella fase del villanoviano evoluto. Questo processo è del resto comune nel corso dell’VIII secolo non soltanto in Etruria, ma anche nel Lazio, dove non si suppone nessuna immigrazione.
    Inoltre esso appare limitato all’Etruria del sud, perche l’Etruria interna (per esempio Chiusi) non abbandonerà il costume dell’incinerazione prevalente ne durante l’orientalizzante ne per tutta la successiva durata della civiltà etrusca. Nella stessa Etruria meridionale si avrà una parziale ripresa della cremazione nel VI secolo. Un’incidenza di fatti etnici è inimmaginabile, se si intende come sostituzione di un popolo ad un altro.
    Riconsideriamo ora questi diversi elementi nei loro reciproci rapporti geografici ecronologici per verificare se sia sostenibile la tesi orientalistica nella sua formulazione tradizionale e più diffusa – tuttora sostenuta da alcuni studiosi e ripetuta in sede di pubblicazioni non specialistiche – dell’arrivo degli Etruschi in Italia come portatori della civiltà orientalizzante.
    Ma quale civiltà orientalizzante? Noi sappiamo benissimo che le importazioni orientali e più generalmente il formarsi del gusto orientalizzante in Etruria tra la fine dell’VIII e il principio del VI secolo ci riconducono a centri di produzione e d’ispirazione estremamente diversi e dispersi del Vicino Oriente e del Mediterraneo orientale, con una prevalenza, se mai, dell’area siro-cipriota, e poi greco-orientale. È dunque piuttosto alla navigazione fenicia e greca, interessante con analoghi risultati anche altri territori del bacino mediterraneo, che sarà da attribuire l’apporto culturale orientalizzante.
    Questo quadro appare chiaramente inconciliabile con l’idea della immigrazione o della colonizzazione di un popolo straniero che rechi con se il proprio bagaglio di civiltà partendo da un punto ben definito del mondo orientale, cioè, stando alle fonti, dalla Lidia o dall’Egeo settentrionale: tanto più che proprio per questi territori manca ogni specifica analogia culturale con l’Etruria in corrispondenza dell’età alla quale si è voluta riferire l’immigrazione etrusca.
    Le scoperte di Lemno, delle località costiere della Ionia e dell’Eolide asiatiche, di Sardi, dell’interno dell’ Anatolia non hanno offerto finora alcun elemento, se non piuttosto generico (per esempio tumuli, tombe a camera, facciate rupestri, ecc.), di concordanza con i monumenti e con la civiltà dell’Etruria per quel periodo che in Asia Minore è denominato «frigio» (IX- VII secolo) ed a Lemno, impropriamente, «tirrenico» (meglio dobbiamo dire «pelasgico», sulla base della tradizione storica più antica ed autorevole).
    La ceramica geometrica frigia, quella lidia e la caratteristica ceramica arcaica di Lemno non hanno assolutamente alcun rapporto con la produzione vascolare indigena e greco-geometrica d’Italia. Qualche vaso di tipo lidio si diffonde in occidente soltanto nel VI secolo, insieme con tanti altri tipi greco-orientali.
    Così anche la ceramica grigia asiatica è esportata dai coloni di Focea nel Mediterraneo occidentale, ma è rara in Italia, dove non sembra aver alcun rapporto con l’origine del bucchero etrusco. La fibula asianica, presente con estrema dovizia in tutta l’Anatolia, ha una caratteristica forma con arco semicircolare rigido e ingrossamenti a perle o in forma di elettrocalamita; sembrerebbe impossibile che essa non avesse dovuto accompagnare le migrazioni di un popolo asianico.
    Ma è un fatto che essa non ha avuto diffusione verso occidente neanche per via commerciale: finora nell’Italia centrale se ne è trovato un solo esemplare sui Colli Albani, e altri due provengono dalla necropoli di Pitecusa, cioè in ogni caso fuori del territorio dell’Etruria!
    La recente scoperta di una tomba reale a Gordion, capitale della Frigia, con grandi lebeti di bronzo con figure applicate simili a quelle delle tombe orientalizzanti dell’Etruria edi Palestrina, offre un’altra testimonianza della larga diffusione dell’arte bronzistica dell’Urartu sulle vie della Grecia e dell’Italia, ma non è una prova di un rapporto diretto tra la Frigia e l’Etruria.
    Viceversa le connessioni dei centri occidentali dell’Asia Minore con l’Italia sono sempre più intense ed immediate nel VI secolo, a causa delle navigazioni ioniche verso occidente e forse anche di presenze etrusche nell’Egeo, culminando con le preponderanti influenze greco-orientali sull’arte dell’Etruria arcaica. Ma questo fenomeno non ha ovviamente nulla a che vedere con la questione delle origini.
    L’identificazione della civiltà orientalizzante con la supposta immigrazione etrusca secondo le fonti antiche appare insostenibile anche per elementari ragioni di carattere cronologico e storico. L’inizio della civiltà orientalizzante etrusca non è anteriore alla fine dell’VIII secolo, cioè ad un momento in cui i coloni greci erano già più o meno saldamente stanziati sulle coste della Sicilia e dell’Italia meridionale.
    Il racconto di Erodoto sull’immigrazione dalla Lidia non può essere invece arbitrariamente distratto dal suo sistema cronologico, che riporta i fatti al regno di Ati sulla Lidia: cioè, secondo la cronologia tradizionale, poco dopo la guerra di Troia, tra il XIII e il XII secolo a.C. Lo stesso discorso vale anche per le migrazioni pelasgiche. Un avvenimento così notevole agli albori dei tempi storici – ed in parallelismo e in concorrenza con la colonizzazione greca – non sarebbe sfuggito ad altre fonti storiche e soprattutto non sarebbe stato trasfigurato, come in Erodoto, in un episodio leggendario di mezzo millennio più antico.
    Si consideri anzi che una fonte così autorevole come lo storico greco Eforo (in Strabone, VI, 2, 2), parlando della fondazione di Nasso, la più antica colonia calcidese della Sicilia, nell’VIII secolo, afferma che prima di allora i Greci non si avventuravano nei mari occidentali per timore dei Tirreni: ammette cioè implicitamente un’antica presenza e potenza degli Etruschi in Italia prima dell’inizio della colonizzazione greca storica.
    Proprio se si vuol dare giusto valore ai dati della tradizione quali possibili echi di una lontana realtà storica occorrerà ricollocarli nel loro proprio contesto cronologico che è quello dell’ età eroica, cioè riportarli in ogni caso ad avvenimenti corrispondenti alla tarda età del bronzo, che è quanto dire alle fasi tardo-micenee e postmicenee degli ultimi secoli del II millennio a.C.: si tratterebbe in ultima analisi di accogliere l’impostazione critica del Berard, la sola metodologicamente accettabile.
    Ma anche volendo supporre che i racconti di fonte classica contengano qualche reminiscenza di presenze e di apporti orientali sulle coste tirreniche nella tarda età del bronzo, dovremmo comunque sfrondarne le coloriture più ingenue e semplicistiche troppo palesemente ispirate ai modelli delle colonizzazioni storiche, e respingere l’idea di trasferimenti di popolazioni in massa.
    Dovremmo anche, più sottilmente, distinguere l’impostazione aneddoticamente caratterizzata, e perciò fittizia, del racconto di Erodoto sulla provenienza dei Tirreni dalla Lidia – oltre tutto basata sull’ambiguità del concetto e del nome di Tirreni – dai più vaghi ma più diffusi, e presumibilmente più antichi, richiami alle navigazioni dei Pelasgi.
    In questo senso potrebbe anche ammettersi una certa corrispondenza fra dati della tradizione e dati linguistici, sia nella prospettiva geografica ( pelasgità di Lemno, provenienza degli Etruschi da Lemno secondo Anticlide, affinità fra illemnio e l’etrusco), sia nella prospettiva cronologica (antichità del rapporto così nel quadro delle tradizioni come nell’evidenza linguistica).
    Manca invece una qualsiasi spia archeologica, anche se la possibilità che navigazioni egee abbiano raggiunto il Tirreno nel tardo bronzo ci è suggerita da più o meno sporadici trovamenti di ceramica di tipo miceneo, come già sappiamo.

    Analisi della teoria della provenienza settentrionale e dell’autoctonia
    Passiamo ora all’esame delle tesi «occidentalistiche», a cominciare da quella della provenienza degli Etruschi da settentrione. Il vecchio raffronto tra il nome dei Rasenna e quello dei Reti è puerile: le iscrizioni rinvenute nel Trentino e nell’ Alto Adige sono assai tarde (posteriori al V secolo a.C.) e, se anche mostrano antichissimi legami o recenti rapporti con l’etrusco, nulla provano ai fini di una supposta originaria immigrazione degli Etruschi, come popolo già formato, dalla regione alpina.
    Dal punto di vista archeologico la critica già fatta ai punti di vista del Pigorini e dello Helbig in firma sostanzialmente l’ipotesi di una discesa di popoli dal settentrione dell’ltalia verso il centro della penisola.
    L’etruschicità della pianura padana è una ben definita conquista dal sud, come dicono anche le fonti storiche: in questo si può andare d’accordo con il Brizio e con il Ducati, pur facendo ogni riserva sulla cronologia ed escludendo che gli abitatori di Bologna villanoviana siano da identificare con quegli Umbri italici la cui apparizione sul versante orientale dell’Appennino è ancora più recente.
    La linguistica ha ormai da tempo superato la vecchia concezione delle affinità genetiche tra etrusco e lingueitaliche: cosicche anche da questo punto di vista la tesi pigoriniana di, una discesa unica di Etruschi edi ltalici ha perduto ogni consistenza. Di qui la teoria del De Sanctis tendente a riconoscere gli Etruschi nei crematori e gl’ltalici negli inumatori del vecchio ceppo eneolitico (meglio noi diremmo ora, nelle genti di tradizione appenninica).
    Sul piano di una grossolana identificazione dei fatti archeologici con quelli etnico-linguistici queste equazioni sarebbero le sole idonee a spiegare la già constatata corrispondenza delle aree dell’inumazione e della cremazione rispettivamente con le aree indoeuropea e non indoeuropea d’ltalia. Ma è evidente, specialmente oggi alla luce delle più recenti scoperte, che non si può parlare in blocco di «crematori» come rappresentanti di un’unica e precostituita realtà etnico-linguistica; che il villanoviano non è una cultura introdotta già formata da qualche area esterna a quella del suo sviluppo, ne presenta forme più antiche a nord dell’ Appennino, ma anzi ha i suoi precedenti immediati piuttosto nel «protovillanoviano» peninsulare, e tra l’altro proprio nell’Etruria tirrenica (dai Monti della Tolfa al Grossetano); che fasi arcaiche di culture di crematori affini al « protovillanoviano», come il «protolaziale» e il «protoveneto», appaiono all’inizio delle culture del ferro del Lazio e del Veneto, spettanti a popoli storici di lingua indoeuropea ma di origine diversa, cioè rispettivamente ai Latini e ai Veneti. Con ciò cade anche – o si riduce nella sfera delle congetture indimostrabili – l’opinione del Pareti che i « protovillanoviani» rappresentino originariamente una sola stirpe, quella degli ltalici orientali (ipotesi tanto più inverosimile in quanto in età storica gl’Italici orientali sono principalmente inumatori), e che una successiva ipotetica ondata di «villanoviani» rappresenti la discesa degli Etruschi. Si tratta, come si vede, di giuochi di pazienza senza alcun fondamento di verosimiglianza critica. In nessun modo l’archeologia può dimostrare un «arrivo» degli Etruschi dal nord.
    Altro argomento a svantaggio della tesi settentrionale è proprio il rapporto della lingua etrusca con la lingua preellenica di Lemno. Per spiegarlo occorrerebbe accettare la tesi del Kretschmer di un’immigrazione parallela dal bacino danubiano, per via continentale, nell’Egeo settentrionale e in Italia; ma resterebbero pur sempre da spiegare gli elementi affini all’etrusco nella toponomastica «tirrenica» dell’Italia peninsulare, che sono profondi e diffusi.
    Ciò non esclude tuttavia la presenza in etrusco di elementi linguistici continentali, ricollegabili a linguaggi nordico-occidentali del substrato preindoeuropeo (come il «ligure» o il «retico») o addirittura a lingue indoeuropee. Ma questo prova, se mai, una larga coincidenza e mescolanza locale di fattori di diversa origine, attraverso una complessa sovrapposizione di aree linguistiche.
    Anche la tesi dell’autoctonia, intesa in un senso assoluto e schematico, presenta il fianco a fondate critiche. Il punto di vista dei linguisti (Trombetti, Ribezzo, Devoto, ecc.), che riconosce nel fondo dell’etrusco il relitto di una più vasta unità linguistica preindoeuropea, è teoricamente ineccepibile, in quanto tiene conto delle affinità mediterranee della lingua etrusca e della presenza del substrato «tirrenico», rivelato soprattutto dalla toponomastica, in gran parte del territorio italiano. Viceversa la ricostruzione specifica dei fatti in base ai dati archeologici, tentata dall’Antonielli e dal Devoto, si dibatte contro gravi difficoltà. Essa presuppone una netta contrapposizione etnica tra indigeni inumatori dell’eneolitico e dell’età del bronzo, e «villanoviani» crematori discesi da settentrione, identificando i primi con lo strato primitivo « tirrenico», i secondi con gli invasori italici indoeuropei.
    Ancora una volta la constatazione della corrispondenza pressoche esatta delle aree d’incinerazione e di inumazione rispettivamente con l’area non indoeuropea e con quella indoeuropea si oppone alla ricostruzione astratta degli autoctonisti. Proprio l’Etruria, dove è tipica e densissima l’occupazione degli incineratori, sarebbe il solo cantone dell’Italia in cui la lingua primitiva avrebbe conservato i suoi caratteri sino alla pienezza dei tempi storici; mentre invece le lingue italiche avrebbero trionfato nella parte orientale della penisola, dove non si hanno tracce se non sporadiche ed insignificanti del passaggio dei supposti incineratori italici!
    È chiaro che l’autoctonismo linguistico non può essere costretto entro l’assurdità di questi schemi archeologici, nei quali appare ancora così evidente l’impronta del vecchio preconcetto pigoriniano. Invano Devoto tentò di ricondurre l’equazione incineratori = Italici al concetto di una corrente «protoitalica» di cui però nulla chiaramente risulta nei fatti positivi dell’etnografia storica italiana.
    In ogni caso un puro autoctonismo si presenta a priori come una teoria antistorica: ed in concreto urta contro l’evidenza di vicende culturali che denunciano influenze europee ed orientali e contro i dati linguistici che dimostrano rapporti tra l’Etruria e l’Egeo oltre che una profonda penetrazione di elementi indoeuropei nella lingua etrusca.

  • Egiziani: le attività

    Cosmesi

    La cura del corpo era molto importante per gli antichi egizi. Essi utilizzavano creme, unguenti e profumi per ammorbidire e profumare la pelle. Le donne si schiarivano la pelle con un composto cremoso ricavato dalla biacca, disponibile in colori diversi, dalla più pallida alla più ambrata generalmente destinata alle labbra.
    Evidenziavano il contorno degli occhi con il kohl nero o verde, rispettivamente estratti dalla golena e dalla malachite. Le unghie venivano tinte così come le palme delle mani e dei piedi e a volte anche i capelli con una pasta a base di hennè. Utilizzavano specchi, pinzette per la depilazione e attrezzi per la manicure. I profumi (utilizzati da uomini e donne come le creme), venivano estratti da fiori, fatti macerare e pigiati. Tutte le essenze odorose avevano nel dio Shesmu il loro protettore. Venivano prodotti in laboratori associati ai templi e conservati in vasetti di pasta vetrosa, la faience.

    I trucchi dei Faraoni
    I trucchi, per gli Antichi Egizi, avevano il fine di proteggere la pelle da riverberi e irritazioni causati dal clima asciutto e dalla sabbia. Dai papiri ritrovati si è scoperto come ad esempio la malachite (un minerale color verde smeraldo) e la galena (un composto del piombo colore grigio scuro) venivano applicate sulle palpebre per curare il tracoma (infezione dell’occhio), l’emeralopia (riduzione della vista) e la congiuntivite, mentre l’ocra rossa era utilizzata per le labbra e le guance come i moderni rossetti e fard. Recenti studi hanno rivelato la composizione chimica delle polveri: galena nera, cerussite bianca, laurionite e fosgenite.
    Queste ultime due sostanze non si trovano in natura, ma sono il risultato di processi chimici che, quindi, lasciano intravedere una grande conoscenza in materia. Le dettagliate istruzioni riportate dai testi antichi illustrano i metodi utilizzati: la galena nera veniva scaldata per produrre l’ossido di piombo (sostanza di colore rosso) che veniva macinata e mescolata con sale e acqua.
    Tutti i giorni seguenti, per un totale di quaranta, la mistura veniva filtrata e mescolata nuovamente con del sale in modo da ottenere la bianchissima polvere di laurionite. La fosgenite, invece, veniva ottenuta con lo stesso procedimento tranne che per l’aggiunta supplementare di natron (un tipo di carbonato di sodio facilmente ricavabile dai sali presenti nelle rocce). La varietà delle lavorazioni di queste sostanze (macinazioni più o meno fini) permettevano di ottenere diverse tonalità di colori e di lucentezza in modo che ognuno poteva personalizzare il proprio trucco.
    La laurionite e la fosgenite, a seconda del dosaggio, unite alla galena nera producevano la varie tonalità di grigio. A tali sostanze venivano poi aggiunti grassi animali, cera d’api o resine che esaltavano la densità e le proprietà curative dei prodotti. Per problemi di vista, ad esempio, veniva aggiunta dell’ocra rossa alla galena, mentre per il comune orzaiolo si applicava un miscuglio di malachite e legno putrefatto. I trucchi erano considerati “fluidi divini” e perciò appartenevano al corredo funerario del defunto. Alcune di queste sostanze sono giunte fino a noi perfettamente conservate.

    Educazione

    La scuola egiziana fu fondata attorno al 2000 a.C. con lo scopo di formare giovani esperti da destinare alle funzioni amministrative dello Stato. Era una scuola rigida e poco permissiva, spesso venivano inflitte punizioni corporali. Le lezioni si svolgevano generalmente all’aperto. Gli alunni stavano accovacciati su stuoie intrecciate ed erano muniti di pennelli o cannucce e di cocci di terracotta sui quali scrivevano.
    Allo studio delle lettere erano ritenuti funzionali l’esercizio ripetuto della ricopiatura e della dettatura. Il giovane che voleva avere accesso ai più alti gradi dell’amministrazione doveva conoscere almeno una lingua straniera, così come chi voleva intraprendere con successo la carriera diplomatica doveva conoscere il babilonese. Importante era anche la preparazione fisica, curata mediante esercizi ginnici.

    Navigazione

    Il Nilo era la più importante via di comunicazione, la più rapida e la più facile. Anche nella stagione della siccità, quando le acque del Nilo erano basse, la sua navigazione era resa possibile dal vento di tramontana. Le imbarcazioni del periodo più antico erano zattere in fibra di papiro intrecciato.
    Erano leggere, ma poco adatte al trasporto di grandi quantitativi di merci, per questo furono sostituite con barche di legno, generalmente in cedro del Libano. Lo scafo era rettangolare o triangolare ed era spesso decorato. In particolare venivano raffigurati sul moscone gli occhi che consentivano alla barca di “vedere”. Numerose barche solari furono ritrovate affiancate a tombe reali, infossate in grandi buche. Erano destinate a crociere ultraterrene. La più famosa é quella di Cheope. Oggi l’imbarcazione più usata per la navigazione sul Nilo é la Feluca, piccolo veliero con lo scafo di legno.

    Professioni

    Barbiere
    Il barbiere forse era l’unico che non disponesse di una sede propria e per guadagnarsi da vivere girava da un quartiere all’altro con i suoi attrezzi fermandosi di tanto in tanto in qualche piazza rimanendo in attesa dei clienti.
    Seduto su di un semplice sgabello, il cliente si concedeva alle attenzioni del barbiere che operava con un catino d’acqua saponata, un rasoio e delle forbici.
    Il barbiere aveva clienti assicurati in quanto gli egiziani non amavano portare la barba o i baffi e se nei dipinti di qualche tomba vediamo raffigurato un uomo con la barba questa viene utilizzata solo per fare notare la condizione precaria dell’individuo oppure per raffigurare uno straniero. I barbieri del Re avevano un rango ben determinato all’interno della corte, infatti ogni mento ben nato doveva essere assolutamente glabro. Ad ogni modo non è molto chiaro che la barba non sia stata un segno di potenza mascolina.
    Soltanto in pochissimi casi un uomo poteva essere raffigurato con la barba; per esempio il lutto (che ci ha fruttato alcune rappresentazioni di defunti con il mento picchiettato di nero) oppure una partenza per l’estero.
    Al contrario degli esseri umani, gli dei vengono invece vantati per la loro fluente barba lunga e finemente intrecciata. Al momento della morte a personaggi importanti come il faraone oppure a personaggi meno nobili veniva applicata al mento una barba posticcia: queste appendici, un lusso del sovrannaturale, avevano uno scopo puramente rituale.

    Commerciante
    Il mercato era il luogo comune, il punto di raccolta per produttori, compratori e venditori, dove si svolgevano generalmente tutte le attività commerciali. In molti casi i commercianti egiziani entravano in contatto con i mercanti siriani e fenici a cui vendevano le eccedenze dei loro prodotti e che non erano riusciti a piazzare sul mercato interno.
    La grande esportazione dipendeva senz’altro dal tipo di governo regio che se ne serviva e molto spesso questa veniva utilizzata soprattutto come strumento politico per mantenere aperti i contatti con le popolazioni vicine: cereali agli Ittiti o agli Ateniesi, oro per l’Asia, ecc. Ad ogni modo le frontiere egiziane si schiudevano appena per i mercanti stranieri e tutto quello che entrava nel paese, dai mercanti ai prodotti, veniva posto sotto un rigido controllo amministrativo. I frutteti, le cave, le miniere del deserto erano comunque tutte monopolio del re.
    Fin dai tempi più antichi sono sempre state fatte spedizioni per mare o per terra allo scopo di raggiungere altri paesi ricchi di prodotti e di cui l’Egitto scarseggiava. Nel Nuovo Regno questi prodotti-chiave che mancavano all’Egitto ( come il legno del Libano oppure il rame dell’Asia ) non vengono presi come bottino o reclamati come tributo ma venivano negoziati da mandatari per conto del sovrano o dei templi che allora, potevano disporre di una flotta mercantile in proprio.
    All’interno del Paese la circolazione dei beni dipendeva essenzialmente dal commercio. Sui mercati rurali si barattava semplicemente : una collana per dei legumi, mentre per un acquisto un po’ più elevato bisognava utilizzare un’infinità di misure.
    “Venduto ad Hay dalla guardia Nebsmen : un bue, corrispondente a 120 deben di rame. Ricevuto in cambio due vasi di grassi equivalenti a 60 debem; cinque perizomi di tessuto fine, cioè 25 debem, un vestito di lino meridionale cioè 20 debem, un cuoio cioè 15 deben”.
    Questo caso, oltre a mostrarci come poteva essere complicato il computo della somma da pagare ci mostra anche come il metallo (rame, oro e argento) servisse da valore tipo per stima.

    Falegname
    I fabbricanti di mobilio nell’Antico Egitto era eccellenti artigiani se si considera il fatto che data la scarsità del legname locale questo doveva essere per la maggior parte importato.
    Così, scarseggiando in Egitto le piante di alto fusto, gli artigiani, utilizzando i tronchi degli alberi che avevano a disposizione come l’acacia o il carrubo, inventarono abili incastri per unire più pezzi di legno e ottenere così superfici più grandi. Non venivano utilizzati chiodi di nessun genere ma piccoli pioli di legno. Incastri, buchi e imperfezioni venivano poi abilmente stuccati e laccati per renderli invisibili. A volte gli incastri erano così perfetti che non era nemmeno necessario utilizzare la colla. Gli attrezzi dei falegnami erano alquanto semplici (gli strumenti di metalli erano di rame di bronzo): con delle seghe a mano venivano segati i tronchi degli alberi a disposizione, si usava l’ascia per abbozzare il legno ed un coltello ricurvo per modellarlo. L’azza veniva utilizzata per piallare mentre una pietra abrasiva aveva lo scopo di levigare e rendere lisce le superfici. C’erano inoltre scalpelli, punteruoli e trapani.
    Il trapano era ad archetto, un tipo molto comune ancora in uso in Egitto ed il molti altri paesi del Mediterraneo. Questo strumento manuale di origine molto antica con cui, attraverso un moto rotatorio, si possono praticare fori in vari materiali come legno, pietra e metallo. Il tipo ad arco prende il nome dalla corda testa alle estremità dell’asta a cui viene applicata la punta utilizzata per la perforazione e destinata ad aumentare la velocità di rotazione dell’utensile.

    Gioielliere
    Di tutti i gioielli che sono stati trovati non possiamo altro che approvare la bravura dei gioiellieri egizi che con il passare dei secoli è diventata sempre più raffinata e proverbiale. I famosi gioiellieri egiziani erano in grado di passare con facilità dalla lavorazione dell’oro a quella delle pietre dure creando magnifici oggetti grandi a volte pochi millimetri ma sempre perfettamente proporzionati. I gioiellieri del Faraone erano uomini tenuti in alto onore e, questi personaggi custodivano segreti che li avvicinavano alle divinità. Il mestiere, ereditario, si tramandava di padre in figlio insieme ai segreti della lavorazione dell’oro, rimaneva quindi un privilegio di famiglia la facoltà di creare le immagini degli dei o di preparare stupendi gioielli reali.
    Da tutto quello che ci è rimasto: dipinti, sculture, monili ritrovati nelle tombe delle varie epoche storiche, riusciamo a farci una chiara idea dell’evoluzione della gioielleria egiziana: la tipologia dei monili risulta numerosissima grazie alle mani esperte degli antichi orafi egiziani: materiali, fogge, disegni, decorazioni e lavorazioni sono tantissime e i moltissimi esempi di gioielli ritrovati ci mostrano l’abilità di questi antichi artigiani. L’altissimo livello tecnico raggiunto dagli orafi egizi portò questi artigiani ad eccellere nei lavori di fonderia e saldatura, battitura (si avevano foglie d’oro da 1/200° di mm.) e calco, ancora oggi sono insuperabili le antiche tecniche che andavano dall’incisione all’incrostazione, dalla doratura per stampaggio, alla cesellatura, pulitura e coloritura, senza dimenticare l’impiego della granulatura e della filigrana.

    Orafo
    Come quella dei gioiellieri, anche la categoria degli orafi era molto apprezzata in Egitto soprattutto per le svariate opere pubbliche che necessitavano della loro arte. Se i gioiellieri si occupavano esclusivamente nella creazione di straordinari monili, l’opera degli orafi era indirizzata soprattutto alle decorazioni delle porte dei templi, delle regge e degli innumerevoli tesori di proprietà dei faraoni.
    Nei loro laboratori il lavoro cominciava con una complessa tecnica di lavorazione dei metalli pregiati che venivano selezionati, fusi in forni a cielo aperto e colati dal crogiolo in stampi per lingotti di varie dimensioni. Questi lingotti venivano poi lavorati per mezzo di incudine e martello e utilizzati per i vari scopi.

    Medico
    La scienza medica in Egitto era conosciuta e rispettata anche in altri paesi ed era praticata soprattutto da specialisti generalmente appartenenti alla casta dei sacerdoti o addirittura degli scribi. Nell’Antico Egitto esisteva un termine generico per indicare il medico: egli era il “Sunu” e cioè “colui di quelli che soffrono”. Il geroglifico che rappresenta la professione, come si vede chi sotto, è composto da una freccia e da un vaso. La freccia indica il fatto di andare al bersaglio, ovvero di ottenere la precisione diagnostica (oppure lo strumento che serviva per incidere le carni del malato), mentre il vaso contiene i giusti rimedi per la guarigione.
    Per la medicina egizia il centro di tutto l’organismo era il cuore da cui partivano tutti i vasi all’interno dei quali scorrevano i fluidi e gli umori necessari alla vita. In Egitto alcune delle malattie grave conosciute erano la polmonite e la tubercolosi e altre malattie parassitarie e l’artrosi.
    Anche considerando il termine generico che riconosceva il medico, vari documenti che sono stati ritrovati ci informano che esistevano molte specializzazioni e anche Erodoto ci informa di questo fatto:
    “La medicina è ripartita in Egitto in questo modo : ogni medico cura una sola malattia e non più malattie.”
    Così, in Egitto non esiste un medico “generico” ma troviamo così l’oculista, il dentista, l’internista e addirittura il “pastore dell’ano” (specializzato nell’introduzione per via rettale dei diversi rimedi). Come per altre classi anche all’interno della casta dei medici esisteva una precisa gerarchia nell’ambito di ogni specializzazione. Esisteva quindi il medico, il grande medico, l’ispettore dei medici, il direttore dei medici fino ad arrivare al decano dei medici. Nello stesso modo esistevano dentisti, capi dentisti, direttori dentisti, ecc. Inoltre esistevano le varie organizzazioni locali che andavano dai corpi medici delle cave e delle miniere, a quelli dei villaggi operai o delle grandi proprietà terriere fino ad arrivare ai medici legali.
    Nonostante le varie associazioni minori, in Egitto, la figura del medico non era assolutamente legata a strutture di tipo corporativo e la sua condizione sociale variava a seconda dell’ambiente in cui operava. Se un medico era a disposizione di una cava o di una città operaia, in moltissimi casi, non godeva di nessun privilegio particolare e alcune volte era addirittura socialmente al di sotto di ispettori oppure di capi operai.
    Naturalmente se un medico operava all’interno del palazzo reale o nei tempi, questo godeva dei privilegi adeguati al proprio rango e visto che in Egitto era in uso il sistema di sommare le varie cariche, molte volte un medico poteva anche essere un nobile oppure politicamente importante. Come per molte altre professioni, anche quella del medico si tramandava di padre in figlio. Ad ogni modo la preparazione era comunque completata dall’apprendistato oppure dai corsi che si tenevano all’interno delle “Case della Vita”. Le varie conoscenze anatomiche era buone ma rimanevano comunque limitate, questo perchè chi compiva l’opera di mummificazione non era il medico ma operatori di un’altra casta, necessaria ma disprezzata e, siccome i rapporti tra loro e il medico erano inesistenti le varie conoscenze anatomiche erano molto scarse. In compenso oltre ad avere una buona conoscenza delle ossa, dei muscoli e dei legamenti, si aggiungeva una discreta conoscenza degli organi interni. Anche se il medico aveva una cognizione topografica esatta del corpo e delle sue parti (testa, collo, tronco, addome e arti) mancava in tutto o in parte la concezione di scheletro nella sua totalità anche se singolarmente le ossa erano ben identificate e conosciute.
    Ogni organo era conosciuto e considerato soltanto nella sua globalità con poche distinzioni per le varie parti che lo compongono. Per tutti possiamo citare il caso del cuore e del cervello, organi che nell’antica medicina egizia erano ben noti: ma se il cervello era ignorato come organo le sue funzioni ed il complesso delle attività nervose erano conosciute ma erano attribuite al cuore, l’organo più importante del corpo umano e “principio di tutte le membra”.

    Muratore
    Un’altra professione di cui ci è rimasto qualcosa di veramente impressionante è quella del muratore che, grazie all’utilizzo di vari materiali, poteva costruire piccoli edifici oppure enormi palazzi e templi.
    Di tutto quello che ci è rimasto e che oggi possiamo ancora ammirare sono esclusivamente le costruzioni in pietra mentre gli edifici minori che caratterizzavano i villaggi e le città sono praticamenti scomparsi a causa del materiale poco resistente che veniva utilizzato. Per questi edifici il muratore utilizzava semplicemente il limo del Nilo che, mescolato a sabbia e paglia tritata, poteva produrre il comune materiale da costruzione. Questo procedimento era molto lungo ed una volta che l’impasto era pronto, questo veniva posto in uno stampo per diversi giorni dove il “mattone” diventava solido ed infine poteva essere utilizzato per la messa in opera.
    Nonostante la tecnica rudimentale ed il materiale scadente, ancora oggi, in alcune zone, questo metodo ortodosso è ancora in uso e spesso si possono vedere questi “mattonifici” a cielo aperto oppure vedere case fabbricate con il sistema in voga secoli fa.

    Profumiere
    Generalmente la produzione dei profumi avveniva in laboratori specializzati alle strette dipendenze dei templi ed era il frutto di abili esperti del settore (per esempio, ad Edfu, il suo tempio possiede ancora una di queste officine dove, dai muri coperti dalle iscrizioni sono state trascritte le ricette di fabbrica dei diversi prodotti odorosi). Raramente al di fuori di questo contesto venivano aperti laboratori non dipendenti dalla casta sacerdotale. Estratti da varie erbe o fiori, i profumi venivano messi a macerare i appositi contenitori e infine mischiati con pregiati legni aromatici fatti arrivare dalla Siria o dall’Arabia. L’olibano e il terebinto, che crescevano sulle rive del Mar Rosso, erano particolarmenti apprezzati, soprattutto per usi rituali.
    Gli olii aromatici ed i profumi venivano conservati in fasetti di pasta vetrosa, di origine fenicia, o in fasetti di importazione tipici dell’area egea. Egizio invece era l’uso di custodirli in vasi di alabastro.

    Tessitore
    Nell’antico Egitto la tessitura delle vesti era un’arte praticamente femminile e quindi ogni famiglia egizia era in grado di provvedere al proprio fabbisogno personale.
    Il materiale più utilizzato era il lino che veniva a volte colorato con sostanze vegetali o minerali disciolte nell’acqua. Durante il Neolitico, con la produzione di stuoini per coprire i pavimenti delle capanne inzia in Medio Oriente l’arte della tessitura: erbe di palude e canne venivano intrecciate a mano senza l’aiuto di particolari attrezzature. Da questi inizi, attraverso un continuo processo di raffinamento della tecnica, si arriva presto alla tessitura delle fibre di lino e della lana delle pecore. Una volta scoperte le tecniche necessarie per estrarre le fibre dal lino e dalla canapa, gli egiziani si cimentaro nella produzione di stoffe sempre più fini e sempre più candide. Durante il Neolitico venne inventato il telaio e da quel momento le tecniche di filatura divennero sempre più efficienti. Basti pensare che in alcune tombe gli archeologi hanno ritrovato delle stoffe fini come seta.
    La filatura e la tessitura erano considerate attività prettamente femminili anche se in alcuni dipinti si possono vedere uomini al telaio. Ad ogni modo, già durante l’Antico Regno queste attività venivano svolte dai servi e dagli schiavi ed in alcuni casi anche dalle donne contadine che lavoravano per le classi superiori.
    L’industria della tessitura in Egitto consisteva quasi interamente nella produzione di lini. La coltura e la preparazione della pianta era quindi della massima importanza e occupava gran parte del lavoro contadino, al pari di quanto accade oggi per il cotone nei paesi produttori.

    Vasaio
    Come il muratore, anche il vasaio adoperava il fango argilloso del Nilo per la creazione dei suoi manufatti impastando l’argilla e collocandola poi su di un piccolo tornio azionato manualmente. Dopo aver modellato il vaso, l’artigiano lo inseriva nel forno per la cottura. A differenza del falegname il vasaio godeva dell’enorme privilegio di possedere una grande abbondanza di materia prima.
    Questa forma di artigianato si sviluppo enormemente già fin dalla preistoria e da quel tempo nulla è cambiato nelle tecniche di lavorazione e nella qualità tanto che oggi è molto difficile datare un comune vaso di terracotta egizio. Per la sua produzione il vasaio stava seduto per terra davanti ad una semplice ruota imperniata in un basso piedistallo e la faceva girare spingendola con una mano mentre con l’altra dava la forma alla creta. Come oggi la forma della fornace del vasaio era cilindrica. I vasi appena creati venivano meticolosamente accatastati all’interno del forno e sopra ad un supporto forato sotto il quale si accedendeva poi il fuoco. I vasi venivano poi coperti da terra o da ceramiche rotte in modo da ottenere così il tiraggio desiderato.
    In linea di massima la ceramica di uso comune è molto povera senza decorazioni artistiche e ornamenti, al massimo si vedevano alcune semplici linee. Anche se non esiste nessun paragone tra la ceramica egiziana e quella di altre civiltà, l’Egitto ha il vanto di aver inventato la tecnica dell’invetratura, tecnica che rende la ceramica assolutamente impermeabile e che permette di poterla decorare con colori brillanti e permanenti.
    Non ci è arrivata nessuna documentazione o antico disegno che ci possa mostrare questa tecnica ed anche il suo nome egiziano è stato ormai dimenticato. Il termine utilizzato oggi, “faience” proviene dalla città di Faenza famosa per la sua industria di ceramica durante il Rinascimento. Faience è appunto l’invetratura che ricopre i vasi di ceramica detta anche “majolica”, dall’isola di Majorca in Spagna. Sia a Faenza che a Majorca la tecnica dell’invetratura giunse dal mondo arabo durante il Medioevo. I più antichi oggetti di faience sono le piastrelle che decorano le camere sotterranee di Saqqara, perline per le collane e piccoli vasi. Durante il Nuovo Regno si trovano anche piccoli amuleti, statuette e bambole.

    Vetraio
    La tecnica per la produzione, conosciuta molto bene dagli egiziani, si sviluppò come evoluzione di quella della faience. Per ottenere una pasta vetrosa simile al nostro vetro i vetrai egiziani fondevano polvere di quarzo e cenere. Questo tipo di vetro era opaco ma con l’aggiunta di ossidi metallici si potevano ottenere delle meravigliose colorazioni.
    Sembra che la produzione del vetro si sviluppo al tempo degli Hyksos grazie forse ai contatti con il Levante e la Mesopotamia dove questa tecnica pare sia stata inventata. Le prima realizzazioni appartengono alla XVIII Dinastia, all’epoca degli Amenofi, ed erano dei piccoli e graziosi contenitori di profumi costituiti da fili di vetro colorato saldati poi assieme dalla cottura.

  • Egiziani: la storia

    Paleolitico

    Per molto tempo si è creduto che l’Egitto non avesse conosciuto “l’età della pietra”; invece, non soltanto è esistito il Neolitico egiziano, ma anche il Paleolitico, anche se è impossibile, allo stato attuale delle conoscenze, vedere qualche legame tra gli occupanti della valle del Nilo durante questo periodo e quelli delle epoche successive. Le condizioni di vita, d’altronde, erano totalmente differenti, il clima non era lo stesso, era più umido e, senza dubbio, più vicino all’attuale clima equatoriale; il Nilo copriva tutta la valle, che ora occupa soltanto a metà, permettendo così di vivere anche nelle zone che adesso sono desertiche.
    Solo alla fine del Paleolitico il clima ha subito quella degradazione progressiva che ha portato, nel Neolitico, a condizioni di vita molto simili a quelle dell’epoca moderna. Ci sono prove che la valle del Nilo è stata sempre abitata dall’uomo e alcuni studi tenderebbero a dimostrare che gli antenati di questo popolo, in anticipo rispetto agli altri popoli mediterranei, avrebbero coltivato nell’Alto Egitto orzo e grano sin dall’epoca paleolitica (13000 a.C. circa). Questa ipotesi è stata scartata ma sembra comunque sicuro che l’orzo era consumato, se non coltivato, a ovest della valle del Nilo sin dall’VIII millennio a.C..

    NEOLITICO

    Gli scavi hanno provato l’esistenza dì un Neolitico egiziano; l’arte della pietra lavorata e della ceramica, come l’agricoltura e l’allevamento, vi erano conosciuti già molto tempo prima che fosse utilizzato il rame. Durante il Neolitico l’aspetto della valle cambia completamente: il clima diventa sempre più simile a quello attuale, il Nilo si restringe e non occupa più tutta la valle, l’Egitto si popola stabilmente poiché l’inaridimento dei territori limitrofi e la loro trasformazione in deserto fa si che la popolazione si concentri sulla stretta striscia di terra resa fertile dal Nilo. Queste popolazioni neolitiche si possono a tutti gli effetti considerare gli antenati diretti degli egiziani di epoca dinastica.
    Essi non appartenevano a un’unica razza, erano già il risultato di una mescolanza tra individui di tipo mediterraneo (i Cusciti-Camiti) e il tipo negroide, che proveniva anch’esso dalle razze del Paleolitico recente. Il primo nucleo dell’Egitto è costituito da contadini, ed è interessante notare che questo nucleo, alla base di tutto, era già presente in epoca neolitica, cioè intorno al VI millennio a.C.. Queste date servono solo a dare un’idea di massima, le uniche precise sono quelle fornite dal carbonio 14 per la cultura di el-Fayum (5500-5000 a.C.), e di el-Omari (4000 a.C.). Gli strumenti di questi primi egiziani erano in pietra, la selce si distingue per la precisione con cui è lavorata, e questo è un tratto che caratterizzerà sempre la lavorazione della pietra in Egitto.
    La maestria degli artigiani delle epoche successive può essere spiegata soltanto attraverso una lunga tradizione di tagliatori di selce di cui erano i continuatori, per non dire i discendenti, al punto che continuarono a creare le stesse forme. Questi primi abitanti della valle vivevano in capanne collettive, allevavano animali domestici (tra essi il bue, il montone e la capra) e avevano addomesticato il cane, che probabilmente li aiutava nel controllo del gregge e nella caccia, attività che, assieme alla pesca, dava un apporto non secondario all’alimentazione della comunità.
    Essi sapevano anche coltivare, conoscevano il grano e l’orzo e abbiamo anche ritrovato alcuni dei loro strumenti, zappe a pietra e falcetti di selce. Il grano era conservato in silos d’argilla e veniva frantumato con macine piatte, molto simili, come del resto i falcetti, a quelle che si useranno in epoca storica. Infine, già in questo periodo, si conciavano le pelli, si tessevano stuoie o stoffe, si cuciva, si intrecciavano cesti e panieri. Si fabbricava anche una ceramica molto grossolana e si facevano arpioni, braccialetti e aghi d’osso.
    C’era già un culto dei morti, che venivano interrati nelle vicinanze del villaggio, in fosse ovali, su un fianco e in posizione fetale. La cultura neolitica, insomma, pone le basi, fornendo tutti gli elementi materiali, alla civiltà egiziana vera e propria, e delinea il paesaggio umano della valle del Nilo, fondandovi i primi siti permanenti e dissodando i terreni di coltura. Si conoscono tre tipi di culture neolitiche in Egitto, due al nord, ai confini del delta, vicino al Fayum e nel Medio Egitto, il terzo a sud, nell’Alto Egitto. E importante notare che, già in questo periodo, il paese presentava due focolari di culture differenti, uno al nord e uno al sud, e questo potrebbe spiegare perché gli egiziani sono rimasti fedeli cosi a lungo alla divisione in due parti del loro paese, anche se, geograficamente, non si tratta di due zone nettamente distinte; tra l’altro, la zona marittima del delta, caratterizzata da un clima mediterraneo, probabilmente non era nemmeno abitata in quest’epoca, quindi la distinzione fra nord e sud era ancora meno giustificata, e si può perciò supporre che abbia avuto origini etniche o semplicemente storiche.

    PERIODO PREDINASTICO

    (4500 – 3000 a. C.) In Europa si distingue molto nettamente il periodo neolitico, in cui l’uomo usa soltanto strumenti di pietra, dall’Eneolitico, che è caratterizzato dall’apparizione del metallo, prima l’oro, poi il rame, e infine il bronzo. In Oriente, e soprattutto in Egitto, la distinzione è spesso delicata, in molti siti eneolitici non c’è traccia di metallo.
    Non per questo ci si deve immaginare un avvenimento traumatico (per esempio un’orda di invasori che mettano a ferro e fuoco il paese e assoggettino la popolazione locale forti del loro armamento di metallo, per spiegare il passaggio da un periodo all’altro. La transizione, infatti, è stata “dolce” e, anche se è possibile che il metallo sia stato portato dall’esterno, niente fa supporre che ciò sia avvenuto tramite un’invasione. L’apparizione del rame, d’altronde, non cambia in nulla la tecnica del taglio della selce, che rimane lo strumento principe, e tutto lascia supporre che l’uso del metallo si sia diffuso pacificamente: la civiltà eneolitica continua l’opera di quella neolitica.
    Ma, se il Neolitico egiziano aveva dei punti di contatto con il Neolitico in generale, nel periodo eneolitico l’Egitto si trova in una posizione diversa e si distingue sempre più dalle culture che lo circondano perché, nel momento del suo maggior sviluppo, l’Eneolitico si confonde con la civiltà “storica” che ne è il compimento. Il periodo eneolitico è la continuazione del Neolitico, e perciò presenta inizialmente due culture diverse, una a nord e l’altra a sud, ma la caratteristica dell’Eneolitico sta nel fatto che, dopo un certo tempo, queste due culture si fondono e da esse nasce la lunga civiltà Faraonica.
    Per quanto riguarda il periodo anteriore alla fusione, l’Eneolitico è conosciuto soltanto grazie ai siti dell’Alto Egitto, di cui il più antico è Badari. Le capanne sono ovali e di materiale leggero, l’arredamento costituito da stuoie, cuscini in cuoio, letti di legno. La necropoli, come quelle del Neolitico, è situata un po’ discosto dal villaggio, le fosse sono ovali, come le case, e i morti vi sono posti in posizione fetale, circondati da vasi che contenevano sicuramente delle offerte. Le novità sono costituite dalla presenza di figurine femminili nude, in avorio o argilla, e dalla presenza di un’intelaiatura di vimini che isola il cadavere dal riempimento della fossa. L’industria badariana resta caratterizzata dall’impiego della selce, il rame è presente ma soltanto in piccoli pezzi ottenuti per martellamento, mentre per i tessuti viene impiegato il lino, ma anche il cuoio continua a essere utilizzato. Sanno lavorare il legno, la ceramica è in netto progresso rispetto al periodo precedente e, anche se le forme sono meno numerose di quelle che si trovano nel nord del paese, sono molto più belle: è l’epoca della ceramica egiziana. All’inizio dell’Eneolitico appare per la prima volta lo smalto verde-blu che sarà una delle caratteristiche dell’arte egiziana, anche se, in questo primo periodo il suo impiego è limitato.
    È interessante notare che a Badari non si trovano i vasi in pietra dura presenti, già nel Neolitico, nel Basso Egitto, mentre le palette di scisto sono già presenti e le vedremo evolversi fino in epoca storica. Infine, si sono trovati a Badari alcuni animali seppelliti avvolti in stuoie o stoffe, sciacalli, tori, montoni, gazzelle e ciò potrebbe prefigurare un culto di alcuni animali considerati sacri, che si ritroverà alla base della religione egiziana in epoca storica. A partire dal V millennio iniziano ad apparire una serie di cambiamenti: le capanne diventano rettangolari e anche le tombe, facendo così intendere chiaramente che venivano considerate come dimore, concezione che rimarrà nell’arco di tutta la civiltà egiziana. La lavorazione del rame, che fino ad allora era stato impiegato poco, si sviluppa: appaiono i vasi in pietra; la ceramica, che prima era a tinta unita, ora imita i vasi in pietra oppure ha decorazioni di tipo naturalistico.
    Queste modifiche sono frutto dell’unione delle due culture di cui abbiamo parlato; in effetti tutti gli elementi di novità che appaiono nell’Alto Egitto, preesistevano al nord. Le mazze a forma di pera, presenti nel nord sin dal Neolitico, si trovano anche a sud a partire dal V millennio, e soppiantano la forma a disco, e anche i vasi in pietra, sconosciuti a Badari, sono invece conosciuti al nord sin dal Neolitico. Ci sono quindi gli elementi per dire che le novità che si notano nella cultura meridionale provengono dal nord, ma ciò che ci preme far notare è che, anche se le due civiltà prima della fusione erano differenti, questo non vuol dire che fossero estranee.
    Entrambe sono a pieno titolo africane, ma quella situata a nord è avvantaggiata negli scambi, a ovest, tramite l’oasi di Siua, e a est tramite il Sinai, ed è probabilmente da lì che è giunto in Egitto il rame. Per spiegare la fusione tra nord e sud si è parlato di un’invasione e si è creduto di riconoscere individui stranieri nelle tombe dell’Alto Egitto databili a un periodo successivo, ma non è affatto sicuro che questi individui caratterizzati da teste piccole (brachicefali), non siano mediterranei e inoltre, anche se fossero stranieri, non sarebbero così numerosi da legittimare l’ipotesi di un’invasione o di una conquista.
    Nel predinastico recente, la fusione è ormai avvenuta e questa civiltà è molto più evoluta rispetto a quella che esisteva in Alto Egitto all’inizio dell’Eneolitico. Per le costruzioni vengono usati i mattoni crudi, i silos sono in terracotta, e quindi meno umidi, nelle necropoli le fosse sono rettangolari, a imitazione delle case, e testimoniano l’inizio di una vera e propria architettura funeraria: la tomba è costituita da una muratura in terra sormontata da un tetto e vi sono delle stanzette laterali che fungono da magazzini per le provviste del morto. Il defunto in un primo periodo fu chiuso in una cesta di vimini, poi in un vaso di terracotta e, da ultimo fu seppellito in una bara di legno. Sembra che le necropoli fossero situate soprattutto sulla riva occidentale del Nilo e che il morto avesse la testa rivolta a nord e il corpo a est; insomma, si assiste, almeno sul piano puramente materiale, alla creazione della religione funeraria egiziana. Un’industria lirica si perfeziona ulteriormente e la figura umana appare per la prima volta, sia sulla ceramica con il fondo marrone chiaro, sia in figurine d’avorio o d’argilla, sui manici di certi coltelli e anche su un affresco.
    Sui monumenti figurati e sulle palette di scisto, vediamo spesso apparire edifici o personaggi che portano delle aste sormontate da un animale o un oggetto, le stesse insegne che si ritroveranno in epoca storica come simboli dei Nomi. Sembra legittimo dedurne che, già alla fine dell’Eneolitico, l’Egitto conoscesse un’organizzazione sociale e inoltre la frequente presenza del falco e del bucranio sulle palette sembra indicare che la religione si è già costituita: culto di Horus per il falco e di Hathor per il bucranio. Gli abitanti della valle del Nilo hanno quindi in mano tutti gli elementi di quella civiltà che ora inizierà a svilupparsi a un ritmo molto più rapido.
    Per delineare la storia di questi secoli oscuri si può usare anche un altro tipo di fonti, meno precise e più difficili da interpretare; la continuità della civiltà egizia, non essendo mai stata interrotta bruscamente, potrebbe conservare, nei testi redatti in epoca storica, le tracce di tradizioni che risalgono a molto prima dell’unificazione avvenuta nel 3100. Questi testi, chiamati testi delle Piramidi, non si trovano nelle grandi piramidi di Giza, ma sulle pareti interne di piramidi molto più modeste appartenenti a re della V e VI dinastia (tra il 2350 e il 2200) e si è pensato che potessero riferirsi ad avvenimenti accaduti all inizio dell’Eneolitico nella zona nord (della quale non abbiamo alcuna testimonianza archeologica). Secondo questi testi l’Alto Egitto sarebbe stato il regno di Seth, mentre il delta sarebbe stato diviso in due gruppi di Nomi (in greco nomoi) contrapposti, uno a est e l’altro a ovest.
    Osiride, re del nord, li avrebbe unificati e poi Horus, il suo successore, avrebbe attaccato il regno di Seth, creando cosi una monarchia unificata che avrebbe regnato su tutto l’Egitto già prima del 3100. Questo stato di cose, però, non sarebbe durato a lungo, e presto si sarebbero creati due regni, uno con capitale nell’Alto Egitto, a el-Kab, e uno con capitale nel Basso Egitto, a Buto.
    L’egittologo tedesco Kurt Sedie, autore di quest’ipotesi, riteneva che il calendario solare fosse stato adottato durante il primo periodo d’unificazione, nel 4200 circa, e che la capitale dovesse trovarsi a Eliopoli (vicino al Cairo). Se questa ipotesi si rivelasse esatta, la storia della civiltà egizia si potrebbe così riassumere:
    1) dal 5000 al 3800 circa – periodo neolitico e inizio dell’eneolitico, l’Egitto ha due focolari di cultura, uno al nord, l’altro al sud;
    2) verso il 3700 – apparizione del metallo, il nord si unifica e, all’inizio del IV millennio conquista il sud;
    3) verso il 3600 – una monarchia venuta dal nord governa tutto l’Egitto, con capitale a Eliopoli, ma, ben presto, il paese si divide un’altra volta in due parti, una con capitale a sud, a el-Kab, una con capitale a nord, a Buto;
    4) intorno al 3000 – i re del sud assoggettano quelli del nord e Menes, re del sud, governa tutto l’Egitto.
    Questa ricostruzione degli avvenimenti è affascinante, ma sono in molti a sottolineare la fragilità degli argomenti in suo favore. Si pensa invece che l’unificazione sia stata compiuta dal sud, mentre il regno eliopolitano unito in epoca preistorica non sarebbe mai esistito. Tuttavia, poco prima del 3100, ci sono stati sette faraoni che hanno governato tutto l’Egitto e che costituiscono quella che oggi viene chiamata la “dinastia zero”. A Ieracompoli, che sembra fosse la capitale del sud in quel periodo, si sono trovati monumenti che raffigurano un re, chiamato il re Scorpione, che combatte gli egiziani. Sembra che il potere del re Scorpione si sia esteso fino a nord di Menfi, mentre il re che unificò l’Egitto sarebbe stato Narmer, il suo successore.
    Questo re è rappresentato su una paletta mentre combatte contro gli egiziani, ma, in questo caso, già indossa le insegne di re del sud e del nord e quindi riassume nella sua persona l’unità del paese: lo Scorpione e Narmer sarebbero gli ultimi faraoni della “dinastia zero”.

    PERIODO THINITA

    (3000 – 2700 a.C.) Non si sono trovate testimonianze certe dell’esistenza del famoso Menes, presunto fondatore della regalità faraonica, ed è anche possibile che il suo nome nasconda diversi re ma, per contro, esistono dei documenti che riguardano il periodo immediatamente precedente l’unificazione del paese. A Ieracompoli, che sembra fosse la capitale del sud in quel periodo, si sono trovati monumenti che raffigurano un re, chiamato il re Scorpione, che combatte gli egiziani. Sembra che il potere del re Scorpione si sia esteso fino a nord di Menfi, mentre il re che unificò l’Egitto sarebbe stato Narmer, il suo successore.
    Questo re è rappresentato su una paletta mentre combatte contro gli egiziani, ma, in questo caso, già indossa le insegne di re del sud e del nord e quindi riassume nella sua persona l’unità del paese: lo Scorpione e Narmer sarebbero gli ultimi faraoni della “dinastia zero”. Dei cinque secoli in cui avrebbero regnato le prime due dinastie sappiamo poco. La capitale era Thinis, presso Abido, dove sono state trovate le tombe dei faraoni della prima dinastia, mentre le grandi sepolture di Saqqara, che si credeva fossero sepolture reali, appartengono agli alti funzionari che erano imparentati ai faraoni.
    L’evoluzione storica dell’Egitto è la medesima sotto le due dinastie, ed è caratterizzata dallo sviluppo della scrittura e dall’organizzazione dell’apparato reale, fatti che sono collegati, poiché lo sviluppo della scrittura è stato favorito dall’estensione dei poteri reali e viceversa. I re sono adesso abbastanza forti da inviare delle spedizioni fuori dall’Egitto, nel Sinai, a cercare delle pietre preziose, o in Nubia e nel deserto arabico. La monarchia si rafforza a poco a poco, ma non ci è dato di sapere se, in questo periodo, è già cosi “assoluta” come nell’Antico Regno.
    Un fatto però è certo, lo stesso che caratterizzerà la regalità egiziana fino alla conquista greca: la sua natura religiosa, poiché il faraone è un “dio in terra”. Sia la cerimonia d’incoronazione che le feste religiose hanno un duplice valore, amministrativo e religioso, il sacro non è separato dal civile e il funzionario può anche essere, come del resto il faraone, un sacerdote. Sembra che la burocrazia si sviluppi in questo periodo ma anche se si sa che è organizzata in maniera fortemente gerarchica, non si sa quanto sia specializzata. Prosegue lo sviluppo economico del paese e in un paio di occasioni è certo che fu lo stesso faraone a occuparsi della creazione dei canali per l’irrigazione, della cui manutenzione si occupava uno dei funzionari più importanti, il nomarca (dal greco nomòs e archéo, “governo”), il governatore provinciale cui faceva capo tutta l’amministrazione locale.
    Queste prime dinastie rappresentano quindi l’epoca in cui la civiltà egiziana si dà la sua forma definitiva, mentre, nelle epoche precedenti, si erano raggiunti gli obiettivi materiali indispensabili al suo sviluppo: la conquista agricola del paese, l’elaborazione delle concezioni religiose, della lingua e della scrittura, l’apprendimento delle tecniche di lavorazione del metallo, della tessitura e della ceramica, ecc. In questo periodo la civiltà egizia si trasforma in un regno politicamente unito. L’archeologia e i testi religiosi permettono di ricostruire grosso modo la storia dell’unificazione sia del paese che dei due gruppi antagonisti che si sono poi fusi in un unico regno, ma né l’una né gli altri danno chiarimenti circa la nascita dello Stato faraonico cosi come appare nelle epoche successive. Si sa che, fin dalle prime dinastie, c’era un solo re, e che il paese era diviso in province con a capo un alto funzionario, ma questo è un risultato a cui non si conosce come gli egiziani siano arrivati.

    I Dinastia
    (3100 +/- 150 a. C.) Le prime testimonianze archeologiche della I Dinastia si devono ad Amélineau. Con l’aiuto di fondi forniti da privati, egli iniziò alcuni scavi ad Abido nel 1895, proseguendo i lavori verso occidente fino a raggiungere un basso contrafforte del deserto, detto l’Umm el-Kacab, la Madre dei Vasi, dagli innumerevoli cocci che ricoprivano il terreno. In questa remota località, distante più di un chilometro e mezzo dai campi coltivati, s’imbatté in un gruppo di tombe di mattoni a forma di pozzo, che in seguito si rivelarono appartenenti ai re della I e della II dinastia. Egli ne contò sedici.
    Petrie, qualche anno più tardi, riuscì a disegnare la pianta delle tombe ed a ricuperare un gran numero di oggetti importanti fra i quali recipienti in pietra con iscrizioni, sigilli di giare, tavolette d’ebano e d’avorio, e varie stele stupendamente scolpite e di imponenti dimensioni.
    Nel 1897 Quibell, eseguendo scavi a Kom el-Ahmar, quasi di fronte a Edfu sulla riva opposta del fiume, fece una sensazionale scoperta. Era noto che qui sorgeva l’antica Nekhen, menzionata in certi titoli ufficiali dell’Antico Regno, detta poi dai Greci Ieracompoli dalla principale divinità del luogo, il dio falco Horo. La grande scoperta di questi scavi fu la famosa Tavoletta di Narmer. Non occorreva molto acume per individuare in questo oggetto un indiscutibile anello di collegamento fra il tardo periodo predinastico e l’inizio di quello protodinastico.
    Prima di Narmer è opportuno però parlare di un re ancor precedente che, in mancanza di un equivalente fonetico, viene chiamato il re Scorpione.
    Gli studiosi ritengono che Narmer non fosse altri che Menes in persona. Molti fatti collegano Menes a Menfi, primo fra tutti il fatto che, secondo gli storici, fu proprio lui a fondare la città.
    L’importanza di questa grande città durante la I dinastia fu rivelata dagli scavi condotti al margine del deserto occidentale, qualche chilometro più a nord.
    Dopo le scoperte di Abido gli studiosi erano convinti di esser venuti in possesso degli autentici sepolcri dei primi faraoni, il che pareva confermato dall’affermazione di Manetone che i re della I e della II dinastia provenivano da Tjene (Thinis), città nei pressi di Abido. Ma le maggiori dimensioni e la grandiosità delle tombe menfite facevano ora nascere il sospetto che fossero queste le vere tombe regali protodinastiche e la questione si faceva ancor più complicata con la scoperta di mastabe isolate, non meno imponenti e appartenenti allo stesso periodo, a Tarkhan, qualche chilometro a sud di Lisht, a Giza e anche più a nord, ad Abu Roash.

    II Dinastia
    (3000-2700 a.C.) La II dinastia di Manetone, composta di nove re originari di Thinis, presenta problemi ancor più intricati della precedente. Dei nomi manetoniani quattro sono identificabili negli elenchi regali ramessidi, sebbene abbiano subito gravi deformazioni; ma occorre un notevole acume per dimostrare che il Tlas di Manetone deriva da un re Weneg, conosciuto solo attraverso frammenti di coppe immagazzinate nelle gallerie sotterranee della piramide a gradini.
    Le liste dei re ne enumerano undici, invece dei nove di Manetone, ma solo per quattro si è trovato sui monumenti conferma della loro esistenza.
    Esistono prove fondate di rapporti, amichevoli o meno, fra gli ultimi re della II dinastia e i paesi del Nord. Non solo alcuni sigilli attribuiscono a Peribsen l’epiteto di “conquistatore di paesi stranieri”, ma vi è anche motivo di credere che fu lui a introdurre il culto di Seth nel delta nord-orientale.
    Le cifre totali fornite da Manetone (253 anni per la I dinastia e 302 per la II) non sono naturalmente attendibili, e altrettanto improbabili sono i complessivi 450 anni che si ricavano dalla Pietra di Palermo per le due dinastie. Ma qualunque ne sia la durata, questo periodo bastò per dare alla civiltà dell’antico Egitto quell’impronta particolare che distingue in modo così marcato i suoi resti da quelli dei paesi vicini.

    Antico regno

    (2700 – 2200 a.C.) Come non c’è stato un taglio netto fra l’epoca eneolitica e le prime dinastie, non c’è neanche una netta separazione tra queste e l’inizio dell’Antico Regno, il cui fondatore, Djoser, secondo re della III dinastia, era figlio di Khasekhemuy, ultimo re della seconda; sono i perfezionamenti tecnici raggiunti, soprattutto nell’architettura, che permettono di parlare di una nuova dinastia.
    L’avvenimento più importante del regno di Djoser, quello che giustifica la classificazione dell’Antico Regno in un periodo diverso dai precedenti, è lo spostamento della capitale dalla zona di Abido a Menfi (l’Antico Regno viene a volte chiamato menfita). È durante il suo regno, probabilmente, che l’amministrazione reale si complica ed egli si fa perciò affiancare da un aiutante, un primo ministro di nome Imhotep Da diversi indizi, si sa che Djoser ha continuato l’opera dei re della prima dinastia, promovendo azioni militari verso la Nubia e proseguendo una politica che sarà poi quella di tutti i re dell’Antico Regno, visto che gli egiziani di questo periodo sembrano essere più preoccupati dai loro confinanti a sud che da quelli a nord-est.
    Un testo di epoca tarda fa risalire a lui la prima penetrazione egiziana in Nubia, ma sembra che già il re Djer (I dinastia) era arrivato fino alla seconda cataratta e quindi il testo si riferisce probabilmente all’annessione della Nubia più che a una sortita militare. Un’altra zona molto frequentata dagli egiziani in cui si recò anche Djoser, come è testimoniato da un’incisione rupestre, era il Sinai, dove c’erano miniere di pietre preziose, e forse anche di rame, indispensabili all’artigianato e alla religione egizia.
    La IV dinastia è quella dei costruttori delle grandi piramidi e dovrebbe essere tra quelle su cui si hanno maggiori informazioni e invece l’unico re di cui si conosce qualcosa e il fondatore, Snofru, figlio di Unis. I monumenti ci sono, perfetti, testimonianza irrefutabile di una civiltà molto avanzata sia sul piano tecnico che amministrativo, ma prove certe, su questi aspetti, non esistono.
    Un racconto egiziano del Medio Regno svela le origini leggendarie della V dinastia. Vi si narra che la moglie di un sacerdote di Ra avrebbe concepito con il dio i primi tre faraoni. È certo che il culto del dio solare Ra aveva, in quest’epoca, un importanza primaria, non solo a causa delle origini della dinastia, che proveniva da Eliopoli dove il dio era adorato, ma anche perché il clero di questa città contribuì alla presa del potere da parte della stessa dinastia. Comunque sia, da quel momento in poi i faraoni assunsero il titolo di figlio di Ra e l’impronta della religione sulla vita regale si evidenzia già dai nomi dei faraoni, in cui Ra appare quasi sempre.
    La religione solare apporta delle modifiche all’architettura dei numerosi templi che ed è in quest’epoca che furono compilati (se non proprio composti) i Testi delle Piramidi. Sembra che la V dinastia, per quanto riguarda la politica estera, fosse più interessata all’Asia, non si sa se perché di lì attaccata o semplicemente perché voleva estendere la propria influenza in quelle zone. Alcune spedizioni militari furono condotte nel Sinai, in Asia e in Libia.
    Per la VI dinastia si hanno numerose testimonianze dell’attività di Pepi I, soprattutto decreti per la fondazione di opere pie, molto importanti per studiare il diritto egiziano in un’epoca cosi antica. Come i suoi predecessori, Pepi sorveglia la Nubia e ordina numerose spedizioni contro gli asiatici, anche se sembra che il paese nemico non fu mai occupato, e che l’esercito egiziano vi compisse soltanto delle incursioni. Durante questo periodo continuò la pacificazione della Nubia e vennero inviate spedizioni commerciali a Biblo e nel paese di Punt, cioè lungo la costa africana del Mar Rosso, nella zona dell’attuale Eritrea.
    Con Pepi II inizia la decadenza dell’Antico Regno forse perché in vecchiaia (regnò oltre novant’anni!) egli non è più stato in grado di mantenere l’unità del paese, che, in effetti, si fondava soltanto sulla sua persona.
    L’Antico Regno, che termina con la VI dinastia, fu un periodo di grande prosperità per l’Egitto. Fu l’apogeo della regalità faraonica. Il re viene considerato a tutti gli effetti dio in terra, per cui lo si teme e gli si obbedisce, e sotto la sua guida sicura, l’Egitto conosce una prosperità economica che ritroverà solo difficilmente e a intervalli irregolari. Non esistono molte informazioni circa i contatti esterni che l’Egitto ebbe in questo periodo, ma il fatto che a Biblo vi fosse un tempio dedicato a divinità egiziane, indica che i contatti non si sono limitati alla conquista della Nubia, che resta pur sempre la grande impresa dell’epoca.

    III Dinastia
    (2700-2630 a. C.) E’ la prima dinastia della quale è possibile stilare una lista abbastanza precisa dei faraoni che la compongono. Inoltre è la prima della quale sono arrivate sino a noi prove certe sotto forma di manufatti monumentali in pietra. Il primo faraone della III dinastia fu Djoser, la cui importanza come fondatore di una nuova epoca è messa in risalto nel Canone di Torino dall’uso eccezionale dell’inchiostro rosso. La sua impresa maggiore fa la grande piramide a gradini di Saqqara.
    Il merito tuttavia più che a Djoser stesso va attribuita al suo celebre architetto Imhotep. Manetone, lo storico greco, gli attribuisce l’invenzione dell’arte della costruzione in pietra; il grande monumento funebre di Djoser fu infatti il primo costruito interamente con quel materiale. I diciannove assegnati a Djoser sembrano un periodo breve per portare a termine la sua piramide. Più credibili sarebbero i ventinove concessigli da Manetone, se nei suoi elenchi della III dinastia non contasse nove re, tutti con nomi non identificabili eccetto Tosorthros (Djoser), i quali avrebbero regnato per un totale di duecentoquattordici anni.
    Della III dinastia ci rimangono, oltre alla piramide di Djoser, le rovine di un tempio costruito dallo stesso faraone a Eliopoli, oltre alle rovine di altre due piramidi attribuite ai successori di Djoser. Alcuni studiosi inoltre attribuiscono alla III dinastia anche la piramide di Maydum, altrimenti attribuita a Snofru.

    IV Dinastia
    (2630-2510 a.C.) La IV dinastia è forse la più conosciuta dell’intera storia egizia. I nomi dei suoi tre sovrani più famosi fanno parte del bagaglio culturale di ciascuno di noi. Cheope, Chefren, Micerino, grazie alle grandiose opere realizzate sono un caposaldo della storia antica.
    Con la IV dinastia si sviluppa appieno l’architettura della piramide che nella dinastia precedente era nata come evoluzione della mastaba. Le piramidi della IV dinastia nascono da un’idea di piramide pienamente formata e la magnificenza raggiunta da questi monumenti non sarà più eguagliata nei secoli successivi, addirittura sino ai giorni nostri, visto che la grande piramide di Cheope è ancora oggi la più grande opera mai costruita dalla mano dell’uomo e, come altezza di opera umana interamente in pietra, è superata solamente dalle torri della cattedrale di Colonia, costruita più di quattro millenni dopo.
    I nomi Cheope, Chefren e Micerino sono la versione ellenizzata tramandataci da Erodoto dei nomi reali dei tre sovrani (Khufwey, Khafra, Menkaura). Il fondatore della dinastia fu Snofru, il quale sposò una figlia di Huny, l’ultimo faraone della dinastia precedente.
    Snofru fu un grande costruttore di piramidi, gliene si attribuiscono ben tre, e di notevoli dimensioni. Sia Snofru che i suoi immediati successori furono sovrani molto potenti, non si spiegherebbe altrimenti la riuscita nella realizzazione delle loro grandi opere; dopo Micerino però le fortune della dinastia sembrarono decadere rapidamente. La terza piramide fu terminata frettolosamente e arredata all’interno da Shepseskaf, il solo altro re della IV dinastia riconosciuto legittimo dai contemporanei e dalla Tavola di Abido.
    Che qualcosa di grave sia accaduto verso quest’epoca si può dedurre dal fatto che Shepseskaf scelse per la sua ultima dimora la zona sud di Saqqara e si fece costruire non una piramide, ma una tomba che, a parte le pareti inclinate, ha la forma tipica dei sarcofagi di quel periodo. La gente del posto chiama questa tomba Mastabat el-Faraun. Questa tomba fu imitata poco tempo dopo a Giza in un monumento talvolta denominato la piramide incompiuta o la quarta piramide. Apparteneva alla madre di un re di nome Khantkawes; da quest’ultimo avrà origine la V dinastia.

    V Dinastia
    (2510-2350 a. C.) Esiste a Giza un monumento talvolta denominato piramide incompiuta o quarta piramide. Gli scavi ne hanno rivelato l’appartenenza alla madre di un re di nome Khantkawes, il cui culto funerario fu mantenuto per tutta la V dinastia.
    Sembra accertato che da Khantkawes ebbe origine la V dinastia, anche se questa tesi urta contro la tradizione raccolta da una narrazione del tardo Medio Regno, secondo la quale i primi tre re della V dinastia sarebbero stati figli trigemini di un semplice sacerdote di Ra. Quali che siano le origini della V dinastia, non possono esistere dubbi sulla diversità e sull’originalità del suo carattere.
    Secondo la leggenda al figlio maggiore di Radjedef era stato predetto che sarebbe diventato gran sacerdote del dio sole Ra in On, la grande città conosciuta come Eliopoli dai Greci, ora un semplice sobborgo a settentrione del Cairo.
    Non si ha conferma nè appare probabile che Userkaf, primo re della dinastia, abbia mai esercitato tale ufficio, ma è certo che sotto il suo regno la casta sacerdotale di Eliopoli incominciò a esercitare un’influenza senza precedenti. Occorre tuttavia osservare che, sebbene divenuto più intenso, il culto del sole in questo periodo non fu esclusivo come lo sarebbe stato più di mille anni dopo sotto Akhenaten, perché altre divinità, fra cui le dee dell’Alto e del Basso Egitto, erano parimenti venerate. Al predominio del culto solare nella religione si rispecchia in un mutamento avvenuto nei titoli reali. Fino a questo momento il nome di Ra compare solo nei cartigli di Radjedef, Chefren e Micerino. Durante la V dinastia Ra diviene un elemento pressoché costante come risulta dall’elenco ben accertato dei nove re che la compongono: Userkaf, Sahura, Neferirkara (Kakai), Shepseskara (Izi?), Neferefra, Niuserra (In), Menkauhor, Djedkara (Isesi), Unis.
    Ma ciò che più colpisce è la presenza di un nuovo tipo di monumento che, per quanto ci risulta, fu invenzione originale della V dinastia e non fu più costruito dopo l’ottavo re: tempio per il culto solare.
    Indubbiamente i nuovi adepti del culto solare non si sentivano all’altezza di onorare il loro dio con la magnificenza che i sovrani della IV dinastia avevano dedicato alla glorificazione della propria persona perciò, onde evitare confronti poco lusinghieri, costruirono i nuovi templi più a sud, a qualche chilometro da Giza.
    Abu Gurab, un luogo che per molto tempo aveva portato il nome della piramide di Righa, rivelò i resti di un grande tempio del sole che si suppone copiato dal tempio di Ra-Atum ad Eliopoli. La pianta generale assomiglia a quella del consueto complesso funerario delle piramidi, con un edificio d’ingresso presso la valle, una rampa che conduce a un livello superiore e nel punto più alto invece della piramide e del tempio funerario un tozzo obelisco poggiato su un basamento quadrato a forma di piramide tronca. L’obelisco ricordava un’antichissima pietra che si trovava ad Eliopoli, detta beben, che simbolizza senza dubbio un raggio o i raggi del sole e forse etimologicamente significa “il radiante”. Si sa che dei nove re della V dinastia sei innalzarono templi del sole di questo genere ciascuno battezzato con un nome particolare come “Delizia di Ra”, “Orizzonte di Ra”, “Campo di Ra”, ma solo due sono stati individuati con certezza: quello di Userkaf e quello di Niuserra.
    Sulla Pietra di Palermo gli unici due riferimenti a imprese non religiose dei faraoni della V dinastia riguardano viaggi nel Sinai alla ricerca di turchesi e a Punt, luogo di provenienza dell’incenso e di varie spezie. A eccezione di una campagna libica e della guerra asiatica nella quale fu comandante supremo Weni, pare che tutte le avventure oltre il confine dell’Antico Regno avessero uno scopo utilitario: viaggi per procacciare i materiali con cui saziare la passione del sovrano per l’edilizia, accrescere il lusso della sua corte e soddisfare le esigenze delle divinità da lui adorate.

    VI Dinastia
    (2350-2200 a. C.) Manetone fa iniziare la VI dinastia da un Othoès che s’identifica con il Teti successore di Unis degli elenchi di Abido e Saqqara. Sempre Manetone indica Menfi come luogo d’origine della VI dinastia, ed infatti tutte le piramidi dei suoi sovrani sono situate nella zona di Saqqara a poche miglia l’una dall’altra.
    Fu proprio la piramide del terzo re, Pepi I, chiamata Mn-nfr, ” (Pepi è) insediato e bello”, a dare il nome alla grande città di Menfi in mezzo alla valle, di fronte a Saqqara.
    Non si sa perché Teti sia stato considerato il fondatore di una nuova dinastia, ma è pressappoco verso questo periodo che si manifesta in pieno l’importante trasformazione avvenuta nel carattere del regno egizio.
    Finita l’estrema centralizzazione del potere dei periodi precedenti, quando la più alta ambizione di un cortigiano era quella di ottenere una tomba all’ombra della piramide regale, la generosità del faraone riceveva ora un’ingrata ricompensa; le sue ricchezze incominciavano a esaurirsi mentre quelle dei nobili erano tanto aumentate ch’essi potevano quasi gareggiare con lui in potenza e importanza. Ovunque nelle vicinanze dei maggiori centri delle province erano sorti bellissimi cimiteri dove non solo i principi del luogo ma anche i loro dipendenti di grado più elevato cercavano di conferire alle proprie mastabe e alle tombe scavate nella roccia qualcosa dello splendore della capitale. Tuttavia benché avesse già preso salde radici tutta un’aristocrazia provinciale, non si deve supporre che il potere dei faraoni si fosse in alcun modo indebolito durante la VI dinastia.
    Essa al contrario conta fra i suoi sovrani alcuni dei più grandi nomi della storia egizia, a giudicare dal numero dei cartigli sparsi in tutto il reame e dall’eco, giunta fino a noi, delle loro imprese e del loro energico spirito d’iniziativa. E’ vero che i monumenti alla loro memoria non possono stare alla pari come livello artistico con quelli della generazione precedente, e dimostrano anche scarsa originalità. L’esecuzione tecnica è scadente tanto che la maggior parte delle piramidi è crollata riducendosi a mucchi informi di rovine.
    E’ anche scomparso quel religioso fervore che aveva indotto la V dinastia a dedicare quasi tutte le proprie risorse alla glorificazione del dio sole. I Testi delle Piramidi che coprono le pareti delle camere sepolcrali mirano solo ad assicurare nell’oltretomba il benessere del re defunto, identificato con Osiride.
    Grande è l’abbondanza di documenti della VI dinastia giunti sino a noi. Da questi si deduce la tendenza generale al decentramento perché, anche se nominava a governatori delle province, o nomarchi, i più influenti personaggi provinciali (come Ibi nel nomo della Montagna della Vipera ), il faraone continuava a voler partecipare alla costruzione dei templi locali e ad arrogarsi il diritto di esentarne i dipendenti dagli obblighi più gravosi.

    I° PERIODO INTERMEDIO

    (2200 – 2050 a.C.) A partire dal regno di Pepi II cominciarono a manifestarsi fermenti sociali e, per più di un secolo, l’Egitto fu preda di disordini, di anarchia a livello provinciale e, forse, anche di invasioni straniere. Questo periodo è molto oscuro, ed è caratterizzato dalla decadenza del potere centrale di Menfi e da rivolgimenti sociali.
    Mentre la prima si intravede nei documenti di cui disponiamo, gli altri cambiamenti ci sono noti soltanto tramite testi di epoche successive.
    Della decadenza del potere reale è, per alcuni, evidente fatto che, a partire dalla V dinastia, la carica di governatore del nomo diviene ereditaria, riducendo cosi l’influenza regale.
    Ma la ragione vera di questa decadenza potrebbe essere legata a fattori fisici: il clima, che prima era umido, verso il 2300 si inaridisce, e ciò comporta la diminuzione delle risorse alimentari egiziane mentre, allo stesso tempo, obbliga le popolazioni insediate nella steppa a rifugiarsi nella valle, determinando cosi un cambiamento economico-sociale.
    La decadenza della regalità, forse accelerata dalle incursioni dei beduini che il potere centrale non aveva più la forza di respingere, sembra essere stata alla base dei disordini sociali, che noi conosciamo tramite alcuni testi molto interessanti, anche se redatti in epoche successive da scribi incaricati dai sovrani della XII dinastia di celebrare la restaurazione dell’ordine e della stabilità. Essi avevano perciò tutto l’interesse a esagerare la gravità della situazione per mettere in evidenza l’opera pacificatrice dei re del Medio Regno; in realtà non si sa neppure se questa rivoluzione ha interessato tutto l’Egitto o se è rimasta localizzata soltanto nella zona di Menfi. Non si conosce quasi nulla degli altri avvenimenti dell’epoca.
    Le liste dei re e Manetone dividono i regnanti, di cui conosciamo soltanto il nome, in due dinastie, la VII e l’VIII. La prima avrebbe contato settanta re di Menfi che regnarono per settanta giorni; la seconda, conosciuta soltanto dalle liste reali, avrebbe avuto dai 18 ai 32 faraoni, di cui alcuni avrebbero regnato contemporaneamente con un governo di tipo oligarchico. Per lungo tempo si è creduto che, all’inizio dell’VIII dinastia, i nomarchi del sud dell’Alto Egitto, si fossero uniti fondando un regno indipendente, governato dal nomarca di Copto, che sarebbe durato una quarantina d’anni; ma nel 1946 W.C. Hayes ha dimostrato che questa dinastia copta non è mai esistita.
    Quando l’VIII dinastia termina, intorno al 2220, l’Egitto è diviso in tre parti: al nord c’è una forte presenza di invasori asiatici, al centro, a Menfi, resiste la vecchia monarchia centralizzata ma, nel Medio Egitto, Kheti, nomarca di Eracleopoli, prende il titolo di re dell’Alto e del Basso Egitto e ben presto controlla sia la zona di Menfi che il Fayum.
    Nel sud invece i re menfiti sono stati soppiantati dai nomarchi di Tebe, che hanno raggruppato intorno a sé i nomi (distretti) meridionali. Sembra che questa situazione sia durata abbastanza ed è interessante notare come, se non si tiene conto del delta, l’Egitto sembra essere tornato all’epoca preistorica, con un raggruppamento di nomi al nord, nel Medio Egitto (dinastia eracleopolitana), di cui conosciamo alcuni re (Kheti I, II e III e Merikara), e uno a sud, a Tebe, con a capo gli Antef o i Mentuhotep. Si giunse presto a uno scontro e la situazione rimase a lungo confusa tra alterne vicende di vittorie e sconfitte da entrambe le parti, fino a quando, nel 2060, troviamo l’Egitto nuovamente unito sotto Mentuhotep, discendente dei governatori tebani che governavano i nomi del sud; da questa data si fa iniziare il Medio Regno.
    Malgrado tutti i suoi difetti, Manetone fornisce un’intelaiatura entro la quale s’inquadrano abbastanza bene i risultati delle ricerche; si possono elencare cinque fasi storiche che si sovrappongono l’una all’altra:

    1. rapida disintegrazione dell’antico regime menfitico seguita al lunghissimo regno di Pepi II;
    2. stragi e anarchia conseguenti allo sfacelo della monarchia e alla rivalità tra i feudatari provinciali, o “nomarchi”, probabilmente fomentate anche da infiltrazioni asiatiche nel delta;
    3. formazione di una nuova linea dinastica di faraoni fondata da Akhtoy (l’Achthoes di Manetone) in testa e Eracleopoli come capitale;
    4. sempre crescente importanza di Tebe sotto il dominio di una ancora più energica famiglia di principi guerrieri, dei quali i primi quattro portano il nome di Inyotef (Antef, nei vecchi testi di storia egizia), gli ultimi tre quello di Menthotpe (Mentuhotep);
    5. guerra civile tra i principi tebani e la dinastia di Eracleopoli, e vittoria finale di Menthotpe I che riunisce i due paesi preparando l’avvento del Medio Regno, di cui Ammenemes I (XII dinastia), uno dei più grandi sovrani dell’Egitto, sarà l’iniziatore.

    Con Menthotpe I si può considerare concluso il I periodo intermedio. In che misura si sovrappongano le cinque fasi e quale ne sia la rispettiva durata è ignoto; a questa incertezza è dovuta l’impossibilità di ricavarne un quadro coerente. Il vero nodo della questione sta nella cronologia, e anche se i più recenti studi autorevoli in materia sono d’accordo nel valutare da duecento a duecentocinquanta anni la durata del periodo intercorso da Nitocris alla fine del regno di Menthotpe, la loro opinione è poco più di una congettura. Il Canone di Torino non offre aiuto essendo andata persa la cifra totale degli anni di regno dei sovrani eracleopolitani e dei loro successori, e la possibilità di una sovrapposizione con l’XI dinastia vi appare del tutto ignorata.

    VII e VIII Dinastia
    (2200-2170 a.C.) E’ impossibile precisare il momento in cui scoppiarono quei gravi disordini che segnarono la fine dell’Antico Regno, la cui realtà storica è fuor di dubbio, e vi è ragione di credere che perdurassero senza interruzione o a intervalli fino a buona parte della XI dinastia. Dobbiamo quindi supporre che la monarchia menfita sia andata sempre più indebolendosi finché non le fu più possibile tenere sotto controllo i monarchi delle province più lontane a monte lungo il fiume.
    Secondo Manetone la VII dinastia sarebbe formata da settanta re di Menfi, che avrebbero regnato per settanta giorni. L’VIII dinastia, di Menfi anche questa, comprenderebbe ventisette re per 146 giorni di regno. L’elenco di Abido mette al loro posto ben diciotto re prima di saltare direttamente agli ultimi sovrani della XI dinastia.
    E’ probabile che in effetti tutti i regni corrispondenti alla VII e alla VIII dinastia di Manetone si condensassero in uno spazio di tempo relativamente breve, forse non più di un quarto di secolo.
    Cessano ora del tutto notizie dirette del delta. Le spedizioni al Sinai in cerca di turchesi sono finite e non verranno riprese che verso la XII dinastia. Se un sigillo cilindrico dall’aspetto barbarico con il cartiglio di Khendy e uno scarabeo recante il nome di Tereru appartennero realmente ai re così denominati nell’elenco di Abido, ciò dimostrerebbe che si doveva ricorrere all’artigianato siriano anche per simili oggetti di poco conto.

    IX e X Dinastia
    (2170-2030 a.C.) La IX e la X sono entrambe di Eracleopoli, con diciannove re ciascuna e una durata, secondo Manetone, di 409 e 185 anni. Per tutto questo spazio di tempo si fa il nome di un solo re, Achtos, collocato nella IX dinastia. Di lui Manetone dice che fosse più crudele di tutti i suoi predecessori, ma poi finì pazzo e sbranato da un coccodrillo. Siamo completamente all’oscuro sulle circostanze che determinarono l’ascesa del “Casato di Akhtoy”. La città di origine, Eracleopoli, è l’odierna Ihnasya el-Medina, cittadina a occidente del Nilo di fronte a Beni Suef; 55 miglia a sud di Menfi. Niente vi è rimasto a rivelare l’importanza che ebbe nell’antichità, ma testimonianze rinvenute altrove confermano quanto ci tramanda Manetone sull’origine eracleopolitana della IX e della X dinastia.
    E’ molto probabile, anche se mancano documenti sicuri, che il primo re della dinastia abbia adottato come nome di Horo quello di Meribtowe (“Diletto al cuore dei Due Paesi”), e per dare più forza alle proprie rivendicazioni non esitò ad assumere tutti i titoli faraonici.
    Un secondo Akhtoy, il cui prenome era Wahkara, è noto solo attraverso una bara finemente decorata proveniente da El-Bersha, sulla quale pare che i suoi cartigli siano stati scritti per errore al posto di quelli del vero titolare, l’intendente Nefri. L’esistenza di un terzo re dello stesso nome, Akhtoy Nebkaura, è attestata soltanto da un peso proveniente dagli scavi a Er-Retaba e da una citazione in una delle poche opere di narrativa egizia giunte complete fino a noi, nella quale si racconta la storia di un contadino dell’oasi periferica dello Wadi Natrun, derubato del suo asino e di tutta la mercanzia mentre si recava a Eracleopoli. L’eloquenza con la quale il contadino sporse le sue lagnanze al signore del ladro fu tale che fu trattenuto perchè si potessero scrivere le sue suppliche, rimproveri e invettive onde divertire il sovrano.
    Nel Canone di Torino erano in origine registrati non meno di diciotto sovrani del medesimo casato, e il nome di Akhtoy ricorre due volte, sempre inaspettatamente preceduto da Neferkara, mentre gli altri nomi sono in parte cancellati, inidentificabili, o perduti.

    XI Dinastia (1° parte)
    (2134 – 2050 a. C.) L’XI dinastia di origine diospolitana, o tebana, conta sedici re su un misero totale di 43 anni di regno. Mentre a nord governava la X dinastia degli Akhtoy il territorio tebano cominciava a primeggiare fra le province del Sud. Il merito di ciò va a un nobile ricordato in seguito come Inyotef il Grande, nato da Iku, e menzionato su una stele come “principe ereditario”. Fu lui evidentemente, il fondatore della linea dinastica che in base alla nostra classificazione sostituisce la XI dinastia, e lo si identifica con quel “principe ereditario Inyotef” della Tavola di Karnak che è compreso nel disordinato elenco di re dallo stesso nome.
    L’ipotesi più semplice è che un solo antenato portasse quel nome e in ogni modo è lecito pensare che un Inyotef ( Inyotef il Grande ) abbia soggiogato alcune regioni meridionali non appartenenti al territorio della sua capitale, senza però aver osato assumere il titolo e le prerogative sovrane. Il primo Inyotef ad avere il nome racchiuso in un cartiglio non ha lasciato monumenti a lui contemporanei e, salvo la citazione alquanto dubbia della Tavola di Karnak, è noto solo attraverso un importantissimo rilievo che risale al regno di Nebhepetra Menthotpe scoperto nel Tempio di Tod. Il monarca vi è raffigurato nell’atto di fare un’offerta a Mont mentre dietro di lui sta la dea locale Tjenenti. Questa è seguita da tre re, sicuramente i predecessori di Menthotpe in ordine inverso a quello cronologico, ognuno dei quali reca nel cartiglio il titolo e il nome di “Figlio di Ra Inyotef”.
    Il successore fu Wah-ankh. Né lui, né i suoi successori esitarono ad arrogarsi l’orgoglioso titolo di “Re dell’Alto e Basso Egitto”, sebbene ancora molti anni dovessero trascorrere prima ch’esso rispondesse a verità.
    Il re successivo fu un altro Si-Ra Inyotef, il quale adottò un nome di Horo che significava “Forte, signore di un Buon Inizio” (Nakht-neb-tep-nufe). Inyotef III fu l’ultimo re di questo nome per vari secoli, e tutto ciò che si sa delle sue imprese è che restaurò ad Assuan la tomba in rovina di un principe divinizzato chiamato Hekayèb. Inyotef III fu seguito dal primo dei vari faraoni che cambiarono il nome Inyotef con quello di Menthotpe che significa “Mont è soddisfatto”. E il dio locale aveva ragione di essere soddisfatto perché il lungo regno di Menthotpe I (cinquantun anni) vide, dopo molti anni di lotta, la riunificazione di tutto l’Egitto sotto il governo di un unico sovrano. Nulla di certo si sa sulle campagne militari con le quali Menthotpe I riconquistò la Doppia Corona, mettendo fine all’anarchia che aveva dato luogo a due governi separati, uno nel Nord e l’altro nel Sud.
    Con Menthotpe I si può considerare concluso il I periodo intermedio.

    Medio Regno

    (2050 – 1786 a. C.) All’indomani del lungo periodo di sconvolgimenti che termina intorno al 2000 a.C., l’unità del potere in Egitto viene restaurata grazie ai nomarchi di Tebe.
    Cominciata dai governatori sin dai tempi in cui a nord c’era ancora la monarchia, questa restaurazione non fu opera di un solo faraone, ma di tutta l’XI dinastia, contemporanea della X (eracleopolitana), che era succeduta alla IX, sempre di Eracleopoli, instaurata da Kheti I. Mentre i sovrani si occupano soprattutto della zona del delta e riescono a cacciare i beduini, i governanti tebani rivolgono la loro attenzione alla Nubia.
    Cosi, grazie a queste due azioni parallele a nord e a sud, si gettano le basi per l’unità dell’Egitto, che verrà portata a termine dall’XI dinastia. L’impresa principale dell’XI dinastia fu l’unificazione del paese, ma la sua azione non finì lì. Venne limitata l’autonomia provinciale che si era sviluppata nel Primo periodo intermedio e fu restaurata l’autorità centrale mentre, all’esterno, ricominciavano le campagne contro la Nubia, dove gli egiziani penetrarono fino alla seconda cataratta e migliorarono la strada dell’Wadi Hammamat, che collegava l’Egitto al Mar Rosso e serviva da punto di partenza per le spedizioni in Sinai e nei paesi del Punt.
    Questa strada passava per il deserto arabico, dove i re dell’XI dinastia intrapresero campagne militari contro i nomadi che attraversavano il paese e controllavano i luoghi di approvvigionamento dell’acqua. Non si sa come avvenne il passaggio dall’XI alla XII dinastia, ma il fatto che, durante il regno degli ultimi faraoni dell’XI si trovi un visir di nome Amenemhat, lo stesso nome del fondatore della nuova dinastia, fa pensare che ci sia stata un’usurpazione del potere.
    La XII dinastia, che sale al trono intorno al 2000, è stata una delle più gloriose dell’antico Egitto. Sotto la sua amministrazione, non soltanto il paese mantenne la stabilità interna, ma si espanse anche all’esterno come non aveva mai fatto neanche ai tempi dei grandi faraoni della IV dinastia. Anche se questa dinastia è di origine tebana, la capitale viene posta nella zona di Menfi, da dove è più facile governare il paese.
    Amenemhat I (il fondatore della dinastia) si occupò soprattutto, sembra, dell’amministrazione. Per prendere il potere dovette probabilmente fare affidamento sulla nobiltà provinciale, che ebbe il vantaggio di una certa autonomia dal potere centrale. Forse si occupò della protezione della frontiera orientale dell’Egitto, ma questo sarà piuttosto un interesse dei suoi successori, in Nubia giunse fino a Korosko. Fu una cospirazione a mettere fine al suo regno, ma suo figlio, che in quel momento si trovava in Libia, riuscì a tornare in tempo per prendere il potere.
    Sesostri I proseguì in Nubia la politica di suo padre, giunse fino alla terza cataratta e prese possesso delle miniere d’oro di questa regione. Per raggiungere queste miniere dovette partire da Wadi Halfa e, per assicurare la sicurezza dell’impresa, fece costruire una fortezza a Buhen. Per evitare il ripetersi degli eventi sanguinosi che avevano funestato la fine del regno di suo padre, Sesostri associò al trono, lui vivente, il figlio maggiore, e così fecero i suoi successori. Non abbiamo informazioni circa i regni di Amenemhat II e Sesostri II.
    Sappiamo invece che Sesostri III fu uno dei grandi faraoni dell’Egitto. Il ricordo delle sue gesta, abbellito dal tempo trascorso, è alla base di molte delle leggende raccolte dagli storici greci. Grande conquistatore, giunse fino in Palestina, mentre, in Nubia, riprese l’opera di Amenemhat I e Sesostri I riuscendo con quattro campagne a riprendere il controllo della situazione: per difendere le sue conquiste, fece costruire diverse fortezze.
    Amenemhat III, approfittando della tranquillità assicurata dalle campagne militari paterne, si occupò soprattutto dello sviluppo agricolo ed economico dell’Egitto. La XII dinastia termina con i regni senza gloria di un re e di una regina, Amenemhat IV e Sebeknofru, di cui non sappiamo altro se non che la decadenza della dinastia, durante il loro regno, fu repentina. Il rapido riassunto delle gesta di questi faraoni non rende onore alla potenza della XII dinastia, all’interno come all’esterno, e alla prosperità che ne derivò per l’Egitto. Se Amenemhat I aveva dovuto allentare i legami della nobiltà, sotto Sesostri III la monarchia ha di nuovo un potere assoluto, tanto che la carica di nomarca è abolita.
    Una volta restaurata la propria potenza, i faraoni si occuparono della valorizzazione del suolo, e soprattutto del Fayum, dove crearono un’oasi ai cui confini edificarono le loro residenze. Furono grandi costruttori, e si devono a loro le fortezze che protessero i confini meridionali e orientali del paese; il palazzo di Amenemhat III a Hawara diede origine alla leggenda greca del labirinto.
    Per quanto riguarda i rapporti con gli altri paesi, i legami con la Siria e Biblo sembrano amichevoli e ci si può domandare, con una certa ragionevolezza, se la Fenicia, sotto la XII dinastia, non fosse amministrata da un governatore egiziano. Continuarono le spedizioni nel Sinai per reperire le materie prime, e ci furono anche delle spedizioni commerciali verso i paesi del Punt. A sud l’Egitto estese il suo territorio fino ad arrivare a Semna (70 km a sud di Wadi Halfa), dove un’ampia zona fortificata difendeva l’ingresso al paese dalle turbolente tribù sudanesi, e da dove potevano partire le spedizioni commerciali dirette nel cuore del Sudan, contatti testimoniati dai livelli archeologici più antichi delle costruzioni di Kerma, a sud della terza cataratta.
    I rapporti con Creta, che si ritenevano certi già da quest’epoca, sono ancora poco conosciuti perché si possano tenere in conto; si potrebbe pensare che la Fenicia abbia fatto da intermediaria.

    XI Dinastia (2° parte)
    (2050 -1991 a. C.) Con Menthotpe I si può considerare concluso il I periodo intermedio. Al termine del glorioso regno di Menthotpe I niente lasciava prevedere che la potenza della sua famiglia si avviasse alla fine. Eppure, così era. Il Canone di Torino concede a Sankhkara Menthotpe II dodici anni di regno, ma fa dì lui l’ultimo re della XI dinastia cosa non del tutto esatta. Anche negli elenchi di Abido e Saqqara Sankhkara è considerato l’immediato predecessore di Shetepibra Ammenemes I, fondatore della XII dinastia e iniziatore del periodo a noi noto come Medio Regno.
    Secondo i frammenti del papiro di Torino a Sankhkara seguono sette anni privi di sovrani. E’ probabile che sul trono fosse salito un terzo Menthotpe in seguito non considerato faraone legittimo. Questi, Nebtowera Menthotpe III, ci è noto, oltre che dal frammento di una coppa di pietra trovata a Lisht, solo attraverso iscrizioni scoperte in due cave dove inviò delle spedizioni. Tre graffiti del suo primo anno di regno e uno del secondo ricordano che un funzionario andò alla ricerca di ametiste nello Wadi el-Hudi, una trentina di chilometri a sud-est di Assuan.

    XII Dinastia
    (1991-1786 a. C.) La XII dinastia (1991-1786 a. C.) consta, come vedremo, di molti re il cui nome proprio era Amenemhes (Amenemhat) o Senwosre (Sesostri) per lo più alternativamente. Sembra accertato che Amenemhe, visir durante la XI dinastia, non fosse altri che il futuro Ammenemes I, fondatore della XII Dinastia.
    C’è da supporre che a un dato momento egli congiurasse contro il suo regale signore e, forse dopo alcuni anni di disordini, salisse al trono al suo posto. Amenemhe significa “Amon è di fronte” e quest’allusione al dio Amon solleva un problema la cui soluzione è tuttora oscura. Fino a quel momento, la divinità principale del nomo tebano era stata il dio guerriero Mont dalla testa di falco, ma con l’avvento della nuova dinastia l’antropocefalo dio Amon prevalse rapidamente sul primo. Egli non tardò a essere identificato con il dio sole Ra e finì per diventare la suprema divinità nazionale sotto il nome di “Amon-Ra, re degli dei”.
    Secondo una plausibile teoria Amon era stato importato da Ermopoli, ma già da tempo s’identificava con il dio itifallico Min, divinità della natura adorata nel vicino nomo di Copto. Da qualche debole indizio pare che Amon fosse già noto a Tebe prima della metà della XI dinastia, cosicché non si può escludere la possibilità che il re che unì il proprio nome a quello del dio fosse di origine tebana. Certo è, ad ogni modo, che tanto lui quanto il figlio Senwosre I continuarono a tenere in gran conto Tebe erigendovi i propri monumenti, sebbene saggiamente adottassero come capitale una località più centrale fra il delta e l’Alto Egitto.
    Per le generazioni successive It-Towe (“La Dominatrice dei Due Paesi”), nome egizio della nuova capitale, rimase la residenza reale per eccellenza e non semplicemente quella della XII dinastia, anche se la sua importanza come città declinò dopo la fine del Medio Regno.
    Nessun dubbio sulla grandezza di Shetepibra Amenemhe (Ammenemes I), perché senza di lui i suoi discendenti non avrebbero potuto conservare il trono per due interi secoli. I numerosi monumenti e i lunghi anni di regno dei singoli sovrani sono segni sicuri della prosperità e della stabilità politica del paese. Abbondano i templi locali eretti o ampliati dai re della XII dinastia, sebbene di regola non ne siano rimasti che blocchi isolati, il resto essendo andato distrutto o rimosso per far luogo a costruzioni di epoca posteriore. Numerosissime sono le stele private, in particolare quelle trovate ad Abido, centro di pellegrinaggi perché ritenuto il luogo dove era sepolto il dio Osiride.
    La maggiore impresa del fondatore della dinastia fu la riorganizzazione completa del paese. Evidentemente si era stabilito un equilibrio fra il potere del sovrano e l’orgoglio dei principi, e in questo periodo l’Egitto fu più che mai uno stato feudale. Tuttavia non mancano prove delle minuziose precauzioni che il faraone era costretto a prendere per mantenere la propria autorità. Nel ventesimo anno di regno si associò al governo il figlio maggiore Senwosre I ed entrambi regnarono insieme per altri dieci anni. Questa prassi fu seguita da tutti i sovrani della dinastia. Questo però dava luogo a un imbarazzante problema.
    In materia di religione la logica non aveva un gran peso, e l’identificazione e lo sdoppiamento delle divinità aggiungeva un mistico fascino alla teologia.
    Per difendersi dalle incursioni degli Asiatici nel delta, durante la XII dinastia, vennero costruite le “Mura del Sovrano”. Si ignora dove si trovassero esattamente queste mura, ma il fatto di esser state citate più volte nei racconti dell’epoca basta a sottolineare il pericolo che ancora si temeva da quella parte. Per il momento tuttavia i rapporti erano generalmente amichevoli. L’impressione generale che se ne ricava è che la Palestina fosse allora occupata da piccole tribù o comunità governate da principi locali. Molto più a nord vi sono notevoli indizi di una penetrazione egizia durante il Medio Regno, e sono presumibili vere e proprie campagne militari per spiegare il gran numero di oggetti della XII dinastia trovati in Palestina.
    Due re di Biblo ricevettero doni preziosi da Ammenemes III e Ammenemes IV rispettivamente, e viceversa a Tod fu scoperto un ricco tesoro composto di oggetti d’oro, d’argento e lapislazzuli di evidente fattura mesopotamica o egea, recanti i cartigli di Ammenemes II, probabili doni dei sovrani di Biblo.
    Dal Medio Regno in poi la Nubia fu per eccellenza il paese produttore dell’oro. Ma non era questo l’unico prodotto di cui si andava alla ricerca in quei paraggi: molte altre merci pregiate provenivano dal Sudan e in gran parte erano acquistate per mezzo di scambi con gli indigeni, specialmente i Medjayu che abitavano oltre il confine alla seconda cateratta. E chiaro comunque che un’invasione dal Sud costituiva una perenne minaccia e che, sebbene le spedizioni nella Bassa Nubia e nelle vicine regioni fossero ormai frequenti, rimanevano sempre una specie di avventura e non esisteva quasi una vera e propria colonizzazione. Un papiro enumera ben tredici fortezze fra Elefantina e Semna all’estremità meridionale della seconda cateratta. Le esigenze degli architetti, scultori e orefici richiedevano un sempre più intenso sfruttamento dei deserti e dei territori attorno all’Egitto e, dovunque le rocce lo permettessero, venivano lasciate iscrizioni a ricordo degli inviati del re. Il “basalto” dello Wadi Hammamat, l’alabastro di Hatnub e la diorite della regione a nord-ovest di Abu Simbel erano sfruttati come sempre, mentre lo Wadi el-Hudi continuava a fornire le ametiste.
    Senwosre I aveva rivolto particolari cure alla fertilissima provincia del Fayum, collocando a Ebgig un misterioso monumento, alto circa quindici metri che è sempre stato descritto come un obelisco, ma che probabilmente reggeva una statua del re.
    Durante la XII dinastia al sistema d’irrigazione vengono apportate notevoli migliorie, è certo che da allora i dintorni del famoso lago di Meride, nel Faiyum, divennero un ameno luogo di villeggiatura per i faraoni che qui si dedicavano ai loro svaghi preferiti, la pesca e l’uccellagione.
    Si è notato che dopo il regno di Senwosre III non si trovano più le grandi tombe dei nomarchi che si trovavano all’inizio della dinastia, probabilmente questo monarca era riuscito, se non a sopprimere, per lo meno a trasformare radicalmente la struttura feudale dello stato. In ogni caso è difficile passare sotto silenzio il grande aumento del potere regale.
    La dinastia si estingue con Sebeknofru, che Manetone, probabilmente a ragione, dice sorella dell’ultimo degli Ammenemes. E’ assai verosimile l’ipotesi di un dissidio familiare dal quale Sebeknofru uscì vittoriosa. Per la seconda volta nella storia egizia una donna sarebbe dunque riuscita a divenire “sovrana dell’Alto e del Basso Egitto”, ma una situazione così fuor della norma racchiudeva il seme di una catastrofe.
    Dopo Sebeknofru, come dopo Nitocris (VI dinastia), seguì una serie di sovrani i cui regni, per quanto ci è dato sapere, non superano i tre anni ciascuno. Qualunque ne sia stata la causa il glorioso Medio Regno finì per cadere in sfacelo.

    II° PERIODO INTERMEDIO

    (1786 – 1567 a.C.) Non si saprà mai perché Sebeknofru (o Sebeknofrura, come viene chiamata nei testi di data posteriore) sia stata considerata l’ultima sovrana della XII dinastia; sia il Canone di Torino sia l’elenco dei re di Saqqara e Manetone sono d’accordo su questo punto. Essendosi stabilita con una certa esattezza la data della fondazione della XVIII dinastia ad opera di Amosis I, dobbiamo accettare l’intervallo dal 1786 al 1567 a. C. come durata del II periodo intermedio, età ricca di problemi anche più astrusi di quelli del I.
    Si può osservare che il disegno generale di queste due epoche oscure è più o meno lo stesso. Entrambe iniziano con un caotico susseguirsi d’insignificanti reggenti locali; in entrambe, le invasioni dalla Palestina gettano la loro ombra sul delta e anche sulla valle del Nilo; e per entrambe la salvezza giunge infine da una rude stirpe di principi tebani che, dopo aver soffocato i dissidi interni, scacciano lo straniero e aprono una nuova epoca di grande potenza e prosperità.
    Secondo Manetone, la XIII dinastia era diospolita (tebana) e comprese sessanta re che regnarono complessivamente per 453 anni; la XIV dinastia conta a sua volta settantasei re originari di Xois, l’odierna Sakha al centro del delta, per complessivi 184 anni di regno o, secondo un’altra interpretazione, 484.
    Per quanto riguarda il periodo dalla XV alla XVII dinastia ci sono divergenze nelle opere di Eusebio e Sesto Africano, mentre dallo storico ebreo Giuseppe Flavio se ne ha un resoconto assai più semplice presentato come un estratto letterale dell’opera di Manetone. Esaminando i dati forniti da Sesto Africano si vede che la sua XV dinastia è costituita da sei monarchi stranieri, i cosiddetti re pastori o Hyksos, la cui dominazione durò 284 anni. Anche nella XVI dinastia si ritrovano i re pastori, trentadue di numero per un totale di 518 anni. Per finire, durante la XVII dinastia, re pastori e re tebani regnarono contemporaneamente in antagonismo, 43 per ciascuna stirpe e 151 anni complessivi. Addizionando queste cifre (e per la XIV dinastia attenendosi a quella minore), si ottengono 217 re per un periodo di 1590 anni, superiore di ben sette volte alla durata dello stesso periodo, accertata dalla data sotiaca fornita dal papiro di El-Lahun.
    Nella storia egizia la lunga durata di un regno è indice sicuro della prosperità del paese, si può quindi inversamente dedurne che, durante il periodo corrispondente nel Canone di Torino alle dinastie XIII e XIV di Manetone, il paese attraversava anni turbolenti e confusi e i suoi sovrani si assassinavano a vicenda e si succedevano con estrema rapidità.
    Il Canone cita anche in due, se non in tre casi, periodi d’interregno, uno dei quali della durata di sei anni. Sempre nel Canone di Torino, immediatamente dopo una riga che può esser ricostruita cosi ” [Capo di un paese straniero] Khamudy “, ne segue un’altra che dice: “[Totale capi di] un paese straniero 6, uguale a 108 anni… “.
    Si tratta ovviamente degli usurpatori stranieri citati da Sesto Africano in corrispondenza alle dinastie XV, XVI e XVII di Manetone. La frase appena citata porta a concludere che il Canone abbraccia dinastie diverse che regnarono contemporaneamente in diverse regioni dell’Egitto, anche se questo era ignoto al compilatore. Sottraendo infatti 108 anni ai 211 che si possono al massimo concedere per il II periodo intermedio, si trovano un centinaio di re ammassati in poco più di un secolo, cosa evidentemente assurda, tanto più tenendo conto dei sopra citati 108 anni assegnati a sei regni. Ne consegue che i 108 anni dei re Hyksos non possono esser sottratti in questo modo e devono riferirsi a una dominazione che interessò solo una qualche regione del delta.
    L’alternativa più recente, accettata da tutti gli egittologi, è che il Canone comprendesse nel proprio elenco molti sovrani che regnarono nello stesso periodo ma presumibilmente in regioni del paese assai distanti l’una dall’altra. Ai dominatori Hyksos viene comunemente associata la XV dinastia. La XVI dinastia di Manetone pare interamente fittizia, e la XVII può servire solo per classificare i principi tebani in essa compresi. I Tebani che salvarono l’Egitto appartenevano a una famiglia strettamente unita nella quale le donne ebbero una parte straordinariamente importante, fosse per il fascino personale o perché considerate veicoli del sangue regale.

    XIII e XIV Dinastia
    (1786 – 1567 a. C.) Esistono prove che per tutta la XIII dinastia (corrispondente più o meno alla sesta colonna del Canone di Torino) la capitale dei faraoni era ancora a Lisht, sebbene la corte si trasferisse talvolta a Tebe.
    Non esistono dubbi sui due primi sovrani della XIII dinastia, rispettivamente Sekhemra-khutowe e Sekhemkara, gli ultimi re citati dal papiro di El-Lahun e gli ultimi durante il cui regno i livelli del Nilo vennero registrati a Semna. Tra tutti e due regnarono non più di dieci anni dopo i quali c’è un periodo di sei anni senza re, documentato dal Canone di Torino. E’ accertato che entrambi regnarono su tutto il paese, dal Faiyum alla seconda cateratta e oltre, e il fatto che il primo dei due prese come nome regale quello di Amenemhe-Sebekhotpe e il secondo quello di Amenemhe-sonbef dimostra come essi si aggrappassero disperatamente alla speranza di esser considerati legittimi successori della XII dinastia.
    La stessa speranza si manifesta in modo anche più patetico nel nome di Sankhibra, sesto re della dinastia, che volle per sé nientemeno che il titolo pomposo di Ameny-Inytef-Amenemhe. Immediatamente prima di lui c’è un ” nuovo venuto ” che porta il nome plebeo di Afnai (“Egli è mio”) e circa sei caselle dopo s’incontra un altro sovrano dal nome ugualmente plebeo di Rensonb, che non rimase sul trono più di quattro mesi. E’ degno di nota il fatto che ben sei re di questo periodo scegliessero il nome di Sebekhotpe “Sobek è soddisfatto “, dove viene fatto riferimento al dio coccodrillo del Faiyum. La prima a onorarlo citandolo in un cartiglio era stata la regina Sebeknofru (XII dinastia).
    Secondo il Canone, a Sebekhotpe III successe un Neferhotep che regnò undici anni. Le testimonianze su costui, come sul suo predecessore, sono relativamente numerose. Varie iscrizioni su roccia presso la prima cateratta ricorderebbero una sua visita nella località, ed una lapide in steatite trovata nello Wadi Halfa dimostra che la sua autorità si estendeva almeno fin laggiù. Questo Neferhotep (pare sia esistito un secondo re con lo stesso nome che non si sa dove collocare) fu seguito da un Sihathor che rimase sul trono solo per tre mesi.
    Gli successe un fratello di Neferhotep (anch’egli nato dagli stessi genitori entrambi di stirpe non regale), Khaneferra-Sebekhotpe, quarto re di questo nome; la cifra dei suoi anni di regno si perde in una lacuna, ma si conosce una stele che risale all’ottavo anno . Evidentemente fu anche questi un potente monarca, a giudicare dal numero dei monumenti rimasti. E’ mai possibile che questo re della XIII dinastia sia stato cosi intraprendente da mandare messi o soldati oltre la terza cateratta?
    A un quinto Sebekhotpe il Canone di Torino non assegna che quattro anni di regno. Gli successe un Wahibra-Iayeb con dieci anni di regno, quindi un Merneferra con ben ventitre anni di regno. Quasi nulla resta a ricordare questi due re, se si eccettui una stele, un architrave e qualche scarabeo, ma non devono esser stati sovrani insignificanti se riuscirono a serbare cosi a lungo la fedeltà dei propri sudditi. Dopo un Merhotep con il nome Inai, non altrimenti noto che per una stele e uno scarabeo, sulla scena della storia cala un’oscurità che ben poco permette di distinguere oltre ai soli nomi regali.

    XV Dinastia – Dominazione Hyksos
    (1786-1567 a.C.) A proposito di questi stranieri lo storico ebreo Giuseppe Flavio nella sua polemica Contro Apione fornisce una diversa interpretazione del nome di Hyksos derivata da un altro manoscritto, secondo la quale esso significherebbe “prigionieri pastori”, dall’egizio hyk “prigioniero”. E’ questa l’etimologia che preferisce, ritenendo, come molti egittologi, che la storia biblica del soggiorno degli Ebrei in Egitto e dell’esodo successivo traesse origine dall’occupazione degli Hyksos e dalla loro susseguente cacciata. In effetti, benché entrambe le etimologie abbiano fondate basi linguistiche, né l’una né l’altra è quella esatta.
    Il termine Hyksos deriva senza dubbio dall’espressione hik-khase, “capotribù di un paese collinare straniero”, che dal Medio Regno in poi venne usata per indicare gli sceicchi beduini. Sono stati trovati scarabei, appartenuti con certezza a re Hyksos, che recano questo titolo, ma con la parola “paese” al plurale. E’ importante osservare, tuttavia, che il termine si riferisce unicamente ai sovrani, e non, come pensava Giuseppe Flavio, alla razza intera. A questo riguardo gli studiosi moderni sono spesso caduti in errore, avendo alcuni persino insinuato che gli Hyksos appartenessero a una razza particolare che dopo aver conquistato la Siria e la Palestina era infine penetrata con la forza nell’Egitto. Niente però giustifica una simile ipotesi. L’invasione del delta per opera di una nuova razza specifica è fuori questione; si deve piuttosto pensare a un’infiltrazione di Palestinesi lieti di trovare rifugio in un più pacifico e fertile paese. Alcuni di essi, se non la maggior parte, erano semiti.
    Dei sei monarchi Hyksos nominati anche da Sesto Africano, ma sotto una forma leggermente diversa, solo Apophis è individuabile con sicurezza nei geroglifici. Si conoscono tre re diversi che hanno come nome Apopi e come prenome rispettivamente Akenenra, Aweserra e Nebkhepeshra, quest’ultimo fu presumibilmente il meno importante, dato che non gli viene attribuito l’intero complesso di titoli faraonici goduto dagli altri due.
    Gli oggetti con i nomi di questi re sono scarsi, ma bastano a dimostrare che almeno Akenenra e Aweserra furono considerati legittimi sovrani dell’Egitto. Meno certa, ma tuttavia probabile, è l’identificazione del Iannas di Manetone con un “capo dei paesi stranieri Khayan” su molti scarabei, ma talvolta definito “il figlio di Ra, Seweserenra”.
    Nome e prenome si trovano riuniti in un solo cartiglio sul coperchio di una vaso di alabastro scoperto da Evans a Cnosso in Creta, e il prenome Seweserenra ricorre anche sul petto di una piccola sfinge comprata presso un mercante di Baghdad. Basandosi su questi deboli indizi qualche studioso ha prospettato l’ipotesi che Khayan si fosse costituito un vasto impero comprendente tutti i luoghi citati, ipotesi da rifiutarsi perché troppo fantasiosa, per quanto sembri lecito ritenere ch’egli sia stato al tempo stesso capo locale in Palestina e faraone in Egitto. Ad ogni modo, egli può a buon diritto essere considerato uno dei sei principali monarchi Hyksos.
    Lo stesso non si può dire di certi altri pretendenti al titolo di sovrano, il cui solo ricordo sono alcuni scarabei e sigilli cilindrici provenienti da regioni cosi lontane fra loro come la Palestina meridionale e l’avamposto di Kerma nel Sudan. Per uno o due di essi, come Anat-her e Semken, il diritto a esser considerato un re Hyksos si basa sull’uso del titolo di capotribù, ma anche coloro che come Merwoser e Maayebra chiudono il proprio nome in un cartiglio, o che come Yamu e Sheshi ostentano l’orgoglioso epiteto di “figlio di Ra”, non hanno maggior diritto di quello derivante dallo stile degli oggetti che li nominano. Nessun monumento, nessuna epigrafe su roccia resta a testimoniare la loro sovranità, e la vasta diffusione di oggetti facilmente trasportabili come gli scarabei non ha valore di prova.
    Di recente è in voga la teoria secondo la quale esistono due gruppi di Hyksos, l’uno composto dai sei re elencati da Manetone, l’altro comprendente i nebulosi personaggi appena citati. Di quest’ultimo gruppo è certo che nessuno raggiunse mai la dignità di faraone che qualcuno ha loro attribuito. Come si è già accennato, sembra inevitabile identificare i sei re Hyksos di Manetone con i sei “capi di paesi stranieri “ricordati nell’importantissimo frammento del Canone di Torino.
    L’intervallo fra la fine della XII dinastia e l’ascesa al trono di Amosis, fondatore della XVIII dinastia e vincitore degli Hyksos, fu di soli 211 anni. Se si situa nel quarto anno del regno di Amosis la fine dell’occupazione straniera e si sottraggono 108 dai risultanti 215 anni, non ne rimangono che 107 per le dinastie XIII e XIV di Manetone; che l’occupazione straniera comprenda anche un lungo tratto della XIV dinastia sembra escluso dal lungo regno di Neferhotep, il cui dominio si estendeva a nord fino a Biblo. Se ne conclude che difficilmente può esservi spazio per più di sei re Hyksos abbastanza potenti da sedere sul trono dei faraoni.
    Un’altra prova convincente è data dal fatto che tra i “primi sovrani” di Manetone ci sia un Apophis; risulterà infatti che questo era anche il nome del re Hyksos contro il quale combatté Kamose, fratello e immediato predecessore di Amosis. Cosicché i sei re abbraccerebbero non solo l’inizio, ma anche la fine della dominazione straniera.
    Ritornando allo storico Giuseppe Flavio e alle sue citazioni da Manetone, è chiaro ch’egli possedeva esatte informazioni su Avaris (Haware), il caposaldo che fin dall’inizio gli Hyksos avevano scelto come loro base. Secondo il racconto del cronista ebreo, la città si trovava in quella parte del delta orientale conosciuta come nomo Sethroita.
    Sull’esatta ubicazione di Haware, per dare ad Avaris il nome egizio, le opinioni divergono. La maggioranza degli studiosi ritiene che Avari fosse l’antica designazione di quella che divenne più tardi la grande città di Tanis, mentre altri propendono per una località vicino a Qantir, circa undici miglia più a sud.
    Ad Avari gli Hyksos adoravano lo strano dio animale Seth. Ne abbiamo già parlato come del nemico e assassino del buon dio Osiride, ma gli Hyksos preferirono ignorarne questo deplorevole aspetto, come del resto già si faceva da tempo immemorabile in quel remoto angolo del delta. Questa nuova versione di Seth ora scritto alla maniera babilonese corrispondente alla pronuncia Sutekh, aveva certo caratteri più asiatica che non il primitivo dio indigeno, e nell’abbigliamento e nell’acconciatura del capo si notava una netta rassomiglianza con il dio semitico Baal. E’ provato che gli Hyksos lo anteposero a tutte le altre divinità egizie, ma non ha reale fondamento l’accusa che quest’ultime fossero da essi tenute in dispregio e il loro culto perseguitato.
    Gli Hyksos avrebbero occupato Avaris per più di cinquant’anni prima che uno di loro si sentisse abbastanza forte da assumere il titolo di faraone legittimo. E’ importante osservare che la data della fondazione di Tanis fu ricordata a lungo: la Bibbia (Numeri 13.22) narra che “Hebron fu costruita sette anni prima di Zoan [Tanis] in Egitto “, il che confermerebbe l’identità di Tanis con Avaris, ma il valore dell’asserzione è molto discusso.
    Le fonti dell’epoca ci hanno rivelato una realtà poco veritiera sull’umiliante episodio della dominazione degli Hyksos: è nota la deformazione della verità dovuta a un certo tipo di letteratura divenuto convenzionale presso gli storici egizi, che di solito dipingono a tinte esageratamente fosche i periodi di miseria e anarchia perché maggior gloria ne derivi al monarca cui viene attribuita la salvezza del paese. Il racconto di Manetone rappresenta l’ultimo stadio di un processo di falsificazione iniziato una generazione dopo la vittoria di Amosis.
    Appena ottant’anni dopo la cacciata del nemico, la regina Hatshepsut descriveva l’invasione in maniera simile a quella del racconto di Sekenenra e Apophis, e gli stessi paralleli si troveranno in seguito sotto Tuthankhamon, Merenptah e Ramses IV.
    Non è da credere che un potente esercito d’invasori asiatici si sia abbattuto come un uragano sul delta e che, dopo aver occupato Menfi, abbia infierito sulle popolazioni indigene con ogni sorta di crudeltà. Le rare testimonianze lasciate dai re Hyksos rivelano al contrario un sincero sforzo di accattivarsi gli abitanti e di imitare gli attributi e i sistemi dei deboli faraoni che avevano scacciato dal trono. E’ ovvio, del resto, che altrimenti essi non avrebbero adottato la scrittura geroglifica e assunto nomi composti con quello del dio sole Ra. L’affermazione ch’essi imposero tributi all’Alto e al Basso Egitto è per lo meno dubbia.
    La teoria di un’occupazione generale del paese da parte degli Hyksos è stata definitivamente smentita dalla grande iscrizione di Kamose, nella quale è chiaramente sottinteso che gli invasori non avanzarono mai più in là di Gebelen, e anzi, poco dopo, furono costretti a stabilire il loro confine meridionale a Khmun.
    La dominazione degli Hyksos non fu senza conseguenze per la civiltà materiale dell’Egitto. La più importante fu l’introduzione del cavallo e del cocchio che doveva avere una cosi gran parte nella futura storia del paese. Non è provato che queste novità abbiano contribuito in misura notevole alla vittoria degli Asiatici, ma certo furono di grande aiuto agli Egizi stessi nelle successive campagne militari. Anche nuovi tipi di pugnali e spade, armi di bronzo e il robusto arco asiatico devono esser contati tra i profitti di un episodio che altrimenti non potrebbe esser ricordato che come un disastro nazionale.

    XVI e XVII Dinastia
    (1786-1567 a.C.) Appartengono a queste dinastie i principi tebani che finirono per respingere gli invasori Hyksos. Si tratta di una lunga serie di monarchi che probabilmente abbraccia tutta l’ultima metà del II periodo intermedio.
    Circa dodici sono i re da prendersi in considerazione, ed è una prova dell’influenza esercitata da Manetone se ancor oggi si discute seriamente su quanti di essi debbano essere assegnati alla XVI dinastia e quanti alla XVII. Ben di rado è possibile determinarne la sequenza precisa ed è impossibile far capo, come nella XI dinastia, a un progenitore comune.
    E’ opportuno iniziare con un certo Rahotpe citato nell’elenco dei re di Karnak e forse anche nel Canone di Torino. E’ possibile che il re successivo, al quale sono attribuiti sedici anni di regno, sia stato il Sebekemsaf al cui settimo anno risale il graffito visto da Lepsius a Wadi Hammamat. Un po’ più avanti leggiamo di un Nebirierau la cui importanza è dovuta alla datazione di una grande stele che, pur trattando dei fatti privati di due funzionari, fu collocata per ordine del re nel tempio di Karnak come documento degno di esser conservato.
    Tra i monumenti ritrovati risalenti a questo periodo vi sono due tombe che appartenevano a due re, entrambi col nome di Sekenenra-Taco, cosa estremamente improbabile. Può anche darsi che il nome fosse Taco nei due casi, ma solo il secondo re doveva avere il prenome di Sekenenra. Con questo re si è quasi alla fine della XVII dinastia e si sta per giungere alla cacciata degli Hyksos.

    Nuovo Regno

    (1567 – 1080 a.C.) Dopo il Nuovo Regno termina la storia classica dell’Egitto, che non avrà più la potenza né la magnificenza delle epoche precedenti, e comincerà un lungo declino, una sorta di Terzo periodo intermedio all’infinito. Ma, prima dell’inizio di questa lunga agonia, ci fu un periodo molto interessante e ricco di avvenimenti, il Nuovo Regno appunto, che presenta diversi elementi di novità rispetto alle epoche precedenti.
    La regione tebana, raccogliendo l’eredità di una lunga resistenza contro gli oppressori, diviene il centro amministrativo, mentre, fino ad allora, la zona prediletta era stata quella di Menfi e del Medio Egitto. Lo spostamento della capitale risponde a una necessità geografica; l’espansione verso sud è giunta fino alla quarta cataratta, presso Napata, e l’Egitto si estende ormai dal diciassettesimo parallelo fino al Mediterraneo, su una lunghezza di più di 2260 Km.
    Per controllare e sfruttare un territorio cosi vasto, è normale che la capitale si insedi al centro, e ciò e ancora più necessario poiché, data la situazione attuale, l’Egitto reperisce la maggior parte delle risorse proprio dal suo impero africano: oro, materie prime (legno, pelli, avorio, gomma, pietre dure, ecc.), bestiame e, soprattutto, uomini per il suo esercito. Senza l’apporto africano la penetrazione egiziana in Asia sarebbe stata impensabile. Il Nuovo Regno differisce dagli altri periodi anche per la politica estera. Mentre la politica militare del Medio e soprattutto dell’Antico Regno era caratterizzata da una tattica difensiva (che non escludeva incursioni in territorio nemico), nel Nuovo Regno viene inaugurata una politica di conquista, o, per dirla con un altro termine, imperialista. Questo atteggiamento è una novità per l’Egitto.
    Dopo due secoli di invasioni da parte di popolazioni asiatiche, gli egiziani cercano di evitare questo pericolo estendendosi il più possibile a est; cercano di porre quanto più spazio possibile tra loro e i turbolenti nomadi asiatici, più o meno confederati, che sono a loro volta pressati dal regno di Mitanni, fondato da conquistatori ariani, posto tra l’Oronte e l’alto Eufrate. Questa nuova politica segna profondamente la civiltà egizia che, fino ad allora, nonostante le invasioni e le penetrazioni straniere, era sempre vissuta nello stesso luogo.
    Ora, penetrando profondamente in Oriente, viene a contatto con le grandi civiltà orientali e, pur restando se stessa, subisce modifiche. Gli usi, gli armamenti, persino la vita di tutti i giorni, cambiano. L’Egitto, che aveva sino ad allora manifestato un gusto molto sobrio, adotta un lusso tipicamente orientale, come ci testimonia la ricchezza inattesa, a volte fin troppo pesante, della tomba di Tutankhamon. L’arte di questo periodo guadagna in grazia e fascino ciò che perde in potenza, e questo è un altro aspetto del genio egiziano.

    XVIII Dinastia
    (1548-1292 a.C.) Il destino aveva decretato che il vincitore definitivo degli Hyksos non fosse Kamose.
    Questa gloria doveva toccare al suo successore, Ahmose I (Amosis in Manetone), che le generazioni future avrebbero onorato come fondatore della XVIII dinastia. Vi sono testimonianze che il re Amosis trattava tutti i suoi soldati con grande generosità, come, del resto, si meritavano. Manetone gli attribuisce venticinque anni di regno, ed è una cifra che non deve scostarsi troppo dal vero. Il figlio e successore Amenophis I (Amenhotpe, nei geroglifici) continuò la politica del padre, ma con qualche differenza.
    Fin qui lo scopo principale era stato quello di restituire all’Egitto i suoi legittimi confini, ora nasceva il desiderio di “estendere i confini”, frase d’uso comune d’ora in poi, ma prima raramente usata, tranne una volta o due sotto la XII dinastia. La maggiore preoccupazione di Amenophis era la Nubia. Durante il regno di Amenophis c’imbattiamo per la prima volta nel titolo, che rimarrà poi stereotipo, “Figlio del re di Cush”. Alla morte di Amenophis I (1528 a. C. circa) il Nuovo Regno o l’Impero, come viene detto talvolta, era ormai saldamente instaurato e doveva proseguire per più di centocinquanta anni d’ininterrotta prosperità. Tebe ne era la città più importante, e Amon-Ra, la divinità principale di Karnak, faceva finalmente valere il suo diritto al titolo di “Re degli Dei” che da tanto tempo portava.
    La lotta contro gli Hyksos che coinvolse tutti gli Egizi, il formarsi di una classe sociale media costituita da veterani in pensione, il gusto della conquista e dell’avventura sono gli elementi nuovi di questo periodo, diversi da quelli del passato che vedevano una società casalinga e tradizionalista.
    La nuova politica introdotta in questo periodo non è gradita dalle classi dominanti tradizionali e ciò comporta una crisi dinastica, impegnata a discutere i diritti ereditari al trono tra la regina Hatshepsut e suo fratello Thutmosis III (tra il 1500 e il 1450 a.C.).
    La regina celebra, nel suo tempio funerario di Del El-Bahri, la sua nascita divina, le costruzioni templari e le pacifiche imprese commerciali (il viaggio al favoloso paese di Punt). Hatshepsut, che per essere accettata dal popolo si vestiva e si atteggiava come un uomo, impostò il suo governo sullo sviluppo del commercio abbandonando l’aspetto espansionistico. La rivalità col fratello, grazie all’appoggio del clero di Amon, si risolse in favore di Thutmosi III che, con la sua politica espansionistica, portò i confini dell’Egitto fino all’Eufrate a nord e alla quarta cateratta a sud.
    Lo smisurato ampliarsi del regno porta l’Egitto a contatto con imperi finora sconosciuti, che porranno termine alla vecchia monarchia egiziana, abituata a regnare da sola.
    Un nipote di Thutmosi III, Thutmosi IV (1425-1405 a.C.) sposò la figlia del re dei Mitanni e concluse molti trattati con il re degli Ittiti.
    Questo atteggiamento provocò una reazione di restauro dell’antica autorità del Faraone che si concretizzò con Amenhotep IV (chiamato anche Amenofi IV o Akhenaton, 1370-1352 a.C.) che, oltre ad affrettarsi a concludere trattati di alleanza con i popoli della Siria e a scegliere nel paese dei Mitanni, nemici secolari, la sua sposa Nefertiti, diede avvio, per sottrarsi al peso sempre più autorevole del sacerdozio di Amon, ad una profonda riforma religiosa, sostituendo il sole (Aton) a tutti gli altri Dei e dichiarandosi unico rappresentante in terra della divinità.
    Forte di questa nuova fede confisca i beni del clero di Amon, abbandona Tebe per una nuova capitale (Akhetaton), ostenta una frattura con il passato e costituisce una nuova classe dirigente. Amenhotep IV muta persino la lingua ufficiale, riconoscendo valore letterario al volgare parlato anzichè all’aulica, lingua ufficialmente in uso nella XII dinastia.
    Il popolo, toccato nella sua fede tradizionale, la nobiltà e il clero, colpiti nei loro interessi, lasciano solo il re che, nonostante avesse ben interpretato gli impulsi religiosi della sua epoca, voleva attuare una monarchia assoluta e teocratica ormai inaccettabile.
    Prima di morire il re tentò di giungere ad un compromesso, ma dopo pochi anni il giovane Tutankaton, unico figlio maschio di Amenhotep IV, mutò il suo nome in Tutankamon rinnegando così la religione monoteista voluta dal padre a favore della religione tradizionale tebana. Il giovane re riportò la capitale a Tebe, restaurò i culti nel loro primitivo splendore e restituì ai templi ancor più di quanto essi avessero perduto durante il periodo della riforma.
    Purtroppo Tutankamon morì dopo pochi anni di governo in maniera misteriosa lasciando una situazione politica molto confusa e difficile. Eie, il suo successore, morì anch’egli molto presto, dopo pochi mesi di regno senza lasciare eredi.
    L’intervento dei sacerdoti, che così evitarono di lasciare il Paese in preda a lotte di successione, permise a Haremhab, un abile e valoroso soldato, di salire al trono. Il suo governo affermò completamente il culto di Amon, facendo scomparire ogni ricordo del Faraone eretico, ristabilì l’ordine interno e punì i popoli che si erano ribellati all’Egitto dando inizio alla XIX dinastia.

    XIX Dinastia
    (1292-1186 a.C.) Dopo essersi riavuto dalla rivoluzione religiosa l’Egitto fu un mondo diverso. Non è facile definire l’esatta natura dei mutamenti avvenuti, perché molte sono le eccezioni, ma è impossibile non osservare un sensibile deterioramento nell’arte, nella letteratura e nella cultura generale della popolazione.
    Negli scritti di questo periodo la lingua si avvicina di più alla lingua parlata e fa sue molte parole straniere. Le copie degli antichi testi sono incredibilmente trasandate, come se gli scribi non riuscissero più a intenderne il significato. A Tebe le tombe non mostrano più le vivaci e liete scene di vita quotidiana che caratterizzavano quelle della XVIII dinastia, ma si dedicano piuttosto a descrivere i pericoli che attendono nell’aldilà.
    Il soggetto preferito è il giudizio del cuore davanti a Osiride, e il Libro dei Cancelli illustra gli ostacoli che s’incontreranno nel viaggio notturno attraverso gli Inferi. Gli scarsi frammenti provenienti da Menfi presentano rilievi di un’eleganza alquanto maggiore. Altrove, le pareti dei templi sono ornate di vivaci scene guerresche, ma la fattura è relativamente rozza, e le didascalie sono spesso più adulatrici che istruttive. Malgrado tutto, l’Egitto di questo periodo offre ancora uno spettacolo di magnificenza e grandiosità che, per la maggior abbondanza di monumenti, è meglio conosciuto dal turista odierno che non le opere di gran lunga più raffinate delle epoche precedenti.
    Sotto Ramses II, o poco prima, incomincia ad assumere un’importanza di primo piano una fonte del tutto nuova d’informazioni storiche e culturali. Anche se il faraone viveva e reggeva il governo in una o l’altra delle capitali del delta, la sua suprema ambizione era sempre quella di esser sepolto nella necropoli avita di Tebe, e fin dagli inizi del regno una vasta corporazione di abili artigiani era di continuo impegnata a scavare e decorare la sua tomba a Biban el-Muluk.
    Questi uomini e le loro famiglie costituivano una particolare comunità che abitava nel villaggio di Deir el-Medina sulle alture del deserto sovrastanti il grande tempio funerario di Amenophis III, e ogni aspetto della loro vita e dei loro interessi è rivelato dai testi trovati colà o ancora sul posto del loro lavoro quotidiano. Dato che i papiri erano relativamente costosi, deperibili e rari, la maggior parte di quanto è rimasto è incisa su quei frammenti di calcare o di coccio che giacciono sul terreno abbondanti e facilmente reperibili che ora gli egittologi chiamano col nome, alquanto improprio, di ostraka. Oltre a frammenti letterari, religiosi e magici, vi sono registrazioni di scambi, pagamenti di salari in frumento o rame, noleggio di asini a scopo agricolo, procedimenti legali, presenze o assenze dal lavoro; vi sono lettere e modelli di lettere, appunti, insomma, di ogni genere.
    Con la XIX dinastia inizia la cosiddetta età ramesseide che durerà sino alla XXI dinastia, ossia dal 1320 al 1085 a.C. Con l’avvento al trono di Ramses I, l’Egitto assume una diversa consistenza sociale e politica. Viene rivalutato il culto di Amon, la città di Tebe diviene città sacra anche se la capitale viene spostata a Menfi ed a Tanis (la culla della dinastia).
    Tebe rimarrà il luogo dove i re vengono sepolti, ma non più quella dove essi regnano. Amon rimane il dio protettore della dinastia anche se viene affiancato dal vecchio dio solare Ra e dagli dei di Menfi (Ptah) e di Tanis (Seth). La vecchia classe cortigiana perde d’influenza a vantaggio della classe militare e a quella degli impiegati. Viene adottata come lingua ufficiale il neo-egiziano.
    Il re stesso diviene un personaggio paterno che interviene per lodare i suoi operai, i suoi soldati e, addirittura, i suoi cavalli. S’instaura quindi un vero e proprio culto del re a livello popolare e non più soltanto teologico e templare. Questa nuova base popolare, su cui si poggia il potere, viene espressa anche nella letteratura, nell’artigianato e nelle arti figurative che perdono parte della loro qualità, di gusto sicuro e squisito, a vantaggio di una più immediata capacità espressiva.
    I difficili rapporti con la Siria permettono ad altri imperi, soprattutto gli Ittiti, di esercitare, sulle stesse regioni, il loro predominio.
    Il nuovo re Sethi I, dovette affrontare in battaglia gli Ittiti, comandati dal loro re Mursilis, che costrinsero Sethi I a concludere un trattato che lasciava all’Egitto il solo possesso della Palestina meridionale. Nello stesso periodo, la regione del Delta del Nilo viene invaso dai “popoli del mare” (Cretesi, Achei e Fenici appoggiati dai Libi) che però Sethi I riesce a respingere mettendo suo figlio Ramses II al potere.
    Ramses II sarà il più celebre sovrano del tempo anche grazie alla lunghezza del suo regno (1299-1232 a.C.). Il nuovo re fu in grado di riprendere la lotta contro gli Ittiti non senza superare grossi pericoli come quando, nel 1296 a.C. a Kadesh, viene sorpreso dal re Muvatalli che aveva schierato più di 2000 carri da guerra. Per Ramesse II fu una grande impresa portare in salvo il suo esercito. Dopo aver sposato la figlia del re ittita Hattusilis II, si dedica a opere di pace come la costruzione di importanti centri di culto come quelli di Karnak, di Luxor e di Abu Simbel che gli valsero l’appellativo di “Costruttore”.
    La solidità del Paese durante il suo lunghissimo regno non impedì al suo figlio e successore Merenptah di affrontare un nuovo ed inatteso pericolo. Una stele narra la sua vittoria contro gli invasori che da oriente e da occidente tentavano di penetrare in Egitto e che venivano identificati come “popoli del mare”. Tali popolazioni, Sardi, Tirreni, Siculi, Danai e Filistei, rappresenteranno un costante pericolo anche negli anni successivi.
    Alla morte di Merenptah, il figlio Sethi II si trovò a dover affrontare un periodo di gravi turbamenti interni e, dopo alcuni anni di travagliato governo, morì lasciando il regno esposto ad una lunga serie di intrighi e rivoluzioni. Di questa situazione approfittò il principe siriano Irsu per impadronirsi del trono d’Egitto. I frequenti prelevamenti di fondi dal tesoro dei templi, per far fronte alle spese di governo, gli costarono la simpatia dei sacerdoti che gli opposero un altro pretendente al trono, Setnakht, il quale, dopo essere riuscito a vincere gli attachi del nemico e gli intrighi di palazzo, fondò la XX dinastia.

    XX Dinastia
    (1184-1078 a.C.) Della XX dinastia Manetone non dice altro se non che consistette in tutto di dodici sovrani di Diospoli (Tebe), i quali regnarono 136 anni secondo Sesto Africano, o 178 secondo Eusebio.
    Pur così breve fu un periodo di eventi emozionanti, contò almeno un grande faraone e lasciò numerosi testi di notevole entità e ricchi di notizie. In quel lasso di tempo i nemici dell’Egitto andavano sempre più avvicinandosi ai suoi confini, forieri delle umilianti sconfitte che, poco più di un secolo dopo, ne avrebbero quasi annientato il prestigio. Gli inizi comunque parvero presagire un’epoca di eccezionale splendore; significativo è un brano che paragona questo a un precedente periodo di depressione in gran parte immaginario:
    La terra d’Egitto fu gettata alla deriva, e ognuno aveva una propria legge, e per molti anni non vi fu nessuno a governare, finché venne un tempo in cui lo stato egizio era formato da principi e capi di villaggio, e in alto e in basso gli uomini si uccidevano fra di loro. Poi venne un altro tempo fatto di anni vuoti, quando Arsu, un siriaco, si eresse a loro principe e rese tutto il paese tributario sotto il suo dominio.
    Il testo va avanti a parlare delle stragi che seguirono e della negligenza verso il culto degli dei, fino a che questi non ristabilirono la pace eleggendo re Setnakhte. Di preciso non c’è che un fatto: la comparsa di un condottiero siriaco che conquistò la supremazia su tutto il paese; la sua identità è stata oggetto di molte controversie, e l’ipotesi più interessante è che si tratti di un velato accenno a “colui che aveva fatto il re” Bay, vissuto alla fine della precedente dinastia. Ma l’unico scopo dello scrittore era quello di esaltare il nuovo re dell’Egitto.
    I regni dei dieci sovrani che compongono questa dinastia, esclusi Setnakhte, Ramses III, Ramses IX e Ramses XI, furono brevi cosicché la durata totale della dinastia risulta alquanto minore della cifra data da Manetone. L’usanza di cominciare la costruzione di una tomba a Biban el-Muluk all’inizio di ogni regno fu costantemente seguita, anche se non tutti gli ultimi Ramessidi furono poi sepolti nel luogo desiderato; e in tre casi le mummie furono per sicurezza trasportate in un secondo tempo nella tomba di Amenophis II.
    A differenza dei loro predecessori, però, i sovrani della XX dinastia inaugurarono nella Valle dei Re uno stile diverso; invece di essere nascosto, l’ingresso delle loro tombe assunse la forma di un maestoso, visibilissimo portale. Ciò fece delle loro tombe, quando il potere centrale si indebolì, dei luoghi di razzia facilmente accessibili.
    L’indirizzo generale della storia successiva fa pensare che questi insignificanti sovrani si allontanassero sempre più raramente dal delta dove avevano la loro residenza effettiva, per cui l’importanza e le ricchezze del gran sacerdote di Amon-Ra a Tebe andarono progressivamente aumentando. La costruzione di monumenti scemò notevolmente. Le avventure asiatiche erano finite, e l’ultimo documento di una spedizione nel Sinai risale a Ramses VI. Per contro l’amministrazione della Nubia continuava a seguire i vecchi criteri, ma le notizie al riguardo sono più scarse. Malgrado questo progressivo decadimento, gli annali del dodicesimo secolo prima dell’era volgare non sono del tutto privi di notizie.
    Sul finire della dinastia, il re era forse l’indiscusso sovrano nel Nord, ma nel Sud il grande pontefice di Karnak dominava con un potere superiore al suo. Gli ultimi regni della XX dinastia sono i più ricchi di testimonianze scritte che non qualsiasi altro periodo della storia egizia. La fonte di provenienza è la sponda occidentale del Nilo a Tebe, in particolare Medinet Habu e il vicino villaggio di Deir el-Medina.
    L’atmosfera che affiora giorno dopo giorno dai diari di lavoro della necropoli lascia soprattutto un’impressione di generale inquietudine. Per lunghi periodi di tempo gli operai della tomba reale rimanevano in ozio, e ci sono sinistre allusioni, per lo più risalenti agli ultimi anni del regno di Ramses IX, alla presenza di stranieri a Tebe, Libi o Meshwesh. Erano veri invasori o discendenti di prigionieri di guerra incorporati nell’esercito egizio e divenuti abbastanza forti da sollevarsi o almeno creare gravi tumulti?
    Mancano le prove per rispondere a questa domanda, ma sono per lo meno evidenti le disastrose conseguenze sulla popolazione indigena. Più di una volta le razioni furono distribuite ai lavoratori con due mesi di ritardo. Il bisogno unito all’avidità conduceva inevitabilmente al delitto. I personaggi regali e i nobili dei tempi passati erano stati sepolti con i loro beni più preziosi, e irresistibile era per i vivi la tentazione di spogliare i morti. Le ruberie nelle tombe erano state una pratica comune fin dai tempi più lontani, ma adesso, a quanto pare, questo modo di combattere la miseria si era cosi diffuso da richiedere energiche misure per consegnare i colpevoli alla giustizia.

    III periodo intermedio

    (1080 – 665 a.C.) Alla morte di Ramses XI, l’Egitto era nuovamente diviso in due: al nord il visir Smendes, a cui la moglie, probabilmente, aveva portato in dote il diritto al trono, al sud l’anziano Hrihor. I due poteri non erano ostili, sembra anzi che Hrihor si dichiarasse vassallo di Smendes. Ma è un vassallaggio a parole, visto che, come re dell’Alto Egitto e soprattutto in quanto vero capo del clero di Amon (alla cui testa aveva messo suo figlio Piankhi) Hrihor era il padrone assoluto della Tebaide e del sud del paese.
    Hrihor era già anziano quando prese il potere nel sud, perciò, se anche avesse avuto l’intenzione di occupare il nord, non ne ebbe il tempo. Alla sua morte, il paese risultava diviso tra un potere di fatto in Alto Egitto con a capo Piankhi, il figlio di Hrihor, e un re legittimo al nord, Smendes, capostipite della XXI dinastia, con capitale a Tanis, nel delta orientale del Nilo.
    Anche alla morte di Smendes, come a quella di Hrihor, nulla cambiò in Egitto; egli lasciò il suo potere a Psusennes I, il quale, non avendo figli, diede in sposa sua figlia Makare, che, secondo l’uso egiziano, deteneva il diritto al trono, al figlio di Piankhi, che era sempre grande sacerdote di Amon e manteneva il potere in Alto Egitto.
    Il figlio di Piankhi, Pinegem I, ereditò dunque il potere al sud grazie a suo padre, e al nord grazie a sua moglie e, quando salì al trono, sembrò che l’unità egiziana potesse essere nuovamente assicurata: le forze disgregatrici però, erano troppo potenti per essere contrastate così facilmente. Pinegem tentò, resistendo al nord, di mantenere la sua autorità al sud nominando il suo figlio maggiore grande sacerdote di Amon ma, alla morte del figlio, scoppiò la rivolta a Tebe. Il faraone nominò allora il suo secondo figlio alla testa del clero a Tebe, ma questi, Menkheperra, si impadronì del potere per i suoi fini, facendo cosi naufragare una volta per tutte i sogni paterni.
    Menkheperra, grande sacerdote di Amon, diventò re e così malgrado gli sforzi di Pinegem, l’Egitto fu di nuovo diviso, e questo andò a discapito di tutto il paese, poiché anche il clero di Amon non ebbe più il potere che aveva sotto la XVIII-XIX dinastia. Il tesoro si era impoverito, non potendo più disporre dei tributi stranieri che le guerre incessanti dei grandi faraoni dell’antichità, in altri tempi, portavano ai suoi magazzini, e quindi si dovette far conto solo sulle rendite dei terreni del tempio, che erano in gran parte assorbiti dallo stesso clero.
    Dopo la morte di Pinegem, la dinastia continuò ad essere divisa; mentre a Tanis, nel nord, regnò prima Amenemope e poi i suoi successori Siamon e Psusennes II, a Tebe succedettero a Menkheperra i suoi figli. Essi portarono gli stessi nomi dei re che regnarono nel nord, e si conosce, a sud, un Psusennes con un regno molto breve e un Pinegem contemporaneo di Siamon. Una particolarità dominò durante tutta la XXI dinastia: la divisione dell’Egitto, che esisteva di fatto, non fu mai dichiarata ufficialmente.
    I re taniti (da Tanis) furono i sovrani legittimi dell’Egitto mentre, a Tebe, i discendenti di Menkheperra, a differenza del padre, non si fregiarono del titolo reale.
    La scissione virtuale tra nord e sud non fu la sola crepa nell’edificio politico: nel Medio Egitto, a Eracleopoli, una famiglia libica prese il potere localmente e acquistò sempre più importanza fino a soppiantare i re taniti e a instaurare la XXII dinastia.
    Questa dinastia, d’origine libica, costituì una sorta di dittatura militare. Essendosi sempre più ridotto il numero di soldati egiziani, i mercenari libici, i mashauash, formarono, da soli, l’esercito egiziano e i loro capi disposero di un potere sempre più grande dato che il paese, diviso, era sempre più debole; rappresentavano la forza armata e ne approfittarono per usurpare l’autorità suprema. Ci si poteva attendere, durante il loro governo, una restaurazione dell’unità politica, come succede generalmente quando una minoranza armata prende il potere, ma cosi non fu.
    La XXII dinastia era divisa e debole come la XXI, e ciò per diverse ragioni; tanto per cominciare i libici si erano installati in Egitto sin dalla XX dinastia e, nel corso dei secoli, si erano assimilati, perdendo cosi, attraverso i ripetuti matrimoni misti, i caratteri razziali che costituivano parte della loro forza. In seguito, meno evoluti degli egiziani, adottarono la loro civiltà, e quindi non ebbero più quelle tradizioni proprie che, distinguendoli e isolandoli dai locali, gli avrebbero permesso di dominarli: erano egiziani di origine straniera, non stranieri. Inoltre la rottura fra nord e sud aveva cause troppo profonde perché vi potesse porre rimedio un potere usurpato come quello della XXII dinastia.
    La famiglia dei Sheshonq, alla quale appartenevano i re di questa dinastia, fornisce un eccellente esempio di questo processo di assimilazione. Stabilitisi nella regione di Eracleopoli, da sempre zona libica per eccellenza, i Sheshonq, il cui nome non è egiziano, dovevano essere, all’origine, puramente libici, ma diventarono egiziani ancora prima di salire al potere. Dopo essere stati capi militari, divennero sacerdoti e, a questo titolo, pretesero di essere sepolti a Abido come gli egiziani.
    Il potere della famiglia si estese fino a Bubastis, nel delta. Alla morte di Psusennes II, Sheshonq I diventò re e, per legittimare la sua dinastia, fece sposare suo figlio Osorkon con la figlia di Psusennes. La dittatura militare libica fu anche causa di disordini nel paese, soprattutto nella zona di Tebe, ed è persino possibile, anche se non se ne hanno le prove, che parte del clero di Amon si sia volontariamente esiliato nel Sudan.
    Inevitabilmente attirati verso il nord, vero centro di gravità dell’Egitto, i libici abbandonarono Eracleopoli e si installarono nel delta, da lì Sheshonq I organizzò una spedizione in Palestina e prese Gerusalemme, saccheggiandone il tempio. In questo modo ristabilì momentaneamente un certo prestigio egiziano in Asia, ma non si trattò di una conquista vera e propria, e il solo risultato pratico furono i proventi di un ricco bottino per i templi egiziani.
    La successione di Sheshonq I fu una faccenda molto complessa; la presa di potere dei libici non aveva cambiato in nulla la divisione virtuale del paese tra nord e sud e Sheshonq I, riprendendo la politica dei suoi predecessori, tentò soltanto di usare a suo favore l’influenza del clero di Amon, alla cui testa mise suo figlio. Anche i suoi successori tentarono di imitarlo ma, come per i re della XXI dinastia, i loro sforzi furono vani, e i figli che essi nominarono alla testa del clero di Tebe costituirono sempre delle dinastie parallele al sud. Per contrastare questa tendenza, i faraoni cercarono di diminuire l’influenza della casta sacerdotale di Amon, creando un nuovo titolo religioso, quello di «Sposa del dio» o di «Divina adoratrice di Amon», che veniva dato sempre e soltanto alle principesse; il risultato però, fu che esse acquisirono altrettanto potere di quello dei grandi sacerdoti, senza peraltro essere più fedeli al re.
    L’Egitto quindi restò diviso e, alla fine della XXII dinastia, Tebe si ribellò apertamente per ben due volte al re del nord: questo fatto fa supporre una crescente indipendenza dei re tebani nei riguardi della regalità.
    Sotto gli ultimi re della XXII dinastia, Sheshonq III, Pami e Sheshonq IV, l’anarchia continuò a crescere e l’Egitto mostrò una tendenza sempre maggiore al frazionamento, soprattutto nella zona del delta.
    La XXIII dinastia venne fondata prima che la XXII si fosse estinta, e le due dinastie furono in parte parallele. È possibile anche, a giudicare dai nomi portati dai faraoni della XXIII dinastia (Pedubast, Sheshonq V, Osorkon III, Takelot III) che fossero imparentati con quelli della XXII. La capitale della nuova dinastia fu Bubastis, dove la famiglia dei Sheshonq si era installata molto prima di prendere il potere, e così la divisione nord-sud si complicò ulteriormente, creando una nuova frammentazione est-ovest nel delta. Ma le divisioni non finirono lì; a fianco delle due dinastie parallele, sembra che le dinastie locali si siano moltiplicate, al nord, fino all’avvento della XXIV. Anche se questi piccoli re non erano ostili gli uni agli altri, il frazionamento del potere era pericoloso per l’Egitto, che si trovava nell’impossibilità di creare un esercito potente, e di assicurare i contributi economici e i lavori di manutenzione generale indispensabili alla prosperità del paese.
    Verso il 730 a.C., la situazione era molto confusa: nel delta il potere era diviso, da una parte tra i faraoni della XXII e quelli della XXIII dinastia, e dall’altra fra usurpatori per lo più libici che avevano preso il potere localmente. Nel Medio Egitto è praticamente impossibile capire chi faceva capo ai faraoni della XXII e chi a quelli della XXIII dinastia, e comunque, tra le due fazioni, non c’era nessuna ostilità. In Alto Egitto, infine, il grande sacerdote e la divina adoratrice di Amon, parenti dei faraoni del nord, regnavano autonomamente a Tebe, mentre si suppone che, in Sudan, i componenti del clero di Amon che si erano rifugiati lì, si fossero costituiti in principato autonomo con capitale a Napata, anche se è più verosimile che i sovrani di questo nuovo regno fossero sudanesi.
    L’Egitto era quindi più diviso che mai, ma presto si farà sentire una forte (e duplice) tendenza alla centralizzazione. Nel 751 circa Piankhy, un re dal nome egiziano (il che non vuol dire che avesse origini egiziane) salì al trono a Napata, in Sudan. Gli egiziani non erano mai stati molto numerosi in Nubia, e si erano completamente mescolati alla popolazione locale, per cui Piankhy governava un popolo di sudanesi, e sembrava non dovere nulla all’Egitto (da cui il nome di «etiope» dato alla sua dinastia). Mentre lui cercò di unificare l’Egitto partendo da sud, a Sais, nel delta, il re locale, Tefnakht, cominciò a ricostruire intorno a sé l’unità del paese. Sembra che abbia proceduto con la persuasione, più che con la conquista armata: fece riconoscere la sua autorità ai governanti locali e li confermò nei propri poteri come vassalli. Una volta unificato il nord, Tefnakht penetrò in Medio Egitto, dove si scontrò con Piankhy che era partito dal sud. Si conoscono le vicende di questa lotta tramite un solo documento, la stele di Piankhy, che dà una visione «sudista» dell’avvenimento, ed è una fonte molto partigiana. In questo documento il re si vantò di aver completamente sconfitto Tefnakht e di aver conquistato l’Egitto fino ai confini marittimi del delta. In effetti, se è possibile che abbia respinto Tefnakht e i suoi vassalli del Medio Egitto, è piuttosto improbabile che sia andato più lontano poiché, subito dopo la sua pretesa vittoria, non solo Piankhy tornò a Napata, ma esiste anche la prova che Tefnakht governò il delta ancora per qualche anno dopo la tanto vantata conquista etiope.
    Comunque sia, Tefnakht fu il fondatore della XXIV dinastia, che fu formata da due soli re: Tefnakht e Boccoris. Questa dinastia regnò nel nord mentre Piankhy, con la XXV dinastia etiope governò parallelamente al sud, estendendo forse il suo potere fino a Menti: l’unificazione era fallita.
    Nel nord, Boccoris succedette a suo padre Tefnakht. Egli passò per essere stato un legislatore, ma si sa ben poco su di lui, se non che sollevò una rivolta in Palestina contro gli Assiri, che l’appoggiò con un distaccamento egiziano, e che fu sconfitto. Morì durante i combattimenti per la conquista del delta da parte di Shabaka.
    Nel sud, Shabaka, successore di Piankhy, governava fino a Tebe, e, forse, fino a Menfi. Egli abbandonò Napata per stabilirsi a Menfi, dove la sacerdotessa divina adoratrice di Amon era ormai di discendenza sudanese. Da lì partì alla conquista del Basso Egitto, a cui il padre Piankhy aveva rinunciato, e sembra che quest’impresa gli riuscì, anche se non si ha nessun dettaglio circa questa conquista, nel corso della quale fu ucciso Boccoris. Shabaka si trasferì poi al nord e, al contrario di Tefnakht e Boccoris, non si oppose agli assiri. Scomparsa la XXIV dinastia, la XXV regnò in Egitto solo nominalmente, perché sembra che il paese non sia mai stato, in realtà, totalmente pacificato.
    I successori di Shabaka furono Shebitku e Taharqa. I due intrapresero una politica attiva in Asia e favorirono le rivolte palestinesi contro gli assiri, ma non furono più fortunati di Boccoris, e fu per pura fortuna che l’esercito assiro, vinta la coalizione palestinese, non distrusse Gerusalemme e l’esercito egiziano (sembra che un’epidemia di peste abbia dissuaso gli assiri dal combattere).
    Per poter sorvegliare la situazione nel Mediterraneo, Taharqa fu obbligato, come i suoi predecessori, a installarsi nel Basso Egitto, e risiedette a Tanis. Era perciò troppo lontano dall’Alto Egitto per poterlo governare efficacemente, ma fece uno sforzo per assicurarsene almeno la fedeltà. Rompendo con la tradizione non lasciò più tutti i poteri al clero di Amon, ma ne conferì una parte al «governatore del sud», Montuemhat; cosi separò deliberatamente il potere spirituale da quello temporale, per motivi politici.

    XXI Dinastia (Tanita)
    (1078-945 a.C.) Per tutto il secolo XI e quelli precedenti l’era cristiana il fondamentale dualismo della terra dei faraoni si manifestò in modo nuovo e inatteso. Due capitali distinte si dividevano ormai il governo dell’Egitto, Tebe a sud e Tanis a nord; e, strano a dirsi, le relazioni fra le due metà del paese erano amichevoli e procedevano in uno spirito di collaborazione. Per il momento il trono era vacante. L’assenza di un faraone non poteva esser tollerata a lungo, e Nesbanebded non tardò a far valere i suoi diritti. Il suo nome significa “Colui che appartiene all’Ariete di Djedé” e Djedé è l’importante città al centro del delta chiamata Mendés dai Greci.
    Manetone pone a capo della sua XXI dinastia dei sette sovrani di Tanis, Smendes, una pronuncia di Nesbanebded che coglie abbastanza nel segno. Smendes, come originario di Djede, non può aver avuto alcun diritto personale al trono, e pare ovvio che egli dovesse il titolo regale non solo al suo forte carattere, ma anche alla moglie Tentamun; evidentemente fu questa donna l’anello di congiunzione fra Tebe e Tanis. Sotto Smendes in Egitto riprese una certa attività edilizia, con restauri e nuove costruzioni, segno di grande potere.
    Il nome di Tebe non ricorre più negli elenchi di dinastie di Manetone e tutte le date trovate nelle epigrafi si riferiscono evidentemente ai regni taniti. I sovrani non ambivano più a esser sepolti a Biban el-Muluk, e gli scavi archeologici a Tanis hanno riportato alla luce le tombe di Psusennes I e di Amenemope, rispettivamente secondo e terzo re della XXI dinastia, tralasciando Neferkara, il cui regno fu probabilmente effimero. Questi sepolcri comunque sono delle costruzioni misere e modeste se paragonati alle grandi tombe sotterranee a occidente di Tebe, per non citare le imponenti piramidi dei tempi più antichi.
    A Tebe il modello di governo lasciato in eredità da Hrihor ai suoi discendenti fu mantenuto con pochi mutamenti. Alla morte di Smendes, come a quella di Hrihor, infatti nulla cambiò in Egitto. Come già detto, seguirono lotte.
    L’alto sacerdozio a Tebe fu quindi successivamente ricoperto da Piankhi, Pinudjem I, Masaherta, Menkheperra e Pinudjem II, passando di padre in figlio eccettuato nel caso di Menkheperra, fratello del suo predecessore. Insieme al titolo sacerdotale questi pontefici assumevano quello di “Gran Comandante dell’Esercito” o “Gran Comandante dell’Esercito di tutto il paese”, chiaro indizio dell’instabile situazione dell’Egitto; i titoli di “Visir” o di “Figlio del re di Cush” erano aggiunti talvolta, probabilmente solo in ossequio alla tradizione.
    Mentre la sequenza dei sacerdoti tebani e i reciproci rapporti di parentela sono stati stabiliti con certezza, questo non è stato possibile per i sovrani di Tanis. Per i primi quattro si può probabilmente accettare l’ordine di successione fornito da Manetone: Smendes, Psusennes, Nephercheres e Amenaophthis ma il quinto nome, Osochor, è forse preso a prestito dalla XXII dinastia, mentre il successivo, Psinaches, non è stato individuato in alcun geroglifico.
    A questo punto comunque va inserito Siamun, il faraone che pose i suggelli al grande “nascondiglio” di Deir el-Bahri, e del quale si sa che regnò diciassette anni: Alla fine della dinastia Manetone nomina un secondo Psusennes, e questo è confermato dai monumenti. Si è, però, talvolta supposta l’esistenza di un terzo Psusennes, da non confondersi col secondo. La cronologia della XXI dinastia è ancor più controversa che non l’ordine di successione dei suoi monarchi. Sesto Africano attribuisce 26 anni di regno a Smendes, 46 a Psusennes I, 14 a Psusennes II, e periodi molto più brevi agli altri; ma le fonti più antiche tacciono su tutti e tre i regni.
    Fu durante la XXI dinastia che i sacerdoti di Amon predisposero quello che ai giorni nostri viene comunemente chiamato “nascondiglio di Deir el-Bahri”. Ammonticchiati in questo modesto sepolcro furono trovati sarcofagi, mummie, e vari arredi funebri, portati là dopo lunghe peregrinazioni dai successori di Hrihor.
    Quasi subito dopo i funerali, i potenti re delle dinastie che vanno dalla XVIII alla XX rimanevano esposti a violazioni e furti da parte dei rapaci abitanti della necropoli tebana, e fu solo in un ultimo disperato tentativo di porre fine a questi atti sacrileghi che intervennero i gran sacerdoti della XXI dinastia. Ormai potevano farlo con piena fiducia nella riuscita in quanto gli ornamenti d’oro e gli altri oggetti preziosi erano già da tempo scomparsi e ben poco rimaneva da salvare oltre alle bare e alle salme.
    Oltre alle mummie di nove re furono scoperte quelle di numerose regine, di qualche principe e personaggi minori. Su alcune bare e sui bendaggi delle mummie, sigilli in caratteri ieratici rivelavano la data dell’inumazione e i nomi delle autorità che l’avevano predisposta. Più importanti da un punto di vista strettamente storico erano i sarcofagi intatti di gran sacerdoti della XXI dinastia e delle loro donne. Fra le ultime salme sepolte erano quelle di Pinudjem II e di sua moglie Neskhons. Dopo di loro, nel decimo anno di regno del sovrano tanita Siamun, il “nascondiglio” fu sigillato, ma fu poi riaperto sotto il regno di Shoshenk I per seppellirvi un sacerdote di Amon di nome Djedptahefronkh.

    XXII Dinastia (Libica)
    (945-730 a.C.) Non molti anni dopo il 950 a. C. lo scettro dei faraoni passò nelle mani di una famiglia straniera. I primi re di questa stirpe si attribuivano il titolo di “capi dei Meshwesh”, spesso abbreviato in “capi dei Ma”, e talvolta parafrasato in “capi degli stranieri”. Questi erano evidentemente molto affini a quei Libi respinti con tanta difficoltà da Merenptah e Ramses III. Ma non sarebbe giusto considerarli nuovi invasori; la teoria più plausibile è che fossero discendenti di prigionieri di guerra o di coloni stabilitisi volontariamente in Egitto, ai quali, come agli Sherden, erano state concesse terre in proprietà a condizione che prestassero servizio militare.
    Comunque sia, essi erano divenuti così numerosi ed importanti da potersi impadronire del governo, quasi senza provocare attriti. Come gli Hyksos d’altri tempi, ambivano ad apparire egizi di nascita, pur continuando ad ornarsi il capo delle piume che erano sempre state una caratteristica del loro costume. La famiglia dei Sheshonq, alla quale appartenevano i re di questa dinastia, fornisce un eccellente esempio di questo processo di assimilazione.
    Stabilitisi nella regione di Eracleopoli, da sempre zona libica per eccellenza, i Sheshonq, il cui nome non è egiziano, dovevano essere, all’origine, puramente libici, ma diventarono egiziani ancora prima di salire al potere. Dopo essere stati capi militari, divennero sacerdoti e, a questo titolo, pretesero di essere sepolti a Abido come gli egiziani.
    Il potere della famiglia si estese fino a Bubastis, nel delta. La dittatura militare libica fu anche causa di disordini nel paese, soprattutto nella zona di Tebe, ed è persino possibile, anche se non se ne hanno le prove, che parte del clero di Amon si sia volontariamente esiliato nel Sudan. L’origine straniera era anche tradita dai nomi barbarici: Sheshonq, Osorkon, e Takelot, per non citare che quelli portati da sovrani veri e propri. Questi tre nomi erano noti a Manetone perché si trovano nella sua XXII dinastia insieme ad altri sei re innominati. Gli egittologi, dal canto loro, hanno creduto bene di dover distinguere almeno cinque Sheshonq, quattro Osorkon e tre Takelot. L’intero periodo è dei più oscuri.
    In linea generale si può dire che il carattere di queste ultime dinastie si mantenne assai simile a quello della XXI. La capitale principale era nel Nord, a Tanis o a Bubastis, ma a Tebe i gran sacerdoti esercitavano ancora un indiscusso potere religioso, mentre i rapporti fra le due metà del paese oscillavano continuamente fra l’amicizia e l’ostilità. Fu un’epoca di confusione e ribellioni per la conoscenza della quale gli storici non dispongono che di scarse fonti.
    Particolare importanza sotto la XXII dinastia ebbe la città di Eracleopoli; molti membri di questa dinastia ricoprirono cariche sacerdotali in questa città e, durante tutto il regno, i governatori della Tebaide vennero spesso scelti fra i suoi abitanti. Potrebbe darsi che i Meshwesh, innalzatisi ora fino al potere regale, si fossero stabiliti nei secoli precedenti in quei paraggi, sulla via diretta che attraversava le oasi a partire dalla Libia, loro patria d’origine.
    Manetone dice originari di Bubastis i re della XXII dinastia e di Tanis quelli della XXIII, ed esistono probanti indizi che li ricollegano a queste fiorenti città del delta orientale. Ad ogni modo, inevitabilmente attirati verso il nord, vero centro di gravità dell’Egitto, i libici abbandonarono Eracleopoli e si installarono nel delta.
    Dopo Sheshonq I ci fu molto disordine nel paese. I faraoni cercarono di diminuire l’influenza della casta sacerdotale di Amon, creando un nuovo titolo religioso (“Sposa del dio”); il risultato però, fu che esse acquisirono altrettanto potere di quello dei grandi sacerdoti, senza peraltro essere più fedeli al re. L’anarchia continuò a crescere.
    Manetone assegna alla XXII dinastia una durata di soli centoventi anni, ma secondo i calcoli degli studiosi di cronologia si devono attribuirle due interi secoli, dal 950 al 730 a.C..

    XXIII Dinastia (Bubastica – Libica)
    (818-730 a.C.) La XXIII dinastia di Manetone non comprende che quattro re, il terzo dei quali (Psammùs) non è stato identificato, e il quarto (Zét) è citato solo da Sesto Africano, probabilmente per errore.
    Sotto gli ultimi re della XXII dinastia, Sheshonq III, Pemay e Sheshonq V, l’anarchia continuò a crescere e l’Egitto mostrò una tendenza sempre maggiore al frazionamento, soprattutto nella zona del delta. La XIII dinastia venne fondata prima che la XXII si fosse estinta, e le due dinastie furono in parte parallele.
    È possibile anche, a giudicare dai loro nomi, che i faraoni della XXIII dinastia ( Petubasti, Osorkon IV, Takelot III, Rudamon, Osorkon V ) fossero imparentati con quelli della XXII.
    La capitale della nuova dinastia fu Bubastis, dove la famiglia dei Sheshonq si era installata molto prima di prendere il potere, e così la divisione nord-sud si complicò ulteriormente, creando una nuova frammentazione est-ovest nel delta.

    XXIV Dinastia (di Sais)
    (730-715 a.C.) La XIII dinastia venne fondata prima che la XXII si fosse estinta, e le due dinastie furono in parte parallele. Ma a fianco di queste due dinastie parallele, sembra che le dinastie locali si siano moltiplicate, al nord, fino all’avvento della XXIV dinastia.
    Verso il 730 a.C. la situazione era molto confusa: nel delta il potere era diviso, da una parte tra i faraoni della XXII e quelli della XXIII dinastia, e dall’altra fra usurpatori per lo più libici, fondatori della XXIV dinastia, che avevano preso il potere localmente.
    Tefnakht fu il fondatore della XXIV dinastia, che fu formata da due soli re: Tefnakht e Boccoris.
    Questa dinastia regnò nel nord mentre Piankhy, con la XXV dinastia etiope, governò parallelamente al sud, estendendo forse il suo potere fino a Menfi.
    Boccoris, figlio Tefnakht, morì durante i combattimenti per la conquista del delta da parte di Shabaka (XXV dinastia) e con lui ebbe termine la storia di questa breve dinastia.

    XXV Dinastia (Nubiana o Kushita)
    (760-656 a.C.) I dati registrati da Manetone per questo periodo, e riportati da Sesto Africano, sono di un interesse e di una brevità tale che è possibile citarli per esteso: ” XXV dinastia di tre re etiopi:

    * Sabacon che dopo aver catturato Boccoris lo bruciò vivo, e regnò a 8 (12) anni;
    * Sebichos, suo figlio, 14(12) anni;
    * Tarcos, 18 (20) anni; totale 40 anni”.

    Si trova qualche affinità con la storia autentica, anche se naturalmente non si deve prendere in considerazione l’allusione, di marca tipicamente manetoniana, alla conquista e l’asservimento dell’Egitto a opera degli Assiri.
    E’ strano tuttavia che Manetone non parli del grande guerriero sudanese o cushita Piankhy che verso il 730 a. C. cambiò all’improvviso l’intero corso delle vicende egizie. Era questi il figlio di un capotribù o re chiamato Kashta, e fratello, pare, di Shabako, chiamato da Manetone Sabacon. Partito da Napata, Piankhy scese il corso del Nilo e, nel corso di una campagna militare documentata da una famosa stele commemorativa a Gebel Barkal, sconfisse il rivale di origine siriana Tefnakht (XXIV Dinastia) e diede all’Egitto, dopo diversi decenni, una parvenza di unità.
    Ma per ottenere una prospettiva più o meno esatta della nuova situazione, occorre tornare indietro di circa settecento anni. Già sotto i Tuthmosidi era sorta una fiorente città o colonia egizia presso il massiccio roccioso del Gebel Barkal, non molto alto ma imponente perché isolato in mezzo alla pianura a circa un chilometro e mezzo dal Nilo. La capitale provinciale di Napata, situata a breve distanza dalla quarta cateratta a valle del fiume e ai piedi della «Montagna Sacra», come la chiamavano gli Egizi, era abbastanza lontana da potersi sviluppare senza gran pericolo d’interferenze. All’epoca di Tutankhamon la città segnava il limite amministrativo del vicereame nubiano. E’ indubbio che la cultura egizia, seppure latente, continuava a esercitare la sua influenza e ad essa si univa un’appassionata devozione ad Amon-Ra, il dio della città madre, Tebe. Fu probabilmente questa devozione a provocare l’improvvisa incursione di Piankhy nella terra sconvolta dei suoi avversari libici.
    Frattanto un nuovo nemico era comparso in Oriente: gli Assiri.

    Egitto e Assiria
    Da secoli i piccoli reami della Siria e della Palestina erano riusciti a sopravvivere senza grandi ingerenze straniere; ma adesso si trovavano di fronte la rinata potenza di un’Assiria ambiziosa e dispotica.
    Con una serie di campagne militari in Occidente Tiglath-pileser III (745-727 a.C.) aveva saccheggiato Damasco e deportato nell’Assiria gran parte degli abitanti; lo stesso aveva fatto in Israele, deponendo il re Pekah e sostituendolo con Hoshea nel 732 a.C..
    Per questi avvenimenti e per quelli dei cinquant’anni seguenti le uniche fonti sono l’Antico Testamento e le iscrizioni cuneiformi, mentre i testi egizi non nominano mai l’Assiria, anche se alla fine Tebe stessa doveva cadere temporaneamente vittima dell’assai più forte potenza asiatica. Tuttavia era chiaro che i signorotti della Palestina guardavano all’Egitto come difensore contro gli invasori settentrionali. Durante il breve regno del figlio di Tiglath-pileser III, Shalmaneser, prematuramente scomparso, Hoshea si sollevò in aperta ribellione; il tragico risultato fu la cattura e distruzione finale della Samaria, difesasi strenuamente per tre anni e caduta solo nel 721 a.C. quando il successore di Shalmaneser, Sargon II, «deportò gli Israeliti in Assiria» e «fece imprigionare e mettere in catene» Hoshea.
    Secondo il racconto biblico, questi «aveva inviato messi a So, re d’Egitto, e non pagava più il consueto tributo annuo al re d’Assiria».
    Gli studiosi sono concordi nell’identificare So con Sib’e, turtan d’Egitto, che secondo gli annali di Sargon era partito da Rapihu (Rafia, sul confine palestinese) insieme ad Hanno re di Gaza, allo scopo di vibrare un colpo decisivo. Sotto Tiglath-pileser questo stesso Hanno era fuggito davanti all’esercito assiro ed era «riparato in Egitto»; Sargon riferisce che la stessa cosa fece Sib’e:
    «come un pastore cui è stato rubato il gregge, fuggì da solo e scomparve; io catturai personalmente Hanno I e lo portai in catene nella mia città di Ashur; distrussi Rapihu, la rasi al suolo e la bruciai».
    Per ragioni fonetiche, oltre che cronologiche, So-Sib’e non può essere il re etiopico Shabako, per cui si suppone che questi nomi si riferiscano a un generale. Ciò sembra convalidato dal testo assiro che prosegue: «Io ricevetti il tributo del Pir’u di Musru», il che non può significare altro che «il faraone d’Egitto».
    La latente ostilità delle due grandi potenze, Assiria ed Egitto, tornò a divampare sotto Sennacherib che iniziò la sua terza campagna militare con la conquista delle città costiere fenicie. L’agitazione era però scoppiata più a sud; la popolazione della città filistea di Ekron aveva scacciato il proprio re, Padi, per la sua lealtà verso l’Assiria; Ezechia, re di Giuda, dopo averlo accolto, lo aveva fatto prigioniero, ma poi, preso dalla paura, aveva chiesto aiuto all’Egitto.
    A Eltekeh le truppe egizie ed etiopiche subirono una grave sconfitta; Padi fu ristabilito sul trono e molte città di Giudea furono saccheggiate, anche se Gerusalemme sfuggì alla cattura. Per evitarla Ezechia si era rassegnato a pagare un pesante tributo. Si è molto discusso se questo sia stato l’unico scontro di Sennacherib con l’Egitto, ma la lettura diretta della Bibbia porta a concludere che ce ne fu un altro; infatti, vi si legge che «Tirhakah, re dell ‘Etiopia» era uscito a combattere contro gli Assiri, ma durante la notte l’angelo del Signore ne colpì un gran numero, cosicché «al mattino erano tutti cadaveri». Nei due versetti successivi si afferma che Sennacherib ritornò allora a Ninive dove rimase finchè non fu assassinato.
    Nel fantasioso, ma divertente racconto che Erodoto fa di questo fallito attacco contro l’Egitto, la ritirata degli Assiri, dopo che già avevano raggiunto Pelusio, fu causata non dalla peste, come insinua l’Antico Testamento, ma da nidiate di topi che rosicchiarono le faretre e gli archi degli invasori.
    Dato che Taharqa non salì al trono che nel 689 a.C., non può esser questi il nemico sconfitto da Sennacherib a Eltekeh e, a meno di negare l’esattezza del racconto biblico, se ne deve concludere che il re assiro mirasse a far seguire la vittoria da un colpo decisivo impedito, però, dalle circostanze. Dunque i nemici non devono essersi incontrati.
    Da tempo si era fatta evidente la necessità di giungere a una conclusione fra i sovrani dell’Assiria e dell’Etiopia, ugualmente ostinati, ma di fatto fu un terzo contendente a riportare la vittoria decisiva. Come ai tempi di Piankhy, il Basso Egitto e una parte del Medio si erano frantumati in numerosi piccoli principati, sempre pronti a schierarsi con quella delle due grandi potenze che con maggior probabilità avrebbe rispettato la loro indipendenza. Uno di questi doveva di lì a poco conquistare la supremazia, ma per il momento fu l’Assiria ad avere il sopravvento.
    Esarhaddon, figlio di Sennacherib (680-669 a. C.), continuò con successo anche maggiore la politica aggressiva del padre. I documenti egizi tacciono, ma stele e tavolette in caratteri cuneiformi danno particolareggiati resoconti della campagna in cui, dopo aver soggiogato la Siria, egli costrinse Taharqa a ripiegare a sud. Nell’iscrizione meglio conservata, dopo aver elencato il bottino portato in Assiria, così prosegue:
    Deportai dall’Egitto tutti gli Etiopi, non lasciandone neppure uno a rendermi omaggio. In tutto l’Egitto nominai nuovi re, governatori, ufficiali, ispettori portuali, funzionari e personale amministrativo.
    Poco dopo esser partito per un altra campagna, Esarhaddon cadde ammalato ad Harran e morì, dando modo a Taharqa di riconquistare Menfi e occuparla, finché non ne fu di nuovo cacciato da Ashurbanipal durante la sua prima campagna (667 a.C.).
    Il nuovo re assiro scoprì che «i re, governatori e reggenti» nominati da suo padre in Egitto erano fuggiti e occorreva reintegrarli nelle loro cariche. Tebe fu occupata per la prima volta, ma solo per essere temporaneamente abbandonata:
    Il terrore della sacra arma di Ashur, mio signore, sconfisse Tarku nel suo rifugio e di lui non si seppe mai più nulla. In seguito, Urdamane, figlio di Shabako, sedette sul trono del suo reame. Fortificò Tebe ed Eliopoli e vi radunò le sue forze armate.
    Il racconto prosegue dicendo come Urdamane (nome dato dagli Assiri al re etiope Tanuatamun ) rioccupasse Menfi; solo dopo il ritorno di Ashurbanipal da Ninive e l’inizio della sua seconda campagna, l’etiope abbandonò prima Menfi e poi Tebe, e «fuggì a Kipkipi». Questa è l’ultima notizia sul suo conto fornita dai testi cuneiformi.
    Ashurbanipal afferma di aver completamente soggiogato Tebe e aver portato a Ninive un grosso bottino, ma pare che questa sia stata l’ultima sua comparsa in Egitto (663 a.C.).
    In poco meno di settant’anni l’avventura etiopica si era così conclusa e ogni contatto diretto fra i due reami cessò, a quanto pare, anche se in qualche modo si saranno mantenuti rapporti commerciali. Il confine settentrionale del regno di Napata era probabilmente Pnubs, a sud della terza cateratta; il tratto fra questa località e Aswan divenne forse una specie di «terra di nessuno» abitata da tribù selvagge.
    Da allora in poi l’interesse degli Etiopi incominciò a rivolgersi a sud anziché a nord, e fu stabilita una nuova capitale a Meroe alla confluenza dell’Atbara col Nilo, dove si poteva allevare bestiame e coltivare campi e dove esistevano anche abbondanti giacimenti di ferro. Malgrado la scissione politica fra Egitto ed Etiopia l’antica cultura faraonica tardò a scomparire; i templi continuarono a esser decorati con le stesse scene convenzionali a rilievo; le tombe reali conservarono la forma a piramide. Varie pregevoli stele, scritte in un egizio di mezzo abbastanza corretto, furono scoperte a Gebel Barkal insieme a quella di Piankhy. Qualche generazione dopo le iscrizioni geroglifiche, pur facendo ancor uso della lingua egizia, erano divenute così barbariche da essere incomprensibili.
    Nel frattempo dai geroglifici egizi era venuta formandosi una scrittura alfabetica usata per rendere graficamente la lingua indigena, e a lato di questa si era sviluppata una scrittura di tipo lineare in cui ogni segno corrispondeva al geroglifico originario.

    Bassa epoca (epoca tarda)

    (664-332 a.C.) Da lungo tempo si sentiva la necessità di unificare un mondo lacerato da continui conflitti e questa unificazione doveva ora esser tentata su vasta scala. L’iniziativa venne dalla parte più inattesa, la Persia.

    Egitto e Persia
    La Persia è il paese situato sul lato orientale del Golfo Persico e si estende per lungo tratto nell’entroterra con Persepoli e Pasargade come capitali. Di questa regione montuosa e in parte inospitale era originaria la famiglia ariana degli Achemenidi dalla quale uscì il grande conquistatore Ciro II (558-529 a.C. circa).
    Il primo paese a essere invaso dai Persiani fu la Media dove Astiage, figlio di Ciassare, non poté opporre che una debole resistenza prima di esser cacciato dalla propria capitale, Ecbatana, a metà strada fra Susa e il mar Caspio. Fu poi la volta della Lidia. Prevedendo ciò che stava per accadere il suo re, Creso, aveva cercato di allearsi con l’Egitto, Babilonia e Sparta, ma prima che giungesse il loro aiuto, Sardi fu catturata (546 a.C.) e la Lidia cessò di esistere come regno indipendente. Le città della costa ionica rimasero alla mercè del sovrano persiano che le affidò ai suoi generali per esser libero di volgere altrove le proprie forze. Naturalmente il prossimo obiettivo era Babilonia, ma Ciro non aveva alcuna fretta di affrontarla. Vi regnava allora Nabonido, dotto sovrano e studioso di archeologia, dopo un esilio di dieci anni a Taima nell’Arabia dal quale era tornato nel 546 a.C. su invito dei propri sudditi che prima erano stati in dissenso con lui.
    Nel 539 a.C. Ciro occupò Babilonia risparmiando, con tipica saggezza, la vita del re e confinandolo nella lontana Carmania come governatore o esule. Un impero tanto vasto richiedeva naturalmente un’opera di consolidamento e per qualche anno si hanno scarse notizie di imprese militari di Ciro. Egli si rendeva però conto della necessità di conquistare l’Egitto, e affidò questo compito al figlio Cambise. Quanto a Ciro stesso, perì nel 529 a.C. combattendo per respingere un attacco di orde turaniche sulla frontiera settentrionale; in trent’anni si era elevato dai suoi umili inizi fino a divenire il più potente monarca che il mondo di allora avesse mai conosciuto.
    Le difficoltà connesse con la successione tennero impegnato Cambise per i tre anni successivi, ma l’assassinio del fratello Smerdi lo lasciò libero di proseguire l’impresa affidatagli dal padre. La Fenicia si era sottomessa spontaneamente, fornendogli una flotta preziosa per le future operazioni. Cambise mosse allora contro l’Egitto, da pochi mesi governato dal faraone Psammetico III.
    La battaglia di Pelusio fu combattuta con disperata tenacia (525 a.C.), ma alla fine gli Egizi ripiegarono in disordine a Menfi che si arrese solo dopo un lungo assedio. L’Egitto passò così in mano ai Persiani (XXVII dinastia di Manetone). In questo periodo sopravvenne un notevole cambiamento nella civiltà della terra dei faraoni fino allora rimasta più o meno uniforme. Come prima la popolazione indigena usava nel disbrigo dei propri affari la lingua d’origine, scritta in una forma estremamente corsiva, nota ai Greci come encoriale o demotica. Ma per quanto concerneva il governo l’Egitto era ormai la più remota provincia di un grande impero straniero. Il re persiano, suo supremo signore, risiedeva a Susa o Babilonia e lasciava l’amministrazione vera e propria in mano a un governatore locale, detto satrapo. Per tutti gli scopi burocratici veniva impiegata la lingua aramaica, idioma semitico del Nord che, dopo essersi diffuso in Mesopotamia a opera dei popoli ivi deportati, si era in seguito propagato al Sud grazie fra gli altri agli esuli Ebrei cui Ciro aveva concesso di tornare nella patria d’origine; in Palestina questa lingua aveva finito per sostituire completamente l’ebraico.
    Non si deve credere che in Egitto l’uso dell’aramaico fosse limitato agli Ebrei anche se si sarebbe portati a dedurlo dalle numerose e sensazionali scoperte di papiri scritti in questa lingua nell’isola di Elefantina, subito a nord della prima cateratta. Anche se le persone di cui questi papiri rivelano i molteplici e svariati interessi erano tutte o in massima parte Ebrei si dovrà osservare che esse appartenevano a una guarnigione di frontiera ed erano perciò al servizio del regime persiano.
    Comunque la prova più convincente che l’aramaico era la lingua ufficiale dell’amministrazione persiana è fornita da un gruppo di lettere per lo più dirette ai suoi subalterni in Egitto dal satrapo Arsame che rimase in carica per tutto l’ultimo venticinquennio del secolo V. Queste lettere provenivano senza dubbio dalla cancelleria del satrapo, con sede probabilmente a Menfi. Con il passare degli anni, lotte intestine, legate alla successione al trono, indebolirono il grande impero Persiano. Ne approfittò l’Egitto che, con Amirteos (XXVIII dinastia) riottenne l’indipendenza.
    Da questo momento fino alla conquista di Alessandro Magno nel 332 a.C., la politica estera dell’Egitto non mirò che a difendere la propria indipendenza da un impero ostinato a considerarla una semplice provincia ribelle. L’Egitto riuscì nel suo scopo, tranne che per il breve lasso di un decennio proprio alla fine di questo periodo. Un continuo ostacolo era comunque la rivalità fra le varie famiglie principesche del delta. Per notizie meno vaghe dobbiamo basarci interamente sugli autori greci. Da Senofonte si apprende che la Persia aveva radunato nella Fenicia un forte esercito destinato senza dubbio a sottomettere l’Egitto. Di conseguenza le città greche dell’Asia Minore, che si erano schierate al fianco dell’Egitto, si trovarono anch’esse in grave pericolo. Per soccorrerle Sparta, malgrado i forti obblighi verso Ciro, entrò in guerra contro la Persia, la cui potenza era ancora assai temibile (400 a.C.). Il conflitto durò vari anni. Nel 396 a.C. Sparta cercò di stringere con l’Egitto un’alleanza che le venne prontamente accordata.
    Non molto tempo dopo, nel 393 a.C., salì al trono Achoris, e poiché l’alleanza con Sparta si era dimostrata svantaggiosa, si affrettò a cercare aiuto altrove, e lo trovò per mezzo di un trattato con Evagora, l’abile e ambizioso re di Salamina di Cipro, che aveva già imposto la sua signoria a varie altre città dell’isola. L’amicizia di Evagora con Conone portò di conseguenza gli Egizi a una stretta collaborazione con Atene. Ma intanto sia la Persia che Sparta si erano stancate della guerra, e nel 386 a.C. fu conclusa la pace di Antalcida, che lasciava alla Persia mano libera in tutte le città greche dell’Asia Minore in cambio dell’autonomia di tutti gli altri stati ellenici.
    Così Achoris ed Evagora rimasero soli e Artaserse fu libero di affrontare l’avversario che preferiva. Per primo attaccò l’Egitto, che aveva avuto il tempo di tornare a essere un paese ricco e forte; Cabria, uno dei migliori generali dell’epoca, lasciò Atene per mettersi al servizio di Achoris. Su questa guerra si hanno scarse notizie, salvo il fatto che si protrasse fino al 383 a.C. e che il polemico oratore ateniese Isocrate ne diede un giudizio sprezzante. Evagora si dimostrò di grande aiuto spingendosi con le sue truppe entro il campo nemico e catturando Tiro e altre città della Fenicia; ma in seguito la fortuna l’abbandonò e, dopo aver perso una importante battaglia navale, fu assediato nella sua città di Salamina. Aveva tenuto in scacco la Persia per più di dieci anni, al termine dei quali i dissensi scoppiati fra i capi persiani li indussero ad accettare la sua resa a condizioni onorevoli (380 a.C.).
    Dopo esser rimasto a lungo fedele vassallo del re di Persia, Evagora cadde vittima di una cospirazione. L’Egitto si trovò così ancora una volta da solo contro la Grande Persia.
    Con la XXX Dinastia ebbe inizio l’ultima dinastia indipendente dell’Egitto.
    Il numero di monumenti lasciati dai sovrani della XXX Dinastia potrebbe dare l’impressione di un periodo d’ininterrotta pace e prosperità. Ma dagli storici greci, dei quali Diodoro è ancora una volta il principale esponente, viene alla luce una storia ben diversa.
    In Persia regnava ancora Artaserse II (404-358 a.C.) più deciso che mai a umiliare l’Egitto e a ricondurlo alla precedente sottomissione. Ma i preparativi per l’invasione procedevano con grande lentezza. Per prima cosa il Gran Re fece pressioni su Atene perché richiamasse dall’Egitto il valente generale Cabria, che dovette accontentarsi di un incarico militare in patria. Il grande esercito persiano, guidato dal satrapo Farnabazo e dal comandante dei mercenari greci Ificrate, non partì da Acre che nel 373 a.C.. Raggiunta Pelusio, fu chiaro che un attacco da quel lato era impossibile, ma che l’una o l’altra delle foci del Nilo meno fortificate offriva migliori speranze di successo. E fu proprio così; la barriera del ramo di Mendes venne forzata e molti egizi furono uccisi o catturati. Contro il volere di Farnabazo, Ificrate tentò di spingersi fino a Menfi, e mentre l’antagonismo fra i due comandanti ritardava l’azione persiana, le truppe di Nekhtnebef ripresero forza e circondarono gli invasori da tutti i lati. In buon punto sopraggiunse in aiuto degli Egizi la piena del Nilo; le parti del delta non completamente sommerse dalle acque si trasformarono in palude e i Persiani furono costretti a battere in ritirata.
    Per la seconda volta l’Egitto fu salvo. Il figlio di Nekhtnebef, Teos, giunse a tentare un attacco diretto contro la Persia. Alleatosi ad Agesilao e al generale Ateniese Cabria mosse contro la Fenicia. Durante questa campagna però Agesilao diede il suo appoggio ad Nekhtharehbe che diventò faraone, mentre Teos fu costretto all’esilio in Persia. La spedizione fallì. Nel 358 a.C. l’ascesa al trono di Artaserse III Oco infuse nuova vita al vacillante Impero persiano. Fu ristabilito l’ordine fra i satrapi dell’Asia Minore, ma lo sforzo richiesto fu tale da precludere ogni velleità di aggressione contro l’Egitto. Nondimeno verso il 350 a.C. Artaserse era pronto alla guerra. Non se ne conoscono i particolari, ma il fallimento fu completo col risultato che ovunque scoppiarono rivolte contro la dominazione persiana, con la Fenicia e Cipro in prima linea.
    L’obiettivo più importante rimaneva l’Egitto, essendo questo l’unico paese che poteva fornire in abbondanza oro e grano, e la sua riconquista era indispensabile. Prima però si dovevano fare i conti con la Fenicia e la Palestina. Sidone, al centro della rivolta, si era attirata le rappresaglie persiane con un violento e rovinoso colpo di mano contro gli occupanti. Temendone le conseguenze, si era rivolta per aiuto all’Egitto, ma Nekhtharehbe si era limitato a inviarle un piccolo contingente di mercenari greci comandati da Mentore di Rodi. Diodoro narra la storia dei pochi anni successivi con grande abbondanza di particolari. I preparativi di Artaserse furono imponenti e ancor prima dell’arrivo di massicci rinforzi dalle città della Grecia continentale e dell’Asia Minore egli riuscì a infliggere un terribile castigo a Sidone; il suo re, Tenne, si accordò proditoriamente con Mentore per consegnare la città al nemico, e di conseguenza gli abitanti incendiarono le navi e molti di essi cercarono volontariamente la morte tra le fiamme delle proprie case.
    Nell’autunno del 343 a.C., l’esercito persiano, con a capo il Gran Re in persona, partì per la sua memorabile campagna contro l’Egitto. Il primo assalto fu sferrato contro la città di Pelusio che oppose una tenace resistenza. La straripante potenza Persiana ebbe però la meglio e una dopo l’altra tutte le città del delta capitolarono.
    Nekhtharehbe, resosi conto che la situazione era disperata, fuggì in volontario esilio in Etiopia. L’Egitto era di nuovo una provincia persiana.
    Questa seconda dominazione non durò che una decina di anni, ma con essa era terminata la storia delle dinastie Egiziane. Dopo più di 4000 anni di storia l’Egitto aveva terminato di essere un paese indipendente con una propria stirpe regnante. Dario III, ultimo re persiano, nominalmente regnò in Egitto quattro anni, ma già prima di questo termine l’impero persiano aveva cessato di esistere e il mondo antico aveva iniziato una nuova era.
    Fra la XXXI e la XXXII Dinastia si colloca un poco conosciuto Khababash che assunse il ruolo di faraone. Un sarcofago di Api reca la data del suo secondo anno di regno, e il contratto nuziale di un sacerdote subalterno è datato nel primo anno. Maggiore interesse però offre una notizia ricavata da una stele del 311 a.C., quando il futuro Tolomeo I Sotere non era che satrapo d’Egitto. Nella forma questa lunga epigrafe è un’esaltazione delle grandi imprese di Tolomeo, ma ne è evidente il vero scopo a ricordare la restituzione di un tratto di terreno appartenuto da tempi immemorabili ai sacerdoti di Buto e confiscato da Serse, qui descritto come nemico e criminale. Khababash, dopo avere ascoltato le lagnanze dei sacerdoti che gli ricordarono come il dio Horo avesse per punizione scacciato dall’Egitto Serse e suo figlio, concedette quanto chiedevano, concessione riconfermata più tardi da Tolomeo. Ci sono due indizi per collocare storicamente Khababash: in primo luogo egli era evidentemente posteriore a Serse, e, secondariamente, pare che questa decisione fosse stata presa dopo avere esplorato le foci del Nilo attraverso le quali si poteva temere un’aggressione degli Asiatici, vale a dire dei Persiani. Un terzo indizio è dato dal fatto che il contratto nuziale era stato firmato dallo stesso notaio di cui si ha la firma sopra un altro documento del 324 a.C.. Da qui varie ipotesi, ma di certo si può dire soltanto che Khababash fu uno degli ultimi, se non proprio l’ultimo governante non persiano né greco che osò assumere il complesso dei titoli del faraone nato in Egitto, sebbene il suo nome sia decisamente straniero.
    Il grande evento che determinò il destino dell’Egitto e la sua forma di governo per i tre secoli successivi fu la conquista di Alessandro il Grande nel 332 a.C.. L’ascesa della Macedonia a potenza mondiale era incominciata ad apparire possibile fin dal 338 a.C., quando Filippo II (greco per modo di dire), dopo aver soffocato ogni resistenza con la sconfitta di Atene e Tebe a Cheronea, aveva fondato una Lega ellenica che doveva alleare tutta la Grecia sotto la sua egida. Ma nessuno avrebbe allora potuto prevedere le brillanti vittorie che, nello spazio di dieci anni, fecero del suo giovane figlio Alessandro l’indiscusso padrone di tutto il mondo orientale.
    E’ probabile che neppure Alessandro sapesse bene che cosa si proponeva finchè non ebbe conquistato l’Asia Minore e costretto alla fuga Dario nella battaglia di Isso, una ventina di chilometri a nord dell’odierna Alessandretta (333 a.C.). E anche allora il suo primo pensiero non fu quello d’inseguire il monarca persiano, ma di assoggettare la Siria e l’Egitto. L’assedio di Tiro fu lungo e tedioso, ma, superato questo ostacolo, niente più gli intralciò il cammino fino a Gaza, che gli oppose una disperata resistenza. Nel 332 a.C. Alessandro raggiunse l’Egitto, il cui satrapo persiano si arrese senza colpo ferire.

    XXVII Dinastia (prima dominazione Persiana)
    (525-404 a.C.) Manetone fa iniziare la sua XXVII dinastia con la battaglia di Pelusio (525 a.C.), durante la quale le truppe persiane agli ordini del nuovo imperatore Cambise, figlio di Ciro il Grande, sbaragliarono l’esercito del faraone Psammetico III.
    Il regno di Cambise doveva durare per soli tre anni ancora e tutte le spedizioni da lui architettate in questo periodo fallirono. Il progetto di un’aggressione contro Cartagine fu abbandonato perché i Fenici si rifiutarono di combattere contro gente del loro stesso sangue. Una campagna assai più ambiziosa contro gli Etiopi, cui partecipò Cambise in persona, si risolse in un completo fallimento per la mancanza di una preparazione adeguata, mentre un corpo di spedizione, mandato attraverso il deserto nell’oasi dove due secoli dopo Alessandro Magno avrebbe consultato l’oracolo di Amon (oasi di Siua), fu travolto da una tempesta di sabbia e scomparve. L’ira di Cambise per il fallimento di queste imprese fu senza limiti e si dice che gli provocasse una crisi di pazzia, ma perlomeno l’Egitto intero era stato conquistato.
    Nel 522 a.C., al ritorno di Cambise in Asia, l’Egitto rimase affidato al satrapo Ariande, che in seguito fu sospettato d’infedeltà e condannato a morte. Frattanto il “mago” Gaumata si era fatto credere il vero Smerdi ottenendo un vasto seguito in tutte le province persiane. I Magi appartenevano a una tribù della Media che aveva monopolizzato l’esercizio e i segreti della religione. Durante l’assenza di Cambise, essi avevano preso in mano il governo, installandosi a Susa. Sulla morte di Cambise si hanno notizie discordanti; probabilmente il fatto avvenne mentre egli tornava in patria per combattere contro il pretendente. Il trono passò a Dario I, figlio di Istaspe e appartenente alla famiglia di Ciro. Durante i suoi trentasei anni di regno (521-486 a.C.) l’impero persiano fu organizzato con consumata arte di governo, ma si sa relativamente poco sugli avvenimenti egizi di quel periodo.
    Si sa che fece compilare una raccolta di tutte le leggi egizie dagli inizi fino all’anno 44 di Amasis. Fece inoltre completare il canale fra il Nilo e il Mar Rosso. Neko II era stato costretto ad abbandonare il progetto, ma Dario non solo riparò il canale in tutta la sua lunghezza, ma riuscì anche a farvi passare ventiquattro navi cariche di tributi per la Persia. Dario nel governo dell’Egitto cercò saggiamente di atteggiarsi a faraone legittimo continuando l’opera dei predecessori saitici.
    Per quanto saggio e illuminato fosse il governo di Dario, il suo impero era troppo vasto per non dare ben presto segni di fragilità. Già nel 499 a.C. insorgevano le città della Ionia e l’aiuto ad esse prestato da Atene ed Eretria rendeva la guerra fra la Persia e la Grecia occidentale una semplice questione di tempo. La sensazionale sconfitta di Artaferne, nipote di Dario, a Maratona (490 a.C.) non poteva non causare gravi ripercussioni in tutto il Medio Oriente. Gli Egizi si sollevarono nel 486 a.C. e la ribellione non fu soffocata che nel secondo anno del regno di Serse, succeduto al padre verso la fine del 486. Serse si avvalse della sovranità sull’Egitto per secondare i propri piani; prima della battaglia di Salamina (480 a.C.), dove tentò una rivincita sui Greci, importanti compiti furono affidati a una grossa flotta egizia. A favore dell’Egitto stesso invece Serse fece poco o nulla.
    Ben poco di più si saprebbe sull’Egitto del secolo V a.C. se non ci rimanessero le testimonianze degli storici greci, che però riguardano solo i rapporti del paese con Atene. In seguito ai disordini sorti dopo l’assassinio di Serse e l’ascesa al trono di Artaserse I (465 a.C.), scoppiarono gravi agitazioni nel delta nordoccidentale dove un certo Inaro, figlio di Psammetico, insorse stabilendo il proprio quartier generale nella fortezza di Marea, non lontano dalla futura Alessandria. Durante il primo scontro coi Persiani Inaro ebbe la meglio e l’esercito nemico si ritirò a Menfi e vi si trincerò. Il soccorso dalla Persia tardò ad arrivare e Inaro chiese aiuto agli Ateniesi, che in quel periodo stavano battendosi vittoriosamente contro i Persiani a Cipro. Con il loro rinforzo i due terzi di Menfi furono catturati, ma il resto resistette finché il generale persiano Megabizo non respinse gli assedianti e li assediò in un’isola in mezzo alle paludi. Non fu se non nel 454 a.C. che Megabizo ebbe ragione di loro; Inaro, proditoriamente consegnato ai Persiani, fu crocifisso. Questo tuttavia non bastò a por fine alla rivolta. Un capotribù chiamato Amirteo si salvò dalla sconfitta e rimase nell’estrema parte occidentale del delta, chiedendo a sua volta aiuto agli Ateniesi; un certo numero di navi partì in suo soccorso, ma la morte del generale greco Cimone, avvenuta a Cipro, le costrinse a tornare indietro. Poco dopo fu dichiarata la pace tra la Persia e Atene e questa cessò d’ingerirsi negli affari egizi (449-448 a.C.).
    Eccettuato il delta occidentale, adesso la pace regnava in tutto l’Egitto.
    Gli stranieri vi erano bene accolti da qualunque paese venissero, specialmente i Greci. Questi avevano esteso i loro commerci a tal punto, che Naucratis non poté più mantenere la sua posizione di monopolio e la sua particolare importanza venne meno. Erodoto compì il suo viaggio in Egitto poco dopo il 450 a. C.. Senza dubbio ci fu qualche caso di xenofobia, forse anche una rivolta di poca importanza contro i governanti stranieri, ma, specialmente nell’Alto Egitto, sarebbero occorse differenze di razza e di religione perché il fermento divampasse in qualcosa di più serio.
    Fu quanto accadde nell’isola di Elefantina nel 410 a.C. Vivevano qui a stretto contatto gli adoratori di Yahu e i sacerdoti del dio dalla testa d’ariete Khnum. Questi ultimi approfittarono dell’assenza del satrapo Arsame per corrompere il comandante locale, Vidaranag, col risultato che il tempio ebraico fu completamente raso al suolo. Vidaranag fu punito, ma il tempio non venne riedificato per qualche tempo. I papiri aramaici, che riferiscono questo fatto, contengono anche una petizione inviata a Bagoa, governatore di Giudea, per ottenere il permesso di ricostruirlo, che alla fine gli fu concesso.
    Nei quarant’anni seguenti, che si conclusero con la morte di Dario II (404 a.C.) c’è un vuoto completo per quanto riguarda l’Egitto, che non doveva rientrare sulla scena del Medio Oriente se non dopo l’ascesa al trono di Artaserse II, in mezzo al tumulto degli eventi che la seguirono. Manetone fa terminare a questo punto la XXVII dinastia dei sovrani Persiani.

    XXVIII Dinastia
    (404-399 a.C.) Conclusa con la morte di Dario II (404 a.C.) la XXVII dinastia, Manetone inizia la XXVIII, costituita, secondo i suoi elenchi, da un solo re, Amirteos di Sais, presunto parente dell’altro Amirteo che, dopo la cattura di Inaro, ne aveva continuato la lotta contro i Persiani.
    Negli storici greci si trova solo un’incerta allusione al nuovo faraone, che Diodoro erroneamente chiama “Psammetico, discendente del (famoso) Psammetico”. Secondo l’episodio da lui narrato dopo la battaglia di Cunassa del 401 a.C., in cui l’insorto principe Ciro fu sbaragliato e ucciso, un amico di questi, l’ammiraglio Tamo di Menfi, da Ciro nominato governatore della Ionia, riparò con l’intera flotta in Egitto per sfuggire alla vendetta del satrapo di Artaserse II, Tissaferne; ma Amirteos, se è a lui che si riferisce Diodoro sotto il nome di Psammetico, lo condannò a morte. La fine di Amirteos, e con lui della XXVIII dinastia, non è chiara, ma sembra in qualche modo legata a qualche sua azione illegale (contraria alla regola di Maat) che gli impedì di passare il trono alla sua discendenza.

    XXIX Dinastia (di Mendes)
    (399-378 a.C.) La XXIX dinastia di Manetone, della quale si sono trovati monumenti a sud fino a Tebe, era originaria dell’importante città di Mendes e non consiste che di quattro sovrani rimasti complessivamente sul trono per vent’anni appena (399-380 a.C.); il primo e l’ultimo re portavano entrambi il nome di Nepherites, il cui significato etimologico è “I suoi Grandi sono prosperi”, ma mentre il primo regnò sei anni, il secondo non regnò che quattro mesi.
    Qualche egittologo è rimasto perplesso per un divario fra l’elenco di Manetone e quello della Cronaca Demotica. Nel primo, Achoris (in egizio Hakor o Hagor) precede Psammuthis (“Il figlio di Mut”), mentre nel papiro l’ordine è invertito; è probabile che il primo anno di regno dei due sovrani sia il medesimo e che pertanto entrambe le liste affermino il vero. Psammuthis, i cui soli ricordi rimasti sono a Karnak, con sovrimpresso il nome di Achoris, non regnò che un anno mentre l’altro re, che lasciò monumenti numerosi ritrovati in ogni parte dell’Egitto, riuscì a conservare il trono per tredici anni.

    XXX Dinastia (di Sebennytos)
    (378-341 a.C.) La XXX dinastia di Manetone conta tre sovrani, di cui il primo e il terzo hanno nomi così rassomiglianti (Nectanebes e Nectanebos) che pare opportuno preferire la forma etimologicamente più differenziata di Nekhtnebef e Nekhtharehbe. E’ ormai certo che il primo a regnare fu Nekhtnebef, anche se il loro ordine di successione è stato spesso discusso.
    Il numero di monumenti lasciati dai sovrani della XXX Dinastia potrebbe dare l’impressione di un periodo d’ininterrotta pace e prosperità. In realtà non fu così, la minaccia Persiana ai confini dell’Egitto costrinse i faraoni ad uno stato di allerta perpetuo, fatto di combattimenti, ritirate e contrattacchi continui. Con il secondo sovrano, Teos, sembrò addirittura possibile una clamorosa vittoria dell’esercito egiziano e dei suoi alleati, ma con l’ascesa sul trono di Persia di Artaserse III Oco la sorte dell’Egitto fu segnata. Con l’invasione del delta del Nilo da parte dei Persiani nel 343 a.C., ebbe termine, dopo più di 4000 anni, l’indipendenza dell’Egitto. Seguì un attacco contro la Fenicia (360 a.C.) durante il quale Teos fece pressione per avere il comando delle truppe egizie, ma Agesilao, indispettito per l’ilarità suscitata dal suo strambo aspetto e contegno, appoggiò invece il giovane Nekhtharehbe che una vasta fazione di seguaci opponeva come rivale a Teos. La spedizione fallì. Nekhtharehbe, eletto faraone, ritornò in Egitto e Teos fuggi in Persia dove terminò i suoi giorni in esilio.

    XXXI Dinastia (seconda dominazione Persiana)
    (341-332 a.C.) Nell’autunno del 343 a.C., l’esercito persiano, con a capo il Gran Re in persona, partì per la sua memorabile campagna contro l’Egitto. Il primo assalto fu sferrato contro la città di Pelusio che oppose una tenace resistenza. Artaserse III aveva, però, progettato di entrare nel delta simultaneamente da tre punti diversi, e la penetrazione persiana avvenne presso una delle foci occidentali del Nilo. La stagione dell’inondazione era finita e non c’era perciò il pericolo che si ripetesse il disastro di trent’anni prima. Fin dall’inizio la sfortuna perseguitò i difensori, durante una sortita dalla vicina fortezza i mercenari greci agli ordini di Clinia di Cos furono gravemente sconfitti e il comandante ucciso. La guarnigione di Pelusio si arrese dietro la promessa di essere ben trattata. La stessa promessa fu fatta altrove, e di lì a poco Egizi e Greci facevano a gara a chi per primo si sarebbe valso della clemenza persiana. Il terzo corpo di spedizione sotto il comando di Mentore e dell’intimo amico e alleato di Artaserse, Bagoa, riportò altre vittorie.
    La cattura di Bubastis a opera delle forze unite fu un avvenimento importante, dopo di che le altre città del delta si affrettarono a capitolare. L’Egitto rimase alla mercè di Artaserse III, e Nekhtharehbe, resosi conto che la situazione era disperata, radunò quanto poté dei suoi averi e parti sul fiume “alla volta dell’Etiopia”, dopo di che più nulla si seppe di lui.
    Grazie all’abile strategia e alla sagacia politica del re, l’Egitto era di nuovo una provincia persiana. Duro fu il pugno di Artaserse sull’Egitto, l’immenso potere e il prestigio da lui guadagnati all’impero non erano tuttavia destinati a durare a lungo. Nel 338 a.C. egli fu avvelenato dal suo intimo amico Bagoa, e il figlio minore, Arses, prese il suo posto solo per cadere assassinato due anni dopo dalla stessa mano. Salì allora al trono Dario III Codomano, l’ultimo degli Achemenidi, appartenente a un ramo collaterale della famiglia, il quale si affrettò ad avvelenare Bagoa. Con Dario III termina la XXXI dinastia che successivi scrittori di cronache aggiunsero alla trentesima di Manetone.

    XXXII Dinastia (Conquista Macedone)
    (332-323 a.C.) L’ascesa della Macedonia a potenza mondiale era incominciata ad apparire possibile fin dal 338 a.C., quando Filippo II, dopo aver soffocato ogni resistenza con la sconfitta di Atene e Tebe a Cheronea, aveva fondato una Lega ellenica che doveva alleare tutta la Grecia sotto la sua egida.
    Ma nessuno avrebbe allora potuto prevedere le brillanti vittorie che, nello spazio di dieci anni, fecero del suo giovane figlio Alessandro l’indiscusso padrone di tutto il mondo orientale. E’ probabile che neppure Alessandro sapesse bene che cosa si proponeva finchè non ebbe conquistato l’Asia Minore e costretto alla fuga Dario nella battaglia di Isso, una ventina di chilometri a nord dell’odierna Alessandretta (333 a.C.). E anche allora il suo primo pensiero non fu quello d’inseguire il monarca persiano, ma di assoggettare la Siria e l’Egitto. L’assedio di Tiro fu lungo e tedioso, ma, superato questo ostacolo, niente più gli intralciò il cammino fino a Gaza, che gli oppose una disperata resistenza.
    Nel 332 a.C. Alessandro raggiunse l’Egitto, il cui satrapo persiano si arrese senza colpo ferire. Alessandro governò sull’Egitto fino alla sua morte, nel 323 a.C., anche se in Egitto soggiornò solo un breve periodo, impegnato com’era nella conquista del mondo. Il governo di Alessandro fu caratterizzato dalla fondazione di Alessandria, che ben presto divenne non solo la capitale d’Egitto ma anche dell’intero Mediterraneo, e dalla visita all’oasi di Siwa dove ricevette il riconoscimento del dio Amon a regnare come gli antichi Faraoni. Così, Alessandro, ricevette probabilmente un’incoronazione solenne a Menfi come tradizionalmente accadeva ai Faraoni.
    Nel 331 a.C. Alessandro partì per l’oriente affidando l’Egitto ad un vicerè. Nel 323 a.C., mentre stava preparando una spedizione in Arabia, morì di febbre a 33 anni. Il suo corpo venne riportato ad Alessandria dove venne sepolto. I suoi successori, Filippo Arrideo ed Alessandro IV regnarono sull’Egitto solo nominalmente, in quanto imperatori di un Impero Macedone che, subito dopo la morte di Alessandro il Grande, fu preda di numerose forze centrifughe che lo suddivisero tra i vari diadochi (governatori). L’Egitto, in particolare, fu uno dei primi a rendersi autonomo, grazie al suo diadoco, Tolomeo I Sotere, che diede inizio alla cosiddetta Dinastia Tolemaica, l’ultima che diede all’Egitto una parvenza di indipendenza.

    EPOCA TOLEMAICA

    XXXIII Dinastia (dei Lagidi)
    (323-31 a.C.) In seguito alla morte di Alessandro il Grande, nel 323 A.C. all’età di 32 anni, l’Impero Greco da lui creato si frantumò. Nessun generale o erede fu sufficientemente forte da mantenere la struttura dell’Impero intatta. Il trono di Egitto toccò a Tolomeo I, figlio di Lagus, un macedone di nascita borghese. Tolomeo I era stato anche amico di infanzia e un fidato comandante di Alessandro il Grande e aveva rivestito un ruolo di primo piano durante l’ultima campagna di Alessandro in Asia.
    Dopo la morte di Alessandro il Grande, nel 323 a.C., l’Impero Greco fu diviso tra i Diadochi (successori) dal reggente dell’impero Perdiccas. Tolomeo fu nominato satrapo d’Egitto e Libia. Forse con l’intento di rafforzare il proprio potere, Tolomeo I rubò il corpo di Alessandro il Grande, che era stato imbalsamato e doveva essere riportato in Macedonia. Tolomeo mandò un contingente armato ad intercettare il corteo funebre e riportò il corpo ad Alessandria dove fece erigere una tomba spettacolare. Questo atto politico rafforzò la rivendicazione di Tolomeo di succedere ad Alessandro come sovrano.
    Le difficoltà cominciarono quando Antigono I, un membro dei Diadochi, attaccò Seleuco I nel 326 a.C.. Seleuco I si era arrogato Babilonia nel 321 a.C. come sua parte dell’Impero. Antigono I si appropriò della città e Seleuco fuggì alla corte del suo amico Tolomeo I in Egitto. Questo fatto diede inizio all’epica lotta tra i Diadochi, che avrebbe consumato molte delle loro vite. Antigono, e suo figlio Demetrio I (337-283 a.C.), furono sconfitti a Gaza nel 312 a.C.. Seleuco I così si riprese la sua città di Babilonia segnando l’inizio di quello che sarebbe stato conosciuto come l’Impero Seleucide. Nel 308 a.C., Demetrio I riuscì a sconfiggere Tolomeo I di Egitto in una battaglia navale sulle coste di Cipro. Nel 305 a.C., Rodi fu assediata da Demetrio I che impiegò quasi 30000 operai per fabbricare le torri d’assedio. Malgrado il suo enorme sforzo, però, l’assedio fallì. Nonostante Tolomeo I fallì nell’impresa di conservare Cipro e parte della Grecia, egli tuttavia riuscì a resistere all’invasione sia in Egitto che a Rodi e occupò Palestina e Cirenaica.
    L’assedio di Rodi da parte di Demetrio I fu l’avvenimento che ispirò la costruzione del Colosso di Rodi. Il Colosso di Rodi fu completato da Chares di Lindus dopo 12 anni. Fu costruito in bronzo e ritraeva il dio Helios. Il materiale proveniva dal bottino abbandonato in seguito al fallito assedio di Demetrio.
    Nel 305 a.C., Tolomeo si autoproclamò Re di Egitto, fondando la Dinastia Tolemaica che durò circa 300 anni, fino alla morte di Cleopatra VII nel 31 a.C., in seguito alla quale l’Egitto divenne una provincia Romana. Tolomeo I cominciò ad essere conosciuto anche con il nome di Sotere (“il preservatore”). Nel frattempo, Seleuco I, sempre nel 305 a.C. dichiarò se stesso re di Babilonia, fondando la dinastia Seleucide di Siria. Lisimaco, un altro membro dei Diadochi, si autoproclamò re di Tracia.
    Nel 301 a.C., nella battaglia di Ipso in Frigia, le ambizioni di Antigono ebbero definitivamente termine. Antigono fu ucciso in battaglia, all’età di 81 anni, dalle truppe di Lisimaco e Seleuco I. Ciò nonostante, Demetrio I non desistette. Egli era determinato a prendere il trono di Macedonia ed il governo dell’Asia.
    Un’alleanza politica fu stretta tra Tolomeo I e Lisimaco. Tolomeo I diede la propria figlia Arsinoe II, avuta da Berenice, in sposa a Lisimaco attorno al 300 a.C.. In cambio, Lisimaco avrebbe dato la propria figlia Arsinoe I in sposa al figlio di Tolomeo I, Tolomeo II Filadelfo, nel 288 a.C.. In tal modo Lisimaco sarebbe diventato il potenziale nonno del futuro governatore d’Egitto, Tolomeo III.
    Nel 297 a.C., Cassandro (358-297 a.C.), re di Macedonia e figlio di Antipatre, uno dei Diadochi, morì. Era stato Cassandro ad uccidere Olimpia, madre di Alessandro il Grande, nel 316 a.C. e la vedova di Alessandro, Rossana, nel 311 a.C., assieme a suo figlio. Cassandro aveva sposato la sorellastra di Alessandro, Tessalonica, nel 316 a.C. e aveva fatto parte della coalizione che aveva battuto Antigono e Demetrio I a Ipso nel 301 a.C.. Con Cassandro fuori dai giochi, la porta di Grecia e Macedonia era aperta. Nel 295 a.C., Demetrio I invase la Grecia prendendo Atene dopo un altro lungo assedio, questa volta coronato da successo, durante il quale uccise il suo tiranno Lacario. Dopo aver assoggettato Atene, Demetrio I uccise tutti i suoi concorrenti e sedette al trono di Macedonia nel 294 a.C.. Con la maggior parte della Grecia e della Macedonia sotto il suo dominio, Demetrio I rivolse ancora la sua attenzione verso l’Asia ed i rimanenti membri dei Diadochi. Le sue ambizioni furono la scintilla che provocò la formazione di un’altra coalizione tra Lisimaco di Tracia e Pirro, re dell’Epiro, uniti a Seleuco I e Tolomeo I per bloccare il piano di Demetrio I di invadere l’Asia. Alla fine, nel 288 a.C., Demetrio fu cacciato dalla Macedonia da Lisimaco e Pirro. Demetrio fu abbandonato dalle proprie truppe e finalmente si arrese a Seleuco I nel 285 a.C., che lo tenne prigioniero fino alla sua morte nel 283 a.C..
    La dinastia Tolemaica, nata dalla disgregazione dell’impero di Alessandro Magno, era destinata a protrarsi, tra diverse traversie, per quasi trecento anni, fino alla definitiva assoggettazione da parte dei Romani. La caratteristica distintiva di questa dinastia fu il costume di sposarsi sempre tra consanguinei (fratello e sorella) per conservare la purezza del proprio sangue reale.

  • Egiziani: le origini

    Le origini

    Le origini dell’antico Egitto non possono essere stabilite con certezza. I risultati della ricerca archeologica fanno ipotizzare che i primi abitanti della valle del Nilo fossero influenzati dalle culture del Vicino Oriente. Gli storici hanno suddiviso la storia dell’Egitto antico, in tre periodi corrispondenti a tre regni (Antico,Medio e Nuovo Regno) e in due periodi intermedi, seguiti dalla cosiddetta bassa epoca e dall’età greco-romana. E’ però necessario premettere che tutte le date proposte, soprattutto quelle relative alle fasi più antiche, debbono essere considerate con grande cautela e ritenute perlopiù “tendenziali”. Infatti gli egizi usavano contare gli anni non da un punto di riferimento unico, ma dal primo anno di regno di ogni faraone.

    La preistoria

    Le aree pianeggianti, dal suolo fertile e ricche di risorse naturali grazie alle inondazioni annuali del Nilo, favorirono il concentrarsi degli insediamenti umani nella valle del Nilo, delimitata sia a est che a ovest dal deserto, che la protesse per lungo tempo dalle invasioni. Infatti sappiamo, da ritrovamenti archeologici, che già nel Paleolitico vi erano insediamenti lungo la valle del Nilo e che dall’età del Bronzo (che ebbe inizio attorno al 4000 a.C.) fino agli inizi dell’Antico Regno, le popolazioni indigene cominciarono a espandersi e a fondare piccoli villaggi. Divenute dunque sedentarie, esse si dedicarono all’agricoltura, coltivando soprattutto cereali (farro, miglio e avena) e ortaggi; veniva praticato, nelle aree paludose lungo le rive del fiume, anche l’allevamento di bovini.
    Si evidenziarono però, nel periodo dal V al III millennio a.C., delle differenze fra il Nord e il Sud del paese: infatti nella zona del delta del Nilo (Basso Egitto) la grande fertilità dei terreni consentiva di disporre di eccedenze di prodotti che alimentavano il commercio, anche per mare, con i popoli limitrofi; a sud (Alto Egitto) il terreno meno fertile costringeva invece le popolazioni a compiere delle razzie nelle zone circostanti.
    La parte finale della preistoria (età predinastica, terminata con l’unificazione dell’Egitto sotto un solo re) viene comunque divisa – in base a ritrovamenti di ceramiche in tombe del IV millennio – in tre periodi, ognuno dei quali prende nome dal luogo di ritrovamento dei reperti archeologici: periodo Badariano, periodo Amraziano e periodo Gerziano. Mentre la cultura badariana e quella amraziana (che è uno sviluppo della prima) si diffusero nell’Alto Egitto, la cultura gerziana (3600-3100 a.C.) ebbe diffusione più ampia, essendo attestata dalla Nubia alla zona del delta. Durante quest’ultima fase, si evidenziarono anche notevoli cambiamenti nella decorazione della ceramica: secondo alcuni ci sarebbe stata una migrazione di popolazioni provenienti dal Vicino Oriente che avrebbero introdotto anche elementi semitici nella lingua egiziana, secondo altri invece questi elementi innovativi vennero introdotti solo grazie all’infittirsi degli scambi commerciali con i popoli orientali.

    Il periodo arcaico

    Nel tardo periodo Gerziano (3100 ca. a.C.) si erano costituiti due regni, uno nell’Alto Egitto, che aveva come capitale la città di Hieraconpolis, e un altro nel Basso Egitto. L’unificazione del paese sarebbe avvenuta, secondo la tradizione, intorno al 3100 a.C. per opera di Menes, re dell’Alto Egitto che avrebbe occupato il Nord, attratto anche dalla maggiore fertilità del suolo. La figura di Menes è però avvolta da un alone leggendario ed è probabile che sotto il suo nome si celi l’opera di più sovrani del periodo arcaico (tra i quali il celebre Narmer). Tuttavia con Menes, fondatore della I dinastia, si fa iniziare il periodo arcaico o dinastico antico, o tinita perché la capitale venne portata da Hieraconpolis a Thinis (situata sempre nell’Alto Egitto, ma più a nord), in modo che fosse più controllata la zona appena conquistata del delta.
    Dopo la pacificazione fra Nord e Sud, iniziarono le lotte contro la Nubia, che caratterizzarono tutta la storia di questo paese. Durante il periodo arcaico, in cui si succedettero due dinastie (comprendenti almeno diciassette faraoni), si affermò la natura assolutistica e teocratica del potere del faraone, considerato figlio del dio sole Ra, e adorato egli stesso come divinità; venne stabilita anche la struttura dello stato, diviso in distretti (detti “nomi”) governati dai nomarchi. Si sviluppò nel frattempo la scrittura (i primi geroglifici si datano a partire da questo periodo) e vennero costruiti anche edifici funerari a Saqqara e ad Abido, primi esempi dell’arte egizia.

    L’antico regno

    L’Antico Regno comprende cinque secoli, durante i quali si succedettero quattro dinastie (dalla III alla VI). La capitale venne trasferita a Menfi (da cui la denominazione anche di regno menfita), città fondata a Sud del delta già nel periodo arcaico precedente. Si perfezionò anche l’organizzazione dello stato: i faraoni riuscirono a sottrarsi all’eccessiva dipendenza dal clero di Eliopoli (città dove vi era il santuario federale dei popoli d’Egitto) affidando al sacerdote più importante l’incarico di visir (primo collaboratore del faraone); lo stato iniziò a essere amministrato da una burocrazia sempre più efficiente, la cui base era costituita dagli scribi. Le cariche amministrative, comunque, non erano ereditarie, in modo che i governatori locali non potessero mettere in pericolo l’autorità del faraone. Il secondo sovrano della III dinastia fu Sesostri, che regnò dal 2737 al 2717 ca. a.C.; durante il suo regno, gli egizi cominciarono a essere impegnati sempre più spesso in spedizioni militari e commerciali. L’espansione militare si indirizzò a sud verso la Nubia, lungo la valle dell’alto Nilo, dove si compivano razzie, catturando prigionieri e bestiame. Sono note anche alcune spedizioni commerciali in Libano, da dove veniva importato il legname da costruzione, che scarseggiava in Egitto, e nel deserto del Sinai, che forniva pietre per l’edilizia, gemme preziose e metalli (rame e oro). Complessivamente il periodo della III dinastia coincise con una grandissima fioritura anche culturale e artistica del paese. Infatti, nel monumentale complesso mortuario che Sesostri fece costruire a Saqqara, l’elemento centrale – la sua tomba – era costituito da un’enorme piramide a gradoni; per realizzarla, l’architetto Imhotep usò blocchi di pietra, invece dei tradizionali mattoni di fango. Inoltre l’evoluzione delle credenze religiose in campo funerario portò gli egizi a perfezionare la tecnica dell’imbalsamazione dei cadaveri. La IV dinastia ebbe inizio con il faraone Snofru. Sotto la IV dinastia la civiltà egizia raggiunse un elevato sviluppo. Lo stesso altissimo livello raggiunto nelle opere ingegneristiche fu conseguito quasi in ogni campo, dalla scultura alla pittura, alla navigazione, alle scienze. Gli astronomi di Menfi crearono per primi un calendario solare basato su un anno di 365 giorni, mentre i medici dell’Antico Regno acquisirono notevoli conoscenze nel campo dell’anatomia (in particolare sul sistema circolatorio del corpo umano) e della chirurgia. Anche se la V dinastia riuscì a mantenere alto il livello di prosperità attraverso l’intensificazione degli scambi commerciali e le incursioni militari nei territori asiatici, i primi segni del declino dell’autorità regale si manifestarono attraverso il crescente potere assunto dagli alti funzionari statali e dagli amministratori delle grandi proprietà. A Saqqara, nella tomba dell’ultimo re della dinastia, Unas (che regnò dal 2428 al 2407 ca. a.C.), sono stati ritrovati alcuni testi religiosi, noti come i “testi delle piramidi”, scolpiti sulle pareti della sua camera mortuaria, che testimoniano il graduale declino dell’istituto monarchico. La decadenza del potere regio proseguì anche durante la VI dinastia: Pepi I, che regnò dal 2395 al 2360 ca. a.C., fu vittima di una congiura ordita dalla moglie. Si ritiene che durante gli ultimi anni di regno di Pepi II (2350-2260 ca. a.C.) il potere regale fosse di fatto esercitato dal primo ministro. Anche il controllo regio sull’economia fu indebolito dai numerosi decreti di esenzione dalle tasse promulgati per ottenere ampi consensi popolari. I distretti assunsero rapidamente autonomia dal potere centrale, poiché i loro governatori iniziarono a restare per lunghi periodi nella stessa sede invece di venire trasferiti periodicamente.

    Il primo periodo intermedio

    Con la VII dinastia ebbe inizio il primo periodo intermedio, teatro di continue lotte interne. Le vicende della VII dinastia, così come quelle della successiva (VIII dinastia), sono relativamente oscure: entrambe ebbero la propria sede a Menfi e regnarono complessivamente per soli venticinque anni, durante i quali i governatori, dato il progressivo indebolimento del potere centrale, acquisirono il pieno controllo dei propri distretti e ottennero dai faraoni la trasmissione ereditaria delle cariche. Infatti, sotto la IX e la X dinastia, i signori locali della regione circostante Eracleopoli imposero il loro potere a nord fino a Menfi e fino al delta del Nilo, e a sud fino ad Asyùt (Licopoli). I rivali della regione di Tebe fondarono a loro volta l’XI dinastia, che regnò nella zona tra Abido ed Elefantina, vicino all’odierna Assuan. Il primo periodo di questa dinastia (la prima del Medio Regno) si sovrappose all’ultimo della X.

    Il medio regno

    Sebbene il Medio Regno sia generalmente ritenuto comprensivo dell’intera XI dinastia, esso iniziò in realtà con la riunificazione del paese operata da Mentuhotep II, che regnò dal 2061 al 2010 ca. a.C. Nonostante alcune ribellioni, il sovrano riuscì a mantenere saldo il controllo sul regno, anche a seguito della sostituzione di numerosi governatori e del trasferimento della capitale a Tebe; il faraone fece costruire il proprio monumento funerario a Deir el-Bahari.
    Il regno di Amenemhet I, primo sovrano della XII dinastia, fu un periodo di pace; egli spostò ancora la capitale vicino a Menfi, ridimensionando la centralità politica di Tebe allo scopo di favorire l’unità del regno. In compenso, venne data preminenza al culto del dio tebano Ammone. Amenemhet pretese il giuramento di fedeltà personale da tutti i governatori, il comportamento dei quali fu da allora in poi sottoposto a un severo controllo, e ristrutturò la burocrazia regia, dando vita a una nuova classe composta da scribi e amministratori. La letteratura si sviluppò prevalentemente quale mezzo per promuovere l’immagine del faraone come guida del popolo, dotato di umanità, di generosità, invece che come dio inaccessibile. Inoltre il faraone non fu più considerato come l’unica persona cui era concessa la facoltà di sopravvivere dopo la morte, e così il rito della mummificazione fu progressivamente esteso anche alle fasce socialmente più basse. Durante gli ultimi dieci anni del suo regno, Amenemhet, per evitare lotte per la successione o usurpazioni, associò al trono il figlio, Sesostri, dando così inizio a una consuetudine che sarà poi quasi sempre rispettata. La Storia di Sinuhe, capolavoro letterario che tratta di quell’epoca, lascia intendere che il re fu assassinato.
    I successori proseguirono i programmi di Amenemhet: il figlio, Sesostri I (1962-1928 ca. a.C.), continuò la politica espansionistica in Nubia dove costruì delle fortezze, dopo aver raggiunto la seconda cataratta del Nilo, e stabilì legami commerciali con i regni circostanti; inviò governatori in Palestina e in Siria e combatté contro i popoli libici. Sesostri II (che regnò dal 1895 al 1878 ca. a.C.) iniziò la bonifica della regione di Al-Fayyum e diede stabilità alla conquista della Nubia, mentre il suo successore Sesostri III (1878-1843 ca. a.C.) fece scavare un canale in prossimità della prima cataratta del Nilo, istituì un esercito permanente e costruì nuove fortificazioni lungo il confine meridionale; inoltre, suddivise il regno in tre unità geografiche, ognuna controllata da un ufficiale sottoposto direttamente alla supervisione del suo primo ministro (visir), non riconoscendo più alcuna autorità alla nobiltà provinciale. Amenemhet III, infine, continuò la politica attuata dai predecessori ed estese le aree coltivabili, portando a termine la bonifica della regione del Fayyum e avviando una vasta riforma agraria, e intensificò anche i commerci verso le regioni del Vicino Oriente.
    Sotto i sovrani di Tebe, l’Egitto conobbe una notevole rinascita culturale: l’architettura e l’arte del periodo rivelano una straordinaria delicatezza di tratti, e in questa fase si sviluppò quella che viene considerata l’età d’oro della letteratura egizia. Tra le opere architettoniche più importanti del Medio Regno si ricordano le piramidi di Sesostri II e di Amenemhet III; nella statuaria si affermò una nuova tendenza: le statue dei faraoni non erano più solenni e impassibili, ma riflettevano nei tratti del volto una concezione più umana e meno divina del sovrano, impegnato a occuparsi del benessere del suo popolo.

    Il secondo periodo intermedio

    I sovrani della XIII dinastia – circa cinquanta, che regnarono nel corso di centoventi anni – furono più deboli dei loro predecessori, pur riuscendo a mantenere il controllo della Nubia e a gestire un’amministrazione centralizzata. Negli ultimi anni dovettero competere con i sovrani rivali della XIV dinastia, che avevano acquisito il controllo della regione del delta, e contrastare le invasioni degli hyksos, popolazione semitica proveniente dall’Asia occidentale.
    Gli hyksos si erano stanziati, già alla fine della XIII dinastia, nella zona del delta del Nilo dove, approfittando del clima di anarchia che si andava creando, vivevano di razzie. Quando nel Vicino Oriente crebbe la pressione delle popolazioni indoeuropee (ittiti, cassiti e hurriti), la penetrazione degli hyksos si fece più intensa e, data la mancanza di un solido potere centrale, gli invasori riuscirono a impadronirsi del paese; dapprima occuparono la zona del delta e la città di Avari, ove costituirono uno stato autonomo, poi riuscirono in una cinquantina d’anni a estendere il loro dominio fino a Menfi. La conquista fu abbastanza facile, anche perché gli hyksos utilizzavano il carro da combattimento trascinato da cavalli, che era sconosciuto agli egizi.
    Il costituirsi di una dinastia hyksos segnò l’inizio del secondo periodo intermedio (durato circa 214 anni), caratterizzato da instabilità e da mancanza di unità politica. Gli hyksos della XV dinastia governarono dalla capitale Avari, nel delta orientale, mantenendo il controllo delle regioni centrali e settentrionali del paese; essi adottarono le titolature e le usanze egiziane e mantennero negli alti gradi della burocrazia funzionari egizi. Contemporaneamente, sorse nel Medio Egitto la XVI dinastia, molto probabilmente asservita agli hyksos.
    Maggiore indipendenza fu esercitata nel sud da un terzo centro di potere, sede della XVII dinastia tebana, che regnava sul territorio compreso tra Elefantina e Abido; già il re tebano Kamose (1576-1570 ca. a.C.) della XVII dinastia, combatté con successo contro gli hyksos, ma fu suo fratello Amosi I che riunificò il paese sconfiggendoli, distruggendo la loro capitale Avari e costringendoli a rifugiarsi nella Bassa Palestina. Gli hyksos, durante il periodo in cui dominarono in Egitto, introdussero alcune importanti innovazioni, come il telaio verticale, la coltura dell’olivo, la lavorazione del bronzo e, nel campo militare, l’uso di nuove armi e del carro da combattimento.

    Il nuovo regno

    Con l’unificazione del paese e la fondazione della XVIII dinastia, ebbe inizio il Nuovo Regno (1580-1085 a.C.) o secondo impero tebano, forse il periodo più fiorente della storia egiziana. Si ristabilirono i confini e le strutture di governo del Medio Regno, riprendendone anche il programma di bonifiche, e venne mantenuta l’ autorità sui governatori locali grazie al controllo dell’esercito. La capitale fu spostata ancora una volta a Tebe, città di cui era originaria la XVII dinastia e dove aveva sede il culto del dio Ammone, destinato a diventare, durante il Nuovo Regno, il più importante di tutto l’Egitto. Un elemento di novità del Nuovo Regno fu l’importanza acquisita dalle donne, illustrata dagli alti titoli e dalle posizioni riconosciute alle mogli e alle madri dei sovrani.
    Vennero estesi i confini dell’Egitto in Nubia e in Palestina e iniziò i lavori delle grandi costruzioni di Karnak; si abbandonò la forma della piramide come sepoltura, e i faraoni iniziarono a farsi seppellire in una tombe a camera scavate nelle pareti rocciose di una valle vicino a Tebe (detta poi Valle dei Re).
    Venne riconquistata prima la Siria e la Palestina, che nel frattempo si erano rese indipendenti, e in seguito vennero fatte una serie di spedizioni militari (narrate negli annali del tempo, ritrovati nel tempio di Karnak), nel tentativo di espandere i confini dello stato e di affermare l’egemonia egiziana in Oriente.
    L’espansione territoriale dell’Egitto, che arrivò a sud fino alla quarta cataratta del Nilo, non era stata mai così estesa,ma cresceva la minaccia di nuove guerre costituita dagli ittiti e dallo stato di Mitanni. Infatti nel Vicino Oriente la situazione, a causa del sorgere dei nuovi imperi, si faceva più difficile per l’Egitto; ne è prova anche l’intensificarsi delle relazioni diplomatiche e il matrimonio fra Tutmosi IV e la figlia del re di Mitanni, anche Amenofi III, figlio di Tutmosi IV, sposò la sorella del re di Babilonia e le relazioni con i regni vicini si mantennero stabili.
    Il figlio, ed erede, Amenofi IV (1372-1354 ca. a.C.) è ricordato soprattutto per la riforma religiosa, volta a contrastare il potere dei sacerdoti di Ammone. Infatti, fin dalle origini della dinastia il clero tebano aveva avuto un’importanza eccessiva, spesso condizionando l’operato dei faraoni. Amenofi IV compì dunque un gesto rivoluzionario: abolì il culto di Ammone, ne chiuse i templi e ne disperse i sacerdoti. Impose quindi un nuovo culto monoteistico, quello di Aton, il dio del sole, e cambiò anche il suo nome in Akhenaton (“colui che è gradito ad Aton”). Egli abbandonò Tebe per una nuova capitale, Akhetaton (oggi Tell el-Amarna), costruita lungo il Nilo 300 km a nord di Tebe, in onore di Aton.
    Il culto del nuovo dio presentava caratteristiche più democratiche, in quanto presupponeva un maggiore egualitarismo fra gli uomini e si basava su testi sacri meno incomprensibili dei . precedente. La situazione si andava tuttavia complicando per Akhenaton: infatti gli ittiti, approfittando delle difficoltà interne causate da una rivolta suscitata dal clero di Tebe, fomentarono una insurrezione dei vassalli siro-palestinesi. La Siria si ribellò, gli Amorrei conquistarono i porti fenici precedentemente occupati dagli egiziani e il regno di Mitanni fu sottomesso dagli ittiti e dagli assiri.
    La riforma religiosa di Akhenaton terminò con il suo regno; infatti gli succedette il giovane genero Tutankhamon, che riportò la capitale a Tebe e abbandonò il culto del dio Aton, restaurando quello di Ammone. Del regno di Tutankhamon non si sa quasi nulla; egli è noto soprattutto per lo splendido corredo funerario ritrovato nella sua tomba dai due archeologi britannici Howard Carter e George Carnarvon nel 1922. Al fondatore della XIX dinastia, Ramesse I (che regnò dal 1293 al 1291 a.C.), succedette il figlio Seti I (1291-1279 a.C.), che condusse campagne militari contro la Siria, la Palestina, la Libia e la potenza degli ittiti. Fece costruire un santuario ad Abido, e – come suo padre – scelse quale capitale Pi-Ramesse (odierna Qantir).
    Gli succedette Ramesse II, uno dei suoi figli : a lui si deve la costruzione e l’ampliamento di gran parte dei monumenti di Luxor e di Karnak, dei templi di Abu Simbel e dei santuari di Abido e di Menfi. Ramesse II affrontò gli ittiti nella battaglia di Qadesh (avvenuta in Siria, sul fiume Oronte) nei primissimi anni del XIII secolo a.C., che però si risolse senza vincitori; dopo una ventina d’anni, egli concluse con Khattushili III, re degli ittiti, un trattato di pace versione egiziana sia in che prevedeva anche un reciproco aiuto in caso di aggressione esterna. Il pericolo era infatti rappresentato dagli assiri, che divenivano sempre più potenti e governavano un impero che si estendeva fino all’Eufrate. Il figlio di Ramesse, Merneptah , sconfisse i cosiddetti popoli del mare, gli invasori provenienti dall’Egeo che dilagarono nel Medio Oriente nel XIII secolo a.C.; è probabile che proprio sotto il suo regno sia avvenuto l’esodo degli ebrei dall’Egitto e che Mosè sia vissuto alla corte di Ramesse II.
    I faraoni che succedettero dovettero affrontare le insurrezioni da parte degli ormai numerosi popoli assoggettati. Il secondo sovrano della XX dinastia, Ramesse III, riuscì a respingere la seconda incursione dei “popoli del mare” che si erano alleati con i libici: egli fece poi rappresentare le proprie vittorie militari sulle pareti del complesso funerario edificato a Madinat Habu, vicino a Luxor. Dopo la sua morte, l’Egitto conobbe un periodo di decadenza, dovuta principalmente al concentrarsi del potere nelle mani dei sacerdoti di Ammone, dei capi dell’esercito (che si arrogavano sempre più privilegi) e dei più importanti burocrati.

    La bassa epoca

    Questa fase della storia della civiltà egizia comprende i regni delle dinastie dalla XXI alla XXXVI. Fra l’XI e l’VIII secolo a.C. l’Egitto conobbe un periodo di decadenza sia economica che politica e, pur continuando a svolgere un ruolo importante nel bacino del Mediterraneo, perse la sua egemonia sui paesi vicini. Infatti la Nubia, approfittando della situazione di crisi, si ribellò e divenne indipendente, e la Libia e la Siria uscirono del tutto dalla sfera di influenza egiziana. I sovrani delle prime quattro dinastie, che elessero a capitale del regno Tanis, nel nord del paese, dovettero inoltre continuamente competere con i sacerdoti di Tebe, che detenevano di fatto il potere nell’Alto Egitto. Sembra anche che i sovrani della XXI dinastia avessero origini libiche e che libici fossero senza dubbio i primi sovrani della XXII dinastia, il più importante dei quali fu Sheshonq, che riuscì a invadere la Palestina e a saccheggiare Gerusalemme (930 ca. a.C.). A partire dall’VIII secolo a.C. il Basso Egitto fu dominato dai cusciti, popolazione camita che abitava a sud dell’Egitto. Tuttavia il progressivo indebolimento dello stato espose l’Egitto alla minaccia degli assiri, che nel 671 a.C., guidati dal loro re Asarhaddon, occuparono Menfi. Nel 667 a.C. Assurbanipal, figlio di Asarhaddon, ridusse l’Egitto a protettorato assiro. Tuttavia anche per l’impero assiro iniziò un periodo di crisi, di cui seppe approfittare Psammetico I, principe di Sais, che era vassallo del re assiro. Psammetico I, fondatore della XXVI dinastia, nel 663 a.C. restaurò l’unità del regno, servendosi anche dell’aiuto di mercenari cari e ioni, forse inviati da Gige, re della Lidia. Il faraone trasferì la capitale del regno a Sais sul delta, fece spedizioni in Nubia e contro gli assiri; favorì inoltre la rinascita culturale della civiltà egizia, aprendosi anche a contatti che diverranno sempre più frequenti con la civiltà greca. Gli successe il figlio Neco, che riprese l’espansione asiatica vincendo Giosia, re di Giuda, nel 609 a.C. nella battaglia di Megiddo; fu invece sconfitto da Nabucodonosor II nel 605 a.C. nella battaglia di Karkemish. I suoi successori, Psammetico II, Apries e Amasis non fecero spedizioni militari, ma intensificarono i rapporti con il mondo greco: mercenari greci infatti accompagnarono Psammetico II in una spedizione in Nubia, come testimoniano i loro nomi impressi su una gamba di una delle statue colossali di Ramesse II ad Abu Simbel. Importanti furono anche i rapporti commerciali con la Grecia, che spinsero alcuni greci a stabilirsi in Egitto, soprattutto a Naucrati, importante emporio commerciale sul delta. Amasis strinse anche alleanza con Policrate, tiranno di Samo, contro la Persia, loro comune nemico. Tuttavia il suo successore Psammetico III venne sconfitto nel 525 a.C. dal re persiano Cambise II e l’Egitto divenne una satrapia persiana, governata da un satrapo che risiedeva a Menfi.
    I persiani si considerarono successori dei faraoni e costituirono la XXVII dinastia che regnò dal 525 al 404 a.C. (prima dominazione persiana). Scoppiarono anche alcune rivolte egiziane contro gli invasori persiani: la più importante fu quella capeggiata, alla metà del V secolo a.C., da Inaro, un libico aiutato dalla flotta ateniese. L’Egitto, approfittando della crisi dell’impero persiano, riuscì a riacquistare temporaneamente l’indipendenza sotto il regno di Artaserse II, e nel 404 a.C. con Amirteo (404-399 a.C.), che fu l’unico sovrano della XXVIII dinastia. Il regno rimase indipendente fino al 341 a.C., quando il re persiano Artaserse III Ochos sconfisse il faraone Nectanebo II. La seconda dominazione persiana fu però breve: Alessandro Magno vi pose infatti fine nel 332 a.C.

    Antico egitto di Iside – Popoli antichi

  • Arabi: La lingua araba

    Grazie all’Islam la lingua araba ha potuto arrivare fino a noi: il Corano, libro sacro dei musulmani è scritto in arabo. Questa lingua, all’origine, era solo uno dei tanti dialetti semitici della penisola arabica. Le lingue semitiche tipo l’arabo, l’ebraico, l’amarico (lingua ufficiale dell’Etiopia) ecc . . . erano le lingue delle grandi civiltà dell’umanità: assira-babilonese, fenicia, islamica ecc . . . Oggi la lingua araba, parlata da più di 200 milioni di persone, si colloca al sesto posto nel mondo, prima del francese e del tedesco ed è una delle lingue ufficiali delle Nazioni Unite. Molte lingue non semitiche, in passato, hanno usato la scrittura araba, è il caso del persiano, del turco, del maltese e del wolof in Africa. Ancora oggi, il persiano ed altre lingue indoeuropee, usano i caratteri arabi per la loro scrittura.
    La lingua araba ha la particolarità di essere molto ricca di consonanti e povera di vocali. Queste vocali, le stesse dell’italiano, vengono pronunciate in modo attenuato e talvolta il nostro orecchio fa fatica a distinguerle. Delle 28 lettere ben 17 hanno un suono assolutamente diverso rispetto all’alfabeto italiano. Con le consonanti di questa lingua si può produrre qualsiasi suono che la gola umana possa emettere, per questo, l’arabo è considerato una delle lingue più ricche anche da questo punto di vista. L’arabo grazie alla lettura del Corano, sempre identica nei secoli, ha conservato intatta questa ricchezza di suoni evitando l’usura fonetica subite generalmente dalle altre lingue nel corso della loro evoluzione.
    E’ una scrittura alfabetica composta da 28 lettere, possiede solo tre vocali che sono: a, i, u, simili a quelle della lingua italiana. Le vocali brevi non si scrivono. L’arabo si scrive e si legge da destra a sinistra, quindi per leggere un libro scritto in arabo bisogna iniziare dall’ultima pagina. La scrittura è solo corsiva, cioè le lettere, quasi sempre, sono attaccate una all’altra. La scrittura appare quindi una sorta di stenografia e bisogna intuire la pronuncia delle parole a partire dalle sue consonanti, per esempio MNZL (casa). Per rendere meno difficile la lettura si usa “vocalizzare” le consonanti con dei piccoli segni posti sopra o sotto le stesse. La forma delle lettere varia leggermente secondo la loro posizione: all’inizio, nel mezzo o alla fine della parola. La scrittura è stata molto usata come elemento decorativo nelle opere d’arte poiché il Corano ha condannato la riproduzione di esseri animati per evitare l’idolatria. La grammatica araba, a differenza della fonetica o della scrittura ha molti punti in comune con quella italiana. Esistono in arabo due generi, maschile e femminile, la concordanza dell’oggettivo con il nome, l’esistenza delle preposizioni, dell’articolo, la coniugazione dei verbi ecc … Molte sono tuttavia le differenze: ci sono tre numeri, singolare, plurale, duale, quest’ultimo si usa se sono presenti due soggetti. I plurali dei nomi si formano in modo spesso irregolare come talvolta nella lingua inglese. Il verbo è situato davanti al soggetto. I verbi hanno una serie di forme derivate che esprimono il passivo, il riflessivo ecc . . . L’aggettivo si mette sempre dopo il nome. I pronomi personali complimenti si legano alla fine del verbo.

    La cosa più curiosa della lingua araba è che le parole sono molto spesso formate dall’insieme di sole tre lettere, chiamate la radice, legate tra loro in vari modi, per esempio:
    LAFADA (la radice è L.F.D) = Pronunciare;
    NABATA (la radice è N.B.T) = Germogliare;
    MALAKA (la radice è M.L.K) = Possedere;
    NADARA (la radice è N.D.R) = Guardare;
    WASANA (la radice è W.S.N) = Pesare;
    SAKANA (la radice è S.K.N) = Abitare;
    TALABA (la radice è T.L.B) = Domandare;
    DARABA (la radice è D.R.B) = Picchiare ecc. . .

    Per indicare colui che fa un azione generalmente si metti una “i ” davanti alla seconda consonante per esempio:
    da KATABA (la radice è K.T.B) = Scrivere, avremo KATIB (scrittore)
    da MALAKA (la radice è M.L.K) = Possedere, avremo MALIK (colui che possiede; re)
    da WARATA (la radice è W.R.T) = WARATA, avremo WARIT (erede).

    Per i nomi che indicano un luogo, spesso la regola più semplice è quella di mettere un “ma ” subito prima della radice. Allora avremo:
    MAKTAB = ufficio o scrivania;
    MANBAT = vivaio;
    MAGHREB = punto dove il Sole tramonta, occidente;
    MASHREQ = punto dove il Sole sorge, oriente;
    MANDAR = panorama, vista;
    MANZIL = casa;

    Con altri procedimenti di derivazione, numerosi nella lingua araba, si possono ottenere altre parole più o meno vicine alla loro radice, per esempio:
    Dalla radice K.T.B. abbiamo: KATABA (ha scritto), kATIB (scrittore), KITAB (libro), MAKTUB ( il destino), MAKTABA (biblioteca), KATTABA (chi insegna a scrivere) ecc . . .
    Dalla radice N.D.R. abbiamo: NADARA (ha guardato), NADDARA (occhiali), MINDAR (cannocchiale), TANADDARA (aspetta con pazienza), INTADARA (aspetta), ANNADAR(vista), ANNADARIA (ipotesi), ANNADUR (faro) ecc . . .
    Dalla radice S.L.M. abbiamo: SALIMA (salvato), SALAM (pace), SALAMA (salvezza), SALMA (sana), ISLAM (Islam), MUSLIM (musulmano), ISTISLAM (sottomissione), SALLAMA (consegnare) ecc . . .

    Per lunghi secoli, su contrapposte sponde del Mediterraneo, due culture, quella occidentale – cristiana e l’altra arabo – musulmana, sono periodicamente entrate in contatto tra loro alternando momenti di pace a momenti di conflitto. Le tracce di questi contatti le troviamo anche nella lingua italiana in molte parole di origine chiaramente araba. Ve ne elenchiamo alcune:

    agemina alambicco albicocco alcali alchimia alcol alfa alfiere, algebra alidada alizarina almagesto almanacco ambra ammiraglio arak arancio ascaro assassino auge azzurro baldacchino barda bardassa barracano bazar beduino been benzoino berbero bizzeffe bottarga burnus buttero cabila cad” caffettano caffo cafiso cafro caid cali califfo camallo candire canfora cangia caracca caraffa carato carciofo carruba carrubo casba cassero catrame chitarra coffa copata copto coranico cotone cremisi cubbaita cubebe cuscus dancalo darsena dinar dirham dogana dragomanno druso durra egira elisir fachiro fardello favara fedayin fellaga fellah fennec ferraiolo fondaco futa gabbano galabia garbino garbo gazzarra gazzella gebel gelada gelsomino ghibli ghirba giara giarda giraffa giubba giucco giulebbe hagi hammada hammam hashish henna iman intifada islam jihad kebab kefiyyah khamsin lacca limone maccaluba madrasa magazzino magona mahdi mammalucco mammone maona marabottino maraved” marcasite marzacotto marzapane materasso matto mazzera mecca medina melanzana menhir meschino mosciame muft” mujaeddin nacchera nadir nanfa narancio natron nenufero omayyade ottomano ottone petonciano ragazzo rais ramadan reg ricamare risma romano rotolo rubbio rubbo sabra salam salamelecco sandalo sansa scaccomatto scarlatto sceriffo sciabecco sciarra scirocco sciroppo sena sensale serir sof” sommacco sufi suk sunna sura tab” taccuino tafferia talco tamarindo tamarro tamburo tara1 targone tar” tariffa tarsia tazza tell tomolo tuareg turbitto turcimanno turco turcomanno tuzia uadi ud ulama uri verzino zafferano zagara zara zecca zerbino zeriba zibibbo ziro zucchero ecc . . .

    E’ chiaro che nell’affrontare questo argomento, la lingua araba, non ci siamo addentrati in considerazione approfondite, ma abbiamo cercato di evidenziare alcune caratteristiche peculiari che possono suscitare ulteriori curiosità. L’importanza della lingua araba, per il contributo che ha dato allo sviluppo e al progresso delle Scienze e del Sapere, sarebbe ben più meritevole di considerazione e stima.
    L’arabo, pur essendo una lingua omogenea, costantemente preoccupata della sua purezza, è diffusa su una superfici talmente vasta che ha subito variazioni dialettali importanti. Per questo e meglio imparare l’arabo “moderno” derivato direttamente dal Corano e noto dai media.

  • I Celti: le origini celtiche

    Le origini

    L’origine del popolo dei Celti è indoeuropea. La parola celtico ha origine dal greco keltai che gli abitanti di Marsiglia, città fondata dai Focei, attribuirono ai membri di queste tribù belligeranti.
    La loro prima area geografica di residenza è l’Europa centrale, in particolare tra la Boemia e la Baviera, dove ha avuto luogo la cosiddetta “Cultura diUnetice”, particolarmente legata alla lavorazione dei minerali ed alla astorizia. Da questa cultura hanno avuto origine anche gli italici, gli illiri ed i veneti.
    Sicuramente la genesi dei Celti ha risentito di una interazione tra varie popolazioni. E’ dunque opportuno fare una premessa.
    Intorno al 4000 a.C. esisteva una civiltà, denominata di Atlantide, che abitava nella zona del Baltico (che sarà nel medioevo luogo della Lega Anseatica), in particolare nello Jutland e nella bassa Scandinavia. Questa civiltà, racconta Erotodo, era particolarmente progredita. Abile nella costruzione dei templi e degli stadi, aveva una certa esperienza nella navigazione. Ciò è provato dalle costruzioni megalitiche dei menhir della Bretagna (Carnac), dell’Irlanda, del Galles e dell’Inghilterra (Stonehenge), dove nelle vicinanze è stato forse rinvenuto un probabile stadio per le corse equestri. Tali costruzioni di dolmen avevano come scopo la guida agli astri, in cui tali popolazioni credevano.
    A seguito di siccità, terremoti e carestie, tale popolo è migrato verso l’Europa centrale, la Grecia (dove c’erano le culture achea e micenea, che furono distrutte), l’Anatolia (dove erano presenti gli Ittiti, la Palestina (in cui hanno avuto origine le civiltà fenicia e semita) e l’Egitto. Questa migrazione è nota come quella dei “popoli del mare”. Solo in Egitto, Tolomeo riuscì a respingere la loro invasione. La coda della migrazione dei popoli del mare fu rappresentata dai Dori che si stanziarono in Grecia ed in Egeo.
    Intanto, quasi contemporaneamente, secondo una teoria più accreditata tra il 3000 e il 2500 a.C. in Oriente c’erano tre popolazioni indoeuropee: i Kurgan (per le tombe a tumulo che usavano) della zona del Volga – alto Mar Caspio, i Transcaucasici del Caucaso, i Nordpontini della zona del Mar Nero. Queste popolazioni, in particolare la prima, influenzandosi e mescolandosi tra loro fino alla fine dell’età del rame, eseguirono delle migrazioni in: Anatolia (Ittiti), in Mesopotamia (Arii), Grecia (Macedoni e Micenei), Europa (Cultura di Unetice in Boemia, crocevia di popolazioni). La divisione cominciò con l’inizio dell’età del bronzo e si perfezionò con l’età del ferro (la Boemia era ricca di ferro) e si implementò con l’addomesticamento della razza equina (la parola cavallo ha la stessa radice in tutte le lingue indoeuropee) e del bestiame. Contemporaneamente nel nord europa, in particolare nella zona della Polonia, compare la civiltà dei Campi di Urne, di origine nordica, che prende il nome dal modo in cui seppellivano i loro morti. La coda di questa migrazione orientale ebbe luogo con gli Sciti, nell’800 a.C., che si diffusero in Mesopotamia (originando prima la cultura caldea, di cui Abramo ne sarà un rappresentante, e poi quella assira che sarà dominante fino all’avvento dei Persiani), in Anatolia (ove erano presenti già i Frigi, i Lidi ed i Pontini), in Grecia, in Italia (dove dal 900 a.C. erano presenti gli Etruschi e ancora prima i Liguri e gli Italici ) ed in Europa centrale (dove era presente la migrazione dei popoli del nord).
    In particolare, con riferimento a quest’ultima, intorno al 700 a.C., nella zona del Salzkammergut (Salisburgo e Carinzia), fino al 450 a.C. si diffuse la cultura di Hallstatt, abile nel commerciare sale (di cui la loro regione era ricca) con i popoli italici e nordici. Si trattava dunque di una cultura di crocevia, basata prevalentemente su due classi sociali legate all’aristocrazia e alla pastorizia. La fine della cultura di Hallstatt segna l’inizio della cultura di La Tene (450 – 50 a.C.), situata sulle rive del lago di Neuchatel e caratterizzata dall’arte espressionista, dalle rappresentazioni del particolare e dei dettagli, dall’inizio di migrazioni di popoli, dalla valida rete di commercio di massa che furono in grado di impiantare, dalla conseguente nascita di una protoborghesia. Questo passaggio è stato motivato anche da una differente esigenza sociale: nuovi ceti aspirano al potere, per cui la vecchia aristocrazia hallstattiana viene soppiantata.
    Dunque all’inizio del 600 a.C., come risultato di queste due ultime culture appena descritte, nella zona che comprende il basso Rodano e l’alto Danubio ha origine la popolazione celtica che, di cultura nomade, comincia a migrare verso l’Italia settentrionale, dove si stanzia attorno a Mediolanum ed entra in contatto con gli Etruschi, l’Europa centrale, facendo scomparire la cultura di Hallstatt, la Francia, da cui hanno origine i Galli, la Germania, dove si integrano con i Germani (Suebi, Marcomanni, Longobardi, Ermunduri, Quadi e Semnoni), popolo proveniente dall’area del Baltico, differente da quello dei Celti, la Gran Bretagna, dove ebbero uno sviluppo più arretrato, la Serbia, la Macedonia e l’Anatolia, dove compaiono i Galati (la parola celtico in greco si scrive gàlatos), che importarono culti religiosi orientali.
    In particolare per la Gran Bretagna è opportuno precisare che intorno al 900 a.C. ed al 500 a.C. ci furono due ondate di migrazioni di popoli di origine indoeuropea che si sovrapposero alle popolazioni preesistenti derivate dagli “ex Atlantidi” giunte nel 3000 – 2000 a.C..
    La prima fu legata a popoli di lingua gaelica, che partiti dalla Spagna settentrionale, approdarono in Irlanda, Scozia e Isola di Mann. Svilupparono una lingua denominata “celtico Q”, poiché al posto della lettera k si utilizzava la lettera q. La seconda migrazione fu caratterizzata da popoli britannici, che partiti dal Belgio, in piena età lateniana, dunque nella massima fase dello sviluppo socio-economico, colonizzarono Inghilterra, Galles e Cornovaglia, sviluppando il “celtico P”, poiché la k era sostituita da p. Ad esempio, la parola indoeuropea ekuos (cavallo), si scrive equos in gaelico ed epos in britannico. Dunque la mutazione consonantica q-p caratterizzò due tipologie di popolazioni, che si differenziavano anche per scelte architettoniche ed urbanistiche: le prime vivevano in fortificazioni, le seconde in villaggi. E’ anche probabile che la migrazione dei secondi spinse i primi verso zone più lontane. Il termine gaelico deriva dalla parola gwyddel che significa “selvaggi” e fu attribuita, in una fase di migrazione, dai Gallesi agli avi degli Irlandesi che vi si insediarono.
    I Celti hanno risentito molto della cultura scita, sia per l’uso delle tombe a tumulo, sia per l’allevamento del cavallo, ritenuto sacro, sia per il rito di tagliare e conservare la testa del nemico a protezione della propria capanna, sia per la suddivisione in classi sociali, ove l’aristocratico era chi possedeva più cavalli. Dunque i Celti hanno subito influenze orientali (Sciti, Kurgan, Greci, Etruschi) ed europee (culture di Hallstatt e di La Tene, popoli del nord), sviluppando a loro volta una propria cultura.

  • Fenici: territorio ed origini

    Territorio ed origini
    La storia non ci ha tramandato fonti dirette che ci descrivessero il popolo fenicio. Non esistono testi scritti e le uniche informazioni ci vengono tramandate da scrittori, testimoni e storici di altri popoli. Molto probabilmente questo popolo si è formato in seguito a diversi processi e fasi di migrazioni di popoli nell’area che attualmente comprende: Libano, Israele, Siria, Palestina, Giordania ed Egitto.
    In Mesopotamia, già intorno al 3600 a.C., risiedeva una popolazione, conosciuta come “gente di Obeid”, pacifica e abbastanza progredita. Successivamente nel 3500 a.C., dall’Asia centrale migrarono i Sumeri, fondando la città di Ur dei Caldei , portando conoscenze astrologiche, matematiche ed un protosistema legislativo. Tale civiltà lasciò il posto a quella semita che aveva come re Sargon (da cui Sargonidi o Accadici), che fondò la città di Accad che acquisì più importanza di Ur.
    Tra il 2300 ed il 2000 a.C. due popoli scesero dalla regione impervia del Sinai: gli Amorrei ed i Cananei. I primi si sono diretti verso la Mesopotamia, sconfiggendo i sargonidi e dando i natali ad Hammurabi, famoso per le tavole delle leggi, dalla cui dinastia proverranno i fondatori di Babilonia; i secondi si sono diretti in Palestina, dove risiedevano altre popolazioni a carattere nomade. In questa regione, dal 2900 a.C., esisteva già una città: Biblo, famoso porto commerciale, utile agli egiziani per trasportare i papiri. Tale centro subì devastazioni dai Cananei, ma rimase importante nodo commerciale e luogo di influenza economica egiziana. Ciò è testimoniato dalle numerose scritture egizie, nelle quali è riportato o richiamato il nome di Biblo.
    Successivamente l’area di Canaan cadde sotto il dominio ittita, in particolare possedimento degli hapiru che appartenevano ad una popolazione migrata dalla Mesopotamia a seguito dell’invasione ittita, successivamente alleati con gli abitanti dell’Anatolia. In questo periodo in Egitto regnava Akhenaton, il quale cercò di attuare una rivoluzione religiosa di carattere monoteistico e si disinteressò della politica estera, mostrando il fianco ad invasioni di popoli.
    La Cananea fu poi ripresa dagli egiziani, ad opera di Tutankamon, Ramsete e Seti I , successori di Akhenaton, ma mantenne una sua indipendenza. In questo periodo comincia a nascere con Davide il regno di Israele, che approfitta di questa indipendenza dei Cananei per prendere una propria strada individuale.
    A questo punto, sulle coste libanesi si presentò il “popolo del mare”, risultato di una migrazione nord europea che, conquistata la Grecia, in particolare la civiltà micenea, per mezzo dei Dori, si riversò su Creta, luogo di altra florida cultura, e su Cipro. Da qui ci fu una invasione delle coste libiche, fino a quelle egiziane, dove Ramsete riuscì ad ottenere un vittoria. I popoli del mare, o anche Khreti e Plethi (Cretesi e Dori), si assestarono in Cananea, fondando, alcuni, la Filistea; altri, amalgamandosi con le popolazioni locali, diedero luogo alla civiltà fenicia. Inoltre una parte di questa migrazione dalla Grecia si diresse presso gli Ittiti, sconfiggendoli e da qui in Mesopotamia.
    Siamo intorno al 1500 a.C., nasce la città di Tiro che diventa più importante di Biblo. In questo periodo i navigatori cananei cominciano ad avere navi più robuste, impiegando il legname ed il cedro libanese, ed a percorrere rotte più lunghe (fino ad allora si viaggiava lungo la costa). Questo cambiamento è dovuto senz’altro ad una contaminazione da parte dei popoli del mare. Israele ingaggerà dure lotte contro la Filistea (basti ricordare l’episodio di Davide e Golia), mentre con i fenici avrà sempre un rapporto pacifico ed improntato su un carattere commerciale.

    Società
    Delle città fenicie si conosce poco, in quanto, per la maggior parte, sono andate distrutte. E’ comunque possibile descrivere un modello anche sulla base di quello di Cartagine. A capo di tutti era un re che regnava incontrastato. Questo accadeva in Fenicia, mentre a Cartagine vi era un suffeta eletto dal Senato e dal Consiglio dei Cento. Questi deteneva il potere giudiziario e parte di quello esecutivo, mentre quello legislativo era affidato al Senato. Esisteva anche un Assemblea del Popolo, interpellata se c’erano discordanze tra il suffeta ed il Senato.
    Esisteva anche una casta sacerdotale, articolata su precisi riti e simboli. Inoltre, la grande attività commerciale favoriva la presenza di una classe borghese che spesso aveva anche influenze sulla scena politica. La ricchezza era data non dalla proprietà terriera, come in molte altre civiltà, ma dalle numerose attività economiche.
    Numerose erano le città fenicie, tutte vivevano tra loro separate, solo alla fine dell’indipendenza, prima dell’egemonia assiro-babilonese, si creò un federazione con capitale Tripoli, a nord di Biblo.
    Ciascuna città era difesa molto bene: era isolata sul mare e cinta da possenti mura. Ciascuna di esse era caratterizzata da mercati e da una numerosa presenza di persone per le strade sempre vive e animate.
    Poco si conosce della condizione femminile e del resto della popolazione, si sa comunque che il tenore di vita era medio-alto, anche perché la popolazione non era tantissima. Ciò è testimoniato dall’opulenza delle città e dalla presenza di diversi schiavi.

  • Babilonesi: la religione

    Religione

    I babilonesi avevano una religione politeista, avente origini orientali. Essi furono molto abili ad impiegare la loro religione per fini politici, facendo diventare Babilonia luogo sacro di spiritualità ed origine del tutto. Attraverso documenti, vengono rielaborati tutti i testi sacri dei sumeri, modificando la realtà, per esaltare il mito di Babilonia, vista come “porta di Dio”. Il mito sumerico di Gilgamesh e quello di Atramhasis vengono rivisitati.
    Il primo mito si ricollega ad un re sumero vissuto ad Uruk intorno al 2700 a.C., che sperimenta l’esperienza della mortalità umana e compie un viaggio verso la conoscenza perfetta.
    Tra le sue imprese, Gilgamesh avrebbe ucciso un toro divino, inviato sulla terra dalla dea Ishtar, che opprimeva il proprio popolo.
    Il secondo mito, invece, richiama il diluvio universale. Secondo la tradizione sumerica, An sovrintendeva tutto ed il cielo, Enlil ed Enki, suoi figli, regnavano rispettivamente sulla terra e sugli abissi. Il primo aveva più potere del fratello, che aveva come figlio Marduk. An crea gli altri dei per lavorare sulla terra, al fine di poter mangiare, ma questi si rifiutano, perché troppo faticoso. Quindi crea l’uomo che rifiuta anche esso di lavorare. Qui si inserisce il mito biblico del paradiso terrestre e della cacciata da parte dell’uomo e della donna. La prima modifica babilonese al testo sacro sta nel fatto che, a questo punto, Enlil propone di mandare sulla terra la pestilenza ed il diluvio per punire la ribellione umana, ma Enki facendo salvare Atramhasis su un’arca.
    Nell’altro testo sacro babilonese del Enuma Elish si descrive la lotta tra Enlil, geloso del salvataggio dell’uomo, ed Enki. Per vendicarsi, ordina a Tiamat, essere vivente dei mari, invincibile, di generare dei mostri e comandare su tutti gli dei, ma Marduk, figlio, di Enki, lo uccide e riceve in compenso la supremazia su tutti gli dei.
    Praticamente, attraverso la rivisitazione di questi miti, i sacerdoti babilonesi sostituiscono l’importanza di Enlil, venerato presso i sumeri, con quella di Enki, sacro ai babilonesi, da cui ne consegue una sacralità per il figlio, il dio Marduk. La sacra città sumerica di Eridu, consacrata al dio Enlil, è equiparata integralmente a Babilonia, città sacra ad Enki.
    Il cuore della religione si sposta da Ur e Nippur a Babilonia, Borsippa e Kuta, al punto che anche gli assiri veneravano gli dei babilonesi, considerandoli come i più grandi ed eccelsi. Nel regno assiro, infatti, si pensava che Ninive fosse il centro politico e Babilonia quello religioso. Dietro questo processo sicuramente c’è una stretta cooperazione con i caldei. Fu questa “rivoluzione” religiosa a decretare il prestigio di Babilonia che in più parti era rappresentata come il centro del mondo e la porta verso il dio Marduk.
    La grandezza della cultura babilonese sta anche nella produzione di questo modello religioso che segnò le basi del prestigio del proprio popolo e di una filosofia di pensiero, accettata da molte culture orientali.
    Gli stessi re di Babilonia non si definivano re, a differenza degli assiri, ma pastori di popoli, amministratore della giustizia e servitori degli dei e lo stesso Ciro il Grande, per annettere la città ed il suo impero alla Persia, si proclamò servo di Marduk.
    Ogni anno a Babilonia si celebrava la festa del Nuovo Anno. Il mito della rinascita è sempre presente nelle religioni orientali. Solo il re poteva cominciare la festa ed era accompagnato dai sacerdoti. Ad un certo punto della festa il gran sacerdote schiaffeggiava il re, per ricordargli di essere umano: se questi piangeva, il dio Marduk concedeva all’impero un anno prosperoso, altrimenti vi erano dei presagi nefasti.
    Esisteva una trinità babilonese: Marduk, Ishtar e Nabu. Il primo è il padre di tutti. Ishtar richiama il mito fenicio di Balaat e presso i sumeri era venerata come Innin, presso gli Egizi come Iside. Essa era la gran madre di tutti, simboleggiava colei che dava calore, fertilità e sicurezza all’uomo. Nabu era il figlio di Marduk ed era molto vicino all’uomo. Era colui che accompagnava la processione nella festa dell’Anno Nuovo, segno di rinascita e purificazione, che avveniva con l’aiuto di Ishtar. Accanto a questa triade c’erano altre divinità, tra cui si ricorda: Ninurta, che aveva un tempio dedicato a Babilonia e che vegliava sulla città di Borsippa, Nergal, protettore della città di Kuta, Ninrag, protettore del vulcano, Anu, che vegliava sul cielo, Annunaki, protettore della volta celeste ed illuminato da Anu, Igigi, legato al ciclo perpetuo del sorgere e del tramontare.

  • Babilonesi: le origini

    Le origini

    La civiltà babilonese lega le proprie origini ed il proprio splendore alla città di Babilonia, che letteralmente significa “porta del Dio”, sulla cui fondazione aleggiano svariate ipotesi, secondo quanto ci hanno tramandato le fonti storiche più accreditate: Erodoto, Diodoro Siculo, Strabone, Flavio, Berosso, vari libri della Bibbia e testi cuneiformi babilonesi.
    La città di Babilonia è citata già intorno al 1500 a.C., quando nell’area mesopotamica gli ittiti fecero la loro prima comparsa. Una delle ipotesi fa risalire la fondazione della città ad un’ignota regina Nitocris. Un’altra vuole che la regina Semiramide, illuminata consorte del re Nino, primo re assiro, verso il 900 a.C., abbia fatto erigere o ampliare ed abbellire questa città, bagnata dall’Eufrate, per offuscare in parte il prestigio del marito. Il primo re di Babilonia citato dalle fonti è Nabonassar, vissuto tra il 747 a.C. ed il 734 a.C., che poi ha dovuto lasciare il posto all’egemonia assira, iniziata con il re Tiglat Pileser III, che mosse guerra anche contro i caldei.
    Il nome della città è comunque legato al grande re Nabucodonosor II, ispiratore tra l’altro del Nabucco di Giuseppe Verdi, che ha regnato dal 605 a.C. al 562 a.C..
    La Mesopotamia, per la sua fertilità, ricchezza di prodotti e abbondanza di acque, è stata sempre una terra che ha attratto varie popolazioni. Lungo il corso del Tigri e dell’Eufrate hanno prosperato diverse civiltà, portando cultura e scienza in questa regione.
    Già intorno al 3600 a.C., risiedeva una popolazione, conosciuta come “gente di Obeid”, pacifica e abbastanza progredita. Successivamente nel 3500 a.C., dall’Asia centrale migrarono i Sumeri, occupando la parte meridionale della Mesopotamia. Mentre questi si stabiliscono a ridosso della zona costiera del Golfo Persico, fondando una città sacra come Nippur, lungo il mare, in una regione paludosa, che prenderà il nome di Caldea, si stabiliranno i Caldei, originari delle regioni del Sinai o dall’Arabia e grandi conoscitori della magia. E’ dimostrato che questo popolo ebbe rapporti molto stretti con gli egizi, i quali appresero arti esoteriche, scienze astronomiche e modelli religiosi.
    In questo periodo viene fondata la grande e splendida città di Ur dei Caldei, ricca dei famosi Zikurrat, da cui sembra sia originario Abramo. Entrambi i popoli portarono conoscenze astrologiche, matematiche ed un protosistema legislativo. Trasmettono ai loro successori mesopotamici una profonda tradizione religiosa che sarà ripresa dai babilonesi.
    Ad est della Caldea, invece, c’è il territorio dell’Elam con capitale Susa, il cui popolo sarà sempre in lotta con gli assiri e diventerà alleato dei babilonesi. Essi gestiranno il controllo della Persia sud-occidentale per diverso tempo e saranno protagonisti della storia babilonese.
    Dunque, la bassa mesopotamia si compone della Caldea a sud, lungo il mare sul Golfo Persico; dell’Elam, ad est; del Sumer, a nord della Caldea, tra le città di Ur e Nippur. Più a sud, proprio sulla costa a ridosso della Caldea, nella parte meridionale dell’attuale Kuwait viene fondato il Paese del Mare, il cui popolo è di origine araba. In questo contesto, a nord di Sumer, si inserisce una popolazione di origine semita, il cui re, Sargon (da cui Sargonidi o Accadi), fondò la città di Accad che acquisì più importanza di Ur. I sargonidi effettuarono delle scorrerie anche in Anatolia ed in Iran, distruggendo alcune città protoittite e protoiraniche. Questa civiltà sopravviverà nel “regno di Akkad”, da cui, in effetti, avrà origine il popolo babilonese.
    Tra il 2300 ed il 2000 a.C. gli Amorrei provenirono dalla regione impervia del Sinai verso la Mesopotamia, sconfiggendo i sargonidi e dando i natali ad Hammurabi, famoso per le tavole delle leggi, dalla cui dinastia proverranno i fondatori di Babilonia. Questa popolazione si stabilirà nella mesopotamia occidentale a sud della Siria. Da questa civiltà derivò anche quella degli Aramei, che si insediarono prevalentemente nel regno di Giuda. E’ a loro che si deve l’origine della lingua aramaica, diffusa presso tutti i popoli semiti.
    Successivamente, a nord di questa regione, si insediò il popolo dei Mitanni, di cui si ricorda il re Tushratta che aveva contatti con i regnanti egiziani ed ittiti. Questo popolo trae origine dagli Hurriti, provenienti dalle regioni caucasiche che avevano come centro principale la città di Urartu, che diede origine al regno di Urartu, corrispondente all’attuale Armenia. Gli urarti conobbero un periodo di dominazione della regione corrispondente al nord dell’Iran e conservarono sempre una propria indipendenza, favoriti anche dalla conformazione geografica del territorio, ricco di montagne e vallate fertili.
    Intorno al 1700 a.C. gli hurriti sottomisero un po’ tutta la mesopotamia ed invasero anche il regno anatolico degli Ittiti. Dagli hurriti hanno avuto probabilmente origine gli Hyksos, popolazione che conquistò l’Egitto e sotto la quale gli ebrei si trasferirono sul delta del Nilo.
    Le fonti storiche ci raccontano del popolo dei Cassiti, di origine asiatica, provenienti dalle montagne nord-iraniche e paragonabili ai barbari di età romana, che intorno al 1700 a.C. si stabilirono approssimativamente nell’area corrispondente all’Assiria e al nord di Babilonia, ingaggiando diverse lotte con il grande Hammurabi. Essi ebbero anche un periodo di dominazione nella regione babilonese, detto “dinastie di età cassita”, che andò dal 1530 a.C. al 1080 a.C. ed ebbe come re: Agumkakrime, Karaindas, Kurigalzu I e II, Burnaburias II. Tale popolo venne sconfitto dagli elamiti, che, in segno di vittoria, portarono la statua del dio Marduk da Babilonia a Susa.
    Successivamente saranno gli assiri a riprendere il potere nella regione ed a riportare il dio babilonese nella sua dimora abituale.
    Intorno all’anno 1500 a.C., saranno gli Ittiti a controllare la parte nord-occidentale della mesopotamia, conquistando il regno dei mitanni ed ingaggiando una lotta contro gli assiri, nella quale cercarono di coinvolgere anche i babilonesi. Rimangono comunque in vita diverse tribù caldee, che delimiteranno il territorio della Caldea: Bit – Amukani, Bit – Dakkuri, Bit – Jakin, Bit – Sha’alla, Bit – Shilani, Larak.
    Il termine Bit sta ad indicare l’espressione “gente di.”. Queste tribù, che erano governate dagli sceicchi e che non hanno avuto mai uno spirito unitario, troveranno il loro rappresentante in Merodach Baladan, eroe e re caldeo, che muoverà più volte guerra all’Assiria tra il 721 a.C. ed il 703 a.C., contribuendo alla nascita della civiltà babilonese.
    La regione mesopotamica è chiusa al nord dal regno caucasico, con capitale Urartu, abitato da popolazioni di origine scita.
    Ad est della mesopotamia si erge la Media, con capitale Ectabana, la quale manterrà un’indipendenza dal 728 a.C. al 550 a.C.. Essa, alleandosi con Babilonia, segnerà la fine del regno assiro. Da controllore della Persia, passerà a controllata.
    Tra il regno di Akkad e quello dell’Urartu-Arameo, nell’884 a.C., fiorisce la civiltà assira, che tramonterà verso il 609 a.C.. Tale cultura, basata sull’imperialismo, sulla conquista e sulle arti belliche, troverà il suo fondatore in Assurnasirpal II e vivrà il suo splendore dal 722 a.C. al 627 a.C., sotto diversi re: Sargon II, Sennacherib, Asarhaddon, Assurbanipal. Questi contribuiranno alla formazione dell’impero assiro, comprendente: Fenicia, Egitto, Israele, regno di Akkad, Aramei, paese del mare e regno di Babilonia. L’Elam e la Caldea manterranno la loro indipendenza, quest’ultima, in particolare, grazie al re Merodach Baladan. Sotto questa civiltà sorgeranno le città di Assur e di Ninive, che diventerà famosa in tutto il mondo conosciuto.
    L’Assiria effettuerà una serie di scorrerie nell’altopiani iranico ed avrà una sorta di protettorato nei confronti di Babilonia, considerato luogo sacro e patria degli dei. Alcuni re assiri si proclamarono anche re di Babilonia, assumendo due nomi, uno come re di Assiria ed uno come sovrano babilonese. Tutto questo durò fino al 626 a.C., quando Nabopalassar, padre di Nabucodonosor, con l’aiuto di Medi, Elamiti, Aramei e Caldei conquistò l’Assiria. Egli riuscì ad unificare le tribù caldee e si alleò con i diversi popoli limitrofi. Nel 614 a.C. prese Assur, mentre nel 612 a.C. il re medio Ciassarre prese Ninive: l’Assiria divenne possedimento della Media.
    Il re babilonese riuscì dove non erano riusciti i regnanti assiri, accecati da una mentalità imperialista e non curanti del pericolo che potevano rappresentare i popoli vicini ancora non sottomessi: i Frigi ed i Lidi a nord, i Medi ad est, i Caldei e gli Elamiti a sud ed i Cimmeri (popolazione celto-scita) ad ovest. L’unico modo per gestire questi pericoli era l’alleanza ed il buon governo e questa politica riuscì molto bene alla cultura babilonese.
    Per anni si è pensato che i babilonesi fossero caldei, ma in realtà, non è così. Sicuramente da questi hanno ereditato conoscenze religiose e culturali.

  • Gli Assiri

    Tra il regno di Akkad e quello dell’Urartu-Arameo, nell’884 a.C., fiorisce la civiltà assira, che tramonterà verso il 609 a.C..
    Tale cultura, basata sull’imperialismo, sulla conquista e sulle arti belliche, troverà il suo fondatore in Assurnasirpal II e vivrà il suo splendore dal 722 a.C. al 627 a.C., sotto diversi re: Sargon II, Sennacherib, Asarhaddon, Assurbanipal.

    Questi contribuiranno alla formazione dell’impero assiro, comprendente: Fenicia, Egitto, Israele, regno di Akkad, Aramei, paese del mare e regno di Babilonia.
    L’Elam e la Caldea manterranno la loro indipendenza, quest’ultima, in particolare, grazie al re Merodach Baladan.

    Sotto questa civiltà sorgeranno le città di Assur e di Ninive, che diventerà famosa in tutto il mondo conosciuto.

    L’Assiria effettuerà una serie di scorrerie nell’altopiani iranico ed avrà una sorta di protettorato nei confronti di Babilonia, considerato luogo sacro e patria degli dei. Alcuni re assiri si proclamarono anche re di Babilonia, assumendo due nomi, uno come re di Assiria ed uno come sovrano babilonese.

    Tutto questo durò fino al 626 a.C., quando Nabopalassar, padre di Nabucodonosor, con l’aiuto di Medi, Elamiti, Aramei e Caldei conquistò l’Assiria. Egli riuscì ad unificare le tribù caldee e si alleò con i diversi popoli limitrofi. Nel 614 a.C. prese Assur, mentre nel 612 a.C. il re medio Ciassarre prese Ninive: l’Assiria divenne possedimento della Media.