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  • L’impero persiano

    Gli inizi della dinastia persiana degli Achemenidi sono ancora poco conosciuti; verso il 700 a.C. i Persiani erano stanziati a Parsumach, ai piedi dei monti Bakhtiyari, dove, sotto la direzione di Achemene, fondarono un piccolo regno; l’Elam non era più abbastanza potente per fare opposizione. Il regno persiano continuò a espandersi: Teispe (675-640 a.C.), figlio di Achemene, che portava già il titolo di re di Anzan, si annettè la provincia di Parsa (Fars). Alla morte di Teispe il regno fu diviso tra i due figli: Ariaramne di Media (640-590 circa) e Ciro I di Persia (640- 600 circa). Dopo la distruzione totale dell’Elam da parte degli Assiri, Ciro I riconobbe l’autorità di questi ultimi, inviando uno dei suoi figli come ostaggio. Il successore di Ciro, Cambise I, obbligò il figlio di Ariaramne ad abdicare in suo favore, lasciandogli tuttavia il governo della provincia di Parsa, e sposò la figlia di Astiage di Media: da questa unione nacque Ciro II il Grande (558-528 circa).
    I due regni iraniani che si formarono, quello dei medi e quello dei persiani, vennero unificati dal re persiano Ciro, detto il Grande, nel 599 a.C. Dopo aver consolidato la sua posizione all’interno, Ciro sottomise l’Asia Minore, conquistò Babilonia (539), assumendo il controllo della Siria e ottenendo la sottomissione dei re fenici. Alla sua morte l’Impero passò a Cambise II (529-521 a.C.), che aveva regnato con il padre per otto anni. Il nuovo re dovette domare diverse rivolte in Persia, prima di partire alla conquista dell’Egitto nel 525; nel 522, abbandonando il progetto di conquistare Cartagine e l’Etiopia, ritornò in patria, dove un usurpatore, Gaumata, si era proclamato re; morì poco dopo in circostanze misteriose. Il suo successore Dario I (521-485) era figlio di Istaspe, satrapo dell’Ircania, e nipote di Ariaramne. Egli iniziò la sua opera ristabilendo l’ordine nel paese e nell’Impero; in seguito estese la sua azione a Oriente, sottomettendo il Gandhara, l’India occidentale e la valle dell’Indo; quindi combattè gli Sciti della Russia meridionale ed estese il suo potere sulle città greche della costa. Di lì si volse alla conquista della Grecia stessa, dando origine alle cosiddette guerre persiane, dopo le quali la lotta per i confini occidentali dell’Impero e per le città greche continuò per un secolo e mezzo: laddove la forza non bastava, l’oro del Gran re interveniva, suscitando e mantenendo le lotte intestine in Grecia. Con gli ultimi Achemenidi Artaserse I (465- 424), Dario II (424-404), Artaserse II (404-358), Artaserse III (358- 338), maturò lentamente la decadenza dell’Impero, fino alla definitiva sconfitta di Dario III (331 a.C.) a opera di Alessandro Magno.
    La forza dei persiani era in primo luogo militare: un potente esercito , costituito da un nucleo di nobili cavalieri persiani fornite dalle province assoggettate, era lo strumento per mantenere il controllo dell’impero. A essa si univa però anche una notevole capacità di assimilazione culturale (a cominciare da Ciro, che conquistata Babilonia nel 539 a.C., restituì la libertà agli ebrei che vi erano stati deportati da Nabucodonsor nel 596). Ma grande fu anche l’abilità con cui Dario seppe organizzare l’immenso impero. Il potere era centralizzato: il sovrano governava attraverso i satrapi, membri dell’aristocrazia persiana, ai quali era affidato il controllo delle diverse province, o satrapie, dell’impero.

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  • I Fenici e gli Ebrei

    La parte settentrionale della di Canaan, l’attuale Libano, vide fiorire nel XII sec. a.C. la civiltà fenicia, fondata su da una serie di città -Stato autonome, le cui più importanti erano Biblo, Sidone e Tiro. La forza di queste città non consisteva nella potenza politico-militare, ma nello sviluppo economico, basato soprattutto sul commercio marittimo. I fenici erano ottimi navigatori e conquistatori, tanto che tutta la zona da Cipro alle coste africane (Cartagine) cadde in loro potere, così come Sardegna, Sicilia e Spagna. Furono commercianti di stoffe e legnami, nonchè artigiani di vetro e metalli. Nel 1100 a.C. i fenici fondarono Cartagine, nell’Africa settentrionale (attuale Tunisia) ed entrarono in conflitto con i romani.
    Generalmente il potere apparteneva a un re, il quale, tuttavia, doveva tenere conto dei pareri dell’assemblea dei rappresentanti dei commercianti, degli armatori e dei proprietari terrieri. Tiro rappresentò per un certo tempo un’eccezione, perchè, nel VI secolo, venne governata da magistrati detti sufeti, che erano eletti dal popolo, restavano in carica un anno ed erano generalmente due. La loro era una carica civile, non militare: sovrintendevano alle relazioni internazionali, avevano funzioni legislative, amministrative e giudiziarie.
    Col passaggio all’età del Ferro, il potere regio nelle città -stato dei Fenici venne limitato dall’ascesa delle classi mercantili, ma il sovrano conservò le funzioni religiose e sacerdotali che costituivano una sua prerogativa e continuò a preoccuparsi della costruzione degli edifici sacri.
    La regina godeva di privilegi particolari, poteva esercitare la reggenza e riferirsi a se stessa e all’erede usando il plurale.
    Ai fenici è attribuita l’invenzione dell’alfabeto fonetico e la forma esteriore delle lettere che fu adottata dai greci. E’ grazie a loro che furono diffuse le unità di misura e il sistema dei pesi babilonesi in tutto il bacino del Mediterraneo.
    Giacobbe con tutta la sua famiglia si recò in Egitto: e sembra che l’emigrazione degli ebrei si debba integrare con quella più vasta compiuta dagli Hyksos (“principi di paesi stranieri”) che raggiunsero l’Egitto passando attraverso la Terra di Canaan: al loro seguito il piccolo numero degli Ebrei (secondo la Bibbia si trattava di circa settanta persone) acquistò ben presto posizione eminente. Giuseppe, figlio di Giacobbe, fu primo ministro del faraone e tutta la sua stirpe, aumentata considerevolmente di numero, si stabilì ai confini orientali del Delta. All’inizio, gli Ebrei conservarono una certa libertà ; si spostarono anche, come nomadi, forse fino alla Terra di Canaan, unita allora all’Egitto.
    Dopo l’espulsione degli Hyksos, gli Egiziani, avendo bisogno di manodopera, asservirono gli Ebrei. Liberati da Mosè, nel XV o nel XIII sec. a.C., gli Ebrei peregrinarono per un certo tempo nella penisola sinaitica, furono nutriti miracolosamente dalla manna e dissetati con acqua miracolosa. Intorno ai secoli XIII-XII, essi si stanziarono nella regione meridionale della terra di Canaan, ossia l’attuale Palestina. Il popolo d’Israele era organizzato come una confederazione di dodici tribù. La costituzione di un regno creava però un problema di legittimità , ossia gi giustificazione dell’autorità del re. Gli Ebrei intesero il sovrano come prescelto di Dio.
    Saul (significa impetrato da Dio) 1º re degli Ebrei, che regna dal 1020 al 1000 a.C., quando muore in guerra contro i Filistei. Fu scelto per consiglio divino e unto re segretamente a Rama dal profeta Samuele, che in seguito lo proclamò re pubblicamente. Gli succede Davide, suo genero, che regna per quasi quarant’anni, dal 1000 fino al 961 a.C. A Davide succede, nel 961 a.C., il figlio suo e di Betsabea, Salomone, diventato proverbiale per la sua saggezza. Salomone è quello che si dice un sovrano illuminato. Alla sua morte (922 a.C.) il regno si spezzò in due: uno è il regno di Israele, e l’altro si chiamerà di Giudea.
    L’alimentazione degli ebrei era caratteristica di un popolo dedito prevalentemente all’allevamento; infatti non mancavano il pane e il vino, ma un ruolo centrale era svolto dalla carne, ovviamente di animali non impuri come pecore e capre, e del latte e dei latticini. Resta il problema del significato dei tanti tabù alimentari degli ebrei. Si è fatta lìipotesi che essi, sotto l’apparenza religiosa, non fossero altro che proibizioni di carne di maiale sarebbe stato il risultato della consapevolezza della facile deperibilità di questo tipo di carne nei climi caldi, come quella dei palestinesi. Secondo questa interpretazione, le proibizioni religiose sarebbero state introdotte per rafforzare delle proibizioni di tipo sanitario.

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  • I primi Stati della Mesopotamia

    Si svilupparono i primi insediamenti urbani nelle regioni della Mesopotamia, antico nome della regione dell’Asia Anteriore compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate, occupate dalla moderna Turchia, dalla Siria e dall’Iraq. Queste regioni, a partire dal III millennio a. C., furono teatro di imponenti flussi migratori di molteplici popolazioni (semiti, ittiti, filistei, aramei, fenici ecc..). Le prime città stato della Mesopotamia si svilupparono nel sud della regione, nelle zone alluvionali a ridosso del Golfo Persico. Anche qui le condizioni ambientali stimolarono le risorse e l’inventiva dell’uomo. Le piene del Tigri e dell’Eufrate avevano luogo in primavera, con il rischio che l’acqua invadesse i raccolti prima del raccolto; viceversa, l’acqua scarseggiava in autunno, quando sarebbe stata necessaria. Gli antichi popoli mesopotamici affrontarono il problema attraverso canali regolati da chiuse, l’acqua veniva fatta affluire nei campi nel momento e nelle qualità opportuni.
    Uno degli elementi che favorì il sorgere dei centri urbani fu la presenza di un’organizzazione agricola che soddisfacesse le esigenze alimentari sia degli addetti al lavoro dei campi sia di coloro che si dedicavano ad altre attività . Ciò provocò una dipendenza della campagna dalla città , che aveva bisogno di assicurarsi grandi quantità di prodotti agricoli. Questi venivano versati dai contadini quale tassa in natura all’autorità cittadina. Non si trattava di uno scambio alla pari, perchè il potere era tutto nelle mani dei sacerdoti del tempio, ai quali spettava ogni decisione importante. La condizione dei contadini andò peggiorando nel corso del tempo: se nella prima fase della rivoluzione urbana essi erano in maggioranza possessori delle terre che coltivavano e liberi di organizzare il lavoro secondo le proprie scelte, in seguito crebbe sempre più una categoria di agricoltori direttamente dipendente dal tempio.
    I sumeri furono la più antica popolazione della Mesopotamia, le cui origini sono rintracciabili grazie a reperti risalenti al 3000 a. C. Il codice di leggi di Ur-Nammu, raccolta di testi giuridici, rappresenta la più antica raccolta di massime giuridiche della storia dell’uomo. I sumeri non si organizzarono in uno stato unitario, bensì in tante città -stato indipendenti l’una dall’altra, talvolta in lotta fra loro ed economicamente autosufficienti. La città sumerica era governata da un re chiamata lugar, il quale apparteneva generalmente alla classe sacerdotale. La città di Uruk, nata verso il 3500 a.C., sorgeva sulla destra del vecchio corso dell’Eufrate. Il tempio di Eanna fu il centro di un complesso di attività organizzative e politiche, che permisero a Uruk di acquisire sia il controllo della pianura intorno alla città sia il dominio sui villaggi urbani minori di una vasta area della Mesopotamia meridionale. Inoltre, Uruk fondò colonie anche a centinaia di chilometri verso nord, sino in Siria e in Anatolia. Queste avevano la funzione di controllare i commerci a lunga distanza. I sumeri erano politeisti; gli dei erano rappresentazioni e personificazioni delle varie forze della natura. Furono abilissimi artigiani, costruivano ornamenti, decoravano vasi d’argilla e fabbricavano strumenti in metallo che sapevano fondere a temperatura elevatissime. Il tempio, grande piramidi a gradoni chiamata ziggurat, era il cuore della città : nel tempio si svolgevano le attività di commercio, di scambi e le attività politiche. Il tempio era il supremo proprietario della terra e del bestiame. I sacerdoti amministravano queste ricchezze. Schiavi erano in Sumer, non solo i prigionieri di guerra, ma anche i debitori che perdevano la terra e la libertà a vantaggio del creditore. L’astronomio sumera si sviluppò dalla divinazione, cioè dall’arte di provvedere al futuro grazie all’interpretazione del movimento degli astri. I sumeri sapevano riconoscere stelle e pianeti: scoprirono che i loro movimenti rispettavano scansioni temporali. E’ ai sumeri, infine, che dobbiamo le prime cosmogonie (cosmo), cioè i primi tentativi dell’umanità per piegare l’origine del mondo, delle cose, dell’uomo stesso. Nella scrittura cuneiforme inventata dai sumeri, accanto ai segni pittografici compaiono anche dei segni fonetici. Ciò significava, ad esempio, con i simboli delle parole re e ma si potevano indicare, oltre ai suddetti termini, anche parole come mare e rema. Sembra questa la strada che ha portato all’invenzione dell’alfabeto. Una curiosa caratteristica dei segni fonetici sumeri sta nel fatto che essi inventarono un sistema per esprimere i suoni simile a quello che oggi noi usiamo per comporre i giochi dei rebus. La scrittura rimase però una pratica molto complessa: sapevano usarla soltanto gli scribi o scrivani di professione, cioè coloro che erano alle dipendenze del tempio o del palazzo e ne curavano l’amministrazione. La struttura delle città -stato sumere aveva messo in evidenza tutta la sua fragilità politica e militare di fronte a una popolazione nomade proveniente dall’Siria o dal deserto arabico: gli accadi. Essi conquistarono il territorio dei sumeri. Il potere venne quindi assunto dal re accadico Sargonn, il Conquistatore, che fondò la nuova capitale Akkad. Alla sua morte, verso il 2300 a.C., i popoli sottomessi si ribellarono, e la situazione fu ripresa in mano solo dal nipote Naram-Sin, che tuttavia non riuscì a ripristinare durevolmente la struttura dello Stato. Alla morte di Naram-Sin una tribù di origine semitica, anch’essa proveniente dall’Iran, penetrò in Mesopotamia e impose il proprio dominio a Sumeri ed Accadi. Nonostante che i nuovi venuti, denominati Gutei, avessero portato la prosperità economica del paese, vennero sempre considerati degli usurpatori e scacciati appena fu possibile. Fu il principe della città di Uruk, Utkhegal, che guidò la rivolta antigutea nel 2051 a.C., consentendo così la rinascita della potenza sumero-accadico. Il sovrano accadico riceveva in vita onori divini, essendo considerato un figlio degli dei; e quando veniva a morte, la sua scomparsa da questo mondo era considerata come un semplice passaggio nel mondo eterno degli dei, precluso invece ai comuni mortali. I Sumeri inventarono anche la scrittura cuneiforme, così chiamata perchè consta di tanti piccoli segni.
    Verso il ventesimo secolo a.C. cominciarono a premere sullo stato di Accad molti dei popoli confinanti, tra i quali gli Elamiti, i Mari, i Cananei e gli Assiri, ma la prevalenza venne assunta dai babilonesi, che riuscì a estendere il proprio dominio sul territorio circostante, finchè, verso il 1700 a.C., divenne capitale di un vastissimo regno che unificava l’alta e la bassa Mesopotamia (Akkad e Sumer). Testimonianza della civiltà politica babilonese è il codice di Hammurabi, insieme di leggi incise a caratteri cuneiformi.
    Contemporaneamente alla civiltà babilonese, nacque nella parte settentrionale della Mesopotamia l’impero assiro. La dinastia amorrea fondata da Samsi-adad diede inizio al periodo di indipendenza ed espansione oltre l’Eufrate. Lo scontro con la civiltà babilonese inferse un duro colpo alla civiltà assira: il re Hammurabi occupò l’intera Assiria e nel 1679 a. C. l’occupazione della città di Mari segnò il declino del primo periodo di splendore della civiltà assira.
    La struttura della monarchia assira era aristocratico militare, con molti elementi mediati dalla civiltà babilonese: l’economia basata sull’agricoltura e sul commercio fioriva grazie allo sfruttamento dei paesi conquistati. L’arte assira riprende i temi dell’arte mesopotamica dei sumeri, esemplificata nello Ziqqurat di Ur o tempio torre con sovrapposizione fino a sette piani di bastioni inclinati. La superiorità degli Assiri era soltanto militare: infatti essi non apportano nessun elemento culturale, ma solo l’uso dei carri da guerra e dei cavalli.
    Verso la metà del II millennio a.C. il dominio di Babilonia fu sottoposto alla pressione dei “popoli dei monti”, popolazioni nomadi e siminomadi. Tra questi vi erano gli assiri, che rendendosi indipendenti da Babilonia, poi, verso il 1146 a.C. occuparono la città stessa. Dopo così sconfitto la popolazione dei Mitanni, gli Assiri guidati dal re Salmanassar I invasero tutta la Mesopotamia trattando i popoli vinti con inaudita crudeltà , inchiodando sulle mure della città sottomese la pelle e la testa dei condottieri uccisi, deportando intere popolazione da una regione all’altra. L’odio e il terrore che gli Assiri avevano ispirato ai popoli sottomessi esplosero con furore quando venne anche per loro il momento della sconfitta. Gli invasori vennero ricacciati per qualche tempo sulle loro montagne. Ma a partire dall’883 a.C., di nuovo gli Assiri discendono come uccelli rapaci e di nuovo s’impongono a tutti gli avversari. Sotto il dominio degli assiri caddero progressivamente, tra il 1000 e il 700 a.C. la Palestina, la Siria e la Fenicia; verso il 670 venne conquistato anche l’Egitto. Inoltre i conquistatori hanno acquistato un’arma nuova: è la spada di ferro, che hanno loro trasmesso gli Hittiti, e che consente di sbaragliare con irrisoria facilità gli eserciti ancora armati completamente di bronzo.
    Organizzato un potente Stato sotto il governo dei primi sovrani, gli Ittiti cominciarono, come tutti gli altri popoli confinati, a guardare con desiderio le fertili pianure della Mesopotamia. Finalmente, dopo anni di guerriglia, riuscirono a invadere la Siria conquistando la capitale Aleppo, e poi spingersi fino alla stessa Babilonia; li guidava il re Morsili I, un abile generale, che però poco tempo dopo venne assassinato. Questo determinò una crisi nel governo ittita e un arresto nella politica di espansione militare, che riprese solo dopo due secoli, quando, nel 1365 a.C., si lanciarono all’assalto del regno dei Mitanni. Più che un regno, quello creato dagli Hittiti può essere considerato una grande confederazione di popoli e genti diversa. Gli Hittiti, infatti, costituivano una minoranza straniera nelle regioni conquistate e cercavano di evitare possibili ribellioni, concedendo una certa autonomia ai popoli sottomessi; spesso si accontentavano di ricevere da questi ultimi tributi e aiuti militari, lasciando sul trono il sovrano locale, anche se con un potere limitato. Il re era prescelta in relazione alla sua abilità guerriera o di comando. Egli non era quindi nè l’interprete della divinità nè dio egli stesso. L’autorità regia era limitata dall’assemblea degli uomini liberi, che aveva potere decisionale su molti aspetti della vita sociale e sull’elezioni del nuovo re. Ma nonostante tutto, venne anche per i saggi Ittiti il tempo della fine. Poco prima dell’undicesimo secolo a.C., essi vennero a conflitto coi Frigi, i fondatori della famosa città di Troia di cui parlano i grandi ci parlano i grandi poemi omerici, e la loro potenza crollò sotto i colpi dei nuovi dominatori, i quali ne invasero il territorio e vi fondarono una nuova capitale, chiamata Gordio.
    Il periodo di massimo splendore del regno di Frigia cadde tra l’ottavo e il settimo secolo a.C. Il regno frigio tuttavia, entrò ben presto in crisi a causa degli Assiri, i quali, guidati da Sargon II, ne sbaragliarono le forze nel 709 a.C.
    Essi vennero sostituiti dai Lidi, che a cavallo tra il settimo e il sesto secolo a.C. stabilirono il loro reame. Il secondo impero babilonese ebbe momenti di rinnovata grandezza sotto il regno di Nabucondosor, quando fu conquistata la Palestina fino ai confini dell’Egitto. Nabucodonsor II, nel 587 a.C., distrusse Gerusalemme, capitale del regno di Giudea, e deportò in massa gli ebrei in Babilonia, obbligandoli a collaborare alla costruzione di un grande edificio di culto, una torre detta ziggurat, che gli ebrei chiamarono poi nella loro Bibbia torre di Babele ritenendo che Dio stesso avesse confuso le lingue di coloro che la costruivano, mentre si trattava solo dei diversi popoli deportati dall’imperatore e costretti a lavorare come schiavi alla costruzione. Toccò al re Nabonide di vedere la fine dell’impero: inimicatisi i sacerdoti, avendo cercato di limitare il loro potere i loro privilegi, li spinse ad accordarsi segretamente coi nemici dell’impero, e in particolare coll’imperatore di Persia Ciro II. Costui nel 539 a.C. poteva così impadronirsi della grande, della splendida Babilonia.
    Il politeismo è senza dubbio il carattere fondamentale di tutte le religioni antiche. Quella della Mesopotamia era caratterizzata da un politeismo di tipo naturalistico: i popoli mesopotamici credevano cioè che ciascuna forza della natura (terra, acqua, vento, ecc.) fosse controllata da un dio. Oltre alle divinità della natura, c’erano gli dei protet0tori di ogni singola città , ai quali era dedicato il grande tempio posto al centro della città stessa.

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  • Sumeri: le origini

    Il primo problema che si affronta nell’analisi della civiltà sumera consiste nella sua scoperta che è avvenuta solo agli inizi del 1900. In precedenza si credeva che non esistesse una civiltà precedente a quella assira. Con pazienti scavi e costanti studi si è giunti all’accettazione di questa importantissima civiltà sia per cultura sia per religione.

    La civiltà dei Sumeri colloca le proprie origini in un periodo antecedente al 3000 a.C., prendendo il posto della cultura derivante dalla cosidetta “Gente di Obeid”, popolazione nomade che si era stabilita nella parte sud-orientale della Mesopotamia (la terra tra i due fiumi), presso il villaggio di El Obeid , regione ricca di acqua, ma anche di inondazioni. Oggi tale regione è caratterizzata dalla presenza dello Shatt el-Havy, un canale che unisce i due fiumi mesopotamici. La città più importante fu Eridu.

    Il termine sumer (shumer in accadico) significa terra coltivata, da cui sumeri significa portatori di coltura.

    Intorno al 3000 a.C. si assiste ad una migrazione del popolo sumero, proveniente dalla regione montuosa che comprende gli attuali Iran ed India, verso la regione meridionale mesopotamica caratterizzata da frequenti inondazioni dei fiumi Tigri ed Eufrate le quali formavano paludi. A questa si unisce anche un flusso migratorio proveniente dal Mar Caspio, dunque di estrazione scita.

    Viene fondata la città sacra di Uruk, che prese il posto di Eridu. Si assiste dunque ad una fase in cui si passa da una tradizione nomade ad una stanziale con la fondazione di centri urbani che non sono difesi da mura.

    Nel periodo che va dal 3000 al 2600 a.C. circa la città di Uruk domina la scena politica sumera. Nascono altre città come Ur, Lagash, Nippur, Kish, Eridu, Larsa, Umma, Isin . Si tratta di principati che compongono la regione di Sumer.

    Il territorio in cui si stabilì la popolazione era soggetto a diverse calamità naturali, ma nonostante questo, si riuscì a piegare la forza della natura per avere un insediamento stabile.

    Le città raggiunsero un grande splendore ed un’importanza internazionale.

    Attività

    Il regno di Sumer era caratterizzato da diverse depressioni geologiche e da varie inondazioni fluviali che rendevano la zona estremamente paludosa. Solo l’abilità e l’ingegno sumero, attraverso numerose opere di bonifica, la resero fertile e ricca di pascoli.

    Le attività principali erano dunque la pastorizia e l’agricoltura; non mancavano però numerosi segni di civilizzazione che trasmisero ai Babilonesi ed al mondo intero.

    Furono grandi conoscitori dell’astrologia: inventarono un calendario che non si discosta molto da quello impiegato attualmente, individuarono tutte le costellazioni. Grandi matematici, risolvevano equazioni algebriche di terzo grado e sistemi vari. Eseguivano calcoli complicati nel campo dell’ingegneria edile.

    Furono i primi ad usare i numeri.

    Inventarono la scrittura, anche se poi venne perfezionata dai Cretesi, attraverso il codice “lineare B”.

    Grandi ingegneri, realizzarono canali che resero completamente navigabile e bonificata la bassa Mesopotamia; costruirono città, templi e palazzi. Importanti erano le Ziqqurat.

    Abili lavoratori di alabastro, realizzarono immagini votive.

    Numerose sono le stele, in cui i Sumeri registravano gli eventi che accadevano nella loro cultura.

    I Sumeri istituirono la scuola come luogo di cultura ed istruzione. Inoltre furono propositori nel diritto, in particolare con il re Eannatum, uno dei primi re sumeri, che cercò di regolamentare una situazione di sopraffazione e di ingiustizia.

    Avevano una buona educazione sanitaria e si curavano nell’abbigliamento. Erano profondi conoscitori delle erbe mediche.

    Nell’ambito della letteratura, osservando tutti i loro poemi, si può dire che furono dei grandissimi precursori della cultura. Fra tutti si ricorda lo scrittore Sinleqe Unnini.

    Non amavano molto la guerra, anche se utilizzarono il carro da guerra, impiegato dagli Sciti, ma erano dediti al commercio. Fondamentale fu il commercio con l’Egitto, il quale subì anche diverse influenze dai sumeri sia dal punto di vista architettonico che religioso: il mito di Osiride, riprende quello di Dumuzi; le piramidi si rifanno agli ziqqurat.

    Società

    Esistevano una classe regale ed una sacerdotale. Quest’ultima deteneva il controllo su latifondi terrieri e beneficiava dei relativi proventi. Ogni città era governata da un ensi , signore locale, che spesso si proclamava anche sommo sacerdote, conosciuto come en, al fine di controllare anche il potere religioso che era molto forte presso i sumeri. Inoltre c’era il lugal che esercitava una podestà sovraregionale.

    Parallelamente vi era anche una classe borghese, risultato dei fiorenti commerci sumeri, che costituivano l’unica ricchezza per un paese povero di materie prime che era costretto ad importare tutto dall’estero. La sua unica ricchezza era la rete fluviale della regione che costituiva una buona fonte di commercio.

    Numerosi erano i rapporti con lo Yemen, i paesi del Golfo Persico e le città della valle dell’Indo.

    Poco si conosce della condizione femminile e del resto della popolazione. Il tenore di vita era comunque medio alto. Ciò è testimoniato dall’opulenza delle città e dalla presenza di diversi schiavi. Oltre ad essi vi erano i contadini ed i pastori, che godevano di un basso tenore di vita.

    Sviluppo

    I Sumeri conobbero il loro maggiore sviluppo tra il 2500 ed 2350 a.C.. All’inizio di questo periodo la Mesopotamia meridionale era caratterizzata da villaggi che via via vennero fortificati, in particolare Uruk.

    Antecedentemente a tale periodo in ogni villaggio, ricco per i fiorenti commerci, dominava un ensi, che spargeva terrore e soprusi sulla popolazione locale.

    Nel 2500 a.C. la città di Lagash fonda un principato e domina nella regione conquistando altre città sumere. Si assiste a lotte tra le varie città che richiamano l’attenzione del vicino e bellicoso Elam. Finalmente con il re Urnanshe, la città di Lagash ottiene il sopravvento sulle altre. La lotta è dura, perchè molte città sumere vedono ridotto il loro potere economico e si ribellano.

    Il re Eannatum, nipote di Urnanshe, estese il dominio di Lagash su quasi tutte le città sumere, sottomise l’Elam e sconfisse la città di Mari, situata nella Siria. Questo testimonia che i sumeri estesero il loro dominio al di là del proprio territorio. Inoltre avevano anche un dominio marittimo nel Golfo Persico.

    In realtà Sumer era divisa in due principati: il primo controllato da Eannatum di Lagash ed il secondo, più a nord e separato da un fossato di confine, sottomesso alla città di Umma, governata dall’ensi Urlumma. Quest’ultimo, tuttavia, pagava un tributo a Lagash.

    Con il successore di Eannatum, re Entemena, i territori a nord di Lagash, controllati dalla città di Umma, si ribellarono di nuovo. Gli Ummaiti vennero sconfitti dai “sumeri meridionali” e subirono l’aggressione dell’ensi di Zabalam, città vicina ad Umma, che si chiamava Il, il quale si proclamò nuovo re di Umma che ebbe una certa influenza anche su Lagash.

    Dunque ad un’iniziale dominio di Lagash ne seguì uno ummaita. Entemena, dunque, perde il controllo ed acquistano potere anche i sommi sacerdoti di Lagash che portarono al potere Lugalanda, il quale non migliorò molto la situzione economico-sociale dei sumeri, soprattutto del ceto povero: l’inflazione era molto alta.

    Salì al trono Urukagina, che fu il primo re del popolo. Risanò l’economia, si avvalse di funzionari di controllo, ridimensionò la classe sacerdotale, proclamandosi anche egli sacerdote, istituì un primo codice di diritto.

    Intanto, nel 2350 a.C., ad Umma era salito al potere Lugalzagesi, uomo ambizioso e poco pacifico, che segnò un nuovo periodo per Sumer. Questi unificò Sumer attraverso il sangue e le distruzioni delle diverse città del principato di Lagash. Le sue atrocità sopravvissero in futuro nelle legende sumeriche. Uccise il re Urukagina, la cui fama di pace sopravvisse nei secoli, annesse Lagash, Ur, Uruk e Kish al suo regno spargendo ovunque terrore.

    Dalla sua amata capitale Uruk, che venne cinta di mura, cercò di dimostrare al popolo che il dio Enlil era dalla sua parte e regnò per 25 anni dall’Elam alla Siria, attirando su di se tutto il malcontento degli ensi di Sumer.

    Di tale situazione approfitto un principe di origine semita: Sargon, il quale fondò una dinastia che regnò dal 2350 al 2150 a.C..

    Raccogliendo il consenso dei vari ensi sumeri e disponendo di un esercito mobile e di una cavalleria (più manovrabile dei carri e delle falangi sumere) annientò i sumeri. Questo scontro rappresentò una lotta tra due mondi: quello nomade semita, più giovane, assetato di ricchezze, più equipaggiato militarmente; quello sumero, più civile, meno dedito alla guerra, più stanziale.

    Sargon fece prigioniero Lugalzagesi e lo espose alla gogna per dimostrare al popolo sumero che gli dei erano dalla sua parte. Fu un ottimo re: mantenne religione ed amministrazione locali e non si impose con la violenza. La lingua ufficiale del suo regno fu il sumero, anche se veniva parlato l’accadico. Il suo regno fu il primo vero e proprio impero: Elam. Mesopotamia, Siria, Fenicia, Parte dell’Anatolia e dell’Arabia (odierno Oman).

    Fondò la capitale ad Accad, tra i due fiumi mesopotamici: dunque ricca di commerci e di fasto. Nacque così la civiltà accadica che regnò per 200 anni. Sargon fu al potere per 56 anni. Dopo di lui vennero al potere altri re che non seppero mantenere l’unità del paese (Rimush, Manishtusu, Naramsin, Sharkalisharri). Alcuni si chiamarono “Signore dei quattro regni”, come Sargon, altri più semplicemente re di Accad, mostrando un diverso grado di umiltà, ma non seppero tenere il paese unito per le rivolte dei vari ensi sumeri.

    Dal 2150 a.C. al 2050 a.C. Sumer subì l’invasione dei Gutei, popolazione barbara di origine armena, che depredarono tutte le città e mieterono vittime. I sargonidi non seppero resistere all’invasione e persero il loro regno: Accad venne distrutta.

    Vi furono alcuni ensi che collaborarono con i Gutei, altri, come quello di Uruk, che vi resistettero.

    La rivolta sumera partì proprio da Uruk con il re Gudea, noto nella leggenda come Utukhengal, che dopo 100 anni di lotta respinse la popolazione barbarica, governata dal re Tirigan.

    Egli regnò in pace un paese già dilaniato dalle numerose guerre.

    Per i successivi 100 anni regnò la dinasti di Ur: Urnammu, Shulgi, Amarsuena, Shusin, Ibbisin.

    Il primo fu un generale che prese il potere e portò il potere politico presso Ur.

    Governò in pace ed estese il potere di Sumer, proclamandosi re di Sumer e Accad, indicando che il potere politico si stava spostando verso il centro della Mesopotamia. Egli entrò nel mito come Gilgamesh attraverso il racconto del Viaggio di Urnammu agli inferi, nel quale anche lui ha ricercato l’immortalità. La sua importanza sta nel fatto di aver introdotto la dominazione della città di Ur, che lasciò le sue impronte nella Bibbia come patria di Abramo.

    In questo periodo, detto urrita, i sumeri dominavano sull’intera mesopotamia e su parte dell’Elam. Il re Shulgi riportò il benessere nel paese e risanò l’economia. Fece erigere una muraglia di 63 km per evitare l’invasione degli amorriti, popolazione nomade semita. Tuttavia gli amorriti invasero Sumer, ma vennero respinti.

    I sumeri si indebolirono e vennero conquistati dagli Elamiti. siamo nel 1950 a.C. e scompare l’autonomia sumera. Risorgerà nel mito, nella cultura, nelle scienze, nel diritto grazie ad Hammurabi che segnò l’inizio della dinastia Babilonese e riscattò i sumeri dal giogo elamita.

  • Romani: l’espansione romana

    Dalla Monarchia alla repubblica
    Secondo la leggenda, Tarquinio il Superbo fu cacciato dalla rivolta del nobile Collatino, la cui moglie era stata oltraggiata da Sesto, figlio del re. In realtà le ragioni erano più profonde: Roma stava crescendo e il re non riusciva ad attendere a tutti gli impegni; il suo governo si era fatto dispotico e i patrizi avevano perso il loro potere politico. Tutto ciò fu motivo di ribellione. Il potere venne affidato a due consoli, Bruto e Collatino (509 a.C.).

    Le prime guerre repubblicane
    Le città latine, preoccupate del rafforzamento di Roma, la affrontarono federate nella Lega latina, nel 496 a.C. uscendo sconfitte. Nei 493 a.C. il console Spurio Cassio firmò con queste città il Foedus Cassianum, un’alleanza di tipo difensivo. Altre guerre furono combattute (fino al 430 a.C.) contro Volsci ed Equi; di Volsci ed Equi; di esse rimasero nella leggenda le gesta di Coriolano, che passò dalla parte dei Volsci ma poi si ritirò andando incontro alla morte, e di Cincinnato, che ritornò all’attività di agricoltore dopo aver sconfitto valorosamente i Volsci, senza pretendere alcun tributo di ringraziamento. Motivi economici spinsero Roma alla guerra contro la città etrusca di Veio che, dopo un lungo assedio, fu espugnata da Furio Camillo nel 396 a.C.

    L’ordinamento repubblicano
    Le maggiori cariche della Repubblica romana, delineatasi tra il V e il IV sec. a.C., erano di carattere elettivo, venivano rinnovate periodicamente, erano un servizio prestato gratuitamente ed erano collegiali, cioè vi erano almeno due magistrati per ogni carica. I due consoli, che restavano in carica un anno, comandavano l’esercito, convocavano il senato e i comizi, e giudicavano i reati più gravi. Parte dei compiti dei consoli venne in seguito affidata ai questori che si occupavano della finanza.
    Nei momenti di grande pericolo per lo stato, poteva essere nominato un dittatore che, in carica per sei mesi, sostituiva i consoli. Altri magistrati erano i pretori, in origine comandanti delle truppe fornite dalle tre tribù dei Ramnii, Tizii e Luceri e poi amministratori di funzioni giudiziarie, e i censori (dal 443 a.C.) che rimanevano in carica diciotto mesi, ogni cinque anni, con l’incarico di compilare le liste del censo e dei senatori, in seguito, di vigilare sulla condotta morale dei cittadini.
    Il senato era composto da coloro che avevano già esercitato una delle magistrature superiori. Aveva un potere di tipo consultivo ma di fatto divenne l’organo più importante in quanto doveva approvare le proposte di legge, controllare le finanze, deliberare sulla guerra e sulla pace, concedere la cittadinanza e l’autonomia a città e popolazioni e istituire le province.
    I comizi curiati e centuriati costituivano le assemblee popolari. I primi, già esistenti nell’età dei re, conservarono il solo compito di conferire la formale investitura sacrale ai magistrati. I secondi eleggevano consoli e magistrati, approvavano le proposte del senato ed esercitavano funzioni giudiziarie. La popolazione fu divisa in 193 centurie, ognuna portatrice di un voto; le prime 98 erano costituite dai cittadini più ricchi (anche plebei) che così avevano la maggioranza.

    Il contrasto tra patrizi e plebei
    Fin dai primi anni della Repubblica si diffuse il malcontento tra i plebei costretti al servizio militare senza ricevere il ricavato dei bottini, esclusi dall’accesso alle magistrature e dal matrimonio con i patrizi.
    La prima forma di protesta fu attuata nel 494 a.C. quando, ritiratisi sul Monte Sacro o, secondo un’altra tradizione sull’Aventino, decisero di non lavorare e di non combattere. Il patrizio Menenio Agrippa riuscì a convincerli a tornare, promettendo delle riforme in loro favore.
    I plebei ottennero così l’istituzione dei tribuni della plebe, che difendevano i loro interessi e avevano diritto di veto sulle decisioni dei magistrati e dell’assemblea, e dell’edilità, una magistratura in cui due rappresentanti plebei (edili), affiancando i tribuni, curavano gli interessi della plebe.
    Nel 451-450, alcuni patrizi, riuniti nel collegio dei decemviri, redassero un corpo scritto di leggi penali e civili, la Legge delle XII tavole, con cui i plebei ottenevano diritti pari ai patrizi. La lotta continuò e i plebei ottennero l’abolizione del divieto dei matrimoni misti (445 a.C.), l’accesso alla questura (421 a.C.), al consolato (leggi Licinie Sestie, 367 a.C.) e ai collegi sacerdotali (300a.C.), e il riconoscimento giuridico delle assemblee della plebe, dette comizi tributi (287 a.C., legge Ortensia) le cui deliberazioni (plebisciti) erano vincolanti per tutto il popolo.

    Dall’irruzione dei Galli all’espansione nella penisola
    Fin dal V sec. a.C. i Celti (chiamati Galli dai romani) avevano occupato la Pianura Padana ed erano scesi fino alle Marche e all’Umbria. Nel 390 a.C. alcune migliaia di uomini, guidati da Brenno, devastarono Chiusi e calarono sul Lazio, saccheggiando e incendiando anche Roma. Lo scacco subito dalla città spinse i vecchi nemici, alleati o sottomessi, a ribellarsi, ma Roma, in una serie di guerre svoltesi in circa 40 anni, riuscì a ristabilire il suo potere.

    Le guerre sannitiche
    Nel 343 a.C., in cambio della completa sottomissione, Roma intervenne in aiuto di Capua contro i Sanniti che, dopo il crollo etrusco, avevano occupato la Campania. Iniziò così un conflitto per il controllo dell’Italia centro-meridionale che durò oltre 50 anni. Tra il 343 e il 341 a.C. i Romani ottennero le prime vittorie.
    Un secondo conflitto, tra il 340 e il 338 a.C., oppose i Romani ai Sanniti affiancati dalla Lega latina. Al termine i Romani vittoriosi trasformarono le città laziali in municipi o città federate. Tra il 326 e il 304, Roma, nonostante lo scacco delle Forche Caudine (i militari denudati dovettero passare sotto un giogo di lance davanti ai nemici) ottenne altre vittorie.
    Con l’ultimo conflitto, tra il 298 e il 290, i Sanniti furono definitivamente sconfitti con i loro alleati Galli, Etruschi e Umbri. Roma, padrona dell’Italia centrale, mirò alla Magna Grecia.

    La guerra contro Pirro
    Quando Roma intervenne nelle questioni interne di Turi, incontrò l’opposizione di Taranto con cui aveva firmato un trattato di non interferenza nel 303 a.C. Di lì a poco scoppiò la guerra tra le due città (282 a.C.). Taranto chiese aiuto a Pirro, re dell’Epiro (regione della Grecia nord-occidentale), che nel 280 a.C. sbarcò in Italia con 30 000 uomini e 20 elefanti.
    I Romani furono inizialmente sconfitti. Quando Pirro intervenne in Sicilia a favore delle città greche contro i Cartaginesi, la guerra riprese e terminò con la vittoria romana (275 a.C.) a Maleventum (il nome fu allora mutato in Beneventum) e con l’alleanza tra le due forze (272 a.C.). Roma esercitava ormai il suo potere fino allo stretto di Messina, secondo ordinamenti diversi: i municipi avevano autonomia amministrativa ma dovevano fornire truppe e pagare un tributo, solo alcuni avevano i diritti politici; le città federate, liberamente alleatesi a Roma, avevano autonomia amministrativa, non pagavano tributi ma non avevano diritti politici e dovevano fornire le truppe; le colonie, fondate nei territori sottratti ai vinti, avevano diritti civili e politici se gli abitanti erano Romani, mentre avevano gli stessi diritti delle città federate, se gli abitanti erano Latini.

    Le Guerre puniche e l’espansione in Oriente
    Conquistata l’Italia meridionale, Roma si trovò a confronto con Cartagine, la città africana (nella posizione dell’odiema Tunisi) che dominava nel Mediterraneo occidentale possedendo parte della Sicilia e colonie in Sardegna, Corsica, Spagna e Baleari. A causa degli intralci reciproci nei traffici commerciali, a lungo andare, la convivenza di queste due grandi potenze, che erano state alleate, subi una rottura.
    Lunghi conflitti opposero allora Roma e Cartagine (le Guerre puniche) tra il III e il II sec. a. C., al termine dei quali Roma cominciò l’ascesa a massima potenza del Mediterraneo. La terza Guerra si concluse addirittura con la completa distruzione della città africana. Durante le Guerre puniche Roma estese il suo dominio anche sulla Sardegna, sulla Corsica, sulla Sicilia (la prima provincia romana), sulla Spagna, sulla Gallia Cisalpina e Transalpina oltre che sulla Grecia e sull’Asia Minore.

    La prima Guerra punica
    La città di Cartagine, fondata intorno all’814 a.C. dai Fenici, aveva acquisito il monopolio commerciale nel Mediterraneo imponendo che le navi commerciali potessero approdare solo a Cartagine e non nelle sue colonie. I primi rapporti tra le due città furono di tipo amichevole, nel 508 a.C. fu stipulato un trattato di navigazione e di commercio con cui entrambe le potenze si Cartagine impegnavano a limitare le espansioni l’una a danno dell’altra.
    Questo trattato fu rinnovato nel 348 e nel 306 a.C. definendo ancora più precisamente le rispettive zone di influenza. La rottura avvenne nel 264 a.C. quando i Mamertini di Messina chiesero l’intervento dei Romani per difendersi dai Cartaginesi. Roma inviò così un esercito, guidato dal console Appio Claudio, contro Cartagine e il suo alleato Gerone II di Cartagine Siracusa, che però dal 263 a.C. passò dalla parte dei Romani.
    Decisiva per l’esito della guerra fu la capacità dei Romani di fronteggiare l tradizionale superiorità navale di Cartagine. Nel 260, grazie all’uso dei corvi (ponti mobili che permettevano di agganciare le navi nemiche), la flotta romana comandata da Caio Duilio sconfisse quella cartaginese a Milazzo.
    Dopo il fallimento della spedizione in Africa di Attilio Regolo (256 a.C.), che fu fatto prigioniero e ucciso, i Romani al comando di Lutazio Catulo colsero la vittoria decisiva alle Egadi nel 241, costringendo i Cartaginesi a evacuare la Sicilia e a pagare una forte indennità di guerra. La Sicilia, tranne il territorio di Siracusa, divenne la prima provincia romana; nelle province che dovevano pagare un tributo, ogni tipo di potere e amministrazione era nelle mani dei Romani che vi inviavano ex consoli (proconsoli) o ex pretori (propretori). Nel 238, a pace conclusa, i Romani sottrassero ai Cartaginesi anche la Sardegna e la Corsica.

    La seconda Guerra punica
    Prima di iniziare un secondo conflitto con Cartagine, Roma conquistò la regione adriatica dell’Illiria (230-228 a.C.), riducendola a un piccolo principato e controllando così il canale d’Otranto. In seguito a un tentativo di incursione dei Galli, i Romani, affrontandoli, giunsero a occupare Mediolanum (Milano), affacciandosi sulla Pianura Padana (225 a.C.).
    Nel frattempo, espulsi dalle isole, i Cartaginesi si erano volti verso la Spagna, che fu conquistata tra il 237 e il 219 a.C. da Amilcare Barca e da suo figlio Annibale (al quale il padre aveva inculcato un profondo odio per i Romani). La decisione di Annibale di attaccare Sagunto, alleata di Roma, provocò nuovamente la guerra (218 a.C.).
    Prima che i Romani riuscissero a mandare un esercito in Spagna, Annibale invase l’Italia per via di terra, con una leggendaria traversata delle Alpi, cogliendo brillanti vittorie al Ticino (218), al Trasimeno (217) e soprattutto a Canne (216) ma senza riuscire a spaccare la confederazione romano-itailica. Nel frattempo un esercito romano comandato da Publio e Gneo Scipione impediva che dalla Spagna giungessero rinforzi ad Annibale pressato dalla tattica temporeggiatrice (di logoramento) di Quinto Fabio Massimo, eletto dittatore, ma presto rimpiazzato dai consoli Lucio Emilio Paolo e Terenzio Varrone che nel 216 ripresero il combattimento in campo aperto.
    Nello scontro di Canne, in Puglia, 30.000 dei 50.000 soldati romani rimasero uccisi; Annibale rimandò però la marcia verso Roma, che in breve tempo riuscì a riprendersi. Un esercito inviato in Sicilia espugnò Siracusa e la rese tributaria di Roma (211); un altro in Macedonia combatté contro Filippo V (prima Guerra macedonica) a scopo puramente difensivo (Pace di Fenice, 205 a.C.). Quando Asdrubale, fratello di Annibale, riuscì a portare in Italia un esercito dalla Spagna, fu sconfitto e ucciso al Metauro (207).
    Nel 206 Publio Cornelio Scipione (che sarà chiamato Scipione l’Africano dopo la vittoria), subentrato al comando dell’esercito romano in Spagna, colse una vittoria decisiva a Ilipa e invase l’Africa, costringendo Annibale ad abbandonare l’Italia. La vittoria di Scipione a Zama, nel 202, e costrinse Cartagine alla resa, all’abbandono di tutti i possedimenti europei e della Numidia (che divenne indipendente sotto Massinissa alleato di Roma), e al pagamento di una forte indennità di guerra.

    Dall’espansione in Oriente alla terza Guerra punica
    Dopo la vittoria su Cartagine, Roma intervenne nuovamente in Macedonia, su richiesta di Atene che chiedeva aiuto contro Filippo V. Nel 200 a.C. iniziò così la seconda Guerra macedonica. Nel 197 a.C. i Romani guidati da Tito Quinzio Flaminio sconfissero Filippo a Cinocefale, costringendolo a consegnare la flotta, a pagare un’indennità di guerra e a riconoscere la libertà alle città greche: al protettorato macedone si sostituì quindi quello romano.
    Poichè il re di Siria Antioco III si rifiutò di ritirare le sue truppe dalla Grecia liberata dai Romani, nel 191 a.C. Roma lo attaccò, sconfiggendolo alle Termopili. L’anno seguente Lucio Cornelio Scipione sbarcò in Asia e sconfisse le truppe siriache a Magnesia.
    Un nuovo conflitto con la Macedonia si delineò nel 171 a.C. quando salì al trono Persco, figlio di Filippo V, profondamente ostile ai Romani. Dopo tre anni Lucio Emilio Paolo sconfisse l’esercito macedone a Pidna, la Macedonia fu divisa in 4 repubbliche che divennero alleate di Roma. Due rivolte seguirono alla vittoria romana, quella di Andrisco in Macedonia (149 a.C.) sedata solo nel 146 a.C. da Cecilio Metello, e quella della Lega achea, sedata anch’essa nel 146 dal console Lucio Mummio. Nel frattempo, molti a Roma, tra cui il senatore Marco Porcio Catone, sostenevano la necessità di abbattere definitivamente Cartagine.
    Quando Cartagine decise la guerra contro Massinissa, re dei Numidi, a causa dei suoi continui soprusi, Roma a sua volta dichiarò guerra a Cartagine (149 a.C). I Cartaginesi si arresero, ma quando seppero che tra le condizioni di pace vi era la distruzione della città, vi si asserragliarono e resistettero valorosamente fno al 146, quando Scipione Emiliano espugnò la città e la rase al suolo, trasformando il suo territorio nella provincia d’Africa. Nel 133 a.C., dopo una lunga guerriglia, Scipione Emiliano sedò in Spagna la rivolta di Numanzia, iniziando la romanizzazione del territorio spagnolo. Nel frattempo Roma sottomise anche la Gallia meridionale, dalle Alpi ai Pirenei, facendone una provincia, la Gallia Narbonensis.
    Con queste vittorie Roma aveva così messo in evidenza la sua potenza e la sua solidità.

    La crisi della Repubblica
    Profondi cambiamenti avvennero in Roma dopo le guerre puniche e la conquista della Grecia e dell’Oriente. La diffusione della cultura ellenistica (molti artisti greci si stabilirono a Roma mentre i ricchi romani trascorrevano sempre più tempo in Grecia e in Oriente) mandò in crisi i valori della moralità romana. I ricchi senatori cominciarono a impossessarsi delle terre dello Stato reclamate anche dalla classe equestre; le classi medie, soprattutto i piccoli agricoltori che costituivano il nerbo dell’esercito, si andarono impoverendo sempre più. Tiberio e Caio Gracco si fecero promotori di una riforma agraria, ma il loro tentativo fallì, finendo addirittura nel sangue.
    Dopo un decennio di pace, garantito dai senatori oligarchici, iniziò un periodo molto difficile, percorso da rivalità accese tra i diversi partiti politici. Si combatté la prima guerra civile, tra ottimati guidati da Silla e popolari guidati da Mario. Silla ebbe la meglio ma, dopo aver restaurato il potere dei patrizi ed esautorato i tribuni della plebe, si ritirò a vita privata e morì poco dopo. Le rivalità non erano però terminate e Roma era ormai alle soglie della seconda guerra civile.

  • Persiani: attività, sviluppo e religione

    Attività del popolo persiano

    Il popolo persiano ha sviluppato numerose e differenti attività. Abile nella lavorazione della pietra, dei vasi e della ceramica, era conosciuto anche per la lavorazione dell’oro e dei preziosi. Dal punto di vista archeologico risulta interessante il Tesoro di Saqquiz , di epoca scita, ricco di sculture bronzee, riproducenti fedelmente la realtà e le espressioni della vita quotidiana.

    In particolare si sviluppò l’arte sasanide che era caratterizzata dal dinamismo e dal realismo delle figure rappresentate.

    Dal punto di vista urbanistico, realizzarono templi caratteristici. Le case erano costituite da un cortile interno, secondo il modello ” ivan “, diffuso nel mondo, in particolare nel periodo sasanide.

    Le città persiane (Ectabana, Persepoli, Pasargade, Ctesifonte ed Ecatompilo) erano ricche e caratterizzate da imponenti costruzioni e palazzi. Assieme ai Fenici ed agli Egiziani hanno attivato il canale di Suez.

    Per la conformazione geografica e la posizione del loro territorio, erano ottimi mercanti. Hanno sviluppato un buon sistema viario e fondato il sistema delle carovane e delle stazioni di servizio e di cambio. Per la navigazione si servivano prevalentemente dei Fenici, anche se compirono grandi imprese marittime, quali l’aver coperto la rotta dall’India al Mar Rosso in poco tempo.

    Dal punto di vista bellico non erano molto organizzati strategicamente, perché gli eserciti erano strutturati secondo i paesi di provenienza, ma utilizzavano correttamente il carro da guerra e la cavalleria. Tale carenza organizzativa fu sfruttata in pieno da Alessandro Magno, nella disfatta dell’Impero Achemenide.

    Dal punto di vista legislativo seppero erigere un valido sistema ed una buona organizzazione. Nel campo della sovranità seppero amministrare con lungimiranza, rispettando gli usi e le tradizioni dei popoli sottomessi. In questo modo seppero sviluppare una splendida arte ed una buona letteratura.

    Sviluppo

    Dal 700 a.C. al 651 d.C. i persiani furono i proprietari di un estesissimo impero, approfittando all’inizio della debolezza mesopotamica e poi contendendo il potere prima con Roma e successivamente con Bisanzio. Il loro ricchissimo regno andava dall’Egitto, dalla Nubia e dall’Etiopia, all’inizio dell’India, dalla Tracia, Grecia orientale e dall’Asia Minore, all’attuale Afganistan, dal Caucaso al Mar Caspio.

    Religione

    Nel corso dei 3 millenni di regno in territorio persiano si svilupparono numerose religioni quasi tutte a carattere monoteista.

    Durante la sovranità achemenide si mostrarono tolleranti verso l’ebraismo, in quanto era una religione monoteista, che in un certo senso si ricollegava alla loro.

    Successivamente questa venne perseguitata assieme al cristianesimo, in quanto era vista come un potenziale avversario delle religioni di stato.

    Anche il cristianesimo subì delle modificazioni in Iran. Nacquero il nestorismo, secondo la quale Cristo aveva sia la natura divina che quella umana, ed il monofismo, imperniato su una sola natura. Inoltre venne indetto un concilio cristiano a Seleucia, in cui si fondò la Chiesa Iranica che prese le distanze da quella di Costantinopoli.

    Nel corso dei secoli si svilupparono le seguenti religioni principali:
    Mazdeismo
    Zoroastrismo
    Manicheismo

    Mazdeismo
    Questa religione è stata quella a lungo più venerata nell’impero persiano. Essa nacque nel periodo achemenide ed era legata anche al potere che la classe sacerdotale gestiva nella struttura sociale.

    Il grande dio era Ahuramazdah, creatore di tutto. E’ lui che guida gli atti del re, a cui ha dato direttamente il potere. Tuttavia bisogna precisare che la Persia degli achemenidi non era uno stato fondato sulla religione, cioè integralista, come avverrà per i califfi arabi che regneranno al posto dei persiani.

    Vi sono altre divinità: Mitra (sole) che verrà venerato anche dai romani; Mah (luna), Zam (terra), Atar (fuoco), Apam Napat (acqua), Vayu (vento). Questo modello religioso si sviluppa con Dario a cui il potere è conferito da dio stesso. Si tratta di divinità legate alla natura ed alle esigenze primarie degli iranici.

    Con Antaserse II assistiamo alla presenza di questa trinità: Ahuramazdah, Mitra, dio del sole, dei contratti (legato al commercio) e della redenzione, Anahita, dea delle acque, della fecondità e della procreazione.

    I Persiani veneravano le loro divinità con sacrifici di sangue, secondo l’influenza indo-iranica. Tra i sacerdoti ricordiamo la classe particolare dei magi, di origine meda, che era l’espressione di una religiosità di tipo sciita, la quale svolgeva un’attività a parte rispetto agli altri sacerdoti e deteneva un fortissimo potere presso la corte. Rappresentavano una comunità isolata che praticava il matrimonio tra consanguinei e non usavano l’inumazione dei cadaveri, come avveniva tra i Persiani, ma li esponevano all’aria per essere escarnificati.

    Essi credevano nel BENE e nel MALE. Essi preparavano l’haoma, una pozione inebriante impiegata durante i riti religiosi. Dal commercio di tale bevanda traevano numerosi proventi economici. Inoltre i magi custodivano le tombe reali, educavano la gioventù maschile, interpretavano i sogni, celebravano i sacrifici, prendevano parte all’incoronazione reale presso Pasagarde. Si osservi come molte pratiche dei magi saranno simili a quelle celtiche. Ciò è dovuto alla comune origine della religione nel popolo scita.

    I Persiani non avevano numerosi templi, ne ricordiamo tre: a Pasargade, realizzato da Ciro, a Susa, costruito da Antaserse II ed a Naqs-i Rustam, eretto da Dario. La maggior parte delle cerimonie religiose veniva praticata all’aria aperta, su altari poste in campagna.

    Alcuni imperatori achemenidi eressero alcune statue alle divinità, come è avvenuto ad Ectabana o presso Babilonia per la dea Anahita.

    Non si tratta di una religione monoteista, ma è indubbio che il ruolo principale è svolto da Ahuramazdah.

    Nel periodo partico il culto della dea Anahita, conosciuta anche come Artemide, occupò un ruolo principale. Sorsero numerosi templi in tutto l’impero dedicati a questa divinità: Arsak, Ectabana, Kengavar, Susa, Istahr, Siz. In questo periodo ebbero un forte sviluppo anche i magi, che gestirono un potere in tutto l’impero.

    Il dio Mitra conobbe una rapida diffusione nell’impero romano nel periodo di dominazione di Pompeo in oriente. Egli, infatti, riportò numerosi prigionieri a Roma che trasmisero la propria religione.

    Zoroastrismo
    Il profeta Zoroastro o Zarathustra, originario della Media, riformò il Mazdeismo. Egli andò via dal suo paese e si rifugiò in Iran Orientale ove trovò numerosi proseliti, tra cui viene annoverato il principe Histape, padre di Dario. La popolazione locale era continuamente esposta al pericolo delle invasioni delle popolazioni nomadi, per cui era ben disposta ad accettare una nuova religione basata sulla redenzione.

    La morale zoroastriana si basa sulla triade “buon pensiero, buone parole, buone opere”.

    Secondo Zoroastro il mondo era retto da due principi: il BENE ed il MALE. Il primo si identifica in Ahuramazdah, aiutato da altre divinità ispirate alle forze della natura, il secondo nello spirito malefico Ahriman. I due spiriti hanno ingaggiato una lotta, interpretata come la lotta tra il pensiero e l’intelligenza, terminata con la vittoria dello spirito buono.

    Siamo di fronte ad un “monoteismo imperfetto”, in quanto è presente solo il bene. Anche l’umanità partecipa a questa lotta, in quanto è divisa tra uomini retti e pii e uomini cattivi ed atei, che seguono due divinità diverse.

    Dopo la morte, ognuno verrà giudicato: i buoni andranno in paradiso, i cattivi subiranno una lunga pena. Vi sarà poi un giudizio universale, secondo il quale tutti subiranno la prova del fuoco.

    L’uomo deve evitare e combattere l’eretico, deve essere buono con gli animali, curarli e trattarli bene. Un buon principe combatte per la religione, difende il popolo, nutre il povero, protegge il debole. E’ considerato cattivo chi è un pessimo giudice, l’uomo che abbandona il campo e colui che opprime gli altri.

    I sacrifici di sangue sono vietati, perché gli animali sono venerati. La bevanda inebriante haoma è anche essa vietata. I morti non possono essere né sepolti, né bruciati, né immersi per non sporcare i tre elementi sacri che sono la terra, l’acqua ed il fuoco. I cadaveri vengono esposti sulle montagne o su torri innalzate a questo scopo: le ossa scarnificate si devono poi racchiudere in ossari che vengono deposti in tombe in muratura o scavate nella roccia.

    Questa religione ha molti punti in comune con il buddhismo, nato in India nello stesso periodo. Entrambi i movimenti nascono dalla protesta contro le pratiche crudeli ed i riti sanguinari delle antiche religioni ariane. Il primo era frutto della classe aristocratica, il secondo era un’espressione del popolo. Per questo motivo il buddhismo si è diffuso molto di più dello zoroastrismo.

    Tuttavia quest’ultima religione venne venerata presso le corti imperiali persiane e speso difesa come religione di stato.

    Manicheismo
    All’inizio della dominazione sasanide, nella regione del Fars erano venerate le divinità Ahuramazdah e Anahita. Il re Sapur I si pose l’obiettivo di creare una religione di stato che potesse esprime il neonazionalismo iranico. Trovò la risposta nel manicheismo che suscitò l’avversione della classe sacerdotale mazdaica e venne distrutto con la scomparsa dell’imperatore.

    Mani, uomo nobile, si professava inviato da dio, al pari di Zaratustra, Gesù e Buddha. Egli si ispirava alle tradizioni iranica, babilonese, buddhista e cristiana.

    Secondo la sua religione, il mondo è formato dalla lotta tra il BENE ed il MALE, luce e tenebre. Nell’uomo l’anima ed il corpo rappresentano rispettivamente la luce ed il corpo: la morale manichea si sviluppa attorno alla liberazione dell’anima dal corpo.

    Quando tutta la luce e tutte le anime tenute prigioniere saranno liberate e saliranno al sole, il cielo e la terra (la materia) crolleranno e si separeranno, mentre il regno della luce durerà in eterno.

    I fedeli si dividono tra eletti ed uditori. I primi si identificano nel clero che è tenuto al celibato, devono astenersi dalla carne ed evitare la cupidigia e la menzogna. I secondi hanno diritto di sposarsi, possono lavorare, devono conservarsi puri e non aspirare alla ricchezza.

    Non sono ammessi sacrifici cruenti né immagini divine, ma preghiere e digiuni. I manichei praticano il battesimo, la comunione e ricevono l’assoluzione prima della morte.

    Il manicheismo subì l’influenza gnostica, in quanto dimostrò un’avversione per l’ebraismo, considerata la religione delle tenebre. Gli inni, di ispirazione babilonese, sono enunciati da Zoroastro; dal cristianesimo vengono presi il dogma della trinità ed alcune parti del Vangelo; i nomi degli angeli erano siriani.

    Sapur I vede la debolezza delle religioni tradizionali iraniche e cerca di contrapporre all’ascesa del cristianesimo e del buddhismo, che nel regno Kusana era divenuta religione di stato, questo nuovo culto, sperando di farlo divenire religione di stato.

    Il mazdeismo si trovò minacciato all’interno, nonché stretto all’esterno dalle altre religioni monoteiste. Alla morte di Sapur I, si diffusero violente persecuzioni contro tutte le religioni, in particolare contro il manicheismo. Mani venne sottoposto a giudizio e condannato al supplizio. I suoi fedeli lasciarono l’Iran e si recarono in Asia centrale, la Siria e l’Egitto, dove diffusero la propria religione. Essa conobbe un discreto successo in Cina (dove si diffuse anche il cristianesimo nestroriano), Mongolia e Nord Africa, dove venne combattuto da S. Agostino. Da qui il manicheismo si diffuse nel sud della Francia, dando vita alla seta purista dei Catari, che nel 1200 venne combattuta aspramente dai cattolici che ne massacrarono tutti i proseliti.

    Con l’imperatore Narsete il manichiesmo conobbe un nuovo periodo di successo, in quanto fu posto in contrapposizione con il cristianesimo che si stava diffondendo in Mesopotamia, finchè lo zoroastrismo non lo annientò definitivamente in Iran, divenendo religione di stato.

    Bibliografia
    “La civiltà persiana antica”, Roman Ghirshman, Einaudi 1972

  • Persiani: gli Achemenidi

    Questo nome trae la sua origine dal primo re persiano Achemene che fondò il principato nel 700 a.C.. Da questi successero Ciro I, Cambise I, che rafforzarono il regno. Seguirono poi questi sovrani, di cui si riportano i caratteri salienti:

    Ciro II (detto il Grande) (559-530 a.C.) – in breve tempo conquistò la Media al nonno Astyage, l’Assiria, la Lidia e tutta l’Asia Minore. Senza combattere, ma con un’abile politica di propaganda, sottomise Babilonia, approfittando della particolare strategia politica del sovrano babilonese Nabonedo, che al culto del dio Marduk sostituì quello assiro. Ciro si proclamò figlio di Marduk, fece cacciare il sovrano mesopotamico e venne accolto come salvatore. Emise anche un editto che consentiva agli ebrei di fare ritorno alla loro patria e di porre fine alla cattività babilonese. In questo modo il sovrano controllò anche l’area fenicio-palestinese. Conquistò anche alcune regioni orientali, estendendo i confini del suo regno, che venne mantenuto integro attraverso una politica avveduta, che consisteva nel conferire libertà ai popoli sottomessi e nel rispetto dei loro costumi. Fece spostare la capitale da Pasargade a Persepoli, abbellendola e arricchendola in modo particolare. Divenne città di arte e di giusta amministrazione.

    Cambise II (530-522 a.C.) – conquistò l’Egitto e progettò tre spedizioni militari di conquista: Etiopia, Cirenaica e Cartagine. Solo la prima andò in porto, mentre per le altre due ci furono rispettivamente una disfatta dell’esercito persiano colpito da una tempesta nel deserto ed un ammutinamento dei fenici che non volevano marciare contro i fratelli punici. Sembra che il sovrano fosse malato di epilessia e della cosa approfittarono alcuni aristocratici per spodestarlo e prendere il potere. Tra questi ricordiamo Gaumata, un magio, cioè un sacerdote, che si spacciò per suo fratello. Tra tutti i congiurati emerse la figura del nobile Dario che prese il potere ed uccise Gaumata.

    Dario I (522-486 a.C.) – fu l’espressione della continuazione della politica di Ciro il Grande. Rappresentò la nuova forza vitale per la famiglia imperiale. Era un giovane ufficiale dei Diecimila Immortali , che costituiva il corpo di guardia di reale di Cambise II ed era sostenuto dal potente esercito persiano. Impiegò due anni per sedare tutte le rivolte scoppiate nel regno sotto il suo predecessore. Il suo regno arrivò ad oriente fino all’Hindukush e ad occidente fino l’Egitto. Sotto il suo regno venne ricostruito il tempio di Gerusalemme (515 a.C.) e nacque il primo stato teocratico: venne istituita la figura del sommo sacerdote per controllare meglio la comunità ebraica. La politica libertaria di Ciro II aveva segnato un fallimento considerati i tumulti scoppiati nell’impero alla morte del sovrano. Dario appose dei correttivi alla politica del predecessore, centralizzando il potere: istituì le satrapie, gestite da un sovrano locale (satrapo) nominato direttamente dall’imperatore al quale doveva rendere conto del suo operato. Questi veniva controllato da un segretario e da ispettori reali, denominati “le orecchie del re”, che giungevano improvvisamente a verificare la situazione amministrativa locale. Quest’ultima figura verrà ripresa moltissimo da Carlo Magno. Sembra accertato che già sotto Ciro e Cambise vennero nominate alcune satrapie. Accanto al satrapo vi erano altre due figure che rispondevano direttamente all’imperatore del loro operato: il generale delle truppe ed il funzionario addetto alla riscossione delle imposte (abbastanza elevate da cui erano esentati solo gli iranici). Per gestire al meglio il controllo delle satrapie venne realizzato un imponente e funzionale sistema viario. Nella sua politica espansionistica Dario arrivò fino alla foce dell’Indo ad oriente, mentre ad occidente riaprì il canale di Suez, fatto erigere precedentemente dal faraone Necho, con 700.000 uomini invase la Tracia, per combattere gli Sciti, e sottomise Bisanzio ed anche la Macedonia, stabilendo un valido caposaldo oltre lo Stretto dei Dardanelli. Con l’oro cercò di controllare il potere su Sparta ed Atene, ma ottenne un effetto di coesione delle polis greche. Nel 498 a.C. vinse a Salamina ed a Marsia, soggiogando Cipro e le città greche dell’Asia Minore. In particolare gli abitanti di Mileto furono deportati alla foce del Tigri. Nel 490 a.C. gli ateniesi riportarono una strepitosa vittoria a Maratona, ma Dario non potè vendicarsi, in quanto prima sedò una rivolta in Egitto e poi fu colto dalla morte. Sotto questo imperatore il regno conobbe un florido periodo artistico ed economico. In tutto l’impero veniva parlata una lingua unica: il semita. Questo dimostra che i persiani non imposero i loro usi ai sudditi.

    Serse (486-465 a.C.) – fu vice re di Babilonia. Amante degli sfarzi di corte, porta avanti la lotta con la Grecia. Facendo attraversare lo Stretto dei Dardanelli dal suo esercito su un ponte, conquista la Tessaglia, la Macedonia e presso le Termopili riporta una vittoria: Atene, incendiata e saccheggiata, e l’Attica sono sottomesse. Nel 480 a.C. Serse viene sconfitto presso Salamina. Il re lascia il fronte nelle mani del generale Mardonio che continua nelle devastazioni, ma a Platea viene sbaragliato per un errore tattico dello stesso generale che si getta nella mischia e viene ucciso. La debolezza politica di Serse fa in modo che tutta la Grecia riconquista l’indipendenza: i Persiani vengono ricacciati indietro. Scoppiarono tumulti in Egitto ed a Babilonia, sedati con la violenza. L’esercito persiano, seppure numeroso, era organizzato male: i soldati venivano schierati in base al paese di origine, per cui si ingenerava disorganizzazione e confusione. Lo stesso generale combatteva tra i soldati esponendosi ad alti rischi. La città di Persepoli conobbe fasti e splendori.

    Antaserse I (465-424 a.C.) – continua nella repressione come aveva fatto il padre, ma perde influenza in Grecia ed in oriente. Non comanda mai l’esercito ed è molto legato all’ambiente di corte, circondato da eunuchi. Si mostra benevolo con gli ebrei, rispettati perché credenti in una religione monoteista, legata quasi al modello iranico pseudo-monoteista.

    Dario II (424-405 a.C.) – cercò con l’oro di riprendere l’influenza in Grecia, corrompendo i governi di Sparta ed Atene. Scoppiano diversi tumulti che lasciano il paese nel disordine. In particolare l’Egitto esce dal giogo persiano ed entra sotto il controllo greco, desideroso di impossessarsi delle sue riserve di grano. L’Asia Minore esce dal controllo achemenide. Il re non combatte mai di persona.

    Antaserse II (405-359 a.C.) – continua nella politica di corruzione nei confronti della Grecia. Sotto il suo regno 10.000 mercenari greci fanno ritorno in patria senza che il sovrano intervenga: la corte persiana continua a mostrare debolezza. Con l’oro conquista tutta la Grecia, ma scoppiano rivolte in varie satrapie, che portano all’indipendenza metà dell’impero. Il pericolo cessa con il ripensamento degli stessi satrapi, perdonati poi dal sovrano che mostra ancora la propria debolezza.

    Antaserse III (359-338 a.C.) – rapidamente riprende tutto l’impero, dando esempi di devastazioni a Sidone ed in Egitto. Intanto la Grecia si unisce in una lega sotto Filippo, re di Macedonia, che prepara l’invasione della Persia, ma viene avvelenato, forse per mano dello stesso re achemenide. Quest’ultimo cade anch’egli avvelenato segnando la fine dell’impero.

    Dario III (338-331 a.C.) – è il testimone dell’ascesa di Alessandro Magno e del mondo occidentale su quello orientale. Questi, dopo aver distrutto ed annientato Tebe, ottiene il controllo della Grecia, che però, tramite la lega di Corinto, non lo sostiene molto nella sua grande spedizione: gli vengono forniti 7.000 uomini e poche navi, che verranno impiegate pochissimo. Inizia l’invasione che non viene presa sul serio dal re achemenide. Dopo la città di Troia, tutte le altre città ioniche vengono conquistate. A Granicoi macedoni ottengono la prima vittoria sui persiani, massacrando i mercenari greci fatti prigionieri. Molte città della costa si alleano ad Alessandro, ma Alicarnasso oppone resistenza e viene distrutta. L’Asia Minore è sotto il controllo macedone e viene riorganizzata secondo il modello delle satrapie.

    Il condottiero greco presso Isso ottiene una nuova vittoria e la strada verso l’area siro-palestinese è aperta. Rapidamente la Siria è sottomessa e viene fatta prigioniera la famiglia reale. In Fenicia solo Tiro si oppone con una strenue resistenza durata 7 mesi, che alla fine la vede distrutta attraverso un abile stratagemma usato dallo stratega: la città di Tiro è un’isola, la sua forza è il mare; i macedoni costruiscono dei ponti che la rendono attaccabile via terra, eliminando la difesa del mare.
    Successivamente sarà la volta di Gaza che dopo due mesi capitola ed apre la strada verso l’Egitto, di cui Alessandro ne rimane invaghito. Qui viene accolto come un trionfatore, in quanto la popolazione si ricordava le repressioni persiane. Il macedone non insegue direttamente il re persiano, ma preferisce assicurarsi le spalle ed il controllo sul mare. Rifiuta costantemente le tre proposte di resa fatte da Dario III ed impedisce alla diplomazia della lega di Corinto di trattare la pace. Attraversa il Tigri e l’Eufrate e muore la moglie di Dario, prigioniera di Alessandro, a cui viene data sepoltura reale. Il re persiano offre al generale sua figlia in sposa e metà del regno, ma avviene un nuovo rifiuto. Presso Gaugamela (Pascolo dei cammelli), vicino Arbela, in Assiria avviene lo scontro finale dei due eserciti.
    La disorganizzazione dell’esercito persiano viene sconfitta dall’efficienza macedone. Il re fugge ad Ectabana e virtualmente Alessandro ha vinto. Viene accolto in modo trionfante a Babilonia, di cui rimane affascinato, a Susa. Sarà poi la volta di Persepoli dopo aver annientato una resistenza di un satrapo. Ovunque mantiene la struttura amministrativa preesistente, alleggerendo la pressione fiscale, affiancando un controllo militare macedone. In questo periodo Persepoli è distrutta dalle fiamme, sembra accidentalmente o per vendicare la precedente distruzione di Atene da parte di Serse. Si proclama re achemenide, nonché figlio di Zeus, ed introduce usanze orientali presso il suo seguito (uso della porpora achemenide, venerazione di divinità ultra-greche e della sua persona, inchino o proskynesisnei suoi confronti), suscitando il malumore dei suoi soldati, che viene comunque vinto dal suo carisma. Alessandrosi dirige in Bactriana, ove Dario era tenuto prigioniero dal satrapo locale, che lo uccide. Questi viene seppellito con tutti gli onori dal macedone che offre omaggio anche alla tomba di Ciro il Grande di Dario I. La sua egemonia si spinge in oriente, ove edifica numerose città che portano il suo nome, per controllare il territorio (Alessandria del Caucaso, Alessandria nella Dragiana, in Archosia). Nel 327 a.C. attraversa l’Hindukush e invade l’India, affrontando numerose battaglie, specialmente contro i Sogdiani, finché i suoi soldati ormai stanchi della guerra lo invitano a ritornare indietro. Una parte dell’esercito fa ritorno con l’ammiraglio Nearco che, attraverso l’Indo, giunge nel golfo Persico. Il resto dei suoi uomini è diviso in due gruppi: uno segue la costa, l’altro passa all’interno e subisce decimazioni. Nel 324 a.C. è a Susa. Nel 323 a.C. muore ad Ectabana Efestione, il suo amante. Nello stesso anno, avvolto da immenso dolore, il grande generale macedone muore a Babilonia. In quell’anno stava progettando la conquista di Cartagine. I suoi sudditi non si sentono dominati da uno straniero, ma mantengono la loro indipendenza. Alessandro aveva capito che il territorio era troppo vasto e gli uomini a sua disposizione erano pochi. Aveva inserito macedoni nei punti chiave dal punto di vista politico ed amministrativo. Aveva favorito la fusione tra greci ed orientali, rispettando forse anche troppo i loro usi. Questo gli provocò 4 congiure nei suoi confronti: Dragiana (330 a.C.), Marakanda (Samarcanda 328 a.C.), Bactriana (327 a.C.), Opis (324 a.C.). Era riuscito ad unificare oriente ed occidente, secondo il disegno degli achemenidi.

    Società, Amministrazione ed Attività

    La struttura societaria persiana è stata caratterizzata dalla presenza di nobili, di aristocratici, di sacerdoti e di schiavi.

    I primi trovavano la loro ricchezza principalmente nelle numerose proprietà terriere di cui disponevano. Infatti, è possibile ritenere che presso i persiani nacque una struttura che verrà ripresa successivamente dal mondo occidentale in epoca medioevale, secondo lo schema dei vassalli e dei signori.

    Sarà su questa struttura che gli imperatori più illuminati adotteranno una politica di controllo, prelevando una serie interminabile di tasse, avvalendosi di funzionari reali, ottenendo immense ricchezze che faranno dell’impero persiano uno dei più ricchi del mondo.

    Nel periodo achemenide vengono fondate le satrapie. Si tratta di regioni (ve ne erano 17), il cui controllo era affidato ad un incaricato dell’imperatore al quale doveva rispondere. Inoltre, attraverso dei legati ed un ottimo sistema viario, il sovrano stesso controllava l’attività amministrativa e giudiziaria di ciascuna satrapia.

    Questo tipo di organizzazione, tuttavia, conferiva alla periferia un ampio potere e spesso si assisteva a rivolte contro il potere centrale. Grazie a questo modello il concetto di stato si diffuse in tutto il mondo.

    Presso ciascuna corte nobiliare vi erano anche i sacerdoti, che detenevano un forte potere, se consideriamo la grandezza e la diffusione dei templi in tutto l’impero. In alcuni casi la classe sacerdotale poteva gestire anche il potere giudiziario, da cui ne derivava un continuo processo di clientelismo. Inoltre curava l’educazione dei giovani principi e futuri imperatori.

    Tale classe è stata testimone di una continua lotta tra le affermazioni delle diverse religioni praticate nell’impero (mazdekismo, manicheismo, zoroastrismo), ognuna delle quali coinvolgeva una specifica classe sociale (poveri, uomini liberi, aristocratici).

    Nell’impero vi era una presenza diffusa di schiavi, testimone del fatto che il tenore di vita era ricco e che i persiani effettuavano diverse guerre di conquista.

    Accanto a questa classe sociale vi erano numerosi poveri, lavoratori della terra, la cui vita era legata al grande proprietario terriero, che erano i primi ad essere impiegati nelle diverse guerre nei reparti di fanteria. La loro situazione sociale era disperata, infatti presso di loro si diffuse rapidamente la filosofia mazdkea (prototipo di quella marxista) che sosteneva l’eguaglianza sociale e la divisione delle ricchezze tra tutti.

    Nell’impero vi erano anche molti uomini liberi, commercianti, artisti, piccoli imprenditori che circolavano liberamente e dovevano pagare delle tasse.

    Nell’esercito, come in tutte le cose, il ruolo più prestigioso veniva svolto dai nobili, anche se spesso vi erano anche dei mercenari.

    Infine, la condizione della donna non era molto emancipata, anche se, in alcuni casi, delle donne hanno gestito il potere. Comunque, si trattava di una società tendenzialmente matriarcale, considerato che l’uomo svolgeva un’attività sedentaria e stanziale ed aveva così perso la sua importanza, non procacciando più il cibo attraverso la caccia.

  • Ittiti: lo sviluppo

    Sviluppo

    Intorno al 1750 a.C., come detto all’inizio, il re Anittas aveva fondato un piccolo regno con capitale Nesa. Disponeva di un esercito esiguo: 1400 cavalieri e 40 carri da guerra.

    Nel 1670 a.C. circa, cioè dopo un secolo di cui si sa pochissimo di questo popolo, il re Tabarnas fonda il vero regno ittita, spostando la capitale ad Hattusas, estendendo l’area di influenza politica ed insediando sui principati conquistati propri uomini fidati.

    Tutti i suoi successori adottarono il nome di Tabarnas accanto al loro, quando venivano incoronati. Nel 1650 a.C. sale al trono Hattusilis (Tabarna Hattusilis I), nativo di Hattusas. Questi non solo rafforza il suo regno nell’Anatolia, ma, attraversando il Tauro, si spinge in Siria, fino al fiume Oronte, ove secoli dopo affronteranno gli egiziani. Torna in patria carico di bottini, ma deve sedare una rivolta. Ritorna di nuovo in Siria e conquista Hassu, portando a casa anche le divinità locali. Gli ittiti si erano spinti oltre l’Eufrate a 1000 km da casa ed avevano riscattato l’onta che re Sargon di Accad aveva arrecato loro settecento anni prima, spingendosi in Anatolia. Di nuovo è costretto a tornare in patria per una congiura ai suoi danni, ma vi torna malato e morente.

    Il giovane Mursilis diventa re e viene educato dall’assemblea dei nobili. Governa con grande lungimiranza. Conquista Aleppo e tutta la Siria settentrionale. Inoltre compie una grandissima impresa (1595 a.C.): sconfigge gli hurriti e si spinge fino a Babilonia, più di 1850 km da casa, e la saccheggia, rovesciando la dinastia di Hammurabi. Al ritorno, muore, vittima di una congiura ed il suo posto è preso da Hantilis I, il quale si rivela incapace di regnare.

    Si susseguono una serie di assassini fino al 1525 a.C., quando sale al potere Telipinus, il cui nome richiama il dio della tempesta. Questi stabilisce un diritto di successione regale, basato sul principio della monarchia ereditaria, dà al suo popolo una costituzione ed un codice civile da impiegare nel campo giuridico, firmò con la Cilicia un accordo di pace, a testimonianza di un arretramento territoriale del suo paese. Dopo la morte di questo re, scoppia il caos. Il regno ittita è invaso dai kaska dal Caucaso e dagli hyksos a sud-est, i quali distruggono Hattusas.

    Verso il 1500 a.C.Suppiluliumas è re degli ittiti. Tramite una politica di alleanze, rafforzate da matrimoni con membri della sua numerosa famiglia, stringe accordi con altri re anatolici e sconfigge i kaska. Si spinge nel territorio dei mitanni, vincendo a Kadesh ed assediando Carchemish, città che diventerà celebre perché vedrà la vittoria di Nabucodonosor contro le truppe siro-egiziane. In questo periodo si colloca l’episodio già citato relativo alla corrispondenza epistolare tra il re ittita e la regina d’Egitto. Carchemish cade sotto il controllo ittita.

    A differenza del passato Suppiluliumas stabilisce in Siria delle roccaforti e fonda dei protettorati con a capo uomini fidati. Nei riguardi dei vinti adotta una politica di grande tolleranza e rispetto, anche se esegue delle deportazioni in alcuni luoghi strategicamente importanti. Scoppia un’epidemia che uccide anche il re.

    A succedergli è Mursilis II che riporta l’ordine nel proprio paese, mantenendolo nei suoi confini politici. Egli compie anche un gesto religioso, chiedendo agli dei perdono per i peccati del padre (che forse era salito altrono attraverso qualche delitto) e di potersene addossare la colpa, al fine di salvare il proprio popolo.

    Nel 1315 a.C. sale al trono il figlio Muwatallis. Egli divise l’impero in due regni. Quello del nord, con capitale Hakmish, fu affidato al fratello Hattusilis. Quello del sud, con capitale Dattassa, più vicina alla Siria, lo amministrò lui. Tra i due fratelli non correva un ottimo rapporto.

    Nel 1285 a.C. Muwatallis sconfigge presso Kadesh, gli egiziani di Ramsete II. Quest’ultimo sigla un accordo di pace con il re ittita, noto come “Patto Antico “, il cui testo è riportato anche sul tempio di Karnak lungo il, Nilo. Questo accordo è rafforzato dal matrimonio del 1269 a.C. tra Ramsete II e la bella Naptera, figlia di Hattusilis III , fratello di Muwatallis, appena salito al trono di Hattusas. Il re ittita in persona, seguito da un’imponente schiera di eserciti, accompagnò la figlia in Egitto, attraversando tutto il paese.

    In base al trattato, i due paesi stabilirono una linea di confine sul fiume Oronte, in Siria e ognuno si impegnava a difendere l’altro in caso di aggressione di un nemico. L’impero ittita andava da Smirne a ovest fino ad Aleppo a est, da Beirut a sud fino al mar Nero al nord e potava competere con il regno egiziano.

    Nel 1250 a.C. sale al trono il figlio Tudhaliyas IV che si proclama dio. Sotto il suo regno inizia l’invasione dei Popoli del Mare, che dapprima devastano il regno degli achei, poi quello dei cretesi ed infine l’impero ittita. Solo gli egiziani di Ramsete III riusciranno a fermare questo popolo sulle cui origini ancora non si sa molto. A seguito di questa invasione nel regno ittita, molti popoli si ribellarono. Il re Suppiluliumas, ultimo re, che visse nel 1200 a.C., non riuscì a fermare la disfatta.

    Una parte degli ittiti abbandonò l’Anatolia e trovò rifugio presso le città siriache, fondando un principato neoittita. E’ questo il popolo a cui fa riferimento al Bibbia negli episodi citati in precedenza. Intorno al 1000 a.C. queste regioni vengono occupate dagli amorrei, di origine semita e subiscono l’influenza fenicia. Nel 711 a.C. gli assiri conquistano Marash, ultima città-stato ittita.

    Così come è venuto, questo popolo è scomparso lasciando poche tracce. L’unico legame che ci è rimasto è con la Frigia. I frigi, infatti, hanno fatto parte della migrazione dei popoli del mare e verso il 1100 a.C. si sono stabiliti nell’Anatolia centrale, fondando città come Gordio, la capitale, e Ankyra (Ankara). Sono stati individuati degli insediamenti frigi sopra i resti di Hattusas. La Frigia perderà la propria indipendenza in seguito all’invasione persiana.

    Uno dei re frigi è stato Mida, divenuto famoso anche perché indossava il berretto frigio, tanto in voga tra i francesi nella rivoluzione. Questo berretto è di origini ittite.

    Bibliografia
    “Gli Ittiti” J. Lehmann 1980, Garzanti

  • Greci: origini e sviluppo

    Origine

    Tra il quinto e il terzo millennio a.C. la penisola balcanica fu abitata da popolazioni marittime provenienti dall’Asia, anche se alcuni ritrovamenti archeologici testimoniano la presenza di cacciatori e pastori neolitici in Tessaglia, Grecia Centrale e a Creta. A partire dal secondo millennio a.C., un popolo guerriero d’origine indoeuropea, gli achei, cominciò a estendere il proprio dominio sulla penisola.

    Fondatori di Micene, Corinto e Argo, gli achei conquistarono Atene, la parte orientale del Peloponneso, invasero Creta e saccheggiarono Troia.

    La loro economia era fondata sull’agricoltura e sull’allevamento. All’interno della società, re, nobili e guerrieri, proprietari delle terre migliori, esercitavano il dominio su agricoltori, artigiani e pastori.

    Verso l’anno 1000 a.C., la civiltà micenea soccombette di fronte agli invasori dorici – che avevano armi di ferro sconosciute agli achei – i quali si amalgamarono alla popolazione sottomessa e resero la loro lingua comune a tutta la regione.

    La topografia prevalentemente montuosa della penisola favorì la nascita di città-stato chiamate polis, all’interno delle quali governava un re coadiuvato da un consiglio di anziani, entrambi appartenenti all’aristocrazia militare. I contadini erano obbligati a pagare un tributo in natura; se il raccolto non era sufficiente divenivano servi o erano venduti come schiavi insieme alla loro famiglia.

    Nonostante le differenze sociali esistenti, i greci ebbero una concezione originale dell’essere umano. Considerato da tutte le civiltà precedenti un semplice strumento della volontà degli dei o dei re, l’essere umano acquista nella filosofia greca il valore di individuo. Il concetto di cittadino, come individuo facente parte di una polis, senza che su questo influisca l’appartenenza o la nobiltà, costituisce uno degli apporti fondamentali della cultura greca.

    Le polis greche si allearono e si combatterono tra loro per un certo periodo. Ciò nonostante, i popoli ellenici riconobbero l’avere una stessa nazionalità attraverso la comunione di elementi come i giochi olimpici, la religione e la lingua, tra gli altri aspetti.

    Nell’VIII secolo a.C., la maggior parte delle città-stato entrò in crisi, sia a causa della decadenza del potere dei monarchi (che furono progressivamente sostituiti da magistrati scelti tra la nobiltà), sia per la scarsità di terre fertili e la crescita demografica e tutto questo generò grandi tensioni sociali. La crisi diede l’impulso ai greci per la colonizzazione del Mediterraneo, dando origina a un commercio molto attivo e alla diffusione del greco come lingua commerciale.

    Intorno all’anno 760 a.C., i greci fondarono delle colonie nel sud dell’ Italia, nel golfo di Napoli e in Sicilia. Frenati dai fenici e dagli etruschi, i greci non riuscirono mai a dominare l’intera Sicilia o il sud dell’Italia, tuttavia la loro influenza culturale segnò profondamente l’evoluzione successiva delle popolazioni della penisola italica.

    A partire dalla colonizzazione, la struttura sociale e politica delle polis si trasformò. I commercianti, arricchiti dall’espansione marittima, si mostrarono poco disposti a lasciare il governo nelle mani della nobiltà e insieme ai contadini fecero pressioni per partecipare al governo e poter prendere decisioni. Atene, una delle città più prospere della penisola, iniziò allora un processo di trasformazioni politiche che condusse, tra il VII e il VI secolo a.C., a una progressiva democratizzazione delle sue strutture governative. In tal senso, nell’anno 594 a.C. un riformatore chiamato Solone istituì la legge scritta, un tribunale di giustizia e un’assemblea di 400 rappresentanti eletti, secondo il loro patrimonio, incaricata di legiferare sui problemi della città.

    Contemporaneamente Sparta, l’altra grande polis della regione, ebbe uno sviluppo nettamente diverso, con il consolidamento di uno stato oligarchico, dotato di una ferrea struttura sociale e politica. La società spartana fu completamente militarizzata a causa dell’importanza dell’esercito, fattore determinante per l’espansione e l’annessione dei territori limitrofi.

    Nell’anno 540 a.C. i persiani iniziarono ad avanzare in Asia Minore e conquistarono alcune città greche. La ribellione di queste città, sostenute prima da Atene e poi da Sparta, diede luogo a varie guerre, conosciute come le guerre persiane, che culminarono nella sconfitta della Persia verso il 499 a.C. Queste guerre servirono a consolidare il potere di Atene nella regione, la quale attraverso la Lega di Delo, esercitò la sua influenza politica ed economica sulle altre polis.

    Le guerre contro i persiani, nelle quali le triremi ateniesi giocarono un ruolo fondamentale, fecero sì che i rematori (appartenenti agli strati più bassi della società ateniese), diventati indispensabili per la difesa di Atene, potessero reclamare un miglioramento delle loro condizioni di vita e maggiori diritti politici. Dopo un periodo nel quale l’oligarchia ateniese riuscì a recuperare il potere politico, nell’anno 508 a.C., un riformatore chiamato Clistene, aumentò a 500 il numero dei membri dell’Assemblea della polis e la convertì nel principale organo di governo. La partecipazione all’Assemblea fu aperta a tutti i cittadini liberi della polis stessa. Tuttavia, la democrazia ateniese permetteva la partecipazione effettiva di una minoranza della popolazione e fondava la sua prosperità sull’utilizzo di un’enorme quantità di schiavi, per cui gli storiografi la definiscono come una democrazia schiavista.

    Nell’anno 446 a.C. l’arconte o governatore ateniese Pericle concertò con Sparta la Pace dei Trenta Anni, secondo la quale si stabilirono le zone di influenza di ciascuna città: la Lega ateniese e quella del Peloponneso.

    Durante il governo di Pericle, nel V secolo a.C., Atene si convertì nel centro commerciale, politico e culturale della regione. Il dominio sul commercio marittimo e la conseguente prosperità permisero a Pericle di promuovere nuove riforme di carattere democratico. Fu il periodo dei filosofi come Anassagora, dei drammaturghi come Sofocle, Eschilo, Euripide, Aristofane e di Fidia, considerato il migliore scultore greco. In questa epoca i greci raggiunsero un importante sviluppo sul piano scientifico. Molte delle loro conoscenze in campo medico e astronomico sono oggi ampiamente superate, tuttavia gli apporti dati alla geometria e alla matematica sono indispensabili alla maggior parte delle scienze moderne.

    Nella seconda metà del V secolo a.C. vi furono continui scontri tra Sparta e Atene per il controllo della regione. Le lotte di questo periodo sono conosciute come guerre del Peloponneso. Il logorio di entrambe permise ai macedoni, sotto il regno di Filippo II (359-336 a.C.), di conquistare quel territorio. Alessandro Magno (336-323 a.C.) conquistò nuovi territori ed estese l’influenza ellenica al nord dell’Africa e della penisola arabica, passando dalla Mesopotamia e giungendo sino in India. Questo impero costruito da Alessandro Magno in un periodo di undici anni, contribuì alla diffusone della cultura greca in Oriente. Durante gli anni della conquista vennero fondate diverse città commerciali e Alessandro Magno promosse la fusione della cultura greca con quella dei popoli conquistati, dando origine al periodo conosciuto con il nome di ellenismo. Alla morte di Alessandro Magno, l’impero macedone crollò, mentre successive guerre e ribellioni continuarono ad agitare la penisola.

    La decadena greca provocata dalle dispute interne, e di conseguenza le devastazioni e l’impoverimento, facilitarono l’avanzata dei romani. Dopo varie guerre di conquista – quelle macedoni si prolungarono dal 215 al 168 a.C. – i romani stabilirono il proprio dominio sulla Grecia verso l’anno 146 a.C.

    Sotto l’impero romano la Grecia conobbe il cristianesimo (III secolo) e dovette subire varie invasioni. Formò parte dell’impero d’Oriente (395 d.C.), il cui dominio terminò nel 1204 con la formazione dell’impero latino d’Oriente che divise la regione in feudi. Nel 1504 in seguito allo scisma della Chiesa romana, i cristiani greci accordarono l’obbedienza agli ortodossi di Costantinopoli.

    In turchi invasero e conquistarono la Grecia nel 1460, dividendola in sei province costrette a pagare un tributo. La dominazione fu mantenuta per 400 anni, nonostante le ribellioni interne e i tentativi esterni di cacciare i turchi (principalmente furono incursioni condotte da Venezia, ansiosa di assicurarsi un territorio strategico per il commercio con l’Oriente). Solo nel 1718, la pace di Passarowitz consacrò l’integrazione della Grecia nell’impero ottomano.

    Nel 1821 una sollevazione greca riuscì a liberare Tripolitza, dove un’assemblea nazionale scrisse una Costituzione e dichiarò l’indipendenza. Il tentativo fu represso nel sangue dai turchi che, aiutati dall’Egitto, nel 1825 recuperarono il dominio della città.

    Desiderose di allontanare i turchi dalle proprie frontiere, Russia, Francia e Gran Bretagna firmarono nel 1827 il Trattato di Londra che esigeva l’autonomia della Grecia. La Turchia rifiutò e, in quello stesso anno, la flotta alleata sconfisse quella turco-egiziana. Nel 1830, il Patto di Londra dichiarò la totale indipendenza della Grecia che, tuttavia, dovette cedere il territorio della Tessaglia.

    Nei decenni seguenti le potenze europee intrapresero una sorda lotta per il controllo della penisola e interferirono nei suoi affari interni, appoggiando re compiacenti ai loro interessi. Così si succedettero Ottone di Baviera (1831-1862), favorevole alla Russia, e Giorgio I (1864-1913), sostenuto dagli inglesi.

    Il colpo di stato capeggiato dal generale Eleutherios Vinizelos nel 1910 diede luogo alla firma di una Costituzione (1911) che istituì una monarchia parlamentare. Durante le due guerre mondiali, golpe militari successivi portarono al governo simpatizzanti dell’una o dell’altra parte in conflitto.

    Sconfitta l’occupazione tedesca nel 1944, una parte importante del paese rimase nelle mani della guerriglia comunista, diretta dal generale Markos Vifiades, che aveva avuto una parte rilevante nella resistenza al nazismo. Con l’appoggio di britannici e nordamericani, il governo attuò una repressione contro i comunisti fino a giungere allo sterminio nel 1949.

  • Etruschi: società e politica

    Caratteristiche e sviluppo della società etrusca
    Nell’affrontare i problemi dell’organizzazione sociale e politica degli Etruschi la nostra prima e fondamentale notazione è che non si può procedere ad una pura e semplice rassegna descrittiva dei fenomeni senza considerarne l’evoluzione nel tempo che è essenziale per la loro comprensione. Le notizie che derivano da accenni occasionali e sommari degli scrittori greci e latini si riferiscono pressochè esclusivamente al quadro delle istituzioni in alcuni dei loro aspetti esteriori, ed in ogni caso per lo più ai tempi e alle circostanze dei rapporti con Roma. Assai più vasta è la piattaforma delle testimonianze epigrafiche che a partire dal VII secolo a.C. e per tutta la durata della civiltà etrusca ci documentano nomi e formule onomastiche: ci danno cioè, per quanto è stato finora scoperto (e continua ogni giorno a scoprirsi), una sorta di radiografia della società etrusca; mentre le indicazioni biografiche delle iscrizioni funerarie presentano titoli di cariche. C’è poi tutto l’insieme dei resti archeologici che, per epoche anche più antiche, nella forma e nella distribuzione delle tombe e nelle caratteristiche della produzione rivelano consistenza, rapporti, sviluppi dei diversi nuclei e strati sociali.
    Difficilmente potremmo sfuggire all’importanza di due opinioni correnti sulla società etrusca: cioè in primo luogo che essa si sia costituita attraverso una progressione da piccole comunità semplici e indifferenziate a raggruppamenti complessi con articolazioni dinamiche e forti emergenze di poteri e di ricchezze; in secondo luogo che le oligarchie abbiano esercitato una funzione dominante e durevole. Ma occorre intendersi sull’una e sull’altra asserzione. È indubbio che nel periodo villanoviano, vale a dire come sappiamo nella prima fase della civiltà etrusca, si manifestano ancora forme di vita proprie delle culture di villaggio preistoriche (quali si riflettono con evidenza nelle figurine e nelle scene dei bronzi di Vulci, di Bisenzio, di Vetulonia) e apparenti rapporti egualitari denunciati dalla relativa uniformità delle tombe: naturalmente in contrasto con quelli che saranno i costumi e gli sfarzi della successiva fase orientalizzante. È però anche vero che sarebbe un errore considerare la società villanoviana come una società primitiva.
    La moltitudine e profondità di esperienze culturali che si sono succedute nel corso dei tempi che precedono sul suolo d’Italia e nella stessa terra d’Etruria, l’inevitabile osmosi con gl’influssi provenienti dall’evoluto Mediterraneo orientale, la presenza già sottolineata di aggregazioni e di costruzioni evolute nell’età del bronzo con particolare riguardo al bronzo finale (Luni sul Mignone, Crostoletto di Lamone, Frattesina) rivelanti tra l’altro segni di spicco politico-sociale: tutti questi elementi ci convincono che il fenomeno villanoviano deve esser maturato in un ambito di strutture già evolute e dinamiche; ne si può escludere che gli addensamenti e la somiglianza reciproca delle deposizioni funerarie, con particolare riguardo ai pozzetti dei cremati, ubbidiscano ad esigenze rituali comuni (ma non mancano segni anche piuttosto evidenti di distinzioni, per esempio nell’uso delle urne a capanna rispetto ai cinerari biconici, nella presenza degli elmi in funzione di coperchi, delle armi, di corredi di oggetti di accompagno piuttosto abbondanti).
    Le attività metallurgiche, artigianali, cantieristiche riflettono necessariamente una specializzazione del lavoro. Le imprese navali a largo raggio già iniziate in questa età presuppongono e comportano accentramenti di capacità finanziarie e quindi formazioni di gruppi di potere. Che poi tali gruppi, anche appoggiandosi ai possessi terrieri e alla loro trasmissione ereditaria, tendano a chiudersi in una cosciente autorità egemonica di alcune famiglie privilegiate, cioè in un sistema oligarchico gentilizio analogo a quello della Grecia contemporanea, con ogni possibile apparato di prestigio e di lusso, questo può considerarsi veramente il processo che, determinandosi nel corso dell’VIII secolo, differenzierà dalla società villanoviana la società orientalizzante.
    È probabile, anche se non certo, che su questo processo s’innesti la formazione del sistema onomastico bimembre, che crediamo di origine etrusca, e si ritrova anche nel mondo latino e italico, differenziandosi dalle formule in uso presso altri popoli del mondo antico come i Greci, che indicavano le persone con il semplice nome e patronimico (Apollonio di Nestore), o anche con un epiteto di discendenza (Aiace Telamonio), senza tuttavia esprimere con evidenza il concetto di una continuità familiare. La formula vigente nell’Italia antica è sistematicamente rappresentata da un doppio elemento, e cioè dal prenome personale e dal nome di famiglia o gentilizio: in questo senso esso è l’unico sistema onomastico del mondo antico che anticipi una costumanza affermatasi, per necessità sociali, culturali e politiche, nell’ambito della civiltà moderna. Accanto ai due elementi principali appaiono spesso il patronimico e il metronimico (nomi paterno e materno), talvolta anche i nomi degli avi; al gentilizio può aggiungersi, raramente e per lo più tardivamente, un terzo elemento onomastico che i Romani dissero cognomen, forse di origine individuale ma generalmente adoperato a designare un particolare ramo della gens. È indubitato che l’elemento più antico è il prenome o nome individuale, che fu in origine un nome singolo. Si ritiene che i gentilizi siano derivati dal nome singolo paterno (per intenderci, come il greco Telamonio), mediante l’aggiunta di un suffisso aggettivale che spesso è -no: così ad esempio Velno da Vel.
    Ma poi i gentilizi si formarono anche da nomi di divinità (Velfino), di luoghi (Sufrina) o in altro modo talvolta non definibile. L’originalità del sistema sta comunque nel fatto che la nuova formazione resta definitivamente fissata per tutti i membri della famiglia e loro discendenti. Si discute se l’apparizione e la diffusione dei gentilizi siano avvenute nel corso del VII secolo, o già prima, come è possibile. Il numero delle gentes conosciute è grandissimo, possiamo dire illimitato; constatazione interessante che esclude l’ipotesi di una contrapposizione tra un ristretta oligarchia dei membri delle gentes ed una massa di popolazione estranea al sistema gentilizio.
    A dire il vero si ha l’impressione che in origine tutti i membri delle nascenti comunità urbane etrusche, in quanto cittadini liberi, fossero inquadrati nell’ambito del sistema “gentilizio”; ma non nel senso di una loro aggregazione entro i limiti di pochi e vasti organismi familiari, bensì nel senso dell’appartenenza a singoli e numerosi ceppi familiari ciascuno dei quali era contraddistinto da un particolare nome gentilizio. Si può pensare a qualche cosa di simile a quello che accade nel mondo moderno verso la fine del medioevo, quando nascono i nomi di famiglia, e tutta la popolazione, dalle classi elevate alle più umili, finirà con l’adottare un unico sistema onomastico.
    È naturalmente possibile – quantunque non provato – che nell’Etruria arcaica esistessero gentes patrizie e plebee, come a Roma durante la repubblica. La vera e propria classe inferiore è rappresentata dai servi, dagli attori e dai giocolieri, dagli stranieri, ecc., che nei monumenti appaiono contraddistinti soltanto da un nome personale e sono quindi estranei all’organizzazione gentilizia. Se una società di liberi, suddivisa in piccoli e numerosi aggregati familiari, poteva conciliarsi con una costituzione monarchica di tipo arcaica, ciò parrebbe più difficile per lo stato oligarchico attestato dagli accenni degli scrittori antichi per una fase posteriore della civiltà etrusca.
    Tuttavia i monumenti epigrafici continuano a presentarci famiglie – di cui per questo periodo più tardo si conoscono ormai complesse genealogie – assai numerose in ciascuna delle città etrusche, e sulla base di un’apparente parità sociale. Ma è possibile anche intravvedere la formazione di aggregati familiari più vasti, contraddistinti da un sologentilizio, ma con numerose ramificazioni anche fuori dell’ambito della città originaria. E’ il manifestarsi della gens nel senso più propriamente noto nel mondo romano; e non di rado ai gentilizi si aggiungono cognomi adottati per distinguere i diversi rami della famiglia.
    Alle piccole tombe strettamente familiari del periodo arcaico si sostituiscono i grandiosi ipogei gentilizi con numerose deposizioni. Si può osservare un più frequente ricorrere di matrimoni tra membri di alcune gentes, che sono poi quegli stessi che più di frequente rivestono cariche politiche e sacerdotali. Ciò si spiega abbastanza logicamente supponendo che nell’ambito dell’originario sistema sociale gentilizio si sia venuta ulteriormente determinando una netta prevalenza di alcune gentes maggiori che avrebbero costituito la oligarchia dominante.
    Di ciò si è già fatto cenno nella trattazione storica. È evidente che di quelle oligarchie sono esponenti, ad esempio, a Tarquinia gli Spurina o i Velcha, come ad Arezzo i Cilnii, o a Volterra i Ceicna (Cecina) dai numerosi rami. Più difficile è stabilire la posizione delle gentes minori o plebee nell’ambito dello stato oligarchico; come anche determinare le caratteristiche delle classi proletarie e servili. Sono abbastanza frequenti, specialmente nell’Etruria settentrionale, iscrizioni funerarie appartenenti a personaggi designati con i termini lautni, etera, lautneteri; in alcuni casi essi recano il solo prenome, segno di condizione servile, o conservano un nome di origine straniera. La parola lautni deriva da lautn “famiglia” e significa letteralmente “familiare”; ma è adoperata come corrispondente del latino libertus. Quanto ad etera non si sa precisamente il valore del termine, che qualcuno traduce come «servo».
    Un’affermazione politico-sociale delle classi inferiori è ricordata dalla tradizione storica per Arezzo e per Volsinii dove avvenne nella prima metà del III secolo a.C. una vera e propria rivoluzione proletaria con la conquista del potere e la momentanea abolizione delle differenze di casta (per esempio il divieto di connubio) con l’aristocrazia dominante.
    Resta tuttavia dubbio se e fino a qual punto tali lotte sociali possano interpretarsi anche come un urto tra genti maggiori e minori nell’ ambito del sistema gentilizio, analogo alla lotta tra patrizi e plebei nella Roma repubblicana, ovvero debbano intendersi esclusivamente come una affermazione rivoluzionaria di elementi servili estranei alle gentes. D’altra parte, come è stato recentemente dimostrato da H. Rix, nelle città dell’Etruria settentrionale ebbe luogo, al più tardi nel II secolo a.C., una generale ascesa pacifica di elementi servili, i cui nomi individuali (come Cae, Tite, Vipi) divennero nomi gentilizi.
    Trattando della famiglia e del sistema onomastico degli Etruschi, si può fare un riferimento al cosiddetto “matriarcato” degli Etruschi. È questa soltanto una leggenda erudita, nata dal confronto fra usanze dell’Etruria e dell’ Asia Minore, quali vengono riportate da Erodoto (I, 73), e alimentata dalle notizie degli scrittori antichi sulla libertà della donna etrusca.
    Il fatto che i fanciulli lidii fossero chiamati con il nome della madre e non con quello del padre è stato posto a confronto con l’uso etrusco – attestato nelle iscrizioni – del metronimico. Ma in realtà nelle iscrizioni etrusche l’elemento prevalente è il patronimico, anche se in molti epitafi sono riportati il gentilizio e talvolta il prenome della madre.
    Non vi è dubbio che la donna abbia nella società etrusca un posto particolarmente elevato e certamente diverso da quello della donna greca di età classica. La partecipazione ai banchetti con gli uomini è indizio esterno di una parità sociale, che ricollega anche per questo aspetto la società degli antichi Etruschi a costumi propri del mondo occidentale e moderno.
    Un ultimissimo cenno a quel tipo di istituzione sociale che, parzialmente su modelli ellenici, ebbe particolare importanza nel mondo italico e specialmente romano: ci riferiamo alle associazioni di giovani, alla iuventus.
    È possibile e probabile che ciò esistesse anche nel mondo etrusco. Già in età arcaica appare raffigurato il giuoco della Troia (Truia), consistente in abili evoluzioni di cavalieri connesse con la iuventus; e a questa si allude forse con la parola huzrnatre derivata dalla radice hus, huz- che esprime il concetto di “giovane, gioventù”.

    L’organizzazione politica: città-stato e loro associazioni
    All’epoca dei contatti dell’Etruria con Roma la vita politica della nazione etrusca poggia essenzialmente sopra un sistema di piccoli stati indipendenti facenti capo a città preminenti per grandezza e per ricchezza. Non sappiamo quali fossero le effettive condizioni del periodo arcaico; ma la coesistenza di diversi centri di grande importanza a poca distanza l’uno dall’altro, come Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, con propri poteri, caratteristiche e costumanze, sembra effettivamente ispirarsi al sistema della città-stato proprio delle contemporanee colonie greche e fenicie d’occidente.
    Questa struttura politica – estesa anche nel Lazio etruschizzato – è designata tecnicamente in latino con il termine populus, di probabile origine etrusca, che appare, in un certo senso, sinonimo di civitas, dell’osco-umbro touto, toto. In etrusco il concetto è reso, probabilmente con diverse sfumature, dai termini spur-, mex e forse anche tufi (dall’italico). Il nome ufficiale dei populi è quello degli abitatori stessi delle città: Veienti, Tarquiniesi, Ceretani, Chiusini, ecc.
    È probabile che con il procedere del tempo le singole città sovrane si siano aggregate un territorio più o meno vasto, sottomet- tendo altre città rivali, come vediamo in atto nella più antica storia di Roma; ma non è escluso che alcune delle città conquistate possano aver conservato una parziale autonomia o siano state legate da rapporti di alleanza con i dominatori (ciò che potrebbe spiegare l’esistenza di centri di media importanza specialmente nell’Etruria interna, come Nepi, Sutri, Blera, Tuscania, Statonia, Sovana, ecc., nel territorio delle maggiori città, cioè di Veio, Tarquinia, Vulci).
    Si consideri inoltre la possibilità di vincoli di dipendenza delle colonie dalle città di origine: per esempio nella espansione etrusca in Campania e verso settentrione. Ma in realtà, per quanto ci consta, il principio dell’autonomia e del frammentismo politico deve aver prevalso anche nella costituzione dei domini etruschi dell’Italia meridionale e settentrionale.
    Il centro della vita politica e culturale dell’Etruria è dunque da ricercare nelle grandi città dominanti, di cui possediamo gli splendidi resti, e che il computo tradizionale calcola in numero di dodici (solo in età romana si parla di quindici popoli). Quali sono queste città? Certamente all’epoca della conquista romana si contano tra di esse Caere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Populonia, Volsinii, Chiusi, Perugia, Cortona, Arezzo, Fiesole, Volterra; Veio era stata annessa al territorio romano già dall’inizio del IV secolo, Alcuni centri minori dovevano essere ancora autonomi nel IV e III secolo a.C., come parrebbe risultare da monete con i nomi di Peithesa, Echetia e di altre città non meglio identificate.
    Nuclei abitati fiorenti in età arcaica, quali Acquarossa, Bisenzio, Marsiliana d’ Albegna (Caletra?) e la stessa Vetulonia, decadono più tardi: altre città si svilupperanno soltanto alla fine della civiltà etrusca, sotto il dominio di Roma, quali Siena, Firenze, Pisa, Luni.
    Una fase anteriore a quella dell’organizzazione urbana non è documentabile storicamente: ne possiamo quindi conoscere il sistema politico e i reciproci rapporti dei villaggi protostorici dei quali restano tracce nel territorio etrusco. Accenni indiretti di scrittori e l’analogia con la costituzione primitiva di Roma potrebbero far supporre che la popolazione delle città fosse ripartita in tribù e in curie. Per il resto, cioè per il rapporto fra queste ripartizioni interne e i nuclei territoriali di aggregazione dai quali sarebbero sorte le città stesse, nonche i centri minori dipendenti, regna almeno per ora l’oscurità più completa.
    Ogni città-stato o città capitale (caput) di uno stato costituisce un mondo politicamente ed entro certi limiti culturalmente a se stante (si pensi ad esempio alla specializzazione dei prodotti artistici, per cui tra le altre Tarquinia eccelse soprattutto per la pittura funeraria, Caere per l’imitazione dell’architettura interna delle tombe, Vulci per i bronzi e per la scultura, e così di seguito).
    Gestione interna, commerci, eventuali imprese navali dovettero essere autonome come nelle poleis della Grecia arcaica e classica. Le notizie delle fonti storiche ci persuadono a ritenere che anche la politica estera fosse decisa con sostanziale autonomia da ciascuna città secondo i propri interessi.
    Tuttavia esistono altri indizi, sempre delle fonti, che ci indirizzano verso il ricordo di un tipo di associazione delle città etrusche per la quale si è usato modernamente il termine di lega o di federazione. Dobbiamo chiederci quale sia l’effettiva natura di quest’ultima istituzione, che ha dato luogo a discussioni tra gli studiosi. L ‘esistenza di forme associative tra diverse comunità autonome è un fatto ben noto nel mondo antico, in Grecia come in Italia, sia pure con diverse caratteristiche a seconda dei tempi e dei luoghi; ne può quindi destare meraviglia.
    Per l’Etruria gli scrittori antichi non usano, a quanto ci consta, un termine specifico per indicare l’associazione stessa; ma parlano dei duodecim populi, dei duodecim (o quindecim) populi Etruriae o semplicemente di Etruria, di omnis Etruria.
    Il numero dodici delle grandi città dell’Etruria propria – alle quali facevano riscontro altrettante della Etruria padana e della Campania – ha probabilmente un carattere rituale: come in altri casi analoghi del mondo antico, e forse, ma non necessariamente, per analogia con le dodici città della lega ionica (considerati gli antichi legami culturali fra Etruria e lonia asiatica).
    Che si tratti per altro non soltanto di uno schema ideale, ma di una reale istituzione politica, può dedursi da quei riferimenti, principalmente di Livio (IV, 23; V, 1; X, 16, ecc.), nei quali si accenna ad una adunanza di consultazione annuale o comunque periodica (concilium) tenuta dagli stati etruschi e dai loro capi (principes) al Fanum Voltumnae. Ha giustamente posto in rilievo L. Pareti che simili testimonianze non sono sufficienti a provare il carattere continuativo ed un forte potere soprastatale del supposto istituto federale etrusco.
    Accertata l’esistenza di feste e di giochi annuali panetruschi nel santuario di Voltumna – non altrimenti da ciò che sappiamo relativamente al mondo greco per Efeso, Olimpia, Delfi, Corinto -, si potrebbe infatti supporre che soltanto circostanze politiche di carattere eccezionale, come la minaccia di Roma, possano avere indotto i rappresentanti dei diversi stati etruschi a concertarsi nel santuario nazionale e financo a coalizzarsi in una lega politica e militare. Ma esistono d’altra parte riferimenti che paiono indicare una certa continuità dell’istituto ed una relativa subordinazione ad esso dei singoli stati: ad esempio il passo di Servio (ad Aen., VIII, 475), nel quale è detto che l’Etruria aveva dodici lucumoni, o re, dei quali uno era a capo degli altri, o gli accenni di Livio (l, 8, 2; V, 1) alla elezione di un re da parte dei dodici popoli, ciascuno dei quali forniva un littore per i fasci, e più tardi alla elezione di un sacerdote al Fanum Voltumnae in occasione delle adunanze degli stati etruschi. In sostanza dall’attendibilità delle notizie contenute in questi riferimenti dipende il nostro giudizio sulla lega etrusca.
    È interessante notare che in due delle testimonianze si parla di re: ci si riferisce cioè preferibilmente ad epoca arcaica. Ma in altro passo di Livio si parla di un capoelettivo della comunità degli Etruschi, il quale alla fine del V secolo (cioè all’epoca del conflitto tra Veio e Roma) era un personaggio designato con il titolo di sacerdos, e perciò dotato di poteri eminentemente religiosi (o ridotti alla sola sfera religiosa).
    In alcune iscrizioni latine di età imperiale ricorre il titolo praetor Etruriae che appare anche nella forma praetor Etruriae XV populorum, cioè della comunità nazionale etrusca che in età romana pare accresciuta di tre città.
    Ora fra le cariche esercitate da personaggi etruschi e ricordate da iscrizioni in etrusco conosciamo il titolo zilat? mexl rasnal. Dal celebre passo di Dionisio (I, 30, 3) in cui gli Etruschi sono designati con il nome nazionale di Rasenna sappiamo che la parola rasna dovrebbe significare «etrusco, Etruria».
    D’altra parte la magistratura indicata con la parola zilat?, che pare sia la più elevata fra le cariche delle repubbliche etrusche, equivale assai probabilmente al praetor dei Romani. Per mexl si può pensare ad un genitivo della parola mex che ricorre nella iscrizione della lamina d’oro lunga di Pyrgi, e forse tradurre “dei populi”. Risulterebbe così una corrispondenza del titolo zilat? mexl rasnal con praetor Etruriae (populorum).
    Si può discutere se questa carica si identifichi con la suprema presidenza elettiva dei populi etruschi, o con una magistratura di rappresentanza dei singoli populi nel concilio federale, come quella dei principes ricordati da Livio. La prima ipotesi sembra oggi la più probabile.
    Se le notizie relative alla supremazia di uno degli antichi sovrani delle città etrusche non sono del tutto prive di fondamento, si potrebbe arrischiare l’ipotesi che una forma originaria di legame unitario esistesse fra gli Etruschi del sud all’inizio dei tempi storici, sotto la egemonia di una o dell’altra città. Più tardi questa antica unità avrebbe assunto il carattere di associazione religiosa, commerciale e politica, con feste e adunanze nazionali nel santuario di Voltumna presso Volsinii.
    La elezione di un supremo magistrato annuale è forse il ricordo dell’alta sovranità di un capo sugli altri. Sappiamo da Livio che verso la fine del V secolo il re di Veio poneva la sua candidatura alla elezione – il che conferma implicitamente l’importanza della magistratura nazionale -, ma ne usciva battuto.

    Il potere e le forme istituzionali nei singoli stati
    Le condizioni di fatto esistenti nelle città etrusche tra il IV e il II secolo a.C., hanno influito sulla generale interpretazione delle istituzioni politiche e sociali etrusche quale risulta dai riferimenti degli scrittori antichi. Le città appaiono dominate da un’ oligarchia gentilizia (solo sporadicamente e per breve tempo soppiantata da altre classi sociali), con magistrati genericamente designati dalle fonti romane come principes.
    I monumenti confermano in parte la tradizione pre- sentandoci grandiose e ricche tombe gentilizie con numerose deposizioni, iscrizioni riferibili a membri di alcune famiglie strettamente imparentate e soprattutto epigrafi di personaggi che portano titoli di cariche temporanee e probabilmente collegiali, secondo un sistema altrimenti noto nelle costituzioni delle città-stati del mondo antico. Ma tali condizioni non rispecchiano evidentemente il quadro della vita politica etrusca nei secoli più antichi della storia nazionale.
    Molte fonti ci parlano dell’esistenza di re nelle città etrusche. Il termine lucumone (lat. lucumo, lucmo, in etrusco probabilmente lauxume, lauxme, luxume) ricorre talvolta quale prenome personale di personaggi etruschi, come nel caso del re di Roma Tarquinio Prisco; ma è generalmente usato come nome comune per designare i capi etruschi.
    Il commentatore di Virgilio, Servio, in un caso chiama lucumoni i magistrati preposti alle curie della città di Mantova (ad Aen, X, 202), altrove identifica esplicitamente i lucumoni con i sovrani della città (ad Aen, II, 278; VIII, 65, 465). E’ accertato che i lucumoni equivalessero ai principes, designando ambedue i termini null’altro che i capi delle famiglie patrizie.
    È però probabile che il termine principes indichi, più che una condizione sociale, le magistrature dello stato repubblicano, e forse anche magistrature supreme; tutto porta a credere che il titolo lucumone designi i re etruschi di età arcaica, secondo l’esplicita e ripetuta affermazione di Servio.
    Non sembra quindi necessario ricercare, con S.P. Cortsen, la parola etrusca per re nel titolo * pursna, * purtsna, purfne, che sarebbe stato considerato come un nome proprio nel caso del re di Chiusi Porsenna. È d’altro canto probabile che, analogamente a quanto accadde a Roma per il termine rex (sacrificulus), il titolo degli antichi monarchi non sia stato abolito con la trasformazione dello stato in una repubblica aristocratica e si sia conservato accanto alle nuove magistrature, sostanzialmente svuotato del suo contenuto politico e volto a funzioni religiose.
    Nel testo sacro della Mummia di Zagabria si parla di cerimonie compiute lauxumneti, «nel lauxumna», cioè probabilmente la residenza del lauxume, il lucumone: qualche cosa di analogo alla Regia, residenza dei Pontefici, in Roma. Infine il capo elettivo del Fanum Voltumnae, designato da Livio come sacerdote, non sarà forse stato in origine altro che il re eletto dai dodici popoli e il lucumone più potente ricordato da Servio: sia pure con funzioni sminuite e trasformate dal mutare dei tempi e delle concezioni politiche.
    determinarlo e soltanto l’analogia con quel poco di storicamente certo che ci è noto sulla monarchia romana consente qualche supposizione. Il re doveva avere il potere giudiziario supremo che esercitava, a detta di Macrobio (Saturn., l, 15, 13), ogni otto giorni in udienze pubbliche.
    Doveva essere il capo dell’esercito ed anche della religione dello stato. Meglio informati siamo sopra alcuni costumi cerimoniali e attributi esteriori della monarchia, che furono ereditati da Roma e considerati dagli scrittori antichi come di origine specificamente etrusca: così la corona d’oro, lo scettro, la toga palmata, il trono (sella curulis), l’accompagno dei fasci e altre insegne del potere, la presenza di uno scriba che registra gli atti sovrani; così forse anche la cerimonia del trionfo.
    Particolarmente interessante è il problema delle origini del fascio littorio. La sua origine etrusca è sostenuta esplicitamente dagli scrittori di età imperiale, come Silio Italico (Puniche, VIII, 483 sgg.) e Floro (l, 1, 5). La più antica rappresentazione di fasci senza scure s’incontra in un rilievo chiusino del Museo di Palermo che si data nella prima metà del V secolo a.C.: cade quindi l’ipotesi che i littori e i fasci al seguito dei magistrati etruschi nelle città federate siano una imitazione delle costumanze di Roma.
    È probabile che in origine il fascio fosse soltanto uno e che il moltiplicarsi del numero dei littori sia dovuto all’estendersi della sovranità su più territori o al moltiplicarsi dei per- sonaggi detentori del potere supremo. Al simbolo materiale dei fasci corrisponde una capacità politica e religiosa, che i Romani designarono con il nome di imperium.
    sovrano sta il fatto che soltanto l’ imperium maius ed alcune particolari circostanze davano diritto al magistrato romano dì inalberare i fasci con la scure. L’ imperium, distinguendosi da una generica potestas, è la pienezza dei poteri giudiziari e militari: esso è in sostanza la sovranità degli antichi re di Roma trasmessasi ai magistrati repubblicani. Il concetto di imperium, con le sue sfumature religiose, deriva probabilmente dalla monarchia etrusca.
    Nello studio del passaggio dallo stato monarchico allo stato repubblicano in Etruria – passaggio avvenuto tra il VI e il IV secolo a.C. – va tenuta presente la portata internazionale del fenomeno che investe, con linee sostanzialmente analoghe, la storia istituzionale dei Greci, dei Fenici, dei Latini, degli Etruschi, e che dimostra, per certi aspetti sostanziali della vita pubblica, la profonda unità della civiltà mediterranea anche in epoca anteriore all’ellenismo e alla romanità.
    Dalla monarchia primitiva a carattere religioso si passa allo stato oligarchico con magistrature elettive, collegiali e temporanee: talvolta il processo si affianca o si sviluppa con affermazioni di potere personale (tirannie) e con soluzioni democratiche. In molte città greche la trasformazione è già in atto in epoca protostorica, durante e dopo l’età micenea; mentre altre città come Sparta conservano, almeno formalmente, l’istituto monarchico fino alla fine della loro storia.
    Nel mondo greco d’occidente le nuove soluzioni sembrano già in gran parte affermate sin dagli inizi della colonizzazione; mentre a Roma il mutamento ha luogo nel VI secolo. Le molte teorie proposte per spiegare il passaggio dalla monarchia romana alle magistrature repubblicane si orientano da un lato verso il concetto dell’evoluzione continua e necessaria, da un altro lato verso l’idea di una innovazione improvvisa.
    Quest’ultima potrebbe effettivamente ricollegarsi all’imitazione di istituti stranieri (greci, latini o anche etruschi?). È stata inoltre affacciata, essenzialmente da S. Mazzarino, la proposta che agli inizi dello stato repubblicano, prima dell’affermarsi delle magistrature collegiali sia da ricostruire una fase di magistrature singole o preminenti, a carattere prevalentemente militare, quasi dittature stabili, sostituitesi alla regalità arcaica.
    In tal senso sono state interpretate tradizioni relative a titoli come, in Roma, quelli del magister populi o del praetor maximus; e si è anche creduto di poter riconoscere un simile tipo di potere nel personaggio etrusco Mastarna, il cui nome Macstrna (senza prenome nella tomba Franr;ois di Vulci) sarebbe null’altro che un titolo derivato dal latino magister: tanto più che Mastarna era stato da alcune fonti identificato con il re di Roma Servio Tullio, alle cui riforme costituzionali si faceva risalire l’origine stessa della repubblica (Livio, I, 60).
    L’esistenza di forti poteri personali nelle città etrusche e latine tra la fine del VI e il principio del V secolo s’inquadrerebbe nel diffuso costume delle tirannie che caratterizza le città greche d’occidente in quel medesimo periodo (si pensi ad esempio ad Aristodemo di Cuma), per una sorta di mimetismo politico.
    Le laminette d’oro in scritte in etrusco e in punico trovate a Pyrgi recano un nuovo prezioso contributo alla discussione di questo problema, dato che esse ci presentano la figura del dedicante Thefarie Velianas, designato in punico come “re di Caere” o “regnante su Caere” (ma in etrusco probabilmente già come zilac, cioè praetor), con tutte le caratteristiche di un capo di stato investito di potere unico e personale.
    Oltre a ciò va detto che probabilmente non esiste in Etruria una netta contrapposizione cronologica tra fase monarchica e fase repubblicana anche per un’altra ragione, e cioè perche la monarchia, di nome oltre che di fatto (se le fonti non mentono), sopravvive o riaffiora almeno in due casi posteriori a quella fase tardo-arcaica nella quale dovrebbero collocarsi i mutamenti istituzionali più o meno nello stesso periodo delle origini della repubblica romana.
    Ci riferiamo alla creazione di un re a Veio sul finire del V secolo e alla menzione di un “redei Ceriti” nell’elogium di Aulo Spurinna in un contesto cronologico che si riporta verso la metà del IV secolo. Nell’uno come nell’altro caso c’è una palese ostilità di altri stati etruschi, che farebbe pensare a fatti eccezionali in un mondo di ormai prevalenti assuefazioni istituzionali repubblicane.
    Il sistema che doveva essersi generalizzato negli ultimi secoli di vita autonoma delle città etrusche è, come si è detto, quello delle repubbliche oligarchiche, per la cui conoscenza abbiamo purtroppo soltanto pochi indizi diretti offerti dalle iscrizioni e qualche cenno delle fonti storiche, oltreche l’analogia con Roma. Possiamo dedurne l’esistenza di un senato formato dai capi delle gentes; probabilmente di assemblee popolari; di una magistratura suprema temporanea, unica o collegiale; di altre magistrature collegiali a carattere politico e religioso.
    In ogni caso si avverte la tendenza a spezzettare il potere, a sminuirlo e a porlo sotto un costante reciproco controllo, allo scopo di evitare l’affermarsi del potere personale. Questo irrigidimento delle istituzioni oligarchiche sembra più accentuato in Etruria che a Roma. Una differenza traspare anche nei riguardi dei movimenti di rivendicazione pubblica delle classi inferiori, che in Etruria non hanno generalmente la possibilità di inquadrarsi, come a Roma, in uno sviluppo progressivo delle istituzioni verso l’avvento al potere della classe plebea; ma si risolvono, a Volsinii, ad Arezzo e forse altrove, in parentesi di anarchia popolare.
    Ciò non esclude tuttavia un progressivo assorbimento di elementi extragentilizi nel sistema gentilizio specialmente nell’Etruria settentrionale intorno al II secolo a.C., come si è già accennato: con loro probabile conseguente accesso almeno ad alcune delle cariche pubbliche.
    I titoli delle magistrature etrusche, nelle loro forme originarie, ci sono noti dai cursus honorum (cioè dalle elencazioni delle carriere) delle iscrizioni funerarie, alcune delle quali dovevano esser redatte nella forma di veri e propri elogio poetici del defunto, come ad esempio le iscrizioni romane degli Scipioni.
    Non è facile tuttavia interpretare la natura delle cariche, i loro reciproci rapporti, la differenza di dignità e la corrispondenza con le magistrature del mondo latino ed italico. Il titolo più frequente è quello tratto dalla radice zii-, di origine ancora oscura ed imprecisata (ma già presente a Caere almeno all’inizio del V secolo), nelle forme zii, zil(a)c o zilx, zilat.
    Alle forme nominali corrisponde un verbo zilx- o zilax- che significa «essere zilc o zilat». Già sappiamo che zilat corrisponde in qualche caso al titolo romano praetor. È indubbio che si tratta di un’alta carica, forse la più alta dello stato; ma spesso il titolo appare accompagnato da specificazioni (zilat o zilx parxis; zilc marunuxva; zilx cexanen) che possono indicare una specializzazione di funzioni (cfr. il latino praetor peregrinus).
    Un’altra carica importante, che taluno considera il più alto grado di un supposto collegio di zilat, è indicata dalla radice purt-, che non si è mancato di ricollegare con il titolo di probabile origine preellenica noto anche nelle città greche dell’occidente e forse da queste trasmesso alle città etrusche.
    Frequente è inoltre il titolo maru, marniu, marunux, i cui richiami sacrali sono resi evidenti dalla sua connessione cori il titolo sacerdotale cepen e da specificazioni, che contengono i nomi degli dèi Paxa (Bacco) e Cafa. Appare anche in Umbria con il collegio dei marones (e fu cognomen del mantovano Virgilio!). Si è supposto che corrisponda al latino aedilis. Altre cariche amministrative o militari sono espresse dai termini camfi, macstrev(c) (dal latino magister), ecc.
    Trattando degli ordinamenti dello stato etrusco un ultimo cenno dovrebbe esser fatto alle leggi e al diritto. Ma purtroppo di questa materia noi possediamo nozioni limitatissime ed incerte delle fonti letterarie antiche, essenzialmente collegate con la disciplina etrusca e in particolare con i libri rituali.
    L’ipotesi dell’esistenza di un ius terrae Etruriae, cioè di una legislazione della proprietà terriera, sostenuta da S. Mazzarino, dove comunque sarebbe nominato un ius Etruriae. L’estrema importanza della normativa riguardante i confini (molti dei quali contrassegnati da cippi con la parola tular) sembra del resto confermata anche da altri documenti. Ma siamo in ogni caso, sia per questa materia civile come per il diritto penale, prevalentemente nella sfera del sacro.

    Il popolo
    Sotto la classe padronale o gentilizia – la cui ricchezza si era creata con l’agricoltura, il commercio, la pirateria – si formò col tempo, a partire dal VII secolo, una sorta di ceto medio anch’esso composto da agricoltori, artigiani mercanti (non pochi di costoro erano stranieri, che prendevano fissa dimora nei centri dove li portavano i loro traffici e magari sposavano donne del posto).
    Non è pur troppo facile ricostruire l’esistenza di questa gente e di quella che stava al livello più basso della scala sociale, i servi. È evidente che questi servi non costituivano un blocco omogeneo, e che (erano fra loro differenze anche notevoli in relazione alle funzioni che svolgevano. Certo erano molto numerosi. Le fonti di approvvigionamento del personale servile furono dapprima le scorrerie piratesche, poi le guerre (i prigionieri di guerra finivano, come è noto, in schiavitù): e va da sé che schiavi erano i nati da genitori di condizione servile. Mercati di schiavi c’erano poi dappertutto (alcuni internazionalmente noti), e c’erano trafficanti specializzati che facevano soldi a palate trattando questa merce. I prezzi variavano naturalmente secondo la qualità (caratteristiche etniche, nazionalità, età, sesso, forza, bellezza, salute, conoscenza di arti e mestieri, cultura, ecc.).
    Pare che le case dei ricchi Etruschi pullulassero di schiavi, adibiti alle più svariate funzioni, non di rado pretestuose. Fra gli schiavi che servivano durante i banchetti, c’erano quelli che mischiavano nelle anfore il vino e l’acqua, quelli che versavano le bevande nelle coppe, quelli che tagliavano le carni, quelli che distribuivano i cibi, e così via. I servi erano, come in tutte le società antiche, alla mercé dei padroni.
    In Etruria erano, sembra, trattati un po’ più familiarmente e mitemente che a Roma, ma non mancavano certo i padroni capricciosi e crudeli. Le punizioni – frustate per lo più, ma si arrivava alla tortura e alla morte – erano all’ordine del giorno. Non c’erano deterrenti legali contro padroni cattivi o addirittura sadici: si può supporre tuttavia che valesse come freno la disapprovazione sociale.
    E poi gli schiavi rappresentavano un patrimonio e strumenti di lavoro che si aveva interesse a proteggere e a sfruttare. Lo spettro dei servi era l’ergastolo (il lavoro cioè nelle miniere, nelle cave di marmo quando si cominciò a sfruttarle sistematicamente, nelle paludi per opere di prosciugamento), che si svolgeva in condizioni disumane. Con il costituirsi di grosse ricchezze terriere e l’estendersi del latifondo si andarono spopolando le campagne. I contadini, che già prima stentavano la vita, sfruttati e vessati dai proprietari, cercavano scampo nei centri urbani. A sostituirli erano gli schiavi, che costavano meno anche se il loro rendimento non era esaltante.
    Come dappertutto, gli schiavi in Etruria potevano emanciparsi, grazie al peculio che riuscivano ad accumulare o semplicemente grazie ai meriti che acquisivano. L’affrancamento dipendeva comunque dalla volontà del padrone, nei confronti del quale il liberto (lautni com’era chiamato in lingua etrusca) conservava obblighi importanti. Il liberto aggiungeva al suo nome il gentilizio del padrone, faceva pur sempre parte della famiglia, ma aveva una vita propria, lavorava per sé, poteva sposare una libera o un libero, arricchire, fare carriera.
    Basandoci sulle testimonianze figurative e letterarie possiamo farci un’idea di com’erano fisicamente gli Etruschi. Con molta cautela, senza dimenticare il lavoro di idealizzazione degli artisti e i loro modelli culturali: è dall’Asia Minore e dalla Grecia, per esempio, che gli scultori avevano preso la fronte sfuggente, il naso dritto, l’occhio a mandorla e quel sorriso particolarissimo che poi venne assunto a simbolo dell’arte etrusca.
    Non parleremo quindi semplicisticamente di un “tipo etrusco” sulla scorta di un famosissimo sarcofago di terracotta (metà del VI secolo) proveniente da Cere (Cerveteri), su cui è rappresentata una coppia di coniugi adagiati fianco a fianco sul letto del banchetto funebre, con un viso lei da kore attica, lui tendente al triangolare, con occhi obliqui resici familiari dall’arte egeica.
    Catullo e Virgilio hanno parlato rispettivamente di obesus etruscus e di pinguis tirrhenus, varando un’immagine degli Etruschi goderecci e mangioni. che trova del resto qualche riscontro nella scultura, soprattutto in tre sarcofaghi. Uno, proveniente da San Giuliano nei pressi di Viterbo ci presenta sul coperchio una figura coricata sul dorso con un ventre spropositato; un altro, di Tarquinia, mostra un vecchio dalle carni piene che contrastano con guance e collo flaccidi e rugosi; il terzo, conservato nel Museo di Firenze, ci presenta un panciutissimo individuo coronato di fiori (un cavaliere, si direbbe dall’anello all’anulare della mano sinistra), dalla testa semicalva e dagli occhi spalancati, che regge nella mano destra una coppa.
    Ma possiamo considerare questi personaggi rappresentativi della media degli Etruschi o piuttosto del ceto ricco, godereccio, infiacchito dal benessere e dall’ozio? Prendendo in considerazione un centinaio di iscrizioni comprese fra il 200 e il 50 a.C. sulle quali figurano le età dei defunti, gli studiosi hanno ipotizzato (con qualche incertezza per la perdurante difficoltà a interpretare alcuni numerali che vi compaiono) una durata media della vita degli Etruschi di 40,88 anni, non disprezzabile per i tempi, ma che non tiene conto della mortalità infantile, allora elevatissima.
    Gli Etruschi dovevano essere piccoletti, se vogliamo credere agli scheletri (circa un metro e mezzo per le donne, una decina di centimetri in più per gli uomini). Ma lo erano anche i Romani e molti popoli dell’epoca. Basta guardare nei musei armature ed elmi per rendersene conto. Da quando si intensificarono i contatti con i Greci, gli Etruschi si ispirarono alla loro moda per l’abbigliamento, che ci appare nei documenti figurativi nel complesso piuttosto vivace ed elegante (poche informazioni ricaviamo dagli autori romani, e solo per gli aspetti dell’abbigliamento che Roma importò dall’Etruria).
    È ovviamente difficile distinguere l’abbigliamento di tutti i giorni da quello festivo e cerimoniale. Gli uomini, specie i giovani, stavano spesso seminudi, in casa soprattutto ma anche fuori, accontentandosi del perizoma, un panno annodato intorno ai fianchi a formare come delle braghette. Oppure mettevano un giubbetto. Le persone mature indossavano più spesso la tunica leggera lunga fino ai piedi, pieghettata e ricamata, e quando faceva freddo il mantello di stoffa pesante e colorata. Le donne si sbizzarrivano di più: tuniche, gonne, corpini, giubbetti, casacche, mantelli colorati ricamati.
    Soprattutto le gonne colpiscono per loro grazia, con le loro pieghettature, increspature, inamidature, e con le forme svasate che lasciano sospettare cerchi di sostegno. Tutti questi capi di vestiario subirono una evoluzione le cui tappe non è sempre possibile precisare.
    Alla metà circa del VI secolo risale, per esempio, l’introduzione del chitone di lino, indumento decisamente unisex, anche in una versione corta al ginocchio (più tardi, in epoca ellenistica, si impose fra gli eleganti il chitone attillato con cintura). Vivace fu anche l’evoluzione del mantello: quello classico, di derivazione greca, era rettangolare, ma andò molto di moda anche uno semicircolare che si portava di traverso lasciando una spalla scoperta. Uno dei capi di vestiario più famosi e di più lunga vita è il tebennos. che possiamo ammirare su delle piastre di terracotta provenienti da Cere e conservate nel Louvre (VI secolo): vi è raffigurato un re seduto su una sedia curule che indossa sopra una corta tunica bianca orlata di rosso un mantello purpureo che gli lascia scoperta la spalla destra. Adottato a Roma dai sacerdoti e dai militari, il tebennos evolvette nella toga.
    Nella tomba bolognese degli Ori si è trovato un tintinnabulum di bronzo su cui sono raffigurate fasi della lavorazione dei tessuti (cardatura filatura tessitura). Le fibre più usate erano la lana e il lino. Gli Etruschi amavano i colori intensi e le decorazioni, incorporate o applicate. Ai piedi sandali con suole leggere e cinghie incrociate (ce n’erano con suole di legno anche molto alte, montature metalliche e lacci dorati; altri, semplicissimi, avevano suole di legno basse, fasce a semicerchio e un cordone fra l’alluce e le altre dita). C’erano zoccoli, c’erano stivaletti del tipo che oggi diremmo alla polacca.
    Derivarono da calzature etrusche gli stivali indossati dai senatori romani (calcei senatorii), con linguette e corregge, che vedono in molte statue romane ma già nella statua dell’Arringatore. Le più tipiche calzature etrusche erano però quelle che i Romani chiamarono calcei repandi, babbucce curve e colorate, forse di panno, con le punte volte in su e la parte posteriore anche molto rialzata. Sta di fatto che i calzolai etruschi godevano di gran fama anche fuori del paese.
    I copricapi erano molto in uso in Etruria, più che in Grecia dove si andava prevalentemente a testa scoperta. Ne conosciamo alcuni: a larghe falde adatti a proteggere dalle intemperie, ad ampia tesa con la parte superiore conica (qualcosa di simile al sombrero). E poi berretti, di lana e pelle. Risale all’età arcaica il cappello conico femminile chiamato tutulus, nome un po’ impreciso, applicato anche a un berretto di lana degli auguri e a una pettinatura femminile (capelli avvolti intorno a un nastro). Per le donne tutta la gamma, in pratica, delle pettinature odierne – nodi, trecce, chignons, riccioli – e dei marchingegni per tenerle insieme (reti, spilloni e così via). Farsi i capelli biondi faceva fino.
    Sempre dai Greci gli uomini presero l’abitudine della barba rasa e dei capelli corti. Chi poteva permetterselo si adornava con ogni sorta di gioielli e monili (spille, diademi, collane, pettorali, bracciali, braccialetti, anelli ciondoli). In guerra gli uomini si vestivano e armavano come quelli degli altri paesi. Le armi erano lance, giavellotti, spade lunghe e corte, sciabole ricurve, pugnali, asce (magari a doppio taglio), mazze, archi, fionde. Per proteggersi elmi e scudi di varia forma, corazze (dapprima in tela con borchie bronzee tonde o quadrate, poi interamente in bronzo), schinieri. Un periodo cruciale dell’evoluzione dell’armamento fu il VI secolo, con il passaggio dalla tecnica di combattimento di tipo eroico (corpo a corpo) a quella che implicava l’uso di masse (fanteria oplitica e cavalleria). I modelli greci allora prevalsero nettamente su quelli centroeuropei: elmo conico di tipo ionico o calcidese: scudo rotondo in lamina bronzea; schinieri di bronzo a proteggere le gambe spadoni di ferro a scimitarra.
    Nei secoli successivi la tecnica di combattimento della falange e della cavalleria si consolidò, e le armi si perfezionarono: si diffuse l’elmo a calotta con paranuca e paraguance, le corazze adottarono la forma anatomica e gli spallacci (bretelle), lo scudo mantenne la forma rotonda ma aumentò di dimensioni.
    Quanto al carattere degli Etruschi, non possiamo non registrare le testimonianze degli antichi scrittori, tenendo però presente l’invidia che la potenza e il benessere degli Etruschi potevano suscitare e lo sconcerto suscitato da alcuni aspetti singolarmente liberi e spregiudicati del loro costume. Li si considerava, e probabilmente erano, crudeli: ma la crudeltà era di casa nel mondo antico.
    Certo non contribuivano a migliorare la fama degli Etruschi, sotto questo profilo, l’avere essi esercitato su larga scala e molto fruttuosamente la pirateria e fatti come quello che abbiamo riferito, la lapidazione in massa dei Focesi catturati nella battaglia di Alalia. Virgilio dice peste del re di Cere, Mesenzio, che si divertiva a legare faccia contro faccia uomini vivi a cadaveri lasciandoli morire nel fetore e nella putredine.
    Crudeltà insomma spinta al sadismo. Oltre che crudeli, gli Etruschi erano accusati in antico d’essere goderecci, lussuriosi, ghiottoni. Una delle fonti più citate in questo senso è Teopompo (IV secolo a.C.) – riportato da Ateneo (II-III secolo d.C.) nel suo Dipnosofisti – considerato peraltro anche anticamente una solenne malalingua. Ciò che sembra particolarmente colpirlo è la condotta delle donne, liberissima.
    Avevano grande cura del corpo, sfoggiavano seminudità o nudità, bevevano a più non posso. Quanto agli uomini, erano donnaioli sfrenati e accettavano la promiscuità sessuale, non disdegnavano i ragazzetti, facevano l’amore in pubblico senza pensarci due volte, si depilavano. Il filosofo Posidonio di Apamea (II secolo a.C.) – riportato da Diodoro Siculo (I secolo d.c.) nella sua Biblioteca storica – dà un giudizio degli Etruschi un po’ più equilibrato. Anch’egli tuttavia parla di lusso eccessivo e di mollezza di costumi: si fanno imbandire due volte al giorno tavole sontuose, si fanno servire da nugoli di schiavi, alcuni bellissimi e vestiti con sconveniente eleganza.
    Questo infiacchimento dei costumi è secondo Teopompo imputabile alla illimitata feracità del territorio etrusco. È da Posidonio che apprendiamo l’origine etrusca della tromba (detta “tirrenica”), del fascio littorio, della sedia d’avorio, della toga con orlo purpureo, e la perizia degli Etruschi nelle scienze naturali e nella teologia. La famiglia etrusca non differiva sostanzialmente dalla romana e dalla greca (più simile semmai alla romana per l’indiscussa autorità del pater familias), tranne per la posizione delle donne.
    Era questo che stupiva e scandalizzava (abbiamo citato in proposito Teopompo) le altre nazioni. Si desume, l’importanza maggiore delle donne dal fatto che sempre nelle iscrizioni il loro nome è preceduto dal prenome e per tutti, maschi e femmine, si dà non solo la paternità, ma la maternità. Certo è che le donne etrusche non stavano chiuse nel gineceo, la loro virtù non era misurata solo sulla pudicizia, sulla bravura nell’accudire alla casa e nel filare. Partecipavano a tutti gli aspetti della vita privata e pubblica (ai banchetti, ai giochi, alle cerimonie), e attivamente alle carriere dei mariti. Tito Livio racconta per esempio il ruolo che ebbe Tanaquilla, donna di nobile famiglia, nella fortuna del marito Lucumone (figlio di un greco immigrato).
    Lucumone divenne, niente meno, re di Roma, con il nome di Lucio Tarquinio Prisco. Ma ancora dopo la morte di Tarquinio, Tanaquilla ebbe parte determinante nell’elezione a re del proprio genero, Servio Tullio. Un’altra di queste donne energiche e influenti, Urgulanilla, moglie di un certo Plauzio di cui non sappiamo nulla, frequentò la corte di Augusto sfruttando la grande amicizia con l’imperatrice Livia. Una sua nipote sposò un nipote di Livia, Claudio, un giovane infelice (miisellus lo definiva preoccupato l’imperatore), considerato più o meno l’idiota della famiglia. Questo misellus però mise a frutto i rapporti che grazie al matrimonio stabilì con l’ambiente dell’aristocrazia etrusca, ebbe accesso agli archivi di molte famiglie importanti, e divenne, oltre che imperatore, un valente etruscologo.
    Se ci fosse rimasta la sua storia degli Etruschi in venti libri – purtroppo andata perduta – il mondo etrusco presenterebbe per noi molti meno misteri.

    Le classi sociali
    Agli albori della storia di questo popolo, nel periodo Protovillanoviano (età del Bronzo) e nel successivo Villanoviano iniziale (età del Ferro), non si notano segni di una distinzione in classi all’interno della società; essa invece appare evidente nel Villanoviano evoluto, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., quando i corredi funerari cominciano a mostrare netti segni di differenziazione: aumentano gli oggetti di corredo in quantità e qualità, appaiono vasi ed ornamenti d’importazione. Qualcosa è cambiato nella società etrusca e lo si vedrà amplificato alla fine dell’VIII secolo a.C. e nel successivo, quando appare lo splendore della società Orientalizzante, con all’apice le ricche aristocrazie dalle grandi tombe a tumulo e dai sontuosi corredi, che basavano il proprio potere e prestigio sul controllo dei commerci con l’Oriente e delle attività agricole e pastorali.
    La nascita di un ceto “medio” avviene nell’età Arcaica, nel VI secolo a.C., quando artigiani e mercanti iniziano a prendere coscienza delle proprie capacità, operando per proprio conto e non più per i ricchi principi. Fanno parte della stratificazione sociale anche i lautni, gli schiavi, importati come merce da paesi lontani o catturati durante le numerose battaglie per il predominio sul commercio tirrenico: a volte si rinvengono i luoghi di sepoltura di questi esponenti della classe servile, cremati e posti in recipienti di terracotta, tumulati in piccole nicchie scavate nelle strutture sepolcrali dei padroni.

    La classe sacerdotale
    Il ruolo della classe sacerdotale comincia a definirsi più chiaramente nella città-stato etrusca a partire dal VI sec. a.C. Attributo distintivo del sacerdote era il lituo, un bastone di piccole dimensioni e ricurvo a un’ estremità, del quale si ha testimonianza fin dalla prima metà del VI sec. a.C. Si tratta di un’insegna già conosciuta dagli storici degli Annales: l’augure che accompagnò a Roma il re Numa Pompilio stringeva nella mano destra, secondo la descrizione che ne viene fatta, proprio questo “bastone”. Personaggi così raffigurati si trovano di frequente in Etruria a cominciare dalla fine del VI sec. a.C., riprodotti sia in bronzetti votivi che sulle stele funerarie. Nelle lastre architettoniche della “dimora” di Murlo (SI) il lituo è un attributo distintivo del capo-signore, che evidentemente era investito – oltre che del potere politico- anche di quello religioso.
    Possiamo formulare l’ipotesi che questo nuovo “ceto sociale” (sacerdotale) sia venuto formandosi nelle città quando il potere del “re” cominciava a sgretolarsi, come diretta emanazione quindi della classe aristocratica. Possiamo inoltre supporre che, col tempo, si sia costituita anche una gerarchia all’interno del sacerdozio. Nel III sec. a.C. compare una serie di monete che recano, sul diritto, l’immagine di una testa di aruspice (netsvis) con berretto conico (tùtulus) e, sul rovescio, la scure e il coltello, ossia gli strumenti sacrificali.
    I sacerdoti addetti al culto erano chiamati cepen: è probabile che fra di loro vi fosse una gerarchia dotata di cariche specifiche (spurana cepen: sacerdote pubblico). Come a Roma i sacerdoti erano depositari di varie forne di scienza, così presumibilmente accadeva anche per quelli etruschi. Sappiamo infatti da Censorino, erudito latino del III sec. d.C., che nei Libri rituali era contenuta anche una dottrina specifica per il computo del tempo (saecula) non solo degli esseri viventi, ma anche degli stati: il massimo tempo concesso all’Etruria sarebbe stato di dieci saecula.
    Il numero di anni compreso in un saeculum non era fisso, ma stabilito da prodigi spesso astronomici. La ninfa Vegoia aveva profetizzato che nell’VIII secolo qualcuno, per avidità, avrebbe cercato di aumentare i propri possedimenti; tale “secolo” sembrerebbe corrispondere agli inizi del I sec. a.C.: i sacerdoti etruschi avrebbero dunque previsto la fine dell’Etruria con poco margine di errore.

    La famiglia
    La struttura della famiglia etrusca non è dissimile da quella delle società greca e romana. Era cioè composta dalla coppia maritale, padre e madre, spesso conviventi con i figli ed i nipoti e, tale struttura è riflessa dalla dislocazione dei letti e delle eventuali camere della maggior parte delle tombe.
    Conosciamo alcuni gradi di parentela in lingua etrusca grazie alle iscrizioni, come papa (nonno), ati nacna (nonna), clan (figlio), sec (figlia), tusurhtir (sposi), puia (sposa), thuva (fratello) e papacs (nipote).

    La donna
    Merita un cenno la condizione sociale della donna che, a differenza del mondo latino e greco, godeva di una maggiore considerazione e libertà: se per i latini la donna doveva essere lanifica et domiseda, cioè seduta in casa a filare la lana, e su cui, nelle età più antiche, il pater familias (il capofamiglia) aveva il diritto di morte qualora fosse stata sorpresa a bere del vino, per gli Etruschi ella poteva partecipare persino ai banchetti conviviali, sdraiata sulla stessa kline (letto) del suo uomo, o assistere ai giochi sportivi ed agli spettacoli.
    Questo era scandaloso per i Romani che non esitarono a bollare questa eguaglianza come indice di licenziosità e scarsa moralità da parte delle donne etrusche: addirittura dire “etrusca” era sinonimo di “prostituta”. Ma la condizione sociale della donna nella civiltà etrusca era veramente unica nel panorama del mondo mediterraneo, e forse ciò derivava dalla diversa stirpe dei popoli, pre indoeuropei gli etruschi, indoeuropei latini e greci.
    La donna poteva trasmettere il proprio cognome ai figli, soprattutto nelle classi più elevate della società. Nelle epigrafi talvolta il nome (oggi diremmo il cognome) della donna appare preceduto da un prenome (il nome personale), segno del desiderio di mostrarne l’individualità all’interno del gruppo familiare a differenza dei Romani che ne ricordavano solo il nome della gens, della stirpe. Tra i nomi propri di donna più frequenti troviamo Ati, Culni, Fasti, Larthia, Ramtha, Tanaquilla, Veilia, Velia, Velka, i cui nomi appaiono incisi sul vasellame migliore di casa od accanto alle pitture funerarie.