Tag: aristotele

  • Einstein Albert

    Albert Einstein nacque il 14 Marzo 1879 a Ulm, in Germania. Suo padre era un operaio specializzato nella costruzione di apparecchiature elettriche. A causa di un fallimento economico suo padre fu costretto a trasferirsi con la famiglia prima a Munich poi a Milano. Non ci restano sufficienti informazioni sulla vita individuale di Einstein risalenti a questo periodo.
    Durante i suoi studi non mostrò particolari attitudini, in quanto non approvava i rigidi metodi dell’istruzione, e fu davvero un pessimo allievo. Però Einstein rimase affascinato dalla matematica e dalle scienze, materie che studiò autonomamente.
    Nel 1896 gli fu revocata la cittadinanza tedesca e nel 1901 divenne cittadino svizzero.
    Nel 1896 ebbe l’opportunità di entrare all’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia a Zurigo. Nonostante avesse un esigua retribuzione, divenne un esaminatore. Nei due anni seguenti si occupò di insegnamenti generali. Dal 1902 egli divenne un esaminatore ufficiale a Berna dove lavorò per sette anni.
    L’anno 1905 fu un grande momento per la scienza; infatti Einstein pubblicò, a soli 26 anni, quattro articoli sul giornale Annalen Der Physik, articoli che avrebbero alterato il corso della scienza del XX Sec. Il primo trattava dei casuali cambiamenti termici nelle molecole, chiamati Browniani, per prima riconosciuti nel 1827 dal botanico inglese Robert Brown. Il secondo articolo trattava la teoria quantistica della luce divulgata da Max Planck nel 1900. In esso Einstein mostra come la luce sia formata da fotoni rifacendosi al fenomeno fotoelettrico scoperto nel 1902. Per questo contributo gli fu conferito nel 1921 il Premio Nobel per la fisica. Il terzo articolo (il più famoso di Einstein) tratta della teoria della relatività: “Zur Electrodynamik bewegter Korper” (“Elettrodinamica dei corpi in movimento”). L’ultimo articolo di quell’anno introdusse l’ormai famosa equivalenza tra la massa e l’energia espressa dall’equazione E=mc2. Grazie a questi lavori Einstein ricevette, nel 1908, delle onorificenze all’università di Berna, che furono seguite da moltissime altre in Europa dopo che si stabilì all’istituto per Studi Avanzati di Princeton, nel 1933.
    Gli ultimi anni di Einstein furono trascorsi cercando una teoria per la forza universale che potesse unire le forze subatomiche con la gravitazione e l’elettromagnetisno, problema che nessuno mai è riuscito a risolvere. Einstein aveva un gran rispetto per le opere della natura, e notò che “La cosa più incomprensibile del mondo è che esso sia comprensibile”. Si considerava più un filosofo che uno scienziato, e in molti modi fu dello stesso stampo dei filosofi greci, come Platone ed Aristotele, cercando di capire la natura mediante la ragione anziché l’esperimento. Il suo successo deve molto al discernimento dei suoi predecessori e alla potenza d’analisi degli strumenti matematici, ma soprattutto ad una grande intuizione, che nessuno ha mai avuto.
    Morì il 18 Aprile del 1955 a Princeton, nel New Jersey, dopo aver ricevuto la cittadinanza statunitense.

    La teoria della relatività ristretta

    Il terzo e più importante studio del 1905, dal titolo Elettrodinamica dei corpi in movimento, conteneva la prima esposizione completa della teoria della relatività ristretta, frutto di un lungo e attento studio della meccanica classica di Isaac Newton, delle modalità dell’interazione fra radiazione e materia, e delle caratteristiche dei fenomeni fisici osservati in sistemi in moto relativo l’uno rispetto all’altro.
    La base della teoria della relatività ristretta, che comporta la crisi del concetto di contemporaneità, risiede su due postulati fondamentali: il principio della relatività, che afferma che le leggi fisiche hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziale, ossia in moto rettilineo uniforme l’uno rispetto all’altro, estendendo il precedente principio di relatività galileiano, e il principio di invarianza della velocità della luce, secondo cui la velocità di propagazione della radiazione elettromagnetica nel vuoto è una costante universale, che sostituisce il concetto newtoniano di tempo assoluto.

    Critiche alla teoria di Einstein

    La teoria della relatività ristretta non fu immediatamente accolta dalla comunità scientifica. Il punto d’attrito risiedeva nelle convinzioni epistemologiche di Einstein in merito alla natura delle teorie scientifiche e sul rapporto tra esperimento e teoria. Sebbene affermasse che l’unica fonte di conoscenza è l’esperienza, egli era anche convinto che le teorie scientifiche fossero libera creazione dell’uomo e che le premesse sulle quali esse sono fondate non potessero essere derivate in modo logico dalla sperimentazione. Una “buona” teoria, per Einstein, è una teoria nella quale è richiesto un numero minimo di postulati per ogni dimostrazione.

    La teoria della relatività generale

    A partire dal 1907, anno in cui fu pubblicata la memoria contenente la celebre equazione che afferma l’equivalenza fra massa ed energia, Einstein iniziò a lavorare a una teoria più generale, che potesse essere estesa ai sistemi non inerziali, cioè in moto accelerato l’uno rispetto all’altro. Il primo passo fu l’enunciazione del principio di equivalenza, in base al quale il campo gravitazionale è equivalente a una accelerazione costante che si manifesti nel sistema di coordinate, e pertanto indistinguibile da essa, anche sul piano teorico. In altre parole, un gruppo di persone che si trovino su un ascensore in moto accelerato verso l’alto non possono, per principio, distinguere se la forza che avvertono è dovuta alla gravitazione o all’accelerazione costante dell’ascensore. La teoria della relatività generale venne pubblicata nel 1916, nell’opera intitolata I fondamenti della relatività generale. In essa le interazioni dei corpi, che prima di allora erano state descritte in termini di forze gravitazionali, vengono spiegate come l’azione e la perturbazione esercitata dai corpi sulla geometria dello spazio-tempo, uno spazio quadridimensionale che oltre alle tre dimensioni dello spazio euclideo prevede una coordinata temporale.
    Einstein, alla luce della sua teoria generale, fornì la spiegazione delle variazioni del moto orbitale dei pianeti, dando conto in modo soddisfacente del moto di precessione del perielio di Mercurio, fenomeno fino ad allora non pienamente compreso, e previde che i raggi luminosi emessi dalle stelle si incurvassero in prossimità di un corpo di massa elevata quale, ad esempio, il Sole. In base a quest’ultimo fenomeno, si è avuta una conferma sperimentale, realizzata in occasione dell’eclissi solare del 1919, che fu un evento di enorme rilevanza.
    Per il resto della sua vita Einstein si dedicò alla ricerca di un’ulteriore generalizzazione della teoria in una teoria dei campi che fornisse una descrizione unitaria per i diversi tipi di interazioni che governano i fenomeni fisici, incluse le interazioni elettromagnetiche, e le interazioni nucleari deboli e forti.
    Tra il 1915 e il 1930 si stava sviluppando la teoria quantistica, che presentava come concetti fondamentali il dualismo onda-particella, postulato da Einstein fin dal 1905, nonché il principio di indeterminazione di Heisenberg, che fornisce un limite intrinseco alla precisione di un processo di misurazione. Einstein mosse diverse e significative critiche alla nuova teoria e partecipò attivamente al lungo e tuttora aperto dibattito sulla sua completezza. Commentando l’impostazione da un punto di vista strettamente probabilistico della meccanica quantistica, egli affermò che “Dio non gioca a dadi con il mondo”.

    Cittadino del mondo

    Dopo il 1919 Einstein divenne famoso a livello internazionale; ricevette riconoscimenti e premi, tra i quali il premio Nobel per la fisica, che gli fu assegnato nel 1921. Lo scienziato approfittò della fama acquisita per ribadire le sue opinioni pacifiste in campo politico e sociale.
    Durante la prima guerra mondiale fu tra i pochi accademici tedeschi a criticare pubblicamente il coinvolgimento della Germania nella guerra. Tale presa di posizione lo rese vittima di gravi attacchi da parte di gruppi di destra; persino le sue teorie scientifiche vennero messe in ridicolo, in particolare la teoria della relatività.
    Con l’avvento al potere di Hitler, Einstein fu costretto a emigrare negli Stati Uniti, dove gli venne offerta una cattedra presso l’Institute for Advanced Study di Princeton, nel New Jersey. Di fronte alla minaccia rappresentata dal regime nazista egli rinunciò alle posizioni pacifiste e nel 1939 scrisse assieme a molti altri fisici una famosa lettera indirizzata al presidente Roosevelt, nella quale veniva sottolineata la possibilità di realizzare una bomba atomica. La lettera segnò l’inizio dei piani per la costruzione dell’arma nucleare.
    Al termine della seconda guerra mondiale, Einstein si impegnò attivamente nella causa per il disarmo internazionale e più volte ribadì la necessità che gli intellettuali di ogni paese dovessero essere disposti a tutti i sacrifici necessari per preservare la libertà politica e per impiegare le conoscenze scientifiche a scopi pacifici.

    Albert Einstein e il pensiero filosofico

    Einstein definì i principi fisici come libere invenzioni del nostro intelletto anziché come a comode formulazioni sintetiche dei rapporti fra fenomeni, come avrebbe supposto un vero seguace di Mach. Benché, però, potesse esserci bisogno dell’intelletto creativo umano per andare oltre i modi di pensiero tradizionali, ciò non significava che secondo Einstein qualsiasi vecchio principio potesse funzionare. Egli pensava, piuttosto, che quando una teoria riusciva a dare una correlazione matematica semplice e una rappresentazione altrettanto semplice nell’esperienza, stava fornendo una copia adeguata della realtà. Senza dubbio non intendeva asserire che la scienza sarebbe riuscita infine a conseguire una descrizione completa e definitiva del mondo. Nella sua filosofia della scienza c’era nondimeno una forte componente “realistica”: egli credeva che una teoria scientifica fosse composta da un insieme di assiomi o principi fondamentali che potevano essere scelti liberamente dall’atto creativo dello scienziato. Da questi assiomi si potevano dedurre matematicamente teoremi, i quali dovevano poi essere verificati sperimentalmente. A differenza di Newton, Einstein non credeva che gli assiomi potessero venire derivati direttamente o logicamente dai dati dell’esperienza, da fenomeni. Essi richiedevano, invece, un atto creativo di costruzione matematica. La connessione con i fenomeni veniva alla fine della catena di deduzioni, quando i teoremi del sistema matematico venivano messi a confronto con l’esperienza. L’intero processo era guidato da un assunto apparentemente a priori, che ci fosse una sorta di “armonia prestabilita” fra pensiero e realtà, quasi come avevano supposto molto tempo prima gli aristotelici.

  • Hegel: l’idealismo logico

    Hegel nasce a Stoccarda nel 1770 e studia in scuole religiose. Una volta laureato, viene chiamato a Berna a fare il precettore privato. Nelle famiglie ricche dove lavora ha la possibilità di frequentare grandi biblioteche dove si può accingere alla lettura dei classici. Egli studiò molto la cultura greca e soprattutto Platone. Voleva diventare un grande filosofo come Platone e non come il “genio” (Schelling) che solo in sogno conobbe la filosofia. Proprio mentre era a Berna scrisse le sue prime opere di natura religiosa: “La vita di Gesù”, “La positività della religione cristiana”. Le opere di questo periodo non ebbero grande successo anche se oggi sono state riscoperte e studiate.
    Successivamente pubblica: “Differenza fra il sistema filosofico di Fiche e quello di Schelling”, “Fenomenologia dello spirito”.
    Trasferitosi a Norimberga scrive “Scienza della logica” dove, partendo dall’idea prima di essere cerca di raggiungere la realtà determinata e quindi anche la coscienza.
    A Berlino divenne professore universitario facendo, con le sue lezioni, grande successo. Hegel divenne filosofo dello Stato Prussiano, con le “Lezioni Berlinesi”, libro contenente gli appunti delle sue lezioni, raccolti dai suoi alunni, esaltava le doti dello Stato tedesco e lo poneva come guida per gli altri.
    Egli sviluppa il suo pensiero tenendo presente il pensiero greco. Per Hegel il principio di ogni cosa è l’ Assoluto = distinzione di natura e spirito. L’assoluto (unità distinzione) ha un punto finale. “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale e reale” tutto ciò che si realizza ha una sua razionalità; ciò vuol dire credere alla provvidenza (ottimismo). Tutto ciò che è razionale si deve realizzare.
    Per Hegel l’assoluto si sviluppa secondo una struttura dialettica. Di dialettica ne hanno parlato i sofisti, ma era di natura bipolare; ne ha parlato Kant, ma rappresentava la pretesa della ragione di dimostrare le sue idee. Per Hegel invece, la dialettica rappresenta il movimento stesso dell’ Assoluto.

    STRUTTURA DELL’ASSOLUTO

    TESI: momento astratto intellettuale, Momento di posizione
    ANTITESI: opposizione, momento negativo della ragione
    SINTESI: momento positivo razionale, Movimento circolare
    L’antitesi si basa sul principio di opposizione che determina il movimento. La sintesi rappresenta il superamento dei limiti posti nella tesi e nell’antitesi.(SINTESI=AUFHBEN tagliare e conservare).

    Esempio:
    TESI: vita
    ANTITESI: morte
    SINTESI: specie (figli) (con i figli si può vivere oltre la morte).

    Quindi la tesi e l’antitesi vengono superati per affrontare un momento nuovo di ottimismo.

    Nelle opere giovanili già si può intuire questo metodo dialettico:
    TESI: momento rappresentato dalla religione greca; c’era armonia con la natura, la religione rispondeva ai bisogni dell’uomo.
    ANTITESI: rappresentata dalla religione ebraica; si rompe l’ equilibrio tra uomo e divinità mostrando l’uomo come schiavo, servo della divinità punitrice. Si ha quindi una scissione (separazione tra uomo e divinità).
    SINTESI: rappresentata dalla religione cristiana; la religione dell’amore. L’amore unisce l’uomo a Dio; come dice Platone: “nell’amore non c’è chi domina e chi è dominato, c’è unità. L’uomo della religione cristiana sa che è unito a Dio attraverso l’amore. Con l’amore si supera qualsiasi scissione (Fedro).

    Quindi l’assoluto rappresenta il momento culminante della filosofia. “La filosofia è come l’uccello di Minerva che vola al tramonto”.
    Minerva: Dea della sapienza
    Tramonto:momento di riflessione; (l’assoluto riflette su se stesso).

    L’idealismo di Hegel è un idealismo logico [sarà accusato di Panlogismo (tutto è razionalità)].

    FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

    La fenomenologia dello spirito rappresenta la storia romanzata dello spirito che si racconta attraverso la storia. Lo spirito si presenta come:

    COSCIENZA: Spirito
    AUTOCOSCIENZA: Religione
    RAGIONE: Sapere Assoluto

    Lo spirito cerca di presentarsi:

    COSCIENZA:
    * Certezza sensibile
    * Percezione
    * Intelletto

    AUTOCOSCIENZA:
    * Servo – padrone
    * Libertà (Stoicismo, scetticismo, cristianesimo)
    * Coscienza infelice

    RAGIONE:
    * Osservativa (Rinascimento)
    * Attiva (piacere, virtù, cuore)
    * Etica

    La coscienza è il momento in cui inizia tutto. Lo spirito prende coscienza di se (certezza sensibile). Quando capisce la differenza tra uno e molti, si passa alla percezione.
    Con l’intelletto si fa il concetto che permette di cogliere l’universale concreto.
    Concetto reale (concreto) – razionale (universale).
    La coscienza diviene autocoscienza nel rapporto con gli altri. Noi siamo delle coscienze, tra l’una e l’altra si crea un rapporto di “servo – padrone”.
    C’è chi ha paura della morte, dell’incognito. allora non affronta la vita e si affida a qualcun altro. Chi non ha paura sarà sempre padrone nella vita, chi invece ha paura avrà sempre un atteggiamento di servo.
    Il padrone che si serve del servo, non si rende conto però che è lui stesso servo del suo servo poiché ha bisogno di lui. Allora il servo prende coscienza della sua importanza per il padrone, che non potrebbe essere tale senza il suo servo.
    Da questa opposizione scaturisce la libertà spirituale. Il Cristianesimo del Medioevo ha portato la coscienza infelice: durante quel periodo infatti, si diceva ai cristiani di vivere in questo mondo pensando sempre che il vero mondo è quello dell’aldilà. Allora il cristiano nel Medioevo, era scisso, lacerato, perché viveva in questo mondo sapendo che non era il suo mondo.
    Nel Rinascimento ci cogliamo come ragione (universale concreto). Ragione osservativa: l’uomo nel Rinascimento vuole fare scienza. Poi da osservativa diventa attiva (la ragione può agire per piacere, come Faust); o per ragioni di cuore (come Rousseau) o per virtù (come Don Chisciotte). Il momento culminate vede la ragione come etica.

    Percorso speculativo

    * SPIRITO
    La bella vita etica “Antigone”
    La cultura (Illuminismo, Robespierre, Terrore)
    L’anima bella (Romanticismo, Novalis)
    * RELIGIONE
    * SAPERE ASSOLUTO

    La bella vita etica è il mondo greco. Si rifà alla tragedia di Antigone. Lei era una fanciulla che ha disubbidito a Creonte seppellendo il fratello. Si viene a formare un conflitto tra legge umana e legge del cuore. Ciascuno di noi ha simpatia per Antigone, ma se ciascuno di noi la pensasse come lei, non ci sarebbe Stato. Le leggi vanno rispettate anche se non condivise per mantenere il giusto rapporto individuo-stato.
    Da questo conflitto si giunge al poter vivere in società. E’ il caso dell’impero romano. La cultura rappresenta la presenza della legge dello Stato. Ma questo ha comportato il momento del Terrore. Siamo tutti uguali, ma nello stesso tempo nessuno lo era. Il rapporto tra individuo e Stato nell’Illuminismo era di paura.
    E’ un’anima bella che rischia di impazzire o intisichire. E’ individualistica.

    ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO

    ASSOLUTO O IDEA
    * Idea in se o Logica
    Essere (qualità, quantità, misura)
    Essenza [contenuto dell’essere]
    Concetto
    * Idea fuori di se o Natura
    Meccanica
    Fisica (magnetismo, elettricità, chimismo)
    Organica (geologico, vegetale, animale[sensibilità, irritabilità, riproduzione{vita, morte, specie}])
    * Idea in sè e per sé o Spirito
    Soggettivo (antropologia[anima], fenomenologia[coscienza], psicologia[libertà]);
    Oggettivo (Diritto, moralità, eticità [famiglia, società civile, stato]);
    Assoluto (arte[idealità, intuizione, forma]{l’assoluto è intuito}, religione[orientale, personale, cristiana]{l’assoluto è rappresentato}, filosofia{l’assoluto è pensato come concetto}).

    Idea in se o LOGICA
    Per Hegel tutto è logica, tutto è razionalità. “Le mie categorie hanno mani e piedi”; le categorie, forme della logica non sono astratte, ma concrete. Il momento vero è la sintesi, il concetto. Il vero concetto è l’idea, il momento in cui l’idea, partita da essere diviene concetto.

    Idea fuori di sé o NATURA
    Nella filosofia della natura, l’idea si estranea da sé. Essa rappresenta il momento negativo razionale, quello dell’antitesi. E’ un momento importante, necessario ma che Hegel non ritiene interessante poiché qualunque suo spettacolo, anche se stupendo, è inferiore ad ogni azione dell’uomo, anche se malvagia; perché nell’uomo c’è lo spirito libero.
    Non è come Schelling che la studia approfonditamente attraverso la fisica speculativa.
    Hegel dice: “io non credo alla natura come ce l’ha presentata il Romanticismo, (“Deus sive natura” Spinoza). Egli la suddivide in meccanica, fisica ed organica.
    La natura meccanica studia la natura nello spazio e nel tempo (esteriormente).
    La natura fisica analizza le leggi della natura. Le leggi sono quelle di Schelling(elettricità, magnetismo, chimismo).
    La natura organica ci presenta l’organismo geologico (il fossile).
    Hegel studia l’organismo secondo la concezione di Aristotele di funzione vegetativa e sensitiva. L’organismo vegetale ha la funzione vegetativa cioè di crescere, nutrirsi e morire. L’organismo animale ha invece la funzione sensitiva, quindi ha anche la capacità di sentire gli stimoli. L’animale sente; è sensibile; quando sente degli stimoli reagisce ad essi, di qualsiasi natura essi siano, secondo la legge di stimolo e risposta. La riproduzione rappresenta la continuazione della vita (vita, morte, specie).
    La specie è il punto culminante della riproduzione. Con la specie vengono superate le barriere della morte con la vita stessa. Ciò determina la Storia dell’umanità.

    Idea in sé e per sé o SPIRITO
    * Lo spirito soggettivo
    Nell’Antropologia Hegel ci presenta lo spirito soggettivo come anima biologica cioè come funzionalità, come vita (alla maniera di Aristotele). Un’anima primordiale a contatto con l’ambiente (teoria dell’evoluzione).
    Nella Fenomenologia dello spirito, si parla di coscienza (certezza sensibile, percezione, intelletto).
    La Psicologia ci studia dal punto di vista della libertà. La psicologia non viene studiata come scienza; lo diventerà solo nel 1879. Per il momento viene studiata solo come espressione della nostra libertà.
    * Lo spirito oggettivo
    Lo spirito oggettivo riguarda i rapporti che si concretizzano tramite la libertà. La libertà individuale si esplica nelle istituzioni.
    Il primo momento è il contratto; si riferisce alla proprietà che è la prima libertà individuale. Quindi il diritto si presenta come un momento esteriore, come rapporto visibile. Il primo rapporto visibile è il contratto, ciascuno di noi si realizza come possesso, e quindi con tutto ciò che comporta avere il contratto e la conservazione della proprietà privata.
    Se il diritto è l’aspetto esteriore, quello interiore è la moralità. Per Hegel è sempre un aspetto individuale.
    Per superare gli aspetti limitativi l’unico momento vero è la sintesi: individualità in riferimento alla comunità (eticità, organismi etici). La sintesi ci presenta dunque l’eticità, il significato dell’individuo in relazione alla società.
    Gli organismi etici sono:
    La famiglia. Essa è l’unione che nasce con un contratto quando fra due individui c’è sentimento (si nota quindi l’unione tra tesi ed antitesi).
    La famiglia dà l’idea che la moralità individuale è già in rapporto alla moralità del coniuge. Hegel vede questo rapporto come un nucleo chiuso ed armonico al suo interno. Però, questo nucleo chiuso, per necessità si deve rompere, scindere, lacerare (antitesi) quando i figli, diventati grandi, escono dalla famiglia. Quando questi escono rompono l’armonia che c’era all’interno della loro famiglia.
    Hegel esamina questa lacerazione e la chiama società civile.
    Questa indica una comunità di famiglie aperte. Si crea così un rapporto continuo, dinamico tra i vari individui; questa comunità ha bisogno però di una ricongiunzione armonica e questa si raggiunge solo con lo Stato.
    Lo Stato rappresenta il momento della sintesi e lo si può considerare come una grande famiglia. Questo rappresenta la “realtà etica consapevole si sé” di un popolo, ossia la consapevolezza del fine cui va indirizzata la vita comune. In questo senso esso è per Hegel Dio in Terra.
    Lo Stato quindi rappresenta la sintesi, la realizzazione dell’assoluto dal punto di vista storico.
    Lo Stato è vita perché è ragione (“Il Dio che si fa realtà”). La sua vivacità si nota nella guerra. Proprio questa viene vista da Hegel come vento che non permette alle acque di stagnare. “lo capisco che nelle guerre si corrono molti rischi però bisogna affrontarli per permettere agli Stati giovani di affermarsi”.
    La guerra quindi è necessaria e come tale è razionalità. Tramite la guerra si affermano le nazioni. La guerra si serve dell’astuzia della ragione degli uomini per fomentare la battaglia, lo scontro. La ragione quando ha suscitato la guerra si serve anche degli eroi (individui cosmico storici).
    Gli eroi per Hegel sono l’assoluto. L’assoluto si è realizzato in un individuo che ha sentito lo spirito dell’assoluto e lo ha realizzato nella storia e nello spazio. Es: “Cesare distrutto due Repubbliche fantasma e ha realizzato lo spirito nuovo”.
    Una volta che questi eroi compiono il loro compito di mostrare l’assoluto, vengono messi da parte.
    Per Hegel l’unica realtà vera è lo Stato che sviluppa la razionalità. Noi possiamo studiare la storia attraverso la libertà, attraverso la realizzazione della libertà.
    “Negli Stati orientali la libertà è di uno solo, poi negli Stati greco – romani la libertà appartiene a pochi (il Senato, l’aristocrazia), è solo nello Stato tedesco che da Lutero in poi la libertà appartiene a tutti”. Quindi è solo nello Stato tedesco che tutti sono liberi e quindi è lo Stato tedesco che deve essere lo Stato guida di tutti gli altri Stati, perché è l’unico che ha realizzato l’assoluto. (idea PANGERMANICA – la Germania ha il diritto di guidare gli altri popoli).
    Questo fu un discorso pericoloso più dei “discorsi alla nazione tedesca” di Fiche. Mentre questi ultimi furono scritti per necessità, per stimolare i tedeschi contro l’oppressione dello straniero, i discorsi di Hegel sono rivolti allo Stato che viene giustificato attraverso la razionalità.
    Naturalmente questo discorso venne ripreso durante la I guerra mondiale.
    Hegel tratteggia questo grande scenario (storia – realizzazione dell’assoluto). Nella storia nulla è fatto per caso, ma tutto ha un suo fine, uno scopo ben determinato. Tutto è razionale, tutto compie un movimento razionale.
    * Lo spirito assoluto
    Lo spirito fin’ora è stato soggettivo, oggettivo, ed adesso lo si può cogliere nella sua pienezza. Tutte e tre le funzioni dello spirito hanno per oggetto l’assoluto (lo spirito che si coglie in sé e per sé). Questo è il momento in cui si prende coscienza del giorno cioè rappresenta lo svolgimento dell’assoluto.
    L’assoluto può essere intuito nell’arte, rappresentato nella religione e pensato come concetto nella filosofia.
    L’arte è il momento di intuizione soggettiva di chi ha una natura sensibile. Schelling ha visto l’arte come momento di intuizione dell’assoluto, per lui l’arte è il momento culminante (unione indifferenziata di natura e spirito). Per Hegel invece, l’arte è un momento particolare che deve essere superato. L’arte si sviluppa attraverso tre momenti particolari dell’artista: idealità, intuizione, forma.
    In queste tre fasi si può trovare delineata la storia dell’arte. All’inizio della storia, nell’arte è stata predominante la materia (arte simbolica). L’arte orientale poi, si è manifestata nell’architettura dei templi (uso del marmo, della pietra).
    Nell’arte greco – romana, c’è stato invece un equilibrio tra materia e idealità e questa forma di arte si è manifestata nella scultura (armonia tra intuizione dell’artista e forma).
    Infine si giunge all’età moderna, all’età tedesca con l’arte Romantica.
    In questo tipo di arte predomina la soggettività dell’artista, infatti le espressioni d’arte di questo periodo sono la pittura, la musica e la poesia.
    In questo senso, l’arte tedesca è quella superiore a tutte le altre. Nell’arte noi cogliamo in un momento soggettivo l’intuizione dell’assoluto. Hegel, comunque, pur affrontando la distinzione tra bello naturale e bello artistico, ritiene che il soggetto da cui si trae l’ispirazione è sempre superiore.
    Ma l’arte in sé è un momento affidato al soggetto. Ma l’assoluto ha bisogno di avere un momento di oggettività.
    Questo momento lo si ha con la religione. In essa, l’assoluto è colto da tutti tramite la fede che fa avvertire oggettivamente la presenza dell’assoluto. Anche la religione si può studiare attraverso tre momenti: religione orientale; religione personale; religione cristiana.
    La religione orientale, rappresenta il primo momento in cui l’assoluto è visto in un feticcio (in questa religione c’è il culto del Dio Sole, della metempsicosi), al massimo si può avere un certo animalismo (pensare che tutta la natura sia divinizzata).
    Ma questa rappresenta l’infanzia dell’umanità, poi si passa alla religione personale (la divinità è vista come persona). Questa religione, di natura personale è tipico della religione ebraica.
    Ma anche questo momento, non è quello culminate.
    Infatti il momento culminante è dato solo dalla religione cristiana che presenta Dio come trinità: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo.
    Nemmeno la religione è un momento conclusivo, perché oggettivo. L’assolto è colto nella sua pienezza come natura concettuale (concetto).
    Il concetto è visto come complemento, coglie l’assoluto nella sua essenza. L’assoluto si può cogliere solo nella filosofia (panlogismo).
    Questo momento è il momento finale “E’ come l’uccello di Minerva che vola al tramonto”. C’è solo da riflettere, di prendere coscienza di ciò che è accaduto. Quindi la filosofia è anche storia.
    Attraverso i vari filosofi che hanno criticato le filosofie precedenti e le hanno superate si è potuto avere uno svolgimento nella storia, nella ricerca della filosofia finale.
    In questo svolgimento, l’assoluto cerca se stesso, cerca di farsi capire, di realizzarsi. La filosofia quindi risponde al tempo in cui si realizza e coglie quel momento storico in cui si sviluppa.
    Hegel dice che la sua filosofia è la massima filosofia, e come tale non potrà essere mai superata. Questa sua idea rappresenta il limite della filosofia hegeliana, perché la filosofia procede, come procede lo sviluppo dell’umanità.
    E’importante che la filosofia abbia un rapporto sociale con la storia e che instauri anche un rapporto con la religione.
    Però, pur considerando la filosofia come momento speculativo (sintesi), ritiene che la religione e la filosofia stiano sullo stesso piano.
    Per lui la filosofia non è superiore alla religione perché entrambe hanno lo stesso soggetto, l’assoluto.
    Un gruppo di suoi discepoli riterrà questa affermazione corretta (destra hegeliana), mentre un altro gruppo di studenti dirà che la religione e l’arte, non stanno sullo stesso piano della filosofia perché hanno lo stesso oggetto.

  • Kant: il criticismo

    Kant è un filosofo illuminista, nasce a Königsberg; la madre riveste per lui un ruolo molto importante che, a quanto sostiene, gli insegna il primo germe di bene. È il quarto di 11 figli, ma con i fratelli non ha un gran rapporto. Viene mandato al collegium Friedericianum, dove si dimostra subito critico nei confronti della religione, per quanto riguarda le forme esteriori ed esagerate del culto: ha un concetto intimistico della fede, le preghiere forzate sono, per lui, inutili. Diventa bibliotecario, poi docente di logica e metafisica all’università; i suoi interessi sono prevalentemente scientifici: pubblica molte opere sulla Terra, sul moto, sulla quiete e sulla teoria dei venti (scritti pre – critici). La sua prima opera importante, scritta nel 1781 è la “Critica della Ragion Pura”, dove fa il punto sulla conoscenza (2° edizione). Il 1788 è l’anno della pubblicazione della “Critica della Ragion Pratica”. Nel Critica della Ragion Pratica si chiede cosa si può conoscere, è uno scritto teoretico, nella Critica della Ragion Pratica si occupa di come si debba agire nella pratica. Nel 1790 scrive “Critica del giudizio”. 1793 – 1797: sono gli anni della censura prussiana e del terrore francese: perciò riceve un severo ammonimento soprattutto per le sue opere a tema religioso, dalle quali traspariva troppo l’ideale illuministico; scrive inoltre il libro “Per la pace perpetua”, intesa come pace fra gli stati e le nazioni. Muore malato nel 1804, di lui si parla come di una persona calma, mite, riflessiva.
    L’indirizzo filosofico di Kant si chiama criticismo, dal verbo Krino: Analizzare, scomporre un problema in parti elementari per studiarle meglio (Cartesio) e Giudicare, e cioè emanare sentenze.
    Il suo principio sta nel criticare e verificare la legittimità delle pretese avanzate dalla ragione umana nel campo delle conoscenza: critica della ragione con la ragione stessa; bisogna studiare la ragione per vedere qual è il suo limite. Il criticismo indica la dottrina di Kant nei capisaldi che possono essere così ricapitolati:

    1. Impostazione critica del problema filosofico, e pertanto, la condanna della metafisica come sfera di problemi che sono al di là della ragione umana.
    2. Determinazione del compito della filosofia come riflessione sulla scienza, e in generale, sulle attività umane, allo scopo di determinare le condizioni che ne garantiscono la validità.

    Criticismo: analisi della ragione umana, e fondazione della legittimità delle pretese che essa avanza nell’ambito variegato dell’esperienza umana. La domanda che segue questi ragionamenti è questa: cosa dobbiamo fare per dire che la conoscenza è scienza?
    È necessario che un concetto sia universalmente approvato; il nome è convenzionale, il concetto no. La ragione è una struttura a priori nata per unificare l’esperienza. Il criticismo è detto anche filosofia del limite, ermeneutica della finitudine o teoria dell’interpretazione.
    Lo scopo della filosofia di Kant è andare a individuare il limite all’interno del quale la conoscenza è valida. Mediatore tra empirismo e razionalismo, Kant vuol dare alla sua filosofia una visione finita dell’esistenza, delimitata all’interno di un ambito preciso, perciò nega la potenza e l’onniscienza umana e studia il problema della conoscenza come è stato affrontato in passato.
    Razionalismo (Cartesio): Per Cartesio si poteva giungere alla conoscenza del mondo sensibile, attraverso l’idea di Dio per mezzo del cogito, dell’autocoscienza. Secondo lui la ragione umana aveva il potere di conoscere tutto, nel campo della realtà sensibile e nel campo metafisico. Conoscenza = rappresentazione. Come si fa ad avere la certezza di qualcosa? Cogito, ergo sum, autocoscienza, sentire di sentire = avere delle idee. Punto debole: il pensiero corrspode all’essere?
    Empirismo: (Hobbes, Locke e Hume) Conoscenza, = avere sensazioni, percezioni, ma le idee che posso avere non sono certe. La certezza c’è solo nel momento attuale della percezione. Punto debole: scetticismo
    Sintesi Kantiana: Kant opera una vera e propria rivoluzione copernicana: come Copernico aveva invertito il rapporto tra Terra e Sole, così Kant inverte il rapporto tra oggetto e soggetto della conoscenza. Anziché pensare che le nostre strutture mentali umane si adattino alla natura, bisogna pensare che la natura si modella sulle strutture umane. La conoscenza parte dall’oggetto, ma al centro del sistema conoscitivo c’è un soggetto che organizza i dati dell’esperienza sensibile attraverso strutture a priori dunque tutto inizia dall’esperienza (empirismo), ma non tutto deriva dall’esperienza (razionalismo) la ragione è modellata con strutture a priori universali e necessarie. La conoscenza ha l’aspetto passivo (sensibilità, esperienza) e quello attivo: Unificazione degli elementi sensibili (razionalità).
    La conoscenza è fenomenica (posso conoscere solo quello che mi appare), non noumenica.
    Le nostre conoscenze senza la sensibilità sarebbero vuote: la sensibilità ci dà gli oggetti immediatamente con la conoscenza intuitiva (immediata): l’intelletto unifica i dati dell’esperienza in concetti: è già una facoltà mediata, è una forma di conoscenza discorsiva. Però questo meccanismo funziona solo se limito le mansioni dell’intelletto ad unificare l’esperienza; se pretende di arrivare alla conoscenza di Dio (di cui non si può avere esperienza), non va più bene. La ragione è la facoltà umana che tende a proseguire il processo di unificazione della realtà, ma commette l’errore di uscire dall’esperienza. La ragione unifica i concetti in teorie, il prodotto della ragione nelle idee.

    Le forme a priori sono spazio e tempo: ognuno di noi ha l’inevitabile attitudine a collocare ciò che conosce in ambito spazio – temporale spazio e tempo universali e necessari.

    La teoria di Kant è la riproposizione della fisica astronomica di Newton (scardinata dalle teoria della relatività di Einstein). C’è continuità tra Kant e Newton anche se ci sono comunque importanti differenze: Newton ritiene che l’ordine del mondo sia causato da una forza divina intelligente che ha deciso di creare il mondo, quindi la sua è una concezione teleologica o finalistica. La concezione di Kant invece è più meccanicistica o deterministica, dato che, secondo lui, a partire da un caos iniziale, grazie alle forze di attrazione e repulsione si genera il mondo che funziona secondo un principio di causa – effetto. Newton è pessimista: il cosmo tenderà ad autodistruggersi, mentre Kant è molto più ottimista, perché secondo lui la ragione umana tende all’ordine: non è detto che sia reale, ma è un’impostazione mentale. Kant si basa sulla geometria euclidea tridimensionale, ma quando questa viene superata le sue affermazioni non hanno più senso: per renderle nuovamente valide, però, basta eliminare l’assolutezza delle tre dimensioni.
    Kant vuole far capire come avviene la conoscenza e le condizioni secondo cui la conoscenza è valida. La condizione delle condizioni è che la conoscenza dipende dall’esperienza (critica alla metafisica che è puro pensiero). Kant si mette ad esaminare le singole sfere conoscitive per mettere in rilievo, se c’è ne sono, gli elementi a priori. Le sfere conoscitive, ossia gli aspetti diversi nei quali si presenta il nostro potere conoscitivo, sono di tre tipi: sensibilità, intelligenza e ragione, che Kant rispettivamente denomina estetica, analitica, dialettica.

    L’estetica trascendentale

    Il suo scopo è di studiare le forme a priori della sensibilità: alla base della sensibilità ci sono strutture uguali per tutti all’interno delle quali collochiamo l’oggetto percepito, che sono spazio e tempo. Lo spazio è la forma del senso esterno, il tempo è la forma del senso interno, in cui collochiamo il flusso delle nostre esperienze interne. Lo spazio e il tempo sono le strutture grazie alle quali sono possibili la matematica e la fisica. La matematica lavora sulla pura forma dello spazio, estrae dalla realtà; a questo si collega la questione dei giudizi: conoscere vuol dire anche giudicare.
    I giudizi possono essere:
    Analitici: il predicato è già contenuto nel soggetto
    Sintetici: c’è stata una sintesi: il predicato non è contenuto nel soggetto
    Si possono conciliare giudizi analitici e sintetici in giudizi che si chiamano sintetici a priori universali e necessari che ampliano la conoscenza: 7 + 5 = 12 è uguale per tutti (analitico), ma ci si può arrivare in altri modi: il 12 non è insito né nel 7 né nel 5, è nuovo (sintetico). La scienza è fatta da giudizi sintetici a priori.
    Spazio e tempo hanno due caratteristiche che sono ideali e reali : l’idealità trascendentale. Ideali perché sono funzioni logiche della mente, reali perché sono universali e necessari dato che valgono per tutti.

    L’analitica trascendentale

    È quella dottrina che studia le forme a priori dell’intelletto: studia il modo in cui l’intelletto unifica le sensazioni arrivate dall’esperienza, il cui prodotto è un concetto. C’è bisogno di strutture categoriche per classificare le singole sensazioni: le categorie derivano da Aristotele, per il quale sono i sommi generi dell’essere: ciò che si può predicare dell’essere. Le categorie per Kant sono divise in quattro tipi: quantità (unità pluralità, totalità), relazione (causa effetto, accidente), qualità (forma, colore, odore) e modalità (inerenza e sussistenza). Queste categorie devono essere universali e necessarie e derivano tutte dall’autocoscienza dell’individuo che Kant chiama l’io penso: il sentire di sentire o sintesi originaria dell’appercezione . Per Cartesio il cogito implicava la res cogitans, la sostanza; per Kant resta una funzione logica, un’ipotesi perché tutti coloro che hanno l’io penso, possiedono le categorie e le possiedono allo stesso modo: “deduzione trascendentale”: dimostrazione della validità delle categorie.

    Dialettica trascendentale

    La dialettica è logica dell’apparenza, un modo di ragionare vizioso che produce parvenza e non conoscenza. La dialettica studia il modo in cui la ragione unifica i concetti dell’intelletto: mentre l’intelletto procede con i giudizi e con le sentenze, la ragione procede con i sillogismi. Il problema della dialettica e della ragione è il fatto che non ha direttamente a che fare con l’esperienza: arriva a delle conclusioni che escono dall’ambito fenomenico. La ragione nel suo processo di unificazione dei concetti approda a tre totalità incondizionate (tre assoluti): l’idea di Anima, l’idea di Mondo, l’idea di Dio. La ricerca dell’incondizionato da parte della ragione è la prosecuzione inevitabile del nostro processo conoscitivo verso un’unità ultima che continuamente sfugge alla nostra conoscenza. L’unità suprema cui la ragione aspira può solo essere pensata ma non può essere conosciuta.
    Studio dell’anima: psicologia razionale; Studio del mondo: cosmologia razionale Studio di Dio: teologia razionale. La ragione, nella sua ricerca dell’incondizionato, cade in contraddizione di aporie , di antinomie. Si rientra nella metafisica che esula dell’ambito dell’esperienza.

    Psicologia razionale

    Il concetto di anima, con il progredire della scienza è diventato sinonimo di mente: la psicologia razionale pretende di giungere ad una conoscenza effettiva dell’Io, senza ricorrere all’esperienza, così, con il puro pensiero o ragionamento, attribuisce all’anima caratteristiche quali la sostanzialità, la semplicità, l’immutabilità, l’immortalità.
    Alla base di queste pretese c’è per Kant un errore logico che chiama paralogismo. Ovvero un sillogismo errato nella sua struttura, nella sua impostazione, perché il sillogismo è basato su due premesse: una premessa maggiore (a) e una premessa minore (b); dalla sintesi delle due deve derivare una conclusione. Il sillogismo funziona se le premesse sono vere, se i due termini a e b sono uniti da un termine intermedio c che è comune ad entrambi, se il termine intermedio non è univoco, non ha sempre lo stesso significato, ma è equivoco, o si presta a più interpretazioni, quindi a e b non sono più uniti, ma il sillogismo si scinde in due e più sillogismi, uno per ogni significato del termine, quindi il sillogismo non dimostra più nulla.
    Esempio di sillogismo:

    * Tutti gli uomini sono animali razionali
    * Socrate è un uomo
    * Uomo
    Conclusione: Socrate è un animale razionale

    Esempio di paralogismo:

    * Socrate è Ateniese
    * Socrate è brutto
    * Ateniese
    Conclusione errata: tutti gli Ateniesi sono brutti

    Per l’anima si viene a creare un paralogismo:

    * Ciò che può essere pensato solo come soggetto esiste come tutto ed è sostanza tangibile
    * Un essere pensante può essere pensato solo come soggetto
    Conclusione errata: l’essere pensante esiste come sostanza, cioè come anima
    errore: si attribuisce sostanzialità dunque esistenza reale a ciò che è solo formale.

    Cosmologia razionale

    Si occupa dell’idea di mondo, ovvero la totalità dei fenomeni esterni: la sua tesi è questa: se è dato un fenomeno condizionato (qualunque cosa che esista nella realtà di cui noi possiamo fare esperienza), è data anche la serie delle sue condizioni come un oggetto conoscibile. Si scambia per fenomeno ciò che non può essere un oggetto di esperienza, ovvero il mondo esterno inteso come insieme di tutti i fenomeni.
    La totalità dell’esperienza, non è mai un’esperienza, si conosce la verità solo sotto aspetti particolari, possiamo solo pensare ad un’idea che comprende in sé teoricamente tutti i fenomeni possibili, ma assolutamente non possiamo conoscerla. La cosmologia, dunque, cade nelle antinomie della ragione, ovvero conflitti della ragione con se stessa, contraddizioni insolubili, perché in esse, sia le tesi, sia le antitesi, sono sorrette da ragionamenti rigorosi, ma non si basano sull’esperienza. Tesi e antitesi potrebbero essere entrambe vere o entrambe false, ma non è possibile propendere per le une o per le altre perché manca il controllo empirico.

    Tesi: Il mondo ha un inizio nel tempo e un limite spaziale
    Antitesi: Il mondo è eterno e infinito

    Tesi: Nel mondo ogni sostanza consta di parti semplici e indivisibili
    Antitesi: Il mondo è composto da elementi divisibili all’infinito

    Tesi: Oltre alla causalità naturale, nel mondo esiste una causalità libera (possibilità di scegliere l’azione da compiere, il comportamento da tenere)
    Antitesi: Esiste solo un principio di Causa – effetto

    Tesi: esiste un essere assolutamente necessario
    Antitesi: Ogni realtà è solo contingente

    Kant dice che le prime antinomie sono false sia nella tesi sia nell’antitesi, perché non si più avere davanti l’oggetto mondo e individuarne le caratteristiche. Le altre due poterebbero essere vere, però il problema è che le tesi fanno riferimento al campo noumenico, mentre le antitesi si riferiscono al mondo fenomenico. Il conflitto deriva dall’applicare la categoria di totalità ai fenomeni che invece si danno solo individualmente. La soluzione è dire che il mondo nella sua totalità non è oggetto conoscibile.

    Teologia razionale

    Si occupa dell’idea di Dio: è un assoluto, una verità incondizionata a cui la ragione tende e non può non tendere: è un’idea della ragione. L’obiettivo è confutare l’idea che le prove dell’esistenza di Dio abbiano una validità scientifica. Dio è l’essere supremo, originario, l’essere degli esseri, e Kant esamina le prove che nella tradizione filosofica sono state date, non valide scientificamente.

    Kant dice: non si può non pensare a Dio, però di Dio non si può dimostrare né l’esistenza, né la non esistenza, ma allora queste idee della ragione, cosa servono? Per loro ci sono due usi:
    1) Uso costitutivo: usare le idee per conoscere: prendo un’idea e la applico agli oggetti (uso illegittimo)
    2) Uso regolativo: utilizzare le idee per regolare il nostro rapporto con la realtà, per dare sistematicità alle nostre conoscenze, e per guidare il nostro comportamento, allora io so che queste idee sono puramente pensate, ma faccio come se esistessero per poter regolare il mio rapporto con la realtà. Possiamo rifletter sull’esistenza ponendo a fondamento di essa e dandole un senso. Se questo serve a consolarmi, va bene, ma non devo crederci.
    Quando parliamo di natura utilizziamo il nesso causale, e per comodità di ragionamento possiamo ipotizzare l’esistenza di una causa prima. Le idee trascendentali ci ricordano costantemente la nostra limitatezza, la debolezza del nostro sapere, che si arresta inevitabilmente in un punto, ma contemporaneamente queste idee ci spingono ad andare oltre. Kant si accorge che non si vive di solo fenomeno, ma c’è bisogno di noumeno. Quello che non vale da un punto di vista scientifico, può avere un senso nell’ambito pratico. In quest’ambito pratico si può inserire l’idea di Anima, di Mondo e di Dio.

    CRITICA DELLA RAGION PRATICA

    Non ci si trova più nell’ambito teoretico, ma in quello pratico. La ragione, oltre ad avere un uso puro, dunque a valere in campo conoscitivo, possiede per Kant un uso pratico, cioè funge da motivo determinante della volontà: guida la volontà ed incita ad agire in un certo modo verso un fine positivo. Ma questo non significa, per l’uomo soddisfare tutti i suoi bisogni naturali: l’uomo possiede un fine più elevato che il semplice raggiungimento di una felicità naturale. Il fine della ragion pratica è il bene: è il produrre una volontà buona in sé. La Ragione deve dettare all’uomo le regole di comportamento. Per capire la morale kantiana, dobbiamo capire il concetto di dovere: se la ragion Pura era legata al mondo dell’essere , la critica della ragion pratica è legata a quella categoria filosofica che si chiama dover essere . Le azioni del Dover essere si dividono in:
    Legali: Azioni conformi al dovere per un motivazione estrinseca: rispettare la legge o per paura della pena o per desiderio di un premio
    Morali: Azioni conformi al dovere per una motivazione intrinseca, ovvero per il dovere stesso e per nessun altra ragione.
    Le caratteristiche della legge morale sono cinque:

    1. Razionalità: deve essere chiaramente comprensibile alla ragione umana
    2. Universalità: la legge morale deve valere non solo per il soggetto che se la pone, ma per tutti gli esseri razionali- Si è universali quando la massima della nostra azione può essere estesa a tutti senza alcun danno. es. la massima delle mie azioni è vivere arricchendosi: è razionale ma non universale, perché chi si vuole arricchire a tutti i costi lo farà a discapito di qualcun altro.
    3. Formalità: la legge morale deve prescindere da ogni contenuto empirico, e basarsi esclusivamente sulla pura forma della razionalità
    4. Imperatività: è un comando dovuto al fatto che l’Uomo non è spontaneamente morale, ma ha bisogno di un certo controllo: la moralità sta a metà tra la bestialità e la santità . L’uomo è tentato di comportarsi come gli animali, ma tende verso la santità. Ma nella moralità si realizza l’autonomia: dare leggi a se stessi. Non essere determinati da altri che da sé. Quanti tipi di imperativi esistono?
    * Imperativi ipotetici: regole dell’abilità, consigli della prudenza, regole di comportamento sociale che si sintetizzano nella formula: se vuoi x fai y. Questi imperativi ipotetici indicano solo quali mezzi adoperare per raggiungere un certo fine, ma non dicono se il fine sia bene o male.
    * Imperativi categorici: devo fare x perché devo, prima ancora di sapere se ho i mezzi per raggiungere x debbo attivare la mia volontà per raggiungere questo fine.

    Formulazione degli imperativi categorici
    o Agisci: come se la massima della tua azione dovesse essere elevata a legge universale di Natura. Qui si sottolinea il fatto che la legge deve valere per tutti incondizionatamente e che tutti devono mettere da parte i propri vantaggi e svantaggi personali.
    o Agisci in modo che la tua volontà valga per tutti come universalmente legislatrice.
    o Agisci in modo da trattare l’umanità nella propria e nell’altrui persona sempre come fine e mai semplicemente come mezzo. Questo presuppone il rispetto altrui: solo in questo modo si può realizzare il “regno dei fini”, l’obiettivo degli obiettivi dell’uomo, che è realizzare una comunità di esseri liberi e razionali, quindi autodeterminantisi, in cui ciascuno sia al tempo stesso legislatore e suddito. Non è una comunità corretta, non è uno stato. Il regno dei fini è un ideale utopico.
    o Intenzionalità della legge morale. Significa che l’etica di Kant guarda all’intenzione con cui è stata compiuta l’azione, piuttosto che il risultato. Dunque il valore di un’azione sta nel movente della volontà: posso fallire, ma se ho agito per il bene, l’azione ha una morale. Quindi l’uomo ha dentro di sé una componente empirica e naturale, è sottoposto alle leggi di causa – effetto e quindi non è libero, anche se ha un aspetto legato alla libertà: anche l’uomo è fenomeno, ma può valere anche come noumeno perché si dà delle leggi morali: l’uomo deve fondere dentro di sé l’aspetto fenomenico e noumenico.
    Pensiero di Kant: «Il cielo stellato sopra di me mi fa ricordare la fragilità della mia natura, ma mi fa sentire anche parte del tutto, mentre la legge morale che è in me mi fa ricordare che sono libero».

    Il rispetto della legge morale produce nell’uomo un duplice sentimento, ovvero uno stato di piacere e dispiacere contemporaneamente. Il dispiacere consiste nel fatto che l’uomo si rende conto della propria fragilità, della sua necessità fenomenica, cioè di esse un semplice meccanismo tra i meccanismi, essere la parte di un tutto, in questo senso l’uomo perde il suo amor proprio, viene mortificato il suo lato sensibile, perché non può abbandonarsi agli istinti. Il piacere, invece, consiste nel fatto che l’uomo è libero e può scegliere di elevarsi dalla bruta animalità e quindi agire disinteressatamente per il bene comune. In questa legge morale, affinché sia realizzabile, occorre ammettere tre postulati detti: postulati della ragion pratica, sono condizioni che si ammettono come vere in modo ipotetico:

    1. Libertà autonomia autodeterminazione
    2. Immortalità dell’anima
    3. Esistenza di Dio

    Non è obbligatorio crederci. Le ultime due condizioni, Kant le aveva espulse nella “Critica della ragion pura”, ma le riprende in ambito pratico. Kant intende la libertà come autonomia: capacità di dare leggi naturali a se stessi, di autodeterminarsi, quindi di decidere razionalmente il proprio destino. La libertà è necessaria, perché, se io devo, in qualche modo è perché posso, non sono il balia di qualche essere trascendentale che mi guida. La bontà dell’azione sta nel fatto che posso scegliere anche quella opposta. La libertà è la ratio essendi della ragione morale, cioè, agendo normalmente, l’uomo diventa libero, ma è anche vero che l’uomo agisce normalmente perché è libero; quindi è un rapporto biunivoco, di simbiosi. Kant dice anche che la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà. L’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio servono per realizzare il fine che Kant chiama SOMMO BENE, perché questo contiene due elementi al suo interno che sono la virtù e la felicità. La virtù è intesa come merito di essere felici; noi siamo buoni e meritiamo la felicità, ma non è detto che lo sia veramente: non è completo perché ha bisogno anche della felicità. Questa è la soddisfazione dei propri bisogni, sempre in connessione con la legge morale.
    Per realizzare la virtù c’è bisogno dell’immortalità dell’anima, e per la felicità dell’esistenza di Dio. La connessione tra virtù e immortalità è data dal fatto che, dovendo l’uomo diventare sempre migliore per tendere alla felicità, ha bisogno di pensarsi come essere infinitamente perfettibile; cioè che in un tempo e spazio non definiti si continui il processo di perfezionamento. Se così non fosse non servirebbe a niente agire bene perché non ne si avrebbe la motivazione. Questa è un’ipotesi che dà la forza di agire bene; l’altruismo può essere visto come una forma di egoismo mascherato, perché lo si fa anche per un bene personale. L’uomo è caratterizzato da un’insocievole socievolezza, in quanto, quando ha soddisfato il bene comune, si occupa del proprio. L’esistenza di Dio mi serve perché un Dio è garante della giusta distribuzione della felicità, quindi la moralità è una condizione necessaria ma non sufficiente (perché ha bisogno della religione). La morale conduce alla religione.
    Il concetto di moralità diviene molto importante dal punto di vista politico: Per Kant è importante mettersi sia dal punto di vista dei legislatori che dei sudditi. Kant condivide il presupposto jus naturalistico per cui lo Stato è il frutto di un accordo stipulato tra i suoi membri. Lo stato di natura è immorale, perché gli uomini perseguono i propri bisogni personali, quindi avviene la creazione del patto. Per uscire dallo stato di natura occorre il diritto: limitazione della libertà individuale alla condizione che questa si accordi con la libertà degli altri: la legge morale e quella giuridica devono funzionare allo stesso modo, quindi Kant ipotizza una costituzione repubblicana di Stato basato sulla divisione dei poteri e sui tre principi fondamentali della ragione: libertà, uguaglianza davanti alla legge, indipendenza dell’individuo, che nello Stato diventa partecipazione al potere politico mediante meccanismi di rappresentanza.
    Kant non è un democratico giacobino, anche se è d’accordo con gli ideali della rivoluzione, ma non ama nemmeno il dispotismo illuminato tipico del 700 (Maria Teresa d’Austria), poiché tutto dipende dalla bontà o meno del sovrano, ma può anche capitare un sovrano non buono. Se il sovrano non rispetta il diritto dell’individuo, il popolo può fare resistenza con la penna, ovvero, con l’opinione pubblica che faccia sentire il suo dissenso. Dov’è la moralità dello Stato? Il politico deve essere anche morale, ovvero la legge va fatta tenendo conto dell’interesse universale, e il politico deve rinunciare a interessi egoistici. Egli deve agire mirando alla pace, intesa come dovere universale. Kant nell’opera per la pace perpetua, parla della pace tra gli stati: se il politico non agisce mirando alla pace, l’unica pace ottenibile sarà quella eterna.

  • Socrate

    Vita e opere

    Socrate nacque ad Atene prima del 469 a.C.,dallo scultore Sofronisco e dalla levatrice Fenarete.
    Ebbe per moglie Santippe, tipo proverbiale di donna isbetica, che si dice abia sposato per provare continuamente la propria pazienza.
    Compì il suo dovere di cittadino, combattendo valorosamente nella guerra del Peloponneso, a Potidea, a Delo, ad Anfipoli.
    Nella sua missione si diceva assistito da un demone (forse la testimonianza della coscienza, che lo avvertiva di quello che doveva evitare.
    Già avanzato negli anni, fu accusato di ateismo e di corruzione dei giovani da Meleto, un oscuro poeta, dal mercante Anito e dal retore Licone; ma a tale accusa non dovettero essere estranei motivi politici, per essere stati suoi discepoli Crizia e Carmide aristocratici, detestati dal partito democratico, da poco ritornato in Atene.
    Comparso in giudizio parlò non da accusato, ma da maestro; ed invitato a proporre un’ammenda pecuniaria di trenta mine (che quattro dei suoi discepoli, tra cui Platone, avrebbero pagata per lui), propose invece di essere nutrito a spese pubbliche nel Pritaneo.
    Fu condannato con scarsa maggioranza a bere la cicuta, e, rinunciando ad ogni tentativo di fuga, morì imperturbato nel 399 a.C.

    Socrate non lasciò alcuno scritto, “la scrittura ha questo di grave, che se la interroghi, tace maestosamente”; ma il suo pensiero ci è noto dalle opere di due discepoli, Platone (Dialoghi) e Senofonte (Memorabili di Socrate).

    Pensiero

    Socrate si pone due problemi principali: il problema della scienza e il problema del bene.

    Problema della scienza.
    Socrate pur partecipando ancora della tendenza soggettivistica dei sofisti, reagisce vigorosamente allo scetticismo sofista, ponendo le condizioni della vera scienza.
    Egli afferma infatti che nel mondo della coscienza umana (cfr. il suo motto: “conosci te stesso”), sotto la varietà delle opinioni particolar, fondate sulle sensazioni mutevoli (“doxa”), esiste una verità necessaria ed universale (“aletheia”), in cui tutti devono credere: tale verità è il concetto (es. concetto di bene, sanità, giustizia, ect), che si fissa mediamente una definizione.
    Socrate perviene al concetto mediante il suo famoso metodo, che prese appunto il nome di “socratico”, e che si compone di due momenti successivi:

    • ironia, che consiste nel fingere di approvare le opinioni dell’interlocutore, per poi dimostrarne a poco per volta, con abili interrogazioni, l’ineguatezza e l’incongruenza.
    • maieutica (o arte della levatrice), che consiste nell’aiutare l’interlocutore, con opportune interrogazioni, a trovare in se stesso la verità.

    Problema del bene
    1. Socrate si occupò soprattutto del problema morale, tanto che fu definito, a ragione, “il fondatore della scienza morale”.
    Egli distingue le cose in due categorie:

    • le cose divine o metafisiche (“ta deimonia”), che sono negate alla coscienza umana: es. Dio, immortalità dell’anima, ect.
    • le cose umane (“ta anthropina”), che è possibile conoscere: es. concetto di bene, sanità giustizia, ect.

    2. Principio fondamentale dell’etica socratica è l’identificazione della scienza con la virtù (intellettualismo etico): non può essere virtuoso se non chi vive secondo scienza o ragione, il vizio è frutto di ignoranza.
    Tale intellettualismo, se da un lato è notevole perchè afferma per la prima volta nella storia del pensiero l’universalità o categoricità dei valori morali, dall’altro non va esente da gravi difficoltà, come quella di trascurare i fattori volitivi dell’azione.

    3. Altro principio dell’etica socratica è l’identificazione della virtù con la felicità (eudemonismo etico).
    Ma Socrate lascia indeterminato il concetto di felicità il cui contenuto può essere vario a seconda degli individui che vi aspirano (piacere, utile, ect.)
    Egli afferma che la felicità consiste nella virtù, e la virtù nella scienza; ma la scienza è a sua volta conoscenza della virtù e della felicità vera, per cui ci troviamo in un circolo chiuso.
    Sarà compito dei discepoli di Socrate, ispirandosi soprattutto alla vita del maestro, dare a questo eudemonismo etico un contenuto più concreto.

    Giudizio su Socrate

    Socrate è di un’enorme importanza nella storia della filosofia: egli è lo scopritore del concetto, fondamento di ogni speculazione filosofica, e bene meritò il titolo di “padre della scienza”.
    Anche tutta la filosofia greca posteriore (Platone, Aristotele, ect.) seguirà le sue orme, e assumerà d’ora innanzi un’impronta idealistica.

  • Platone

    Vita

    Nacque nel demo antico di Collito, nel 427 a.C., da nobile famiglia, che per parte di padre discendeva da Codro, e per parte di madre da Solone.
    Il suo vero nome fu Aristocle; il soprannome di Platone pare gli fosse dato dal maestro di ginnastica per la larghezza delle spalle (“platus”).

    Primo soggiorno ateniese (Socrate).
    Platone ebbe un’educazione accuratissima, e, giovane, si segnalò nella poesia; ma a vent’anni, entrato in relazione con Socrate, bruciò le sue composizioni e si diede tutto alla speculazione filosofica.
    Appartenne alla scuola di Socrate per circa otto anni, cioè fino alla morte del maestro (399).

    Viaggi (Dionigi il Vecchio)
    Dopo la morte del maestro, intraprese lunghi viaggi, a Megara, dove visitò la scuola megarica diretta da Euclide; in Egitto, a Cirene, e specialmente nella Magna Grecia e in Sicilia, ove prese conoscenza con la filosofia pitagorica.
    Fu anche alla corte di Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa, ove volle partecipare all’attività politica e tentare con l’amico Dione, cognato del tiranno e capo del partito aristocratico, di indurre Dionigi alla fondazione di uno Stato ideale; ma fu da questi consegnato all’ambasciatore spartano come prgioniero di guerra, e solo per intercessione di amici potè sfuggire al pericolo di essere venduto come schiavo, e ritornare in Atene.

    Secondo soggiorno ateniese (Accademia)
    Ad Atene, sulle sponde del Cefiso, fondò una scuola, che dal nome dei giardini di Accademo (eroe attico), dove aveva sede, prese il nome di Accademia (387); e qui raccolse intorno a sè i migliori spiriti del tempo, tra cui lo stesso Aristotele.

    Nuovi viaggi (Dionigi il Giovane)
    Più tardi, essendo successo a Dionigi il Vecchio nel governo di Siracusa il figlio Dionigi il Giovane, accolse nuovamente l’invito di Dione, e si recò per ben due volte in Sicilia con la speranza di poter influire politicamente sull’animo del tiranno; ma corse gravissimo pericolo, e solo per l’intercessione dell’amico Archita di Taranto ebbe salva la vita.

    Terzo soggiorno ateniese
    Tornato ad Atene, dedicò gli ultimi anni all’insegnamento nell’Accademia; e morì a ottant’anni, nel 347, mentre stava correggendo la sua Repubblica

    Opere

    Ci rimangono, sotto il nome di Platone, 34 Dialoghi, l’Apologia di Socrate e 13 Lettere.

    1. Nei Dialoghi appare generalmente come protagonista Socrate; ma in essi l’espressione è piuttosto artistica che sistematica, perchè nessun rigore è nella distinzione dei problemi e nella ricerca metodica.
    Dove poi l’esposizione astratta non è possibileo inopportuna, Platone ricorre ai cosiddetti miti: specie di conoscenza analogica, che gli serve per varcare i limiti dell’esperienza sensibile e dare un’immagine approssimativa di ciò che la trascende (metafisica), come ad es. i miti dell’immortalità dell’anima e della vita d’oltretomba nel Gorgia, nel fedro, nel Fedone, nella Repubblica.

    2. I dialoghi platonici furono distribuiti in trilogie dal grammatico alessandrino Aristofane di Bisanzio (200 circa a.C.), e in tetralogie dal neopitagorico Trasillo (epoca di Tiberio), a seconda della materia trattata; ma oggi si preferisce distribuirli con un criterio storico-cronologico, a seconda della differenza di pensiero e di stile.
    Tuttavia, nonostante il contributo di valenti studiosi, la questione non è ancora definitivamente risolta.
    Riguardo all’autenticità di alcuni dialoghi non sono da ritenersi autentici: Alcibiade II, Ipparco, Anterasti, Teagete, Clitofonte, Minosse, Epinomide, ect.

    Riguardo alla cronologia si possono distribuire in tre gruppi:

    • dialoghi giovanili o socratici, nei quali Platone non sorpassa ancora il punto di vista socratico (concetto). Es. Critone (sul dovere dell’obbedienza alle leggi), Lachete (sul coraggio), Carmide (sulla conoscenza di sè), eutifrone (sulla santità), Liside (sull’amicizia), Ione (sull’ispirazione poetica), Protagora (sulla virtù), Eutidemo (contro l’eristica), Ippia Maggiore (sulla bellezza), Ippia Minore (sulla tesi paradossale che chi pecca volontariamente è meno colpevole di chi pecca involontariamente), Cratilo (sul linguaggio), Menesseno (sulle orazioni politiche).
    • dialoghi sistematici, in cui appare in piena luce la teoria delle Idee. Es. Simposio (sull’amore), Fedro (sulla retorica), Fedone (sull’immortalità dell’anima), Repubblica (sullo Stato ideale)
    • dialoghi della vecchiaia, nei quali Platone sottopone a revisione critica la sua teoria delle idee per renderla più atta a spiegare il mondo della natura e della storia. Es. teeteto (sulla conoscenza), Parmenide (sul rapporto tra l’uno e i molti), Sofista (sul rapporto tra l’essere e il non-essere), Politico (sull’ideale dell’uomo politico), Filebo (sul piacere), Timeo (sulla natura), Leggi (sulla legislazione dello Stato Ideale).

    Pensiero

    Platone si propose nella sua attività imo scopo non solamente filosofic, ma etico, sociale, pragmatico (“filosofia per la vita”): egli reagendo all’individualismo materialisticco, in cui era precipitata la vita greca del suo tempo (demagogismo, ect), mirò ad affermare un idealismo spiritualistico, rappresentato dalla sua teoria delle Idee.

    Teoria delle idee
    1. E’ il fondamento di tutta la filosofia di Platone.
    Platone, proseguendo il pensiero socratico, ammetta un dualismo metafisico: vi sono realtà materiali, contingenti e mutevoli (cfr. divenire di Eraclito); e realtà immateriali, eterne, immutevoli, o Idee (cfr. Essere di Parmenide): le prime sono come una copia delle Idee, e le Idee sono come un modello o archetipo delle cose materiali.
    Le Idee non hanno più solo una realtà logica o mentale, come i concetti di Socrate, ma una realtà ontologica, metafisica: esistono cioè realmente, al di fuori della nostra mente, nel mondo iperuranio: così, ad es., al di fuori di questo o quell’uomo esiste realmente l’Idea universale di Uomo, al di fuori di tutte le cose buone l’Idea universale di Bene, e così via.
    Queste Idee, inoltre, non sono più distribuite confusamente come i concetti di Socrate, ma sono ordinate gerarchicamente per generi e specie, con a capo l’Idea del Bene: idea suprema (forse lo stesso Dio di Platone), dalla quale tutte le Idee ricevono la luce “come l’universo dal sole” (dialettica delle Idee).
    Tale dialettica, o distribuzione gerarchica delle Idee, non è tuttavia ben chiara.
    Platone non fa altro che accennare alle due vie della definizione e della divisione: la definizione che, riducendo la molteplicità ad unità, sottopone la specie al genere; la divisione che, al contrario, scindendo l’unità nella molteplicità ricava a specie dal genere.
    Ma se tali rapporti tra le Idee non presentano alcuna difficoltà quando sono pensieri della nostra mente che li unifica e li distingue, diventano assai oscuri quando vengono proiettati fuori dalla nostra mente, cioè quando non v’è più una mente concreta che li unisce pensandoli insieme.
    A tale difficoltà cercheranno di ovviare Aristotele e S. Agostino, ammetendo l’esistenza delle Idee in una mente oggettiva, e più precisamente nella mente di Dio.

    2. Tra il mondo delle Idee e mondo delle cose vi è – si è detto – dualismo e separazione, ma anche una certa somiglianza.
    Come spiegare questa somiglianza?
    In un primo tempo Platone ricorre ai concetti di mimesi (le cose imitano le Idee), metessi (le cose partecipano in piccola parte all’essenza delle Idee), coinonia (le cose sono in comune con le Idee), ect.
    In un secondo tempo, che coincide con la composizione della Repubblica, egli comprende che le Idee, chiuse rigidamente in se stesse ed escludenti ogni principio di moto, non possono spiegare – come già la dottrina eleatica dell’essere – le cose, il divenire, e perciò, opera in esse una riforma radicale, concependole come causa finale del divenire medesimo: le cose desiderano divenire simili alle Idee, e perciò si muovono finalisticamente verso di esse.
    Nel Timeo si parla perfino di un Demiurgo (= Artefice), specie di divinità intermedia tra le Idee e le cose, che, mirando l’Idea del Bene, plasma ed ordina la materia, ispirando in essa un’Anima del mondo, cioè un principio di vita e di movimento verso le pure Idee.
    Bene, Demiurgo e Anima del mondo formano come una triade, che avrà grandissima importanza nella storia del pensiero: essa informa il neoplatonismo, e da taluni fu anche paragonata alla Trinità cristiana.

    3. Negli ultimi anni Platone, sempre al fine di rimuovere le difficoltà nascenti dal suo dualismo esagerato, andò accentuando il suo pitagorismo, interponendo tra le idee e le cose sensibili, come enti intermedi, i numeri eterni, realtà misteriose che accrescono e non tolgono le difficoltà stesse.

    Filosofia della natura
    1. Platone inaugura con il Timeo un concetto decisamente finalistico della natura: essa non è governata da leggi cieche e meccaniche (cfr. Democrito), ma è dotata di una immanente finalità, che si appunta verso il regno delle pure Idee (cfr. Demiurgo e Anima del mondo).

    2. Ma nella natura vi è n principio oscuro ed amorfo, causa di imperfezione e di male, la materia.
    Essa resiste spesso all’attività del Demiurgo, in modo che le cose riescono un’imitazione perfetta delle Idee: ed ecco perchè, ad un unico modello ideale eterno, corrisponde la molteplicità delle cose.
    Platone chiama la materia Non-essere, Indeterminato, necessità, Caos, Potenza, Selva.

    Teoria della conoscenza
    Platone ammette anche un dualismo gnoseologico: vi sono le rappresentazioni che conoscono ciò che diviene, le cose, e ci danno la conoscenza sensibile o opinione (“doxa”); e i concetti o idee, che conoscono ciò che è l’essenza delle cose, e ci danno la conoscenza razionale o verità (“aletheia”): ma le idee hanno caratteri tali di universalità, per cui non possono derivare dalle sensazioni particolari e contingenti, e quindi sono innate.
    Questo innatismo è poi da Platone connesso al mito orfico-pitagorico della preesistenza e della trasmigrazione delle anime (metempsicosi).
    L’anima umana – afferma Platone nel Fedone e nel Fedro -, prima di entrare nel corpo, ha vissuto nel mondo iperuranio, dove ha contemplato le Idee; quando poi, non sappiamo se per colpa o no, è precipitata nel corpo, ne ha oscurato il ricordo, che nell’atto della percezione, a contatto degli oggetti sensibili, si ridesta, per cui conoscere è ricordare (cfr. Menone, in cui uno schiavo ignorante, opportunamente interrogato da Socrate, riesce a risolvere da sè un difficile teorema di Pitagora).
    di qui l’amore (“eros”), o dialettica dell’anima, per elevarsi dalla conoscenza sensibile all’intuito originario della suprema verità; dialettica che si compone di quattro gradi, sensazione, percezione, ragione, intelletto (cfr. mito della caverna in Rep. VII, 1, 3).
    Più particolarmente la sensazione e la percezione appartengono alla sfera della conoscenza sensibile:

    • sensazione, o conoscenza delle immagini. Es. immagini di una statua;
    • percezione (“doxa”), o conoscenza delle cose sensibili. Es. la statua.

    La ragione e l’intelletto appartengono alla sfera della conoscenza razionale:

    • ragione (“dianoia”), o conoscenza (riflessa) dei rapporti matematici
    • intelletto (“noesis”), o conoscenza (intuitiva) delle Idee, che da luogo alla dialettica o pensiero puro.

    Questa dottrina del conoscere è molto importante, non solo perche sviluppa il procedimento dialettico iniziato da Socrate e prepara l’ulteriore sviluppo di Aristotele, ma anche perchè fissa i tre gradi o forme di conoscere, che saranno d’ora in poi ammesse fino a Spinoza, Kant, ect.: senso (sensazione e percezione), ragione, intelletto.
    Si noti infine come in Platone si possono propriamente distinguere tre significati della parola dialettica strettamente connessi tra di loro:
    – dialettica (oggettiva): distribuzione logica delle idee in generi e specie.
    – dialettica (soggettiva): attività dell’anima in quanto tende alla verità.
    – il grado supremo del conoscere (scienza del puro intelligibile), distinto dai gradi inferiori.

    Psicologia
    Platone è il primo che, a diferenza dei filosofi precedenti, riconosce all’anima una natura spirituale, e quindi immortale (Fedone)
    Egli ammette nell’uomo tre anime separate, che risiedono in diverse parti del corpo:

    1. a) anima razionale (“loghistikon, logos, nous”, ect.) che risiede nel cervello – cfr. nostra ragione;
    2. anima irascibile (“thymos”, o coraggio), che risiede nel petto, e tende a sottomettersi alla ragione e a rintuzzare gli appetiti – cfr. nostro volontà;
    3. anima concupiscibile (“epithymetikon”, o appetito), che risiede nel ventre e tende a ribellarsi alla ragione – cfr. nostro istinto.

    Nel Fedro (XXV-XXVI) l’anima umana è paragonata ad una biga, che un auriga (anima razionale) conduce verso il mondo iperuranio, spingendo innanzi il cavallo docile (anima iracibile) e quello indocile (anima concupiscibile).

    Etica
    1. Platone accogliendo l’intellettualismo etico di Socrate, afferma che sapienza e moralità coincidono, e che il fine non solo della conoscenza ma anche delal moralità, è il Bene universale, cioè il Bene in quanto Idea del mondo iperuranio.

    2. La felicità dell’uomo (“eudomonia”) consiste perciò nel fuggire il mondo sensibile, la “prigione corporea”, e nell’elevarsi con l’amore (“eros”) al mondo delle Idee.

    3. La virtù è il mezzo per raggiungere la felicità.
    Le principali virtù (che più tardi furono dette cardinali) sono quattro, secondo la partizione dell’anima:

    • saggezza (“sophia”), virtù propria dell’anima razionale;
    • fortezza (“andria”), virtù propria dell’anima irascibile;
    • temperanza (“sophrosyne”), virtù propria dell’anima appetitiva;
    • giustizia (“dikaiosyne”), virtù comune e più comprensiva, che non si riferisce all’una o all’altra delle tre parti dell’anima, ma a tutte insieme.

    Essa consistein quell’armonia interiore dell’anima, per cui ogni parte adempie ordinatamente l’ufficio che ad essa è proprio.

    Politica
    1. Ma l’etica individuale si completa nell’etica sociale, l’individuo si completa veramente nello Stato.
    E poichè Platone ebbe a vivere ebbe a vivere in un periodo di profonda decadenza politica (individualismo, materialismo, demagogia, ect.) egli eleva alla massima altezza il concetto dello Stato.

    2. Lo Stato ideale deve essere realizzato in modo da educare il cittadino alla virtù, specie a quell’unica virtù che comprende in sè tutte le altre, cioè la giustizia.
    Esso rappresenta in grande l’anima dell’uomo, e perciò le classi sociali sono tre, secondo le partizioni dell’anima:

    • i filosofi (“razza d’oro”), che corrispondono al’anima razionale e che devono praticare la saggezza. Essi conoscendo che cosa sia la virtù (cfr. intellettualismo etico di Socrate), devono essere i supremi reggitori dello Stato.
    • i guerrieri (“razza d’argento”), che corrispondono all’anima irascibile e devono praticare la fortezza.
    • i lavoratori (“razza di ferro”), che corrispondono all’anima appetitiva e che deovno praticare la temperanza.

    Lo Stato cura l’educazione dei cittadini delle prime due classi: e affinchè costoro non siano turbati, in quanto organo del tutto, da alcun interesse indivisibile, viene ad essi vietata la famiglia e la proprietà (comunismo).
    Platone non si cura dell’ultima classe, che deve soltanto soddisfare i bisogni materiali della comunità, e che deve ubbidire alle classi superiori.

    3. Più tardi, la lunga esperienza della vita e i disinganni dei viaggi in Sicilia dovettero persuadere il vechio filosofo che il suo Stato ideale era piuttosto un’utopia, e nelle Leggi introdusse qualche temperamento, attribuendo tra l’altro il governo non più ai filosofi, ma ai sacerdoti.
    Tuttavia la Repubblica di Platone, per quanto sia stata nella storia fonte di tutte le utopie politiche, ha il merito di aver saputo incarnare la profonda aspirazione dello spirito umano verso la giustizia e la moralità come norme supreme della vita politica: verso uno Stato non più solamente burocratico ed amministrativo, ma essenzialmente etico.
    E’ curioso notare che nel III sec d.C. Plotino cercò di realizzare l’utopia platonica, progettando una città di filosofi che doveva chiamarsi Platonopoli, e per la cui fondazione l’imperatore Gallieno aveva promesso il suo aiuto; ma il progetto andò a vuoto.

    Estetica
    1. L’arte è imitazione (“mimesi”) della natura: e poichè la natura è una imitazione del mondo delle Idee, l’arte si trova ad essere tre gradi lontana dalla suprema realtà.
    Perciò essa è allontanata dallo Stato ideale della Repubblica.
    2. Più tardi, nelle Leggi, il vecchio filosofo si avvide dell’assurdità della sua condanna, e giustificò l’arte come passatempo o riposo dopo la lunga fatica.
    Ma ad una giustificazione integrale del fatto artistico, inteso nei suoi valori di alta idealità spirituale, Platone non giunse mai; ed è questo forse uno degli aspetti più sconcertanti di tutto il suo pensiero.

    Giudizio sulla filosofia di Platone

    La filosofia platonica, per quanto sia dotata di un’enorme importanza nella storia del pensiero di tutti i tempi per la sua vigorosa affermazione idealistica, presenta una difficoltà fondamentale: il suo dualismo esagerato, che non solo distingue ma separa i due mondi della realtà sensibile e della realtà intellegibile, l’unità dalla molteplicità l’essere dal divenire, il divino dall’umano.
    Platone stesso avverte questa difficoltà, e va alla ricerca di un rapporto tra le Idee e le cose (mimesi, metessi, ect.); ma l’incertezza del linguaggio tradisce l’incertezza del pensiero.
    Contro questa difficoltà si rivolgerà la critica di Aristotele.

  • Giordano Bruno

    Vita e opere

    Giordano Bruno (1548-1600), nato a Nola, fu il più grande filosofo del Rinascimento, che, mentre assomma e compendia il lavoro dei predecessori (Talesio, Copernico, Cusano, Lullo, ect., oltre vaste tracce di neoplatonismo, stoicismo, eraclitismo), contiene i motivi principali della filosofia moderna (cfr. Spinoza, Shelling, Hegel, ect.).
    Entrò assai giovane nell’Ordine domenicano, ma ne uscì presto per l’incompatibilità delle sue dottrine.
    Andò peregrinando per la Svizzera, la Francia, l’Inghilterra, la Germania, finchè fu arrestato a Venezia dall’Inquisizione, e dopo qualche anno di prigione condannato al rogo.
    Scrisse De la Causa Principio et uno, l’infinito Universo e Mondi, Degli eroici furori, De Monade, De immenso, La Cena delle Ceneri, ect.

    Pensiero

    Bruno supera il modesto e cauto naturalismo di Telesio, elaborando un organico e compiuto sistema metafisico.
    1. Il centro della sua dottrina è l’infinità della natura, contrapposta alla finalità propugnata da Aristotele e dalla Scolastica.
    A questa idea egli giunse sia attraverso i dati che gli venivano offerti dal progresso della scienza, specialmente dal sistema copernicano, che già aveva spostato e allargato lo sguardo dell’uomo dalla terra al sole (ma il Bruno proede oltre Copernico, col negare la finitàdel mondo e l’immobilità delle stelle fisse, sia con speculazioni proprie, miranti a dimostrare che all’infinita Causa (Dio) deve corrispondere un effetto egualmente infinito (gli “infiniti mondi”).
    Se l’universo è infinito, cessa per questo fatto dall’avere un solo centro, ma come centro può esssere considerato ogni suo punto: nè la terra, nè il sole possono essere considerati il centro del mondo.
    La speculazione bruniana è tutta pervasa da questo sentimento dell’infinito, che, dopo la navigazione di Colombo, che aveva osato infrangere le Colonne d’Ercole, sembra interpretare fedelmente la nuova mentalità del Rinascimento.

    2. La dottrina dell’infinità della natura porta naturalmente Bruno al più rigoroso panteismo.
    Egli distingue nella natura una materia (Natura Naturata) e una forma o Anima del Mondo o unità o Monade assoluta e perfetta (Natura Naturans): la prima non può stare senza la seconda e viceversa, e non è che l’apparenza molteplice, mutevole, relativa, imperfetta della seconda (cfr. neoplatonismo).
    Tutto nel mondo è teofania, rivelazione di Dio: la Natura naturata ci conduce continuamente a una Natura naturante, che è la realtà in sommo grado; la molteplicità delle cose ad una Unità immobile ed eterna.
    In tale Unità tutte le opposizioni coincidono (cfr. Cusano), ed anche quello che noi riteniamo sia male è “nell’occhio dell’eternitade” bene.
    Bruno elimina in tal modo il dualismo aristotelico-scolastico di natura e di Dio, divinizzando la Natura e dichiarandola un complemento necessario di Dio, senza cui Dio stesso non sarebbe.

    3. La morale bruniana, che si trova specialmente nell’opera Degli eroici furori, concorda con questo naturalismo panteistico.
    Essa pone, al posto della quieta estasi medievale, l’eroico furore, cioè l’esigenza di un continuo autosuperamento dell’uomo verso il raggiungimento di fini sempre più elevati, per quanto sempre irraggiungibili.
    Anche Bruno, come Telesio, adotta il principio della doppia verità.
    Egli considera la fede come necessaria “per l’instituzione di rozzi popoli che denno esser governati”, mentre la verità di ragione spetta solo agli uomini che possono intendere e ai quali spetta di governare sè e gli altri: perciò i filosofi mai si sono opposti alla religione, anzi l’hanno favorita.
    Partendo da questo principio, egli si dichiara pronto, davanti all’Inquisizione, a ritirare le sue idee e ad ammettere i dogmi della Chiesa cattolica, come già a Ginevra quelli del calvinismo.

  • Aristotele

    Vita e opere

    Nacque a Stagira (Tracia) nel 384 a.C. Da Nicomaco, medico di Aminta, re di Macedonia.

    Primo soggiorno ateniese (Platone) – A 18 anni andò ad Atene, ove entrò in relazione con Platone, alla cui scuola appartenne per circa venti anni, cioè fino alla morte del vecchio maestro (347 a.C.).

    Alla corte di Macedonia – Nel 343 fu chiamato da Filippo, re di macedonia, alla sua corte, come precettore del figlio Alessandro: e grande fu l’influenza esercitata da Aristotele sul futuro conquistatore di imperi; grandissimi gli aiuti che Aristotele si ebbe per i suoi studi e per la creazione di una ricca bibblioteca che egli, primo fra i Greci, potè radunare.
    La sua amichevole relazione con Alessandro fu troncata quando Callistene, nipote di Aristotele e fautore del partito greco, cadde in disgrazia dell’imperatore.

    Secondo soggiorno ateniese – Tornato ad Atene verso il 335, fondò una scuola presso il ginnasio, detta il Liceo (per la vicinanza del tempio di Apollo Licio); e poichè insegnava passegiando nei giardini, che colà servivano al pubblico passeggio, la scuola prese il nome di paripatetica.
    Essa coincide coi dodici anni (335-323), nei quali il grande Alessandro espandeva per il mondo con la forza della spada la civiltà e la cultura ellenica.

    Esilio di Calcide
    – Morto Alessandro, Aristotele, come tanti altri ateniesi che erano stati ligi al Macedone, fu preso di mira, e un certo Demofilo portò contro di lui la solità accusa di empietà. Ma il filosofo disse di non voler dare occasione agli ateniesi di rendersi un’altra volta colpevoli verso la filosofia, e, prevenendo il bando, si recò in volontario esilio a Calcide, nell’Eubea.
    Qui morì l’anno dopo, nell’estate del 322, di una malattia di stomaco, lasciando al discepolo Teofrasto la direzione della scuola e la ricchissima bibblioteca.

    Opere – Le opere di Aristotele vertono su un’infinità di argomenti, ma delle 146 opere a lui attribuite, solo 47, più o meno complete, sono giunte sino a noi.
    Importante per la storia dell’aristotelismo la storia di questi libri.
    Secondo un raconto di Strabone, ripetuto da Plutarco, i libri di Aristotele, dopo la morte di Teofrasto, passarono a Neleo da Scepsi, i cui eredi li tennero nascosti per circa un secolo in un sotterraneo.
    All’inizio del I sec. a.C. essi sarebbero stati scoperti da Apellicone di Teio, e portati ad Atene; e di qui, per ordine di Silla (86 a.C.), a Roma, ove trovarono un riordinatore in Andronico di Rodi.
    Secondo tale racconto, dunque, i paripatetici posteriori a Teocrasto avrebbero ignorato i libri di Aristotele; e quindi quelli che si servirono di essi dopo un secolo e più, così come furono trovati, guasti dall’umidità, non potevano neppure essere certi se l’ordinamento di Andronico corrispondesse al pensiero originale dell’autore.
    Ciò spiega il sorgere della questione aristotelica presso i moderni allo scopo di assecondare la genuinità dei libri aristotelici e di vagliare la verità del racconto di Strabone.
    Zeller, dopo erudite ricerche, giunse alla conclusione che è verosimile tutta la parte del racconto che si riferisce al destino dei libri ereditati da Neleo; ma che è inverosimile che questi libri fossero i soli esemplari esistenti delle opere aristoteliche, dal momento che essi si trovano citati nel tempo che corre tra il sotterramento fatto dagli eredi di Neleo e il disseppellimento per opera di Apellicone.
    Le opere di Aristotele erano divise in essoteriche, o destinate l pubblico; e in esoteriche o acroamatiche, destinate ai propri discepoli.
    Le prime appartengono in genere alla prima dimora in Atene, quando Aristotele era discepolo di Platone, e sono molto affini alle opere del maestro (forma dialogica, ect.); ma nessuna di esse è pervenuta sino a noi (fatta eccezione di qualche frammento dell’Eudemo, intitolato a nome di un amico e in cui si propugnava pure l’immortalità dell’anima).
    Le seconde, di gran lunga più importanti, si possono raccogliere in cinque gruppi: logica, metafisica, fisica, etica, retorica.

    Opere di logica
    Furono raccolte sotto il nome di Organon (titolo che non appartiene ad Aristotele, ma ai più tardi commentatori Bizantini), poichè per il loro carattere, si possono considerare come strumento della ricerca scientifica e introduzione a tutto il sistema.
    L’Organonsi compone di conque parti:

    • Categorie, sui concetti universali. Appartengono nella parte fondamentale ad Aristotele, ma furono accresciute, da mano posteriore, dei cosiddetti Postpredicamenti.
    • Interpretazione, sul giudizio.
    • Analitici primi (2 libri), sul sillogismo; e Analitici secondi (2 libri), sull’induzione, la definizione e i primi principi.
    • Topici (8 libri), sui sillogismi dialettici e verisimili.
    • Elenchi sofistici, ove sono esposte e confutate le conclusioni capziose usat dai sofisti.

    Opere di metafisica
    Furono anch’esse raccolte sotto il nome di Metafisica, titolo che non appartiene ad Aristotele (il quale soleva chiamarla filosofia prima), ma ad Andronico di Rodi, che nella sua raccolta dispose i libri relativi “dopo le opere fisiche” (“metà tà physikà”).
    La metafisica si compone di 14 libri: essa tratta dei principi supremi del reale, cioè ciò che è primo per natura, e che viene quindi, per noi, dopo le cose naturali.

    Opere di fisica
    Comprendono la maggior parte degli scritti di Aristotele, il quale molto si applicò alle ricerche empiriche e sperimentali, e si può considerare, tra l’altro, il padre della zoologia.
    Le principali opere fisiche sono:

    • Fisica (8 libri), in cui tratta dei principi naturali, del moto, ect.
    • Del Cielo (4 libri)
    • Della generazione e corruzione (degli esseri)
    • Meteorologia (4 libri).
    • Storia degli animali (10 libri), Delle parti degli animali, Della generazione degli animali, grandi trattati di zoologia, che contengono una vasta e ben fondata classificazione, degna di essere paragonata a quella di Linneo (sec. XVIII).
    • Dell’anima (3 libri), la più importante opera di fisica, prima grande trattazione di psicologia.

    Ai libri Dell’anima si rannodano quelle piccole dissertazioni, parte fisiologiche, parte psicologiche, che sono comprese sotto il titolo collettivo di Parva Naturalia, e che trattano del senso, della memoria, del sonno, della lunghezza e brevità della vita, della vita e della morte, ect.
    Alle opere fisiche invece si rannodano, quasi come appendice, trattatelli speciali di argomenti naturali vari, raccolti col titolo di Problemi, ma in gran parte di composizione postaristotelica, poichè Aristotele cita in 7 o 8 i Problemi, ma nessuna citazione si riscontra con quelli che noi abbiamo.

    Opere di etica
    Sono tre, che svolgono i medesimi motivi:

    • Etica Nicomachea (10 libri), il cui titolo deriva da Nicomaco, figlio di Aristotele, che forse la pubblicò. Essa rappresenta la redazione più antica, ed è sicuramente opera genuina di Aristotele.
    • Etica Eudemia (7 libri), che ha tre libri in comune con l’Etica Nicomachea, e fu forse redatta da Eudemo sopra i libri di Aristotele.
    • Magna Moralia (2 libri), che si possono considerare un riassunto delle due etiche precedenti, specialmente di quella di Eudemo, e che è opera di discepoli.

    Opere di politica

    • Politica (8 libri).
    • Costituzioni politiche, grande raccolta di più che cento costituzioni greche e barbare. Ci rimane soltanto la costituzione di Atene, scoperta nel 1890 in un papiro egiziano.
    • Economici, di cui non è forse genuino il secondo libro, attibuito a Teofrasto.

    Opere di retorica

    • Retorica (3 libri)
    • Poetica, largo frammento di una più ampia opera in 2 libri.

    Datazione delle opere
    L’ordine cronologico delle opere di Aristotele non è così essenziale alla comprensione del suo pensiero come nel caso di Platone, perchè pare che Aristotele abbia elaborato il suo pensiero tutto di getto, in modo che le singole parti risultino intimamente collegate.
    Secondo Zeller, primi ad ssere composti furono gli scritti logici, poi i fisici, poi l’Etica e la Politica, che presuppongono la trattazione dell’Anima; infine la Poetica, la Retorica, ed ultima la Metafisica, al quale sarebbe rimasta incompiuta e dedita solo dopo la morte di Aristotele.

    Pensiero

    L’ordine con cui si può distribuire la dottrina aristotelica è il seguente: logica, metafisica, fisica, morale, poetica, retorica.
    La Metafisica è in realtà la parte più importante, poichè senza di essa sarebbe impossibile intendere le altre parti della filosofia aristotelica: ma alla metafisica è indispensabile propedeutica la logica, per cui è bene far da essa aprire la serie delle dottrine di Aristotele.

    Logica
    Aristotele è il sistematore della logica induttiva, già intravista da Socrate e da Platone, e il padre della logica deduttiva, o sillogistica, o ragionamento.
    Aristotele ritiene infatti che il pensare si compie mediante due essenziali processi: quello dell’induzione, che procede dal particolare all’universale; e quello della deduzione, che consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione).

    INDUZIONE o EPAGOGHE’
    1. L’induzione (o epagoghe), di cui Aristotele parla nei Secondi Analitici, consiste nel procedere per via astrattiva dal particolare all’universale (o concetto), cioè nell’astrare dal particolare le note contingenti e individuali e cogliere quelle comuni ed universali.
    In tal modo Aristotele si oppone all’innatismo platonico, e diventa un fervido assertore dell’empirismo: le nostre conoscenze derivano dall’esperienza mediante l’attività di astrazione esercitata su di essa dall’intelletto.

    2. Il concetto coglie l’essenza delle cose, ma è semplicemente significante, in quanto ancor fuori da ogni rapporto di vero e di falso, della vera affermazione e della vera negazione.
    Un nesso di concetti costituisce il giudizio, sia sotto la forma di definizione o giudizio universale (es. l’uomo è mortale); sia sotto quello di proposizione o giudizio del particolare (ed. Socrate è mortale).
    E’ proprio del giudizio l’affermare o il negare, cioè stabilire dei rapporti di vero o di falso: la verità non è infatti che un perfetto accordo tra il nesso dei concetti e il nesso delle cose (cfr. adaequatio rei et intellectus di S. Tommaso).

    3. Tra i concetti ve ne sono alcuni che possiamo considerare come i predicati più universali del reale, forme supreme dell’intelletto: essi sono le categorie, così denominate perchè mediante esse noi “accusiamo” (cioè predichiamo, qualifichiamo) gli oggetti tutti dell’esperienza.
    Le categorie sono dieci: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il luogo o spazio, il quando o tempo, il giacere o posizione, l’avere o inerenza, il fare o attività, il patire o passività.
    Le categorie, di cui parla Aristotele, si possono considerare sotto un duplice aspetto: logico o soggettivo; ontologico o oggettivo, metafisico.
    Esse infatti, in quanto predicati universali del reale, corrispondono alle forme universali del reale stesso: sono categorie del pensiero e categorie del reale, dell’essere.

    4. Aristotele studiò a fondo i concetti nei loro rapporti di specie e di genere, e nella loro estensione e comprensione.
    Quanto alla specie e al genere, i concetti si possono disporre secondo una gerarchia che in basso ha l’individuo e in alto le categorie, occupando in tale gerarchia il grado risultante dal genere prossimo e dalla differenza specifica.
    Definire un concetto – dice Aristotele – equivale a indicare del medesimo il genere prossimo e la differenza specifica. Così ad es., nella definizione del concetto uomo, “uomo è un animale ragionevole”, animale indica il genere prossimo, cioè il genere a cui il concetto appartiene; e ragionevole indica la differenza specifica, perchè distingue l’uomo dalle altre specie di animali. Genere è quindi il concetto più generale, in cui è incluso il concetto da definire. Specie è il concetto da definire, incluso nel genere.
    Quato all’estensione e alla comprensione, man mano che si procede dalle specie ai generi, si vanno formando concetti sempre più univrsali per l’estensione, ma sempre più poveri di comprensione, cioè dotati di una minor quantità di note essenziali: estensione e comprensione stanno in ragione inversa.

    LOGICA DEDUTTIVA
    1. La logica deduttiva di cui Aristotele parla specialmente negli Analitici Primi, presuppone la logica induttiva.
    L’induzione infatti, elaborando i concetti ed i giudizi, prepara la premessa al sillogismo o deduzione o ragionamento.

    2. il sillogismo consiste nel dedurre da un giudizio universale un giudizio particolare (conclusione): esso è definito da Aristotele quel discorso “nel quale, stabilite alcune cose (verità), un’altra ne deriva necessariamente, per il fatto che quelle sono tali verità”.
    Il sillogismo si compone di una premessa maggiore (l’uomo è mortale) e di una premessa minore (Socrate è uomo), aventi in comune un termine medio (uomo) e di una conclusione (Socrate è mortale).
    Le figure del sillogismo sono quattro:

    1. sub-prae, in cui il termine medio fa da soggetto (subiectum) nella premessa maggiore, e da predicato (praedicatum) nella minore.
    2. sub-sub, in cui il termine medio fa da soggetto sia nella premessa maggiore che nella minore.
    3. prae-prae, in cui il termine medio fa da predicato sia nella premessa maggiore che nella minore.
    4. prae-sub, in cui il termine medio fa da predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella minore.

    3. Il sillogismo nella sua concatenazione e sviluppo è dominato dai cosiddetti assiomi, o principi supremi di ragione, che possono addirittura definirsi leggi del pensiero. Essi sono anapodittici, cioè indimostrabili perchè evidenti di per se stessi.
    Tali principi sono:

    • quello di identità, per cui si afferma che ciò che è, è; e ciò che non è, non è (A è A, Non A è Non A).
    • quello di contraddizione, che Aristotele stesso ha enunciato così: “è impossibile pensare che ad una stessa cosa convenga e non convenga lo stesso carattere (A non è Non A).
    • quello del terzo escluso, per il quale si afferma che fra i contraddittori non vi può essere alcun giudizio intermedio.

    Aristotele dona la massima importanza al principio di contraddizione, che egli dice essere principio anche degli altri tutti, sia per sè, come principio veramente essenziale del pensiero, sia per l’importanza che esso ha contro la concezione eraclitea, che affermava l’essere e insieme il non-essere delle cose nel perenne fluire del reale.

    4. Il sillogismo, di cui sonora si è parlato, è il sillogismo dimostrativo o apodittico, che, partendo da premesse certe e reali, conduce alla scienza.
    Accanto ad esso vi è il sillogismo dialettico (di cui Aristotele parla nei Topici), in cui le premesse sono soltanto verisimili, e che conduce all’opinione: e il sillogismo sofistico (di cui Aristotele parla negli Elenchi Sofistici), in cui le premesse sono semplicemente presunte per verisimili.

    5. Con questo complesso imponente di indagini Aristotele fonda la scienza del pensiero.
    Essa sarà modificata e integrata in questa e in quella parte dagli Stoici a Bacone a Galileo a Leibniz a Kant; con Hegel e coi suoi successori sorgeranno nuovi sviluppi e nuove logiche; ma in sostanza la logica aristotelica restò per circa 24 secoli a sorreggere il nostro pensiero.

    Metafisica
    La metafisica, o “filosofia prima“, è la scienza dell’Essere in quanto tale, cioè prescindendo dalle sue qualità sensibili.

    1. CRITICA DELLA DOTTRINA PLATONICA DELLE IDEE
    Aristotele inizia il proprio sistema con una profonda e serrata critica alla dottrina platonica delle Idee.
    Platone aveva detto che le Idee sono fuori dalle cose, Aristotele oppone a tale trascendenza tre obbiezioni fondamentali:

    • se le idee sono le essenze individuali, in che modo l’essenza può stare fuori di ciò di cui è l’essenza?
    • dato l’individuo sensibile da una parte e l’Idea dall’altra, ci vorrà un tipo, un’idea comune ad entrambi: ne nascerà una terza cosa. Questo argomento è detto del terzo uomo, perchè dalla dottrina platonica si inserisce la necessità di un terzo uomo, che sta sull’uomo individuo e sull’uomo-Idea, comune ad entrambi.
    • esiste l’universale, ma non fuori dell’individuale, bensì dentro di esso. Se avesse un’esistenza separata, sarebbe un duplicato inutile: l’idea fuori dalla cosa non spiega la cosa.

    2. TEORIA DELLA SOSTANZA
    La teoria della sostanza costituisce il centro di tutta la dottrina aristotelica.
    Sostanza è ciò che è, l’individuo. Es. Quest’uomo, questo tavolo.

    • La sostanza è sintesi (“sinolo”) di “materia” e di “forma”: la forma non è che l’Idea di Platone, strappata dal mondo iperuranio; resa da statica, dinamica; e immessa nella materia per organizzarla, per ordinarla. La forma è dunque l’attività organizzatrice della materia. Aristotele distingue la sostanza in sostanza prima , l’individuo; e sostanza seconda, la forma o essenza dell’individuo medesimo.
    • Ma la forma, in quanto organizza la materia, la muove, cioè fa passare dalla “potenza” all’“atto”, o, in altre parole, da uno stato di imperfezione e di indeterminazione a uno stato di sempre maggiore perfezione e determinazione. Es. da statua in potenza del marmo, a statua in atto o attuazione del medesimo. Potenza e atto sono dunque i due termini del moto, del divenire: potenza è la sostanza in quanto può assumere, attraverso il moto, una determinata forma; atto è la sostanza che ha assunto, sempre attraverso il moto, questa determinata forma. Aristotele distingue l’atto dall’entelechia: l’atto è tale in quanto realee concreta attività; l’entelechia è l’atto in quanto stato di perfezione a cui la sostanza aspira: mai la sostanza riesce ad attuare perfettamente la propria forma, eccetto Dio.
    • Ma per passare dalla potenza all’atto occorre uno stimolo, una causa efficiente, la quale operi in vista di un fine, di una causa finale. Lo sviluppo di una sostanza presuppone quindi 4 cause:
    1. materiale;
    2. formale;
    3. efficiente o motrice;
    4. finale.

    Es. nella sostanza statua possiamo distinguere:

    1. causa materiale: marmo;
    2. causa formale: idea della statua;
    3. causa efficiente: scultore;
    4. causa finale: idea della statua, ma in quanto si pone come fine dello scultore.

    Le ultime due cause si risolvono nella causa formale quando si tratta si sostanze naturali (le quali hanno in sè stesse la causa e il fine del moto); ma rimangono distinte quando si tratta di sostanze artificiali (le quali hanno fuori di sè la causa del moto e il fine), come è appunto il caso di una statua di marmo.

    3. TEOLOGIA
    La teoria sopra accennata porta di conseguenza ad ammettere l’esistenza di un Dio: è anzi ad Aristotele che si deve far risalire la prima dimostrazione filosofica dell’esistenza di Dio.
    Infatti il moto delle cose implica l’esistenza di un motore che giustifichi il moto medesimo, cioè il Motore immobile, Dio.
    In quanto motore immobile:

    • Dio non è causa efficiente, creativa del mondo, ma puramente finale, teleologica. Egli, come causa finale del mondo, attrae le cose, che si muovono verso di lui immobile.
    • Dio non può passare dalla potenza all’atto, ma è atto puro, pura forma, puro spirito, o – come si esprime Aristotele – “pensiero dei pensieri”.

    Egli, “come pensiero dei pensieri”, è assolutamente indifferente al mondo, puro pensiero teoretico, pura autocoscienza, privo di volontà e di personalità.

    Fisica
    La Fisica è in Aristotele non meno importante della Metafisica, poichè, a differenza di Platone (che, nonostante il disprezzo per i poeti, era dominato dalla fantasia), egli sapeva unire alla potenza sinteica del filosofo una grande attitudine all’analisi e all’osservazione scientifica.

    1. NATURA
    La natura è l’insieme delle sostanze che hanno in se stesse il principio del proprio moto, a differenza delle sostanze a cui il moto vien da fuori, per cui essa comprende non solo i corpi propriamente detti, ma anche l’uomo e l’anima umana.
    Anche Aristotele, come Platone, possiede un concetto finalistico della natura: questa non è per lui inerte, passiva, meccanica, ma intimamente viva, organica, animata.
    Tuttavia, a differenza di Platone, che aveva personificato questa finalità in un’Anima del mondo, Aristotele parla di una finalità inconscia ed intuitiva (panpsichismo?), e che chiama la noatura demoniaca, ma non divina.
    La natura, sospinta dalla sua immanente finalità, tende a svilupparsi in forme sempre più alte e perfette, determinando una gerarchia finalistica di sostanze, che va da quelle inorganiche a quelle organiche e all’anima umana, e che ha al proprio vertice il motore immobile, Dio.

    2. LA MATERIA
    La materia, come già per Platone, è principio oscuro ed amorfo, causa di imperfezione e di male.
    Essa resiste spesso all’attività e alla forma, ed è perciò causa dei caratteri accidentali delle sostanze.
    La materia, in quanto potenza che tende recarsi in atto, si muove: donde l’importanza che ha il moto nella fisica aristotelica.

    3. RELIGIONE CELESTE E RELIGIONE TERRENA
    L’universo aristotelico si divide in due regioni: regione celeste, dalla luna in su; e regione terrena, o sublunare.
    La regione celeste è perfetta e incorruttibile: sua materia è l’etere, detto anche quintessenza; il suo moto è circolare, cioè perfetto.
    La regione terrena è imperfetta e corruttibile: sua materia sono i quattro elementi tradizionali della filosofia greca, terra, acqua, aria, fuoco; il suo moto è rettilineo, cioè imperfetto.
    Da queste premesse si sviluppa l’astronomia aristotelica, che è un sistema geocentrico delle sfere omocentriche ideato dall’astronomo Eudosso, e che permetteva di collocare esteriormente il principio motore dell’universo, in opposizione ai pitagorici che lo collocavano al centro.
    La Terra, di forma sferica, sta immobile al centro dell’universo, e attorno ad essa si muovono le sfere dei pianeti e quella delle stelle fisse o firmamento: quest’ultimo è mosso da Dio, Motore immobile, e trasmette a sua volta il movimento alle sfere sottostanti.
    Perciò l’universo aristotelico è limitato nella sua forma sferica, cinto dal vuoto infinito; e in esso le posizioni (alto e basso) hanno un significato assoluto.

    4. L’ANIMA
    L’anima, che nela gerarchia degli esseri fisici occupa il posto supremo, si può definire la forma (“entelechia”) di un corpo organico, cioè di un corpo che è come organo o strumento di cui l’anima si serve per recare in atto il suo fine.
    Le piante possiedono solo l’anima vegetativa, che presiede alle funzioni di nutrizione e della riproduzione; gli animali, oltre la vegetativa, possiedono l’anima sensitiva, che presiede al moto e alla sensibilità; l’uomo, oltre alle sopracitate, possiede l’anima razionale.
    Aristotele, a differenza di Platone, non ammette nell’uomo anome separate, ma anime distinte nell’unità di una medesima anima: si tratta di funzioni diversedi una medesima anima.
    L’anima vegetativa presiede – si è detto – alle funzioni della nutrizione e della riproduzione.
    L’anima sensitiva presiede al moto e alla sensibilità; ma i sensi sono passivi, cioè hanno bisogno, per agire, di uno stimolo, di un oggetto sensibile in atto.
    Accanto ai sensi esterni ve ne sono altri interni, come il senso comune (o coscienza sensibile), che unifica in certo modo i sensi esterni; la fantasia, che riceve le immagini; e la memoria, che conserva le immagini, riconoscendo in esse una percezione già avuta.
    L’anima intellettiva presiede alla vera conoscenza, cogliendo le essenze o concetti delle cose.
    Essa si distingue in intelletto passivo (“nous patheticos”) e in intelletto attivo (“nous poieticos”).
    L’intelletto passivo (cosiddetto perchè ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in quanto può intendere l’universale contenuto nel particolare sensibile; ma, in quanto semplice possibilità d’intendere, non può passare all’atto se non sotto lo stimolo di un oggetto intelligibile in atto.
    L’intelletto attivo (cosidetto perchè non ha bisogno di uno stimolo per agire) è l’intelletto in wuanto rende intellegibile (per astrazione) l’universale contenuto nel particolare sensibile, e, resolo in tal modo intellegibile, lo presenta all’intelletto passivo, che, sotto tale stimolo, passa all’azione.
    Esso è come la luce che agisce sui colori, i quali nell’oscurità esistono soltanto in potenza, facendoli passare dalla potenza all’atto.
    Aristotele considera l’intelletto passivo come parte essenziale dell’anima umana, mentre definisce l’intelletto attivo come “separato” e “di natura divina”: esso proviene dall’alto entrando misteriosamente “per le porte dell’anima”, e ad esso soltanto sembra attribuisca l’immortalità.
    In realtà l’anima, in quanto forma di corpo organico, dovrebbe essere inseparabile dal corpo e, come questo, mortale. Di qui la varietà delle interpretazioni e dei commenti, che si contesero il pensiero aristotelico fino al Rinascimento, specie per quanto riguarda l’intelletto attivo nei suoi rapporti con l’intelletto passivo e col corpo.

    Etica
    1. Aristotele, a differenza di Platone e coerentemente alla critica mossa alla teoria delle Idee, non ammette che il fine delle cose il il Bene universale, che per la sua astrattezza non può essere realmente efficace, ma il bene particolare di ogni singola cosa.
    Tale bene particolare consiste a sua volta nell’attuazione dell’essenza propria della cosa medesima, come il fiore per la pianta, la bellezza per la gioventu, ect.

    2. La felicità dell’uomo (“eudemonia”) consiste perciò nell’attuazione del bene particolare dell’uomo medesimo, che è la ragione, cioè nel vivere secondo ragione.

    3. La virtù si identifica con la felicità, cioè consiste anch’essa nel vivere secondo ragione.
    Aristotele distingue due virtù:

    • virtù etiche, o virtù della parte affettiva dell’anima. Esse perfezionano la parte affettiva dell’anima, sottoponendola alla ragione; e poichè la ragione aspira a portare negli affetti dell’anima la medietà, il giusto mezzo fra gli estremi, la virtù etica consiste, più particolarmente, nel sottoporre gli affetti alla ragione in modo da importare in essi la medietà, il giusto mezzo, ed evitare ogni eccesso. Giusto mezzo, che non è la rigida media aritmetica, “perchè – osserva Aristotele – se, per uno, spendere dieci è troppo e spedere due è poco, ciò non vuol dire che il giusto mezzo sia sei”. Il giusto mezzo è, in altre parole, relativo agli individui: non potendo, ad es., la temperanza (virtù etica) richiedere la stessa quantità di cibo per un gigante e per un bambino. Le virtù etiche si acquistano con l’abitudine, o – in altre parole – con una volontà ben educata: concetto notevole, con cui Aristotele, opponendosi all’intellettualismo etico di Socrate e di Platone, afferma per la prima volta, nella storia del pensiero, che non basta la conoscenza per conseguire la virtù, ma occorre un altro importante elemento: la volontà. Virtù etiche sono, ad es., la fortezza, che è il giusto mezzo tra il timore e la fiducia; la temperanza, che è il giusto mezzo tra i piaceri; la liberalità, che è il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità; la giustizia, virtù etica suprema, ordine della società.
    • virtù dianoetiche, o virtù della parte razionale dell’anima. Esse perfezionano la parte razionale dell’anima, rendendola atta a ben conoscere ciò che si deve operare. Anche le virtù dianoetiche si acquistano con l’abitudine. Tali, ad es., la prudenza, intenta a discernere quelli che per l’uomo sono beni morali; e soprattutto la sapienza, virtù dianoetica suprema, perchè attività razionale pura, la più prossima al pensiero divino: essa è contemplazione della suprema verità, vita perfetta, “theoria”. In tal modo l’etica di Aristotele diventa l’espressione più compiuta dell’etica greca, e, con il più alto posto assegnato alla virtù teoretica per eccellenza, fissa il principio (che sarà accolto anche dal pensiero cristiano e sarà direttivo di tutta la filosofia sino all’epoca moderna) intellettualistico, per cui si celebrano nella virtù contemplativa l’essenza e il valore dell’etica umana.

    Politica
    1. Anche per Aristotele, come per Platone l’etica individuale si completa con l’etica sociale: l’individuo isolato non può raggiungere il suo fine perchè non basta a se stesso, e soltanto riunendosi in società può attuare il suo fine, la felicità.

    2. L’uomo è per natura un animale politico, cioè socievole: “fuori dalla società può esistere solo la belva o il Dio”.
    La famiglia è la prima società: essa ha come carattere essenziale la proprietà, di cui fan parte anche gli schiavi, perchè non è bene che gli uomini liberi si avviliscano nei lavori manuali.
    Lo Stato, benchè in ordine di tempo succeda alla famiglia, nel concetto le va innanzi, allo stesso modo che nell’organismo il tutto precede le parti, e il fine i mezzi destinati ad attuarlo: infatti lo Stato rappresenta la condizione di vita e di attività delle parti o individui che lo compongono.
    Il fine dello Stato è identico a quello degli individui: esso mira infatti alla falicità, o – che è lo stesso – al raggiungimento delle virtù etiche e dianoetiche degli individui medesimi.

    3. Le forme di Stato sono tre, come le loro degenerazioni, che si hanno quando chi governa, invece di mirare al vantaggio comune, mira al proprio vantaggio.
    Le forme sono la monarchia, che può degenerare in tirannide; l’aristocrazia, che può degenerare in oligarchia; la politia (moderna democrazia) che può degenerare in democrazia (moderna demagogia).
    Di tali forme è migliore quella che meglio risponde al carattere e ai bisogni del popolo, quantunque in astratto Aristotele preferisca una forma mista.

    4. Lo Stato di Aristotele, per quanto sia in esso evidente l’influenza platonica (Stato etico), è diverso da quello di Platone.
    Platone parte da una premessa idealistica: basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, basterà conoscere lo Stato politicamente perfetto, per poterlo attuare.
    Aristotele parte da una premessa realistica: non basta conoscere il bene per metterlo in pratica, e, perciò, è meglio costruire sul fondo dell’esperienza.
    Ne consegue che mentre Platone aveva concluso allo Stato ideale della Repubblica, proponendo la comunione delle donne, dei figli e dei beni, e concependo lo Stato come vuota e astratta unità; Aristotele conclude alla famiglia, alla proprietà, ai divrsi tipi di costituzione, concependo lo Stato come un organismo dove l’unità viva è raggiunta per via della molteplicità.

    Estetica
    Per Aristotele, come per Platone, l’arte è imitazione della natura (“mimesi”); ma a differenza di ùplatone, che condannava l’arte perchè imitazione dell’individuale sensibile, e perciò lontana tre gradi dal vero, Aristotele riabilita l’arte, perchè imitazione non dell’individuo quale è, ma come dovrebbe essere; non dell’individuale, ma dell’universale.
    Perciò l’arte differisce dalla storia (che ritrae solo i fatti particolari), in quanto “più filosofica e solenne della storia”.
    Certi generi, come la tragedia e la musica, determinano poi una speciale purificazione degli effetti, che prende il nome di catarsi: teoria oscura, in cui pare adombrato il moderno principio della spiritualità dell’arte.

    Giudizio sulla filosofia di Aristotele

    Aristotele si propone di eliminare il dualismo esagerato di Platone in nome di un maggiore realismo: riconciliazione dell’universale col particolare, dell’essere col divenire, dell’unità con la molteplicità, del divino con l’umano.
    Ma il tentativo, nonostante l’acutezza della polemica contro il Maestro, andò fallito.
    Nella Metafisica egli lasciò il dualismo di materia e di forma: disse che la prima non si può trovare senza l’altra, e poi concluse che la realtà somma (Dio, Motore immobile) era forma scevra di materia, cioè le ridivise di nuovo.
    Del resto, se la materia tende alla forma; perciò stesso è altro dalla forma; per di più resiste alla forma, sino al punto di apparire dominata dall’accidente e dal caso, e perciò è estranea e opposta alla forma medesima.
    Nella Fisica il dualismo di celeste e di terreno, di materia corruttibile o sublunare, e di materia incorruttibile o sopralunare: donde quel dualismo cosmologico, che è quasi il segno visibile del dualismo metafisico insuperato.
    Nella Psicologia lasciò il dualismo di nous passivo e nous attivo: quest’ultimo viene dal di fuori, e, pur trovandosi congiunto con le altre facoltà, non ha intima connessione con esse.
    Nell’Etica lasciò il dualismo di virtù etica e di virtù dianoetica: la virtù veramente umana è ora la prima, che consiste nella vita in comune; ora la seconda, che consiste nella contemplazione solitaria dell’uomo individuo.
    Sarà compito della filosofia posteriore, specialmente degli stoici e degli epicurei, cercar di eliminare tali dualismi, sulla base di un concetto più immanente della realtà.

  • Sant’ Agostino d’Ippona

    LA VITA E LE OPERE

    S. Agostino fu il più grande filosofo della patristica.
    Egli nacque a Tagaste, in Africa, nel 354, da Patrizio pagano, che si convertì al Cristianesimo su letto di morte, e da Monica cristiana, poi santificata dalla chiesa.
    Studiò retorica a Madaura e a Cartagine, e insegnò la medesima disciplina a Roma e Milano.
    Temperamento profondamente passionale, condusse una giovinezza piuttosto dissipata; ma poi, dopo laboriose peripezie di pensiero e di cuore, che si possono distinguere in quattro tappe (lettura dell’Ortensio di Cicerone, contenente un’appassionata apostrofe alla filosofia – Manicheismo – Scetticismo accademico – Neoplatonismo), fu commosso dalle prediche di S. Ambrogio a Milano, e, ritiratosi a Cassago in Brianza, si convertì al Cristianesimo (386).
    Ritornato a Tagaste, fu creato prete, e quindi vescovo di Ipponia; come tale badò a difendere l’unità della dottrina e della Chiesa cristiana contro le eresie dei pelagiani e dei donatisti, tanto che nel primo trentennio del sec. V tutto il mondo cristiano d’Occidente sembr far capo a lui come centro di irradiazione delle idee ortodosse.
    Morì nel 430, mentre Genserico, a capo di un esercito di Vandali, dopo aver invaso la Numidia, poneva l’assedio a Ipponia.

    Opere
    Contra Academicos, De vita beata, Soliloquia, ecc., che appartengono al periodo cosiddetto di Cassiciacum (soggiorno di Cassago); De libero arbitrio, De vera religione, De trinitate, Confessiones, De civitate Dei, ecc., che appartengono al periodo posteriore alla conversione; Retractiones, scritte poco prima di morire, specie di recensione di tutte le opere precedenti con l’intento di ridurle nei limiti dell’ortodossia.
    Numerosissimi inoltre gli scritti antipelagiani, in forma di opuscoli e di missive pastorali; e molto importanti le Lettere.

    Pensiero

    La filosofia di S. Agostino non è esposta sistematicaemnte in nessuna delle sue opere, ma si sviluppa occasionalmente nella trattazione di argomenti diversi, soprattutto teologici.
    S. Agostino si ispira nella sua filosofia principalmente a Platone.
    Egli, a differenza di quanto farà poi S. Tommaso, non distingue nettamente le verità dalla ragione delle verità di fede, perchè – in base alla teoria dell’illuminazione – le prime si identificano con le seconde, venendoci insegnate direttamente da Dio.
    Di qui il suo motto: intellige ut credas, crede ut intelligas.

    Problema gnoseologico
    E’ il punto di partenza della filosofia agostiniana.

    1. S. Agostino muove dal dubbio sistematico della Nuova Accademia (probabilismo), e giunge a dimostrare l’esistenza dell’anima e della verità. Si fallor sum – egli afferma; o in altre parole, chi dubita, in quanto dubita, deve ammettere l’esistenza del pensiero che dubita: cioè l’esistenza dell’anima e della verità. S. Agostino si da quindi a considerare i caratteri della verità, e trova che essa è dotata di tali caratteri di universalità e necessità, per cui non può derivare dalle sensazioni particolari e contingenti, ma è innata, interiore all’uomo (cfr. Platone). Per trovare la verità – afferma S. Agostino – bisogna ritirarsi dall’esteriorità delle cose materiali, che, in quanto oggetto di pensiero, sono oggetto di dubbio; e concentrarsi nell’interiorità della propria coscienza, intesa come attività pensante, indipendente da ogni oggetto di pensiero: Noli foras exire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.
    2. Ma il concetto di una interiorità della verità allo spirito dell’uomo (con cui S.Agostino sembra precorrere certe posizioni della filosofia moderna), non significa immanenza della verità allo spirito stesso. S. Agostino ammette, al di là della verità sogettiva ed umana, una verità oggettiva e trascendentale, principio e norma di tutte le verità particolari: la verità è in noi, ma noi non siamo gli artefici della verità. La verità è infatti dotata di caratteri dell’universalità e della necessità, ma tali caratteri non possono derivare dal pensiero soggettivo, il quale – in quanto tale – è sottoposto a cangiamento (è questo un dogma del pensiero greco): dunque essa insiste in un pensiero oggettivo e trascendentale, in una Verità assoluta ed eterna, Dio. Il quale Dio è – platonicamente – Logos, Mente, sede delle idee archetipe delle cose esistenti; ma a differenza di Platone, che poneva queste idee come sussistenti in sè, cadendo nell’assurdo di idee che esistono senza essere pensate da nessuno, S. Agostino corregge la teoria platonica ponendo le Idee nella mente di Dio.
    3. Il concetto di verita trascendentale in cui insistono le inferiori verità, interiori allo spirito dell’uomo, trascina con se la famosa teoria agostiniana dell’illuminazione, in cui taluni vollero vedere tracce di ontologismo. La verità è innata; ma a differenza di Platone, che ammetteva la preesistenza delle anime al corpo e quindi faceva del conoscere un ricordare, Agostino ammette una speciale illuminazione dell’intelligenza da parte di Dio, che, all’occasione delle percezioni sensibili, produce nella nostra intelligenza le idee. In tal modo, le verità di ragione si riducono ad essere delle verità rivelate: non il lume naturale della ragione ma il soccorso divino ci rende capaci di verità, e Dio è ilo nostro Maestro.

    Problema morale
    E’ un problema capitale dell’agostinismo.

    1. Come nel problema gnoseologico S. Agostino era partito in polemica contro il dubbio sistematico degli Accademici, qui egli parte in polemica contro la negazione del libero arbitrio e la sostanzialità del male affermate dal Manicheismo. Egli si appella in parte alla teoria di Origene e in parte alla propria esperienza personale (cfr. Confess.: “quando volevo o non volevo qualche cosa, ero certissimo che ero proprio io a volere o non volere; così in qualche modo avvertivo che lì era la causa del mio peccare”). Il male non è creato da Dio, perchè Dio, che è sommo bene, non può ceare se non cose buone; e neppure dalla materia che è creata da Dio, e quindi in se stessa buona: ma dalla libera volontà dell’uomo. La volontà dell’uomo, come tutte le cose create da Dio, è in se perfetta, e  perciò dotata di libero arbitrio; ma appunto perchè volontà libera, è volontà peccabile, capace di generare il male. Il quale male, inerendo ad una realtà perfetta e buona come la volontà, non può esistere come realtà positiva ed autonoma, ma come realtà negativa (non sostanzialità del male): esso consiste in un “pervertimento della volontà che si torce da Dio (aversio a Deo) verso le cose inferiori”, o – in altre parole – in un difetto o privazione o non-essere, che la volontà buona fa in se per propria libera determinazione.
    2. Ma il concetto di una libertà dello spirito (con cui S.Agostino sembra precorrere anche qui certe posizioni della filosofia moderna), non significa libertà assoluta dello spirito stesso, in modo che questo si renda capace di liberarsi dal male e di diventare principio di spiritualità e di progresso. S. Agostino ammette al di là della libertà dello spirito le tristi conseguenze della Caduta di Adamo su di esso, e la necessità della Grazia Divina perche si possa riscattare dal male: ciò specialmente all’epoca della polemica pelegiana (Pelagio, monaco della Gran Bretagna del V sec., e il suo discepolo Celestio, in nome della Giustizia divina, che non può punire nei posteri il peccato dei progenitori, affermavano che la libertà era rimasta integra in ogni uomo, anche dopo il peccato di Adamo; il che veniva a negare la necessità della Grazia e dell’Incarnazione per la nostra redenzione. Egli vedeva nell’incarnazione un esempio, non una redenzione).mIl libero arbitrio in altre parole è una condizione necessaria, ma non sufficiente per operare il bene. E poichè l’uomo, dopo il peccato di Adamo, non ha diritto alcuno alla Grazia, Dio dona la propria Grazia a chi vuole (predestinazione). Nonostante le implicite difficoltà, S. Agostino ottenne il riconoscimento della sua dottrina della Grazia (onde il titolo di Dottore della Grazia) e la condanna della dottrina pelagica. In seguito la chiesa cercò di attenuare le conseguenze estreme della dottrina agostiniana, dandone, con S. Tommaso, un’interpretazione più mite (la volontà è veramente libera e Dio concede a tutti la sua Grazia), onde invalse la regola: Augustinus eget, Thoma interprete.

    Problema del divenire e di Dio
    Sono, anche questi, problemi di singolare importanza nella speculazione agostiniana.

    1. Tutta la filosofia greca aveva posto il dualismo di Essere e di Divenire, concependo quest’ultimo, eleaticamente e platonicamente, come illusione ed apparenza. S. Agostino, uniformandosi allo spirito del Cristianesimo, che nella sua più intima sostanza rappresenta un accostamento del Divino all’umano, dell’Unità alla molteplicità riabilita il divenire sensibile mediante il concetto di Provvidenza. Il divenire, l’apparenza, viene rivalutato come espressione dell’Essere, come opera dell’attività incessante del Creatore: la creazione non è soltanto un atto iniziale, col quale Dio ha dato origine al mondo, abbandonandolo poscia a se stesso; ma è atto incessante, forza produttrice che sostiene il mondo che essa ha prodotto; e la natura svanirebbe se non fosse sostenuta dall’attività incessante di Dio. Di qui il nuovo concetto non più materialistico e meccanico, ma spirituale e finalistico, della natura e della storia. Interessante, da tale punto di vista, l’opera De civitate Dei, scritta dopo il saccheggio di Roma fatto da Alarico, in cui è contenuta tutta un’originale filosofia della storia. Prendendo occasione dall’accusa, che i pagani muovevano ai cristiani, di essere la causa della rovina dell’impero romano, S. Agostino mostra i disegni della Provvidenza che, dirigendo le vicende dei popoli, sa ricavare dalle contese dei buoni (Civitas Dei) coi malvagi (Civitas terrena) il miglior bene. Naturalemnte la città terrena, in quanto serve ai fini della città divina, è implicitamente subordinata a quest’ultima: concetto notevole, per cui Agostino si può considerare come l’ispiratore di tutta la posteriore politica di rivendicazione della Chiesa di fronte all’Impero.
    2. Ma anche qui il concetto di un divenire cui è immanente il divino, non significa immanenza e panteismo. Agostino ammette, al di là del divenire sensibile, un Dio trascendentale e creatore, che, pertanto, non è la creazione, pur essendo nella creazione. Ecco i principali caratteri della natura di Dio:
      • trascendenza – Dio, pure essendo, in quanto Verità, presente in qualche modo nella nostra anima, non è nella nostra anima: pur essendo, in quanto attività creatrice, presente nella natura: non è nella natura: egli è in se stesso, al di sopra di noi e della natura, fuori del tempo e dello spazio.
      • Amore, Provvidenza, Felicità, Bene – Dio non è solo fredda contemplazione, come in Aristotele, ma è amore provvidente, che la nostra anima può sentire in sè, per essere sorretta nei suoi smarimenti.
      • ineffabilità – Dio, in quanto puro spirito, trascende di gran lunga le possibilità conoscitive del nostro pensiero (cfr. Uno di Plotino).

      Tuttavia, in quanto Verità assoluta, Dio non può essere conosciuto in via analogica dal nostro pensiero, che è pur verità: è come la coscienza umana, pur nella sua unità, si spiega in una tripartizione fondamentale di rappresentazione (memoria), giudizio (intellectus) e volontà (voluntas), analogamente l’unità di Dio si spiega in una Trinità di Essere (Padre), Sapienza (Figlio) e Volontà (Spirito Santo).
      Il Padre ha dato a tutte le cose l’essere, il Figlio la razionalità, lo Spirito Santo l’amore; perciò Essere, Sapienza e Volontà sono determinazioni fondamentali di tutte le cose.

  • Etruschi: le attività

    L’alimentazione
    Le fonti letterarie conservateci che trattino questi soggetti risultano davvero scarse; le notizie che abbiamo ci sono infatti riportate da autori greci e latini, i quali -colpiti in modo negativo dal “lusso” dell’aristocrazia etrusca – non possono considerarsi una fonte attendibile, anche perche risultano di molto posteriori al periodo di fioritura della civiltà etrusca.
    Posidonio di Apamea, per esempio, racconta che gli Etruschi apparecchiavano le loro tavole “ben” due volte al giorno: del resto, anche i Greci consumavano due pasti al giorno, ma il pranzo era molto frugale. Il dato archeologico, che in genere è così importante, nel caso dell’alimentazione non è direttamente determinante; infatti, solo recentemente gli scavi degli abitati sono stati affiancati da indagini paleonutrizionali; oltre a ciò, relativamente rari risultano gli avanzi di pasto rinvenuti. Comunque utili notizie possono essere dedotte dagli utensili ritrovati negli ambienti adibiti a cucina, ma soprattutto dagli affreschi che decorano le pareti di alcune tombe, soprattutto quelli della “Tomba Golini I” di Orvieto, che mostrano immagini relative alla preparazione del banchetto.
    Da un famoso brano dello storico Tito Livio (Historiae XXXVIII, 45) sappiamo che in Etruria si coltivavano copiosissime messi (in particolare grano e farro); esse dovevano costituire l’alimento-base sulla mensa di tutti i giorni, sia sotto forma di pani e focacce, che di minestre e zuppe.
    Dalla citata notizia di Livio, inoltre, possiamo indurre che i bovini fossero allevati non solo per la carne, ma anche perche necessari per il lavoro dei campi, soprattutto per l’aratura. Gli avanzi di pasto rinvenuti durante gli scavi ci testimoniano, d’altra parte, la presenza sulla tavola etrusca di altri animali domestici quali ovini, caprini e suini, in proporzioni diverse a seconda del tempo o luogo in cui ci si trovasse; altra fonte di alimentazione, inoltre, era la selvaggina, come ci testimoniano gli autori antichi e alcuni famosi affreschi (la citata “Tomba Golini I” di Orvieto o la “Tomba della Caccia e della Pesca” di Tarquinia).
    Per quanto riguarda l’alimentazione ittica, ancora più rari risultano (dalla ricerca archeologica) gli avanzi di pasto, a causa della deperibilità degli scheletri dei pesci e del guscio dei molluschi; rimangono, comunque, come testimonianza archeologica, ami da pesca, aghi e pesi da rete. Gli Etruschi dovevano conoscere diverse varietà ittiche diffuse nel Mediterraneo, come mostrano i cosiddetti “piatti da pesce” in cui appaiono raffigurate, sulla superficie esterna, numerose specie manne.
    L’alimentazione del mondo mediterraneo antico è condizionata, ovviamente, dai prodotti che la natura offre e le condizioni climatiche simili nel mondo greco, latino ed etrusco, hanno generato una dieta ed una cucina per molti versi assai simili tra loro. Per l’età preistorica si hanno dati scientificamente molto interessanti per il villaggio del Gran Carro di Bolsena, scoperto sotto le acque del bacino lacustre e databile attorno al IX secolo a.C, nella fase di passaggio dunque tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro.
    Il setacciamento dei fanghi che ricoprivano le antiche strutture, eseguito nel 1974, portò alla luce una rilevante quantità di noccioli di frutta selvatica tra cui corniolo (Cornus mas), prugna selvatica (Prunus spinosa) e prugna damascena (Prunus insititia), nocciolo (Corylus avellana) e ghiande (Quercus sp.), ed anche vite (Vitis vinifera) che presto, grazie alle conoscenze trasmesse dai navigatori provenienti dall’Egeo, sarebbe stata trasformata in vino e non consumata solo come frutta.
    Tra i cereali sono presenti cariossidi di farro (Triticum dicoccum), tra i legumi resti di fave (Vicia faba). I cereali ed i legumi potevano essere consumati abbrustoliti o macinati per farne frittelle e minestre; la frutta poteva essere consumata fresca o fermentata in bevande a scarso tenore alcolico. Tra i resti faunistici (scavi 1980) ricordiamo la presenza di numerose specie domestiche (68 % del totale dei resti ossei rinvenuti) e selvatiche (32 %). Sono stati segnalati resti di caprovini, suini, bovini, equini, cani; tra i selvatici cervo, cinghiale, capriolo ed orso bruno.
    I dati disponibili dagli scavi condotti dall’Istituto Svedese di Roma a San Giovenale (Blera) abbracciano un arco cronologico molto ampio che va dall’età del Bronzo all’età romana: essi rivelano come attraverso i secoli il principale alimento siano stati i suini, gli ovini ed i bovini, talvolta integrati da esemplari cacciati come il cervo, il capriolo e la lepre.
    Se cerchiamo analogie con il mondo romano di cui si possiedono numerose notizie in più rispetto all’ etrusco, apprendiamo che si tendeva al consumo soprattutto di suini, mentre i caprovini erano destinati alla produzione di latte e lana, i bovini al lavoro nei campi. La carne era arrostita su lunghi spiedi (in greco obeloi) che, in epoche premonetali, cioè quando ancora non si usavano monete e si ricorreva allo scambio di prodotti e di metalli a peso, costituivano nel Mediterraneo un elemento di scambi assai frequente.
    Ma poteva essere anche bollita in grandi calderoni da cui veniva estratta con uncini. A San Giovenale sono stati rinvenuti fornelli e pentole di terracotta che testimoniano la quotidiana vita dell’abitato: molti dei materiali archeologici provenienti soprattutto dagli abitati arcaici della Tuscia (San Giovenale ed Acquarossa) sono esposti in un’interessantissima mostra permanente presso il Museo Archeologico Nazionale di Viterbo (Rocca Albornoz).
    Lo scavo di un insediamento agricolo etrusco del IV – III secolo a.C. condotto dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale a Blera in località Le Pozze (scavi 1986-87), ha permesso il rinvenimento di 570 semi e noccioli di frutta, tra cui segnaliamo corniolo, nocciolo, ghiande di quercia, olivo (Olea europaea), vite, fico (Ficus carica), pero (Pyrus sp.) ed orzo (Hordeum sp.).
    Tra i resti di animali, presenti i suini, la capra, i bovini, le galline. Indagini paleonutrizionali, cioè sulle modalità alimentari del passato, condotte sulla popolazione etrusca, hanno rivelato che dal VII secolo a.C. all’età romana l’economia alimentare sia rimasta a base agricola; un consumo maggiore di carne e latticini, rilevabile dall’aumento di Zinco nelle ossa, si ha nell’età arcaica (VI secolo a.C.- inizio V secolo a.C.): con il passaggio all’età classica ed all’ellenistica si nota una graduale diminuizione del consumo di prodotti di origine animale, forse conseguenza di quella forte crisi economica che avrà il suo inizio nel V secolo a.C. e che si protrarrà con la conquista romana.

    La cucina etrusca
    Le raffigurazioni pittoriche della tomba Golini I di Orvieto (l’antica Volsinii) databili alla seconda metà del IV secolo a.C., ci offrono una visione interessante delle attività di cucina di un’importante famiglia dell’aristocrazia: sulle pareti sono rappresentati i servi che fanno a pezzi la carne con una piccola ascia, altri che preparano i cibi sotto lo sguardo attento di una donna: preparano focacce, cuociono le cibarie nel forno, mesciono le bevande nelle brocche.
    Nelle altre pareti appaiono i loro padroni, seduti o sdraiati sulle klinai, i letti tricliniari del banchetto, in compagnia delle proprie donne dalle ricche vesti, illuminati da alti candelieri di bronzo lucente, serviti da schiavi nudi ed allietati da suonatori di lira e tibicines (flauti doppi).
    Ma cosa si mangiava nell’antica Etruria? Oltre alla frutta e verdura di cui abbiamo fatto cenno, quali erano le pietanze, i cibi preparati ? Nei tempi più antichi erano frequenti le minestre di cereali e legumi, come le gustose zuppe di verdura: ne è un ricordo eccezionale l’acquacotta, uno dei piatti della tradizione culinaria viterbese. Le sfarinate di cereali erano utilizzate per fare frittelle e focacce.
    La carne era bollita ed arrostita: sono frequenti nei corredi delle tombe gli alari, gli spiedi e le pinze per maneggiare i tizzoni di brace. Condimento ideale per ogni cibo era l’olio d’oliva, di qualità eccellente, esportato in tutto il Mediterraneo come testimonia il rinvenimento di anfore etrusche: anche oggi la qualità dell’olio viterbese lo denota come prodotto tipico, così come il vino.
    La mancanza di una letteratura specifica non ci aiuta nella conoscenza di ricette e preparazioni tipiche, lontane dalla raffinata e forse confusionaria cucina d’età romana: ma non è difficile immaginare che i piatti più tipici della tradizione gastronomica toscana e viterbese, così legati alla sana e semplice cultura contadina, siano il perpetuarsi della cucina etrusca.

    Il vino
    Già nel VII secolo a.C. la vite e l’olivo erano coltivati intensivamente in Etruria ma, per quest’ultimo, la produzione non fu mai considerata importante dagli autori antichi; del vino etrusco, invece (anche se in senso talvolta negativo), scrivono sia Orazio che Marziale. Il vino bevuto nell’antichità era molto diverso da quello d’oggi: denso, fortemente aromatico, ad elevata gradazione alcolica.
    Il primo mosto ottenuto dalla vendemmia veniva in genere consumato subito, mentre il restante veniva versato in contenitori di terracotta con le pareti interne coperte di pece o di resina. Il liquido veniva lasciato riposare, schiumato per circa sei mesi e a primavera, infine, poteva essere filtrato e versato nelle anfore da trasporto. Il liquido così ottenuto non veniva bevuto schietto ma mescolato, all’interno di crateri, con acqua e miele, e travasato nelle coppe dei cornrnensali, servendosi di attingitoi e sìmpula. Sulla mensa, il vino era contenuto in brocche e vasi a doppia ansa (stàmnoi), mentre per l’acqua si utilizzavano spesso piccoli secchi, denominati sìtule.
    Non potevano mancare, in una cucina ben attrezzata, i colini. Questi instrumenta sono presenti in tutta l’area mediterranea, dall’Egeo alla Gallia Meridionale, a iniziare dal VI secolo a.C. fino all’età romana imperiale. Gli esemplari più antichi (II millennio a.C.) sono stati trovati in Grecia, nell’ isola cicladica di Santorino, realizzati in terracotta. Potevano essere ottenuti anche in altro materiale (argento, bronzo, rame, ceramica) e diverse risultano le varianti della forma a seconda dell’uso.
    Alcuni colini appaiono provvisti di un imbuto (nome latino infundìbulum), collegato al colino stesso, altri ne sono privi, altri infine si denotano semplicemente per un “bulbo” ricavato al centro della vasca. Alcuni di essi rivelano, sul lato opposto al manico, un sostegno rettangolare orizzontale destinato a reggere il colino stesso sull’imboccatura del vaso in cui veniva versato il liquido; in un secondo momento, il colum poteva essere lasciato appeso all’orlo del recipiente, pure tramite questa sorta di gancio. I colini provvisti di imbuto venivano usati per filtrare il vino e altri liquidi in tipi di recipiente contraddistinti da strette imboccature.

    Fornelli, stoviglie e altri utensili per cucina
    Gli Etruschi, di solito, non avevano, all’interno delle loro abitazioni, un vano adibito a cucina quale lo intendiamo oggi; spesso si cuoceva all’aperto, ma comunque esistevano sistemi di cottura che utilizzavano dei particolari “fornelli”.
    Ne esistono sostanzialmente di tre tipi, provvisti ognuno di relative varianti: il tipo più antico è di forma cilindrica e munito sulla superficie superiore di una piastra forata e, sulla parte inferiore, di un’ apertura per l’alimentazione del fuoco; verso la fine del VII sec. a.C. compare un secondo fornello semicilindrico, a forma di ferro d cavallo, con tre parti sporgenti verso l’interno per sostenere la pentola; c’è infine un ultimo modello, simile a una piccola botte aperta per appoggiarvi il recipiente per la cottura e, in quella inferiore, per il carico del combustibile.
    Il secondo tipo era già conosciuto nella Magna Grecia e doveva risultare migliore del primo modello, in quanto permetteva una cottura più veloce. In diverse zone dell’Etruria, per esempio a Poggio Civitate, Murlo (SI), sono state trovate specie di campane di terracotta provviste di un ‘ansa alla sommità, sotto le quali venivano posti i cibi da cuocere; intorno veniva messa la brace per consentire la cottura, simile dunque a quella sub testo dei Romani.
    Altri utensili per cuocere i cibi sono gli spiedi (in greco obelòi), usati per arrostire la carne. Li troviamo talvolta conservati nelle tombe, forgiati in bronzo o ferro, lunghi anche 1 m e associati a graffioni. Quest’ultimo tipo di strumento ha più volte attirato l’attenzione degli studiosi, che hanno tentato di definirne l’uso. Prevalgono oggi due interpretazioni: la prima tende a identificare questo oggetto con un porta-fiaccole, i cui rebbi sarebbero stati destinati a sostenere materiale combustibile; la seconda, avvalorata anche da fonti letterarie (strumenti simili sono infatti descritti, con tale uso, dalle testimonianze romane, contraddistinti dal nome latinizzato di hàrpago), lo considera un utensile domestico, anzi culinario, usato per infilzare e cuocere pezzi di carne, recuperarli dai calderoni e togliere pietanze “dal fuoco”. Nel medioevo, per es., si usavano uncini per impedire che i cibi in cottura venissero a galla.
    Tra gli instrumenta domestica vanno anche annoverate le “teglie” (simili nella forma alle odierne padelle), alcune del tipo monoansato, in bronzo. Si tratta di utensili domestici adibiti a contenere i cibi in fase di cottura e chiamati anche pàtere o bacinelle, di cui esistono diverse varianti a seconda del modo in cui risultino forgiati orlo e ansa.
    La medesima classe di recipiente si trova replicata, nel corso del III secolo a.C., nella cosiddetta “Ceramica a Vernice Nera” di produzione volterrana, che ispira le sue fonne a prototipi di vasi in metallo, ottenendo così contenitori a un costo inferiore di quello raggiunto dagli originali.
    Un altro oggetto d’uso domestico che compare tra le suppellettili da cucina è la grattugia, in genere ricavata in bronzo, ma talvolta anche in metallo pregiato. Il termine latino ràdula è usato da Columella (De re rust. XII, 15,5) per un oggetto che doveva servire a raschiare la vecchia pegola dai vasi, prima di spalmarvela nuovamente.
    Non siamo certi, tuttavia, che si tratti del medesimo oggetto, in quanto Columella non lo descrive. Omero già la menziona (Iliade XI, 638), usata per grattugiare il fonnaggio; era infatti usata per fare il kykèion, bevanda composta da vino forte, orzo, miele e fonnaggio grattugiato, bevuta dagli eroi omerici. Non sappiamo se anche gli Etruschi avessero una bevanda simile.

    La filatura e la tessitura
    A parte la preparazione e la cottura dei cibi, le attività domestiche peculiari della donna etrusca (anche di elevato ceto sociale) erano la filatura e la tessitura della lana e delle fibre vegetali (lino). Già in epoca villanoviana, i corredi delle tombe femminili contengono frequentemente rocchetti e fuseruole di ceramica e, talvolta, fusi di bronzo.
    L’attività della tessitura, del resto, è documentata negli scavi degli abitati da numerosi pesi da telaio, di norma realizzati in terracotta in forma troncopiramidale, oppure costituiti da semplici ciottoli (il telaio vero e proprio era invece interamente di legno). Alcune antiche scene figurate, per esempio sul tintinnàbulo di bronzo di Bologna (VII sec. a.C.), riproducono le diverse fasi di lavorazione delle fibre tessili, in particolare della lana.
    Dopo essere stata cardata, cioè pulita e pettinata, quest’ultima veniva attorcigliata in fili grezzi e poi filata con il fuso (in legno, osso o bronzo); il filo così ottenuto, avvolto sui rocchetti, era quindi utilizzato per la tessitura, eseguita per lo più mediante telai verticali, nei quali i fili erano tenuti in tensione, a gruppi, dagli appositi pesi.

    Aspetti della vita, economia e tecnica
    La ricostruzione della vita che si svolgeva nelle case dei ricchi non presenta eccessive difficoltà. Si è già accennato alla posizione della donna che partecipa ai conviti e alle feste con perfetta parità di fronte all’uomo. In età arcaica le donne e gli uomini banchettano distesi sullo stesso letto: ed è probabilmente a questa usanza che risale l’affermazione di Aristotele (in Ateneo, 1,23 d) che “gli Etruschi mangiano insieme con le donne giacendo sotto lo stesso manto”.
    Si è anche supposto che Aristotele si riferisca ad una falsa interpretazione di alcuni sarcofagi sui quali appaiono i due coniugi giacenti sotto un manto simbolo di nozze. La cerimonia nuziale presso gli Etruschi comprendeva infatti il rito (conservato tuttora dagli Ebrei) della copertura degli sposi con un velo: come attesta il rilievo, di non dubbia interpretazione, di una umetta di Chiusi.
    Ma è possibile che l’uso del velo esistesse in realtà anche per i letti conviviali. Si presume comunque che i Greci, per un atteggiamento di incomprensione e di ostilità verso gli Etruschi forse risalente ad antiche rivalità politiche, trovassero argomento di scandalo nella libertà formale della donna etrusca, così diversa dalla segregazione della donna greca almeno nel periodo classico: e fosse quindi facile e quasi naturale attribuire alle etrusche i caratteri e il comportamento delle etère, le sole donne che ad Atene partecipassero ai banchetti con gli uomini.
    Nascevano così e si diffondevano – con quella facilità nell’accettare e ripetere notizie anche incontrollate specialmente sui costumi dei “barbari”, quasi come motivi letterari, che è propria del mondo classico – le dicerie sulla scostumatezza degli Etruschi, sulle quali insiste Ateneo (IV, 153 d; VII, 516 sgg.) e di cui si fa eco perfino Plauto (Cistellaria, Il, 3, 20 sgg.).
    A partire dal V-IV secolo le donne etrusche non partecipano più ai conviti distese sopra il letto come gli uomini, ma sedute, secondo l’usanza che resterà poi stabilmente diffusa nel mondo romano.
    Raffigurazioni di banchetti con più letti (generalmente tre, donde il romano triclinio), come quelle delle tombe tarquiniesi dei Leopardi o del Triclinio, ci presentano quadri pieni di naturalezza e di gioiosa semplicità. Non mancano cqnviti all’uso greco, con la presenza di soli uomini, culminanti anche in orge piuttosto sfrenate, con abbondanti libazioni e balli (tomba delle Iscrizioni a Tarquinia). I banchetti solenni, come del resto anche altre feste (giuochi, funerali, ecc.), sono regolarmente accompagnati dalla musica e dalla danza.
    Le pitture della tomba Golini di Orvieto ci portano anche nell ‘interno delle cucine dove si preparano i cibi per il banchetto, anche con la presenza del suono forse magico-propiziatorio di un suonatore di doppio flauto.
    Una notevole serie di rappresentazioni si riferisce a giochi e a spettacoli (tombe tarquiniesi degli Auguri, delle Olimpiadi, delle Bighe, del Letto Funebre, ecc., tombe dipinte e rilievi di Chiusi). È evidente che l’influsso ellenico domina su questo aspetto della vita etrusca; ma si ha l’impressione che il carattere agonistico e professionale dei giuochi e delle gare greche tenda a trasformarsi nel mondo etrusco in un divertimento spettacolare.
    Niente è più suggestivo ed interessante, a questo proposito, del piccolo fregio della tomba delle Bighe a Tarquinia, nel quale il pittore ha immaginato un grande campo sportivo o circo, visto spaccato secondo i due assi lungo e corto, con l’arena e le tribune lignee sulle quali trovano posto gli spettatori; nell’arena sono corridori con le bighe, cavalieri, coppie di lottatori e pugilatori, un saltatore semplice e con l’asta, un corridore armato (oplitodromo), giudici di gara ed altri personaggi vari; sulle tribune spettatori dei due sessi s’interessano nel modo più vivace all’esito delle gare, come mostra chiaramente la loro mimica concitata.
    Non è escluso che ad agoni sportivi partecipassero anche i membri delle famiglie più illustri. Va ricordato a tal proposito il gioco etrusco della Truia (ludus Troiae), che consisteva in una gara di corsa a cavallo lungo una pista intricata in forma di labirinto: esso è riprodotto nel graffito di un vaso etrusco arcaico e sappiamo che era ancora in uso al principio dell’impero come esercizio della gioventù romana.
    A gare equestri partecipavano assai probabilmente i giovani membri della stessa nobile famiglia proprietaria della tomba tarquiniese delle Iscrizioni. Il rapporto dei giochi agonistici con il mondo funerario è documentato, oltre che dall’evidenza delle tombe, dal passo di Erodoto (I, 167) relativo alle cerimonie espiatorie compiute dai Ceretani per il massacro dei prigionieri focei.
    Accanto agli spettacoli di natura agonistica debbono esser ricordati anche quelli mimici, musicali, acrobatici e farseschi che erano specificamente attribuiti ad attori etruschi ricordati con il nome di histriones o ludiones (la forma etrusca corrispondente sarebbe tanasa(r), fhanasa) e che furono introdotti a Roma dall’Etruria nel 364 a.C. come «ludi scenici» (Livio, VII, 2-3). Di fatto esistono non poche testimonianze figurate di pitture, vasi dipinti. bronzetti, che raffigurano personaggi in costumi particolari, talvolta mascherati, che partecipano a vere e proprie rappresentazioni: le quali sembrano essere per altro di carattere assai vario, dall’esibizione popolaresca di saltimbanchi ed equilibristi (come nelle tombe dei Giocolieri di Tarquinia e della Scimmia di Chiusi), a qualcosa che può ricordare il dramma satiresco e porsi al limite di un’azione drammatica (ben diversa in ogni caso dal genere della tragedia di imitazione greca, senza dubbi tardivo, di cui si è già fatto cenno).
    Va poi ricordato un genere di giochi più cruento, nel quale è forse da riconoscere un’anticipazione dei combattimenti gladiatorii, che del resto la tradizione antica considerava di origine etrusca (Ateneo, IV, 153) e comunque provengono in Roma dalla Campania anticamente etruschizzata. Può darsi che i giochi in questione nascano dall’uso funerario, come attenuazione dei sacrifici umani che in molte civiltà primitive accompagnano la morte di principi o di personaggi illustri; giacche nella lotta cruenta è lasciata al più forte o al più abile dei contendenti la possibilità di scampare alla propria sorte.
    Un combattimento di tal genere sembra rappresentato nella tomba degli Auguri di Tarquinia: un personaggio mascherato e barbato, designato con il nome fhersu (corrispondente al latino persona, da maschera»), con un cappuccio, un giubbetto maculato ed un feroce cane al guinzaglio, assale un avversario seminudo e con il capo avvolto in un sacco e armato di una clava.
    Quest’ultimo è presumibilmente un condannato che lotta in condizioni di inferiorità; ma è anche possibile che egli riesca a colpire il cane con la clava e abbia quindi alla sua mercè l’assalitore. Sulla natura e sulla funzione del personaggio con cappuccio, barba e giubbetto maculato – sicuramente un essere umano e non un dèmone come si credette in passato – esistono tuttavia notevoli incertezze dal momento che egli ritorna più volte altrove in figurazioni pittoriche (tombe del Pulcinella, delle Olimpiadi, del Gallo, forse della Scimmia: un nano o un bambino) in atteggiamenti o in contesti che nulla hanno a che vedere con la gara mortale della tomba degli Auguri.
    Sembra veramente che si tratti piuttosto di una caratterizzazione generica, e che possa addirittura parlarsi della più antica «maschera» della storia dello spettacolo italiano. Passando ora a considerare i problemi della vita economica e produttiva dell’Etruria antica, diremo che è da supporre che in origine le risorse degli abitanti del paese fossero di natura prevalentemente agricola e pastorale (a parte, ovviamente, la raccolta, la caccia e la pesca); ma presto esse dovettero esser rivoluzionate, almeno in alcune zone, dallo sfruttamento delle ricchezze minerarie, ed ulteriormente integrate dall’attività dei traffici terrestri e marittimi.

    Un quadro sufficientemente esatto della produzione etrusca nell’ultima fase della storia della nazione ci è offerto dal noto passo di Livio (XXVIII, 45) sui contributi offerti a Roma dalle principali città etrusche annesse o federate per l’impresa oltremarina di Scipione l’Africano durante la seconda guerra punica. Ecco l’elenco delle prestazioni fatte secondo le principali risorse di ciascun distretto in materie prime e prodotti:
    Caere: grano ed altri viveri
    Tarquinia: tela per le vele delle navi
    Roselle: legname per la costruzione delle navi e grano Populonia ferro
    Chiusi: legname e grano Perugia legname e grano
    Arezzo: armi varie in grande quantità, utensili e grano
    Volterra: scafi di navi e grano
    Vediamo definirsi chiaramente nelle zone meridionali e centrali i di- stretti agricoli (Caere, Roselle, Chiusi, Perugia, Arezzo, Volterra), alcuni dei quali avvantaggiati anche dallo sfruttamento dei residui grandi boschi, mentre Populonia appare esplicitamente indicata come centro siderurgico ed Arezzo come città industriale.
    La zona mineraria etrusca abbraccia prevalentemente i territori di Vetulonia (con le colline metallifere) e di Populonia (con l’isola d’Elba); ma ad essa dobbiamo aggiungere anche il massiccio dei Monti della Tolfa, dove si hanno tracce di antiche miniere non più sfruttate.
    L ‘estrazione dei metalli (rame, ferro, in minor grado piombo e argento) da questi territori risale forse anche in parte alla preistoria, ma fu praticata sistematicamente a partire dall’inizio dell’età del ferro. La sua importanza per la storia dell’Etruria arcaica è grandissima e in un certo senso determinante, come già sappiamo.
    Alla valorizzazione di queste ricchezze naturali si ricollega presumibilmente lo sviluppo stesso delle città tirreniche; mentre la minaccia e la pressione continua dei Greci sulle coste dell’Etruria è un segno dell’importanza che si annetteva al possesso, all’influenza o soltanto alla vicinanza delle zone minerarie. Non ci sono noti gli aspetti tecnici dell’estrazione e della prima lavorazione dei minerali, se non da pochi indizi di natura archeologica – quali gallerie scavate in alcune località delle colline metallifere e strumenti in esse rinvenute, forni, scorie della fusione del ferro nella zona di Populonia – e da poche notizie antiche, dalle quali ricaviamo ad esempio che Populonia era il primo centro di fusione del metallo grezzo estratto dalle miniere dell’Elba e luogo del suo smistamento e diffusione, ma probabilmente non di lavorazione ulteriore.
    La produzione etrusca è in gran parte influenzata della ricchezza di metalli del territorio: ce ne accorgiamo dalle armi, dagli strumenti, dalle suppellettili di bronzo e di ferro che abbondano nelle tombe. Soprattutto notevoli sono le opere di metallotecnica artistica trovate a Vetulonia, a Vulci, a Bisenzio, nei dintorni di Perugia, a Cortona; la fonte di Livio già ricordata designa inoltre Arezzo (da cui proviene la famosa Chimera).
    Il ferro e il bronzo etrusco erano anche lavorati in Campania, donde probabilmente minerale grezzo e prodotti si diffondevano verso il mondo greco (Diodoro Siculo, v, 13). In Grecia erano rinomate le trombe etrusche di bronzo; un frammento di tripode del tipo di Vulci si rinvenne sull’acropoli di Atenen. Non debbono essere trascurati altri aspetti della produzione artigianale ed industriale, come la tessitura e la lavorazione del cuoio, specialmente per le calzature che erano note e certo largamente esportate nel mondo mediterraneo (Polluce, VII, 22, 86).
    La produzione corrente di stoffe, oggetti lignei, ceramiche (e soltanto di queste ultime ci resta nel nostro clima la totalità delle testimonianze, come già detto) fu inizialmente limitata ad un circuito familiare o di villaggio. Gli scambi si estesero con il progresso del lavoro artigianale specializzato e con la conseguente necessità di reciproche acquisizioni tra ambienti e centri diversi. Si passò quindi ai commerci esterni, terrestri e soprattutto marittimi, favoriti dalla domanda di oggetti di lusso e di prestigio e dall’offerta delle maggiori fonti di potenzialità economica, cioè dei metalli nell’ambito di una società aristocratica.
    Ma nel periodo aureo dei grandi traffici internazionali, cioè in età arcaica, la massa degli scambi avveniva, come già in precedenza accennato, essenzialmente per baratto di merci. Pezzi di rame grezzo (aes rude) e poi contrassegnato (aes signatum), come anche oggetti o spezzoni di oggetti lavorati, specialmente asce, poterono costituirsi quali intermediari di scambio; si aggiunga l’argento pesato secondo un piede ponderale originario del Mediterraneo orientale (detto, impropriamente, «piede persiano», di circa grammi 5,70), che rimarrà poi tipico del sistema ponderale delle monete etrusche.
    La coniazione di monete, che nel mondo greco risale al VII secolo, resterà fondamentalmente estranea alla concezione dell’economia etrusca: ciò che può considerarsi, se si vuole, un altro segno di primitivismo o di arcaismo. Di fatto le monete greche circolarono precocemente, insieme con gli altri più rozzi strumenti di scambio locali; e di esse si ebbe qualche imitazione, in oro (dubitativamente) e argento, in età arcaica.
    Ma di una vera e propria monetazione etrusca d’argento e d’oro non si può parlare se non a partire dalla metà del V secolo (cioè nell’età della relativa recessione economica) specialmente a Populonia, sotto l’influenza della monetazione greca dell’Italia meridionale e seguendo i sistemi ponderali etrusco e calcidese. Di fatto è la zona mineraria che sembra comporre in Etruria la moneta, per comprensibili ragioni di accelerazione e moltiplicazione di scambio. Soltanto più tardi, e non prima dell’affermarsi dell’egemonia romana alla fine del IV secolo, appariranno monete di bronzo fuse (aes grave) e coniate.
    Sappiamo che gli Etruschi avevano una tecnica progredita nel campo della ricerca, dello sfruttamento, del convogliamento delle acque. La ricerca delle acque era fatta dagli aquilices: specie di rabdomanti. Plinio (Nat. Hist. ,III, 20, 120) parla dei canali scavati dagli Etruschi nel basso Po: ed effettivamente in diverse zone dell’Etruria tirrenica si riscontrano sistemi di cunicoli di drenaggio che risalgono all’età preromana e dimostrano un’intensa applicazione di opere idrauliche a scopo di bonifica e di irrigazione.
    La vita nelle zone paludose della maremma e del basso Po non si spiegherebbe d’altro canto se fosse già stata diffusa, durante il periodo aureo della civiltà etrusca, l’infezione malarica: la quale dovette appunto cooperare, durante la tarda età ellenistica, ad affrettare la decadenza di molte città etrusche costiere. Al denso manto boschivo che copriva tanta parte dell’Etruria si suppone dovuto lo sviluppo di una tecnica che abbiamo ragione di ritenere caratteristica del mondo etrusco (anche se le fonti letterarie sono meno esplicite che per altre peculiarità): vogliamo dire l’arte della lavorazione del legno per la grande carpenteria architettonica e per l’ingegneria navale.
    Anche a questo proposito sarebbe errato trascurare i precedenti orientali e greci. Ma la facilità della materia prima deve pure aver avuto la sua importanza. In ogni caso le tombe scavate nella roccia ad imitazione di interni di case, specialmente quelle della necropoli di Cerveteri, suggeriscono le più varie e ardite soluzioni nell’impiego del legno per le costruzioni, soppiantato solo tardivamente dalla pietra. Va però tenuto conto della diffusione dei mattoni crudi nell’alzato delle pareti, in concomitanza con gli elementi lignei dei pilastri, delle porte e delle coperture.
    Un altro impiego fondamentale del legno è per le navi, da guerra ed onerarie, che costituirono lo strumento della potenza commerciale e politica etrusca, e che appaiono rappresentate in un grande numero di figurazioni di ogni età. Significativo, a proposito della tecnica costruttiva, è il ricordo degli scafi (interamenta) forniti da Volterra a Scipione come già si è visto, evidentemente fabbricati in uno degli scali marittimi volterrani.
    Per le forme evidentemente, come desumiamo dalle immagini, non ci si dovette scostare dai modelli greci; leggendaria è la notizia dell’invenzione dei rostri da parte di un Piseo figlio di Tirreno (Plinio, Nat. Hist.. VII, 56, 209); ma è curioso, ed unico nel suo genere, il modello di nave con prora a testa di pesce dalle cui fauci fuoriesce una lancia.

    Le armi e l’abbigliamento
    Immagini di guerrieri singoli e scene di parate, duelli e battaglie sono frequentissime nei vasi e nei rilievi dell’Etruria arcaica. Insieme con le armi reali superstiti essi costituiscono una vasta documentazione della guerra e dell’armamento. Sull’arte etrusca della guerra assai poco si rileva dalla tradizione, che tuttavia suggerisce che l’organizzazione militare primitiva dei Romani debba molto all’Etruria.
    Ma anche per questa materia – soprattutto ove si considerino le testimonianze figurate – l’influenza della tattica e dell’armamento dei Greci sembra essersi affermata in modo dominante soprattutto per quel che riguarda la presenza della fanteria oplitica, cioè dei guerrieri con armi pesanti, che costituì verisimilmente il nerbo dello stato cittadino arcaico.
    In origine si combatteva sui carri, forse più a lungo che in Grecia, se non c’inganna il carattere mitologico di molte figurazioni; comunque già a partire dal VII secolo appare operante la cavalleria. Tutto ciò premesso, non può trascurarsi l’esistenza di fenomeni che ricollegano il mondo etrusco specialmente nella sua fase più antica a tipi di armamenti presenti piuttosto nell’area europeo- continentale che in Grecia.
    Armi offensive sono l’asta pesante con la punta e il saurocter di bronzo o di ferro, l’asta leggera o giavellotto, la spada lunga – il cui uso sembra cessare già in epoca arcaica, e che è soltanto una sopravvivenza dell’armamento della tarda età del bronzo – , la spada corta o gladio, la sciabola ricurva (machaira) in uso a partire dal VI secolo, il pugnale, l’ascia che in epoca antichissima è a due lame e, come già si è accennato, appartiene forse all’armamento dei capi. Armi difensive sono l’elmo di bronzo, lo scudo, la corazza, gli schinieri.
    Gli elmi primitivi hanno una forma ad apice o a calotta sormontata da cresta, o a semplice calotta, o con apice a bottone; assai per tempo si diffondono gli elmi di tipo greco corinzio. Ma la forma classica di elmo etrusco di bronzo è una sorta di morione talvolta sormontato da penne, di cui molti esemplari si sono rinvenuti nelle tombe etrusche (tipico uno degli elmi apparsi tra gli oggetti votivi del santuario ellenico di Olimpia, con l’iscrizione dedicatoria a Zeus del tiranno di Siracusa Gerone che li dedicò come bottino di guerra dopo la vittoria navale dei Greci sugli Etruschi presso Cuma nel 474 a.C.); con il termine moderno di elmo tipo Negau lo si incontra, con varianti, diffuso largamente anche nell’Italia adriatica e settentrionale e nell’area alpina e slovena.
    Le corazze erano in origine di tela, con borchie rotonde o quadrangolari di metallo laminato; ma poi furono lavorate interamente di bronzo, del tipo ad elementi staccati o tutte di un pezzo riproducenti a sbalzo la muscolatura del tronco virile. Scudi rotondi di bronzo appaiono così in epoca arcaica come nel periodo più recente; ma alcune figurazioni ci rivelano anche forme di scudi ellittici o tendenti al quadrato, probabilmente di legno o di cuoio.
    Un cenno va fatto ai bastoni offensivi e difensivi, nei quali è forse da vedere un ricordo delle antiche clave usate nelle culture primitive: di essi appare qualche testimonianza nei monumenti arcaici, mentre il tipo del bastone ricurvo all’estremità, detto lituo, tende successivamente a diventare in modo sempre più esclusivo un’insegna sacerdotale, e come tale passa al mondo romano.
    Per quel che riguarda l’abbigliamento maschile e femminile e le acconciature, in mancanza di materiale direttamente conservato, dobbiamo servirci essenzialmente dei monumenti figurati, del resto abbondanti e ricchi di particolari.
    Naturalmente il clima influisce sul vestiario non meno delle tradizioni locali; ma la moda dei prototipi diffusi dal mondo greco ebbe anche in questo campo un’azione determinante. La consuetudine prettamente mediterranea della seminudità maschile è ancora viva nell’Etruria arcaica; le piccole figurazioni plastiche del periodo villanoviano ci mostrano anzi addirittura numerosi esempi di nudità completa maschile e femminile, ma non sappiamo fino a che punto essa risponda alla realtà della vita quotidiana (nell’arte essa è assai meno frequente che in Grecia).
    Comunque ancora in piena civiltà del VI e V secolo gli uomini, specie nell’intimità domestica, andavano a torso nudo; e quest’uso tradizionale si riflette nel costume “eroico” del defunto banchettante delle figure scolpite sui coperchi dei sarcofagi e delle urne di età ellenistica. Completamente nudi appaiono soltanto servi ed atleti, ma neppur sempre. Un ampliamento dell’originario perizoma bordato che copriva i fianchi è costituito dal giubbettino che riveste anche il petto, ed è di moda negli ultimi anni del VI secolo.
    Ad esso poi si sostituirà la tunica, imitata dal chitone dei Greci. Ma il secondo elemento tipico del costume maschile è il manto di stoffa più pesante e colorata, già diffuso in epoca arcaica. Con l’accrescersi dell’entità del vestiario il manto acquisterà un ‘importanza sempre maggiore, fino ad aumentare di ampiezza e ad arricchirsi di decorazioni dipinte o ricamate, diventando la veste nazionale degli Etruschi, la tèbennos, dalla quale discende in via diretta la toga romana.
    Le donne e le persone anziane vestono fin dai tempi arcaici una tunica in forma di camicia lunga fino ai piedi di stoffa leggera pieghettata o decorata sui bordi, alla quale si sovrappone il manto dipinto di stoffa più pesante. È da notare, per un periodo che va dalla fine del VII al principio del V secolo, l’uso di stoffe con un disegno a rete che si suppone lavorato a ricamo e che s’incontra sui monumenti così nelle tuniche (statuetta di Caere al Campidoglio, vasi cinerari chiusini) come nei mantelli (situla della Certosa).
    Fin dall’epoca più antica si osservano una cura ed un interesse particolare degli Etruschi per le calzature. Le tombe arcaiche di Bisenzio hanno restituito sandali in forma di zoccolo ligneo snodato con rinforzi di bronzo. I calzari potevano essere di cuoio e di stoffa ricamata. La forma tipica in uso nel VI secolo è quella allungata in alto dietro il polpaccio e con punta rialzata davanti, cioè i così detti calcei repandi di origine greco-orientale, dei quali alcune caratteristi- che sopravvivono ancora nelle ciocie dei montanari dell’Italia centrale. Anche più tardi, accanto ai sandali bassi, sono in uso gli alti stivaletti: queste diverse fogge passano, quasi senza mutamenti, al costume romano.
    Sul capo era portato nel VI secolo un tipo di berretto o sacchetto a cupola di stoffa ricamata, comune così agli uomini come alle donne, e con diverse varianti, il così detto tutulus, anch’esso di origine orientale, ionica, ma divenuto caratteristico del costume etrusco; Altre forme di copricapi sono il berretto a punta rigida o a cappuccio di alcuni speciali personaggi (ad esempio il già citato persu della tomba degli Auguri), sacerdoti e divinità; il berretto di lana o di pelle con base larga e punta cilindrica portato dagli aruspici ed attestato in diversi monumenti; e infine il cappello a larghe falde alla greca (pètasos) che sembra particolarmente diffuso nell’Etruria settentrionale (figure di terracotta della decorazione architettonica di Poggio Civitate di Murlo, flautista della tomba della Scimmia di Chiusi), come del resto nell’Italia del nord (arte delle situle). Ma generalmente così gli uomini come le donne andavano a capo scoperto; e questa è l’usanza che diviene predominante a partire dal V secolo.
    Dapprima gli uomini sono barbati e portano i capelli lunghi spioventi sulle spalle; ma già dalla fine del VI secolo i giovani vanno rasi e con i capelli corti, secondo la moda greca. La barba scompare quasi del tutto a partire dal III secolo a.C. (e non tornerà di moda in Italia se non quattrocento anni più tardi, ai tempi dell’imperatore Adriano).
    Le donne nei tempi più antichi (VIII-VI secolo) recano i capelli lunghi pioventi a coda annodati o intrecciati dietro le spalle: successivamente li lasciano cadere a boccoli sulle spalle e infine (VI-V secolo) li annodano a corona sul capo o li raccolgono in reticelle o cuffie. È notevole la probabile moda di sbiondire le chiome, che parrebbe attestata dalle pitture della tomba dei Leopardi di Tarquinia. Nel IV secolo prevale una pettinatura a riccioli cadenti ai lati del volto.
    Più tardi, in piena età ellenistica, si preferisce il ciuffo annodato sulla nuca, alla greca. Grande importanza nel costume etrusco hanno i gioielli. Alla fine dell’età del bronzo si diffonde largamente per tutto il mondo mediterraneo l’uso delle spille di sicurezza, le fibule, che sono fra gli oggetti più caratteristici delle tombe dell’età del ferro.
    Quelle usate dagli uomini si distinguono da quelle femminili per l’arco spezzato e serpeggiante. Le fibule si confezionano generalmente di bronzo, ma anche di metalli preziosi e riccamente adorne con pezzi di pasta vitrea e d’ambra: alcuni esemplari di età orientalizzante, come la fibula aurea a disco della tomba Regolini-Galassi, sono di proporzioni colossali e sfarzosamente decorate.
    L’uso delle fibule si attenua nel VI secolo e cessa quasi del tutto dopo il V: si conserva soltanto in costumi tradizionali, come quello dei sacerdoti aruspici. Altri tipi di gioielli sono i diademi, gli orecchini, le collane, i braccialetti, gli anelli. Nel periodo orientalizzante lo sfarzo del loro impiego ha un aspetto barbarico: e lo stesso si può dire per l’età ellenistica. Il solo periodo in cui i gioielli furono impiegati dagli Etruschi, e specialmente dalle donne, con parsimoniosa eleganza è la fase aurea del VI-V secolo: ad essa si attribuiscono magnifici esemplari di collane con bulle o ghiande ed orecchini lavorati con la raffinata tecnica della granulazione.

    La medicina
    La perizia degli Etruschi nell’Arte Medica era celebre e gli antichi scrittori Greci e Romani ne parlano soprattutto riguardo alla conoscenza delle proprietà officinali delle piante. Per conoscere il grado di preparazione raggiunto dai “medici” etruschi ci viene in aiuto l’Archeologia: il rinvenimento di numerosi ex voto in terracotta o bronzo raffiguranti anche organi interni del corpo umano denota chiaramente l’estrema abilità anatomica di questo popolo; così come la presenza di numerosi ferri da chirurgo e da dentista nel corredo di alcune tombe.
    Nel Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia è conservato un teschio umano che reca una protesi dentaria in oro, prova dell’abilità dei dentisti. Grande importanza avevano poi le acque termominerali, di cui la Tuscia è ancora oggi ricchissima: gli Etruschi conoscevano bene le proprietà medicamentose di ogni sorgente, sacra e dedicata a divinità diverse, così come i Romani i quali, con la conquista di queste terre, eressero spesso grandi impianti termali alimentati dalle preziose acque di queste sorgenti.

  • Egiziani: la scienza

    La scienza degli antichi egizi era solo sperimentale e basata sul più rigoroso pragmatismo: serviva cioè soltanto a scopi pratici. Per fare un esempio, a un astronomo d’allora poco importava che il cielo fosse il ventre di una mucca o di una dea, una lastra di metallo o un’altra cosa qualsiasi. Occorreva studiarlo solo per poterne trarre qualche utilità, per orientarsi, per stabilire il corso dei mesi o prevedere l’inizio dell’inondazione. Così nella matematica o nella geometria il calcolo astratto, il teorema non applicabile tutti i giorni, la speculazione scientifica esulavano totalmente dalla loro mentalità. Esulavano comunque, anche da quella di tutti gli altri popoli della terra e, per avere il “pensiero”, bisognerà attendere i presocratici. Entro questi limiti, le conoscenze degli egizi erano senza dubbio all’avanguardia in tutti i campi dello scibile.

    Astronomia

    Fin dai tempi predinastici gli egiziani avevano un’ottima conoscenza del cielo e si ebbero precise mappe celesti. Conoscevano le stelle fisse ed i pianeti (fino a Saturno). Ad Eliopoli sorsero veri e propri osservatori per rilevare con esattezza il passaggio degli astri e già durante la IV dinastia vennero apportate le esatte correzioni. Le costellazioni raffiguravano dei ed animali ( l’unica affine alle nostre era il Leone).
    Era noto il calendario di 365 giorni ed un quarto, i mesi erano dodici e le stagioni tre:

    * Akhet ( Inondazione )
    * Peret ( Emersione )
    * Chemu ( Aridità )

    Il calendario egizio, perfezionato nel 238 a.C. dove viene introdotto l’anno bisestile, fu adottato tale e quale da Giulio Cesare e perfezionato ancora da Gregorio XIII è quello in uso oggi. Per essere più precisi gli antichi egizi usavano tre tipi diversi di calendario e cioè:

    * un calendario “agricolo” per l’uso di tutti i giorni
    * un calendario astronomico
    * un calendario lunare utilizzato per certi rituali o eventi

    Con il calendario “agricolo” l’anno era diviso in tre stagioni di quattro mesi ciascuna; ogni mese era composto da trenta giorni il che significa che un anno era composto da 360 giorni. A questi venivano sommati 5 giorni chiamati “epagenomeni” ed erano considerati come i compleanni di Osiride, Horo, Seth, Iside e Neftis. I mesi, delle tre stagioni nominate precedentemente erano suddivisi come segue:

    * Akhet I = Thot
    * Akhet II = Paopi
    * Akhet III = Athor
    * Akhet IV = Khoiak
    * Peret I = Tobi
    * Peret II = Mekhir
    * Peret III = Pnamenoth
    * Peret IV = Pharmuthi
    * Chemu I = Pakhons
    * Chemu II = Paoni
    * Chemu III = Epep
    * Chemu IV = Mesore

    Molti templi tenevano un calendario con l’elenco di tutti i rituali e di tutte le feste che dovevano cadere in date specifiche. Nel tempio di Esna, per esempio, questo elenco è stato scritto su alcune delle colonne. Nel tempio di Horo a Edfu, il mese di Khoiak era particolarmente ricco di feste.

    Come ben sappiamo calcolando solamente i 365 giorni per ogni anno, il calendario sarebbe lentamente cambiato: ogni 4 anni il calendario “agricolo” sarebbe aumentato di un giorno. Il nostro sistema attuale di datazione prevede l’anno bisestile mentre gli antichi egiziani, per sopperire a tale discrepanza utilizzarono la strada astronomica per misurare il tempo: hanno osservato il sorgere della stella Sirio insieme con il sole che coincideva sempre con l’inizio dell’inondazione.

    Alcuni rituali, specialmente quelli che coinvolgevano Osiride e la divinità lunare Khonsu, dovevano essere compiuti durante specifiche fasi lunari. Per calcolare quando era possibile effettuare tali rituali, gli antichi egiziani tenevano un calendario delle fasi lunari, secondo il quale un mese coincideva con un ciclo lunare.

    Luna
    La luna era connessa agli dei Thot, Khonsu e Osiride e in epoca ellenistica, con Iside che i Greci vedevano come Selene. La luna era anche connessa con il mito di Osiride, dato che i 14 giorni della luna calante erano simbolizzati nel mito dai 14 pezzi del dio smembrato. La luna era considerata un sole che brilla di notte e dunque aveva le prerogative dell’astro diurno, come quella di essere adorata da babbuini, mentre la notte possono essere gli sciacalli che, con i loro ululati, adorano il satellite. Normalmente era raffigurata come un disco che stava su una falce.

    Occhi del cielo
    Per gli antichi egiziani il cielo aveva due occhi : il sole era quello di destra e la luna il sinistro. Nelle multiforme sfumature della mitologia egizia il sole fu l’occhio destro di Horo e poi l’occhio di Ra, tuttavia in alcuni miti l’occhio è indipendente e lascia Ra o per distruggere i nemici o per rivoltarsi contro di lui.

    Questo caso si verificò quando l’occhio, distrutti i nemici, tornò da Ra e vi trovò un altro occhio cresciuto al suo posto. Ra calmò l’occhio in collera trasformandolo in “ureo”, posto sulla sua fronte (l’occhio poteva essere anche Mut). Anche il ciclo lunare entrò nel mito e il satellite, occhio sinistro del cielo e di Horo, diede origine al mito della battaglia fra questo dio e Seth (la luce e il buio); Seth strappa l’occhio e lo divora (fase di luna nuova), ma Horo sconfigge Seth ed è guarito (luna piena).

    Disco solare alato
    Un’antica concezione del cielo sostiene che esso era dato dalle ali di un falco spieagate sul mondo. Un disegno su un pettine mostra una barca solare, assieme al falco di Horo, su un paio d’ali che simbolizzava (tutto) il cielo.
    A partire dalla V Dinastia il disco solare fu posto fra due ali così l’immagine del cielo divenne un simbolo solare. Dopo il Nuovo Regno il disco solare apparve come simbolo di protezione sulle porte dei templi e sulla parte alta delle stele.

    Zodiaco

    Lo zodiaco, come lo conosciamo noi oggi, fu introdotto in epoca greco romana ma, in alcuni casi deriva dalle costellazioni già individuate dall’astronomia degli antichi egiziani durante il periodo faraonico. Ad esempio è possibile citare: la “Gamba del Bue” (Orsa Maggiore), un dio (Orione), la dea Soped con il capo sormontato da un cono (Sirio), un leone, un coccodrillo, un ippopotamo, ecc.

    I documenti principali dove si possono trovare i prototipi dei vari segni zodiacali sono : i zodiaci rotondi (vari soffitti di tombe greco romane e lo zodiaco di Dendera) e quelli rettangolari (Ramesseum). In questi documenti è possibile individuare :

    * il dio Hapi, spirito del Nilo, che intento a versare l’acqua dalla sua grotta derivò l’acquario;
    * i due pesci che tenuti insieme da una doppia lenza assicurano al defunto la loro anima del passato e del futuro;
    * l’ariete (animale sacro) che qui rappresenta l’animale connesso con le trasformazioni della rigenerazione;
    * un vitello rosso (toro) detto anche il “vitellino dalla bocca di latte” e che rappresenta il sole nel suo trasformarsi quotidiano;
    * lo scarabeo (cancro) che rappresenta il divenire solare;
    * il leone, che in questo caso è connesso con il mito della “Dea Lontana” e rappresenta la ferocia del calore del sole estivo;
    * la dea Iside (vergine) che porta una spiga di grano simbolo di abbondanza e rinascita;
    * la bilancia, raffigurata in connessione con il 3° mese dell’inondazione, doveva essere connessa con dei riti agrari in cui si pesava l’orzo;
    * lo scorpione è il simbolo della dea Selket ed è in rapporto con Iside;
    * il faraone, in atto di lanciare una freccia dal suo carro, si trasforma in “Shed”, il Salvatore, e quindi fonde il busto umano con il corpo del cavallo (dando origine al Saggitario);
    * il capricorno invece è di origine babilonese e rappresenterebbe forse le trasformazioni del seme nella terra.

    Misurazione del tempo

    Per i moltissimi rituali che affollavano ogni giorno i grandi templi era necessaria una suddivisione precisa del tempo; per questo i sacerdoti egizi dovendo conoscere esattamente ogni fase del giorno, elaborarono diversi sistemi di misurazione. Della XVIII Dinastia risale la clessidra ad acqua e che funzionava sullo stesso principio di quella a sabbia, anch’essa già presente in Egitto.

    Vi erano poi le meridiane fisse, molto diffuse nel mondo antico, tanto che i romani ne vollero una di tipo egizio nel Campo Marzio a Roma. Essa era gigantesca e aveva un obelisco come gnomone. L’obelisco è ancora visibile; anche la meridiana, che occupava il vastissimo spazio oggi costruito, è stata ritrovata in profondi strati raggiungibili dagli scavi delle cantine di alcuni edifici.

    Si tratta dei disegni, delle linee e delle scritte della meridiana ottenute con motivi bronzei inseriti nel marmo; oggi l’intero disegno ha potuto essere ricostruito anche se le parti visibili sono solo poche aree accessibili. Gli egizi ebbero anche un pratico orologio solare portatile, composto da un piastrino munito di filo a piombo per garantire la perfetta verticalità del piastrino, che era ortogonale a un regolo con graduazione oraria su cui doveva cadere l’ombra del piastrino stesso.

    Matematica e Geometria

    Da quanto hanno ci hanno lasciato è facile capire che per gli egiziani la matematica non era un problema : sottrazioni e addizioni erano come quelle che conosciamo oggi, mentre le moltiplicazioni avvenivano per successive duplicazioni.
    Anche se gli egiziani non consideravano il numero zero e non c’era nessun simbolo geroglifico che lo identificava, utilizzavano una numerazione decimanle basata sul numero 10.

    Generalmente i numeri venivano scritti da sinistra a destra iniziando con il denominatore più alto. Per esempio il numero 2.525 (2.000 + 500 + 20 + 5)

    Il sistema decimale utilizzato dagli egizi aveva come unità di misura il cubito ( 0,450 metri ) o il cubito reale ( 0,525 metri ), divisi in sette palmi e ventiquattro dita.

    Erano noti la radice quadrata, le frazioni, utilizzando particolari segni per indicare due terzi, tre quarti, quattro quinti e cinque sesti, e alcuni problemi elementari di algebra e trigonometria. Dal papiro Rhind ( British Museum ) risulta che gli egiziani avevano anche ottime conoscenze della geometria ed il papiro, che contiene una serie di teoremi geometrici lo dimostra: l’area del parallelogramma regolare era precisa, un po’ meno quella del trapezio.

    Il papiro di Rhind
    Il papiro di Rhind rappresenta una delle testimonianze più importanti per la conoscenza delle origini della matematica nell’Antico Egitto. Il papiro di Rhind (o Ahmes) è largo circa 30 cm e lungo circa 5,46 m e si trova attualmente al British Museum; era stato acquistato nel 1858 in una città balneare sul Nilo da un antiquario scozzese, Henry Rhind; il contenuto del papiro è tratto da un esemplare risalente al Medio Regno tra il 2000 e il 1800 a.C. ed è scritto in ieratico, un linguaggio più agile rispetto al geroglifico. Nel papiro di Rhind lo scriba Ahmes formulò che l’area di un campo circolare con un diametro di 9 unità era uguale all’area di un quadrato con un lato di 8 unità:

    Un campo rotondo di 9 khet di diametro. Qual è la sua area? Togli 1/9 dal diametro, 1; il rimanente è 8. Moltiplica 8 per 8: fa 64. Quindi esso contiene 64 sesat.

    Si tratta di una formula approssimata per calcolare l’area di un cerchio di diametro x:(x – (1/9)x)²
    Dal confronto di questa ipotesi con la formula moderna che permette di calcolare l’area di un cerchio A = p * r², risulta che la regola egiziana attribuisce a p un valore di circa 3 + 1/6, approssimazione abbastanza vicina al valore esatto e degna di considerazione. Per molti anni si è supposto che i greci avessero appreso i rudimenti della geometria dagli Egiziani; Aristotele spiegava che la geometria era nata nella Valle del Nilo, anche se per trovare conquiste matematiche più avanzate è necessario volgere lo sguardo alla più turbolenta vallata della Mesopotamia.

    Pesi e Misure

    Per la loro imponente e complessa organizzazione statale, per l’alto livello raggiunto dall’architettura e le varie operazione burocratiche, gli Egiziani avevano bisogno di un preciso sistema di misure e pesi che iniziarono a sviluppare sin dalle origini della storia faraonica.

    Lunghezza
    Per quanto riguarda la lunghezza la misura di base era il cubito che inizialmente era la misura dell’avambraccio dal gomito alla punta del dito medio. Viste le ovvie difficoltà costituite dalle varie differenze individuali vennero create due misure standard:

    * il cubito reale (niswt): che veniva utilizzato nella vita quotidiana e probabilmente nacque durante la II Dinastia. Era lungo 523 millimetri e suddiviso in 7 spanne e 28 pollici;
    * Il cubito piccolo: che misurava 24 pollici (braccio, piede, palmo, mano e pugno).

    Entrambi venivano standardizzati per mezzo di regoli in pietra o legno.
    Per usi architettonici e urbanistici servivano naturalmente delle misure maggiori che erano poi i multipli del cubito reale: il “khet” o canna era di 100 cubiti, l’”iteru” (fluviale) corrispondeva a 5000 cubiti (2,615 chilometri); per la cartografia e per l’esplorazione si utilizzava l’iteru da 20.000 cubiti mentre le superfici venivano calcolate in sethat, corrispondenti a un khet quadrato.

    Volumi
    In un paese dove la gran parte dei pagamenti e delle tassazioni venivano effettutae in cereali, la misurazione del volume era indispensabile e quasi senz’altro un obbligo. La misura più utilizzata era il barile (hekat) che corrispondeva a 4,54 litri suddivisi poi in frazioni minori.

    La misurazione di enormi volumi per liquidi di largo consumo veniva effettuata in anfore che corrispondeva a 13 litri mentre per misurazioni molto più piccole, come ad esempio i profumi, veniva utilizzato l’hin da 0,503 litri.

    Peso
    Per il peso l’unità di misura più diffusa era il deben che corrispondeva a 91 grammi che era a sua volta suddivisibile in 10 parti dette kedet o kite.

    Oltre alle unità di misura “ufficiali” esistevano anche quelle attribuite al valore di mercato e quello merceologico dei beni basate su unità standard che venivano calcolate dai rapporti fra rame, argento e oro corrispondenti a 1:100:200. A causa di queste diverse unità nacquero diversi sistemi valutari basati sul deben di bronzo, sul seniu d’argento, lo hin dei liquidi ed il khar del volume per il grano.

    Su queste basi valutarie venne basato il complesso sistema economico egiziano. In Egitto la moneta (hedh) era nota fin dal Nuovo Regno ma venne introdotta e utilizzata soltanto durante la XXVI Dinastia con la fondazione delle colonie commerciali greche.

    Medicina

    I medici dell’antico Egitto erano molto numerosi, per questo motivo ognuno di loro si occupava quasi esclusivamente delle malattie che meglio conosceva. I medici ordinari erano affiancati dai professionisti di grado superiore, gli ispettori ed i sovrintendenti. Ad assisterli era del personale paramedico di sesso maschile.

    Essi dovevano le loro conoscenze anatomiche all’osservazione degli animali durante il macello, e non all’imbalsamazione del defunto che era riservata ai sacerdoti devoti ad Anubi. Il cuore era considerato sede delle emozioni e dell’intelletto. Il benessere del corpo si doveva, a loro avviso, allo scorrimento dei suoi liquidi nei metu, i vasi che lo attraversavano. Se uno di questi vasi si ostruiva si manifestava la malattia. La polmonite e la tubercolosi erano tra le malattie più diffuse a causa dell’inalazione di sabbia o di fumo dei focolari domestici. Le malattie parassitarie erano altrettanto comuni a causa della mancanza di igiene. Gli attrezzi più comuni di un medico erano: pinze, coltelli, fili di sutura, schegge, trapani e ponti dentari.

    Anatomia del corpo umano
    Nonostante gli antichi egizi effettuavano la mummificazione su quasi tutti i cadaveri, non avevano un’approfondita conoscenza del corpo umano. Tutto questo è spiegabile dal fatto che chi svolgeva questa attività, era un corpo di comuni lavoratori delle classi inferiori generalmente privo di cultura e di particolare interesse; non c’erano medici o studiosi predisposti a questa sorta di “autopsia”.

    Si può certo capire le concezioni mediche come le conosciamo noi oggi differiscano parecchio da quelle dell’Antico Egitto. Gli antichi egizi avevano una perfetta cognizione di anatomia topografica nella distinzione del corpo in varie parti come testa, collo, tronco, addome, arti ma, ad esempio, mancava la concezione di scheletro nella sua totalità anche se le singole ossa erano ben conosciute. Anche per quanto riguarda gli organi, gli antichi egizi avevano delle ottime conoscenze anche se essi venivano sempre considerati globalmente, con poche distinzioni delle varie parti che li componevano. Per fare un esempio, era ben conosciuti sia il cuore che il cervello ma, le loro funzioni erano considerate in tutt’altro modo: il cervello, come organo vitale era ignorato mentre le sue funzioni e le attività nervose venivano attribuite al cuore che era il centro della vita.

    Al di là dell’anatomia applicata o alla funzione dell’imbalsamazione, le varie parti anatomiche svolsero un ruolo importante nella simbologia e nella religione. Se alla morte, l’intero corpo era il veicolo e il ricettacolo della vita terrena e extra terrena, le sue varie parti potevano assumere molteplici significati.

    Chimica

    Anche se gli antichi egiziani non ci hanno lasciato moltissime informazioni riguardanti i loro studi, esperimenti o procedimenti chimici da loro utilizzati e si sa che non possedevano concetti simili ai nostri sulla scienza chimica come organico insieme di studi, essi erano a conoscenza di una scienza chimica che impiegarono per la realizzazione dei loro prodotti. Dai loro studi possiamo distinguere almeno sette classi di procedimenti chimici a seconda dei prodotti e delle tecniche impiegate: farmacopea, cosmetica e profumi, terracotta (vasi, ceramica), faience e vetro, colori, metalli e mummificazione.

    Gli egiziani avevano un grande spirito di osservazione e sperimentazione; la loro farmacopea fu sviluppata al punto che molti procedimenti sono ancora oggi impiegati nella medicina naturale dell’Egitto e Nubia, tuttora validissimi in terapia.

    Al giorno d’oggi sembrano essere stati scoperti dalla scienza ufficiale le proprietà terapeutiche delle piante, dei minerali o dei derivati animali. Ma in realtà la loro conoscenza empirica risale alle epoche più lontane della storia umana, probabilmente alla preistoria. Anni, secoli, millenni di prove, di osservazioni, si sono tramandate di generazione in generazione, intimamente unite all’esigenza primaria di non abbandonare al suo destino il mamalto o il ferito. Tutte queste informazioni hanno portato alla creazione di una proto-farmacopea, e poi di una vera scienza farmacologica. Gli antichi egizi utilizzavano preparati di origine vegetale, minerale e animale. Fra i preparati di derivazione vegetale si trovavano i semi di acacia, la carruba, i datteri, il ricino e varie altre piante, fra cui ricordiamo ancora il laudano, una resina arabica la cui essenza aromatica è secreta dalla pianta di cisto, utilizzata nella preparazione di unguenti medicinali e profumi.

    Fra i derivati animali, ecco un esempio di ricetta:

    Altro (rimedio) per far spuntare i capelli di un calvo : grasso di leone, 1; grasso d’ippopotamo, 1; grasso di coccodrillo, 1; grasso di gatto, 1 : grasso di serpente, 1; grasso di capretto, 1; ridurre in una massa e ungere la testa calva.

    I minerali impiegati erano molti: oltre al conosciunto natron, rame, feldspato, allume, ossido di ferro, calcare, ocra rossa, carbonato e bicarbonato di sodio, sale da cucina, zolfo, composti arsenicali e carbone.

    Per quanto riguarda i profumi e i cosmetici sappiamo da varie iscrizioni che entrambi i prodotti furono spinti ai massimi livelli e nei laboratori dei templi si produssero i profumi più fini. La faience ed il vetro si svilupparono fin dalla preistoria giungendo alti livelli di perfezione e raffinatezza. Nella metallurgia, che molto probabilmente ebbe i suoi inizi in Asia, gli egiziani ne svilupparono le tecniche.

    Per quanto riguarda la mummificazione gli egiziani furono i creatori ed i maestri, elaborando vari procedimenti e varie ricette che implicavano un’ottima conoscenza della chimica dei minerali (natron), piante, oli minerali e vegetali, grassi animali e resine. Nel complesso dunque gli egiziani svilupparono ottime conoscenze nel campo chimico ma volte, com’era loro natura, essenzialmente al campo empirico.